#APICES Studio
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apicesstudio · 2 years ago
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Twenty One Pilots: La Band Più in Voga negli Stati Uniti nel 2024Con il nuovo album "Clancy", il duo conquista le classifiche e ridefinisce il rock contemporaneo
Il successo di Twenty One Pilots: un fenomeno globale
Il successo di Twenty One Pilots: un fenomeno globale I Twenty One Pilots, formati da Tyler Joseph e Josh Dun, sono senza dubbio la band più in voga negli Stati Uniti nel 2024. Il duo, noto per il loro stile unico che mescola rock alternativo, hip-hop, pop e musica elettronica, ha raggiunto un nuovo apice di popolarità con il loro settimo album in studio, “Clancy”. Pubblicato nel maggio 2024,…
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simofoto · 7 months ago
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Amedeo Modigliani. ARTISTA CONTROCORRENTE fece della femminilità dipinto.......pittore più originale nell'arte
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Apic//Getty Images
Amedeo Modigliani (Livorno, 1884 - Parigi, 1920) rientra in una categoria di artisti che decisero di lasciare il paese natale per traferirsi in Francia. Parigi, all’inizio del Novecento, era la culla della cultura, della modernità, nonché luogo di scambio e aggiornamento per poeti, scultori, pittori, filosofi. In questo clima, vivace e florido, giungono artisti da tutta Europa, come il rumeno Constâtin Brâncuși (Pestisani, 1876 – Parigi, 1957), il russo Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint Paul de Vence, 1985), il russo Chaïm Soutine (Smiloviči, 1893 – Parigi, 1943) e l’italiano Amedeo Modigliani, che entrano in contatto con personalità già affermate quali Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973), Georges Braque (Argenteuil, 1882 – Parigi, 1963), Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 1869 – Nizza, 1954), il poeta Guillaume Apollinaire, André Derain e molti altri. Sempre a Parigi, negli stessi anni, soggiornano alternamente alcuni dei principali esponenti del futurismo, come Umberto Boccioni, Gino Severini, Carrà, Ardengo Soffici, a ulteriore dimostrazione della grande vitalità dell’ambiente in cui non necessariamente tutti entravano in contatto tra loro, ma potevano giovarsi della fervente temperie culturali.
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Amedeo Modigliani nel suo studio
Modigliani all'interno della cornice degli artisti bohémien europei del primo '900. Centro nevralgico di questo movimento era Parigi, città in cui Modigliani visse e in cui venne a contatto con alcuni gruppi d'avanguardia, come ad esempio i fauves.
L'opera di Modigliani risentì inizialmente dell'influenza di Picasso e del cubismo novecentesco, di cui però non fece mai parte, e arrivò a sviluppare uno stile profondamente personale diverso dalla maggior parte delle correnti artistiche dell'epoca.
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Amedeo Modigliani nel suo studio, fotografia del 1915 di Paul Guillaume
La libertà di stampa e di azione che la città di Parigi offriva, favorì l’avvicendarsi di quella scia di artisti non soddisfatta delle opportunità che il paese natale offriva loro. Nei manuali di storia dell’arte si trovano spesso classificati Brâncuși, Chagall, Soutine e Modigliani come appartenenti alla “Scuola di Parigi”, sebbene il loro fosse un modo comune di vivere e di pensare, più che una scuola. Un altro aspetto che li accomunava, oltre all’essere artisti forestieri in Francia, era il vivere nello stesso quartiere parigino, ossia Montparnasse, in un edificio soprannominato “l’alveare”, adibito a studio per gli artisti che non si erano arruolati in guerra; anche la partecipazione al Salon, famosa esposizione organizzata a Parigi già dal 1667, rappresentava un fattore di comune accordo.Un’esistenza, quella di Modigliani, non particolarmente fortunata: l’artista livornese di origini ebraiche fu infatti colpito, già in tenera età, da gravi problemi di salute. E la sua scelta di fare l’artista di professione fu rapida e senza ripensamenti.
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Il 12 luglio 1884 , a Livorno , nasceva Amedeo Modigliani. Nella sua città , da giovanissimo, apprese la passione per la pittura grazie anche al primo insegnamento del maestro Giovanni Fattori. Ma fu a Parigi, dove andò nel 1906, che ampliò le sue vedute e formò il suo stile unico e rivoluzionario tra i quartieri di Montmartre e Montparnasse.
Fu dura la vita parigina di Modi', sempre al verde poiché spendeva tutto quanto aveva per droga e alcool e sempre a combattere contro la tubercolosi che lo affliggeva. Tanti lo ricordano come il pittore maledetto, ma tutti conoscono i suoi ritratti di donne languide dai lunghi e sinuosi colli , con gli occhi senza pupille e dagli intensi colori, di cui riusci' a cogliere la bellezza, rendendole immortali. Quelle donne che tanto lo amarono fra le quali, più di tutte, una giovane ragazza di nome Jeanne Hebuterne , anche lei pittrice, che per lui abbandonò la sua famiglia e lo sposo' contro il parere di ognuno.
Dalla loro unione, molto contrastata dai parenti di lei, nacque una bambina che fu chiamata Jeanne come la mamma .Ma la malattia non lascio' scampo a Modigliani, anche per la miseria in cui era costretto a vivere e il 24 gennaio 1920 , neanche a 36 anni, il pittore morì mentre la sua giovane moglie, di nuovo incinta, era al nono mese di gravidanza. Per il funerale del pittore gli amici fecero una colletta per pagarne le spese , la disperata Jeanne ,invece, non riuscendo a superare il suo dolore si suicidò
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----gettandosi nel vuoto dal quinto piano uccidendo lei e il suo bambino in grembo.Fu seppellita con una frettolosa cerimonia dai suoi parenti che, neanche dopo la morte della figlia seppero esseri compassionevoli e non vollero riconoscere la nipotina.La piccola Jeanne fu adottata da una zia, sorella di Modigliani , e da grande sposò in prime nozze Mario Levi, fratello di Natalia Ginzburg.Jeanne Modigliani trascorse gran parte della sua vita a curare la memoria del padre, ricostruendone la biografia e provvedendo, anche se in ritardo ,a riunire i resti dei suoi genitori nello stesso cimitero di Pere-Lachaise , a ParigiL' epitaffio sulla tomba del padre recita : "Colpito dalla morte nel momento della gloria", quello sulla tomba della madre :"Devota compagna sino all'estremo sacrificio"...
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Amedeo Modigliani, Ritratto di Paul Guillaume (1916; olio su tela, 81 x 54 cm; Milano, Museo del Novecento)
famoso per essere veloce, per cui chiudeva un'opera in massimo 1 o 2 sedute.
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Amedeo Modigliani, Jeune fille rousse (Jeanne Hébuterne) (1918; olio su tela, 46 x 29 cm; collezione Jonas Netter)
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Amedeo Modigliani, Nudo seduto (Beatrice Hastings?) (1916; olio su tela, 92 x 60 cm; Londra, Courtauld Gallery)
L’arte di Modigliani, dalla conoscenza di Brâncuși alle ultime opere
Modigliani comincia a dipingere nella sua Livorno in uno stile simile a quello dei macchiaioli, ma la sua arte cambierà radicalmente dopo il soggiorno a Parigi e in seguito, con la raggiunta maturità, si osserverà un ulteriore cambiamento a livello stilistico, dovuto all’assestamento delle scelte operative. La somma d’influenze che caratterizzeranno la sua produzione lo faranno giungere a una produzione che difficilmente si può incasellare in un genere preciso: la sua è un’arte caratterizzata da semplicità e purezza formale. Fondamentale per l’arte di Modigliani è la conoscenza di Constântin Brâncuși, che porta l’italiano a dedicarsi quasi totalmente alla scultura, sebbene sarà poi costretto dalla sua malattia a tornare sulla pittura, essendo la scultura un’attività molto più faticosa e debilitante per il fisico dell’artista. Della produzione scultorea sono inconfondibili le particolari figure allungate, ma anche la riduzione al minimo, in termini di semplicità delle linee e delle forme. Questi elementi di purezza formale sono desunti proprio dall’arte dello scultore rumeno.
Nella Testa del 1911-12 circa è ben evidente la volontà da parte dell’artista di deformare quello che dovrebbe essere un normale volto umano. Le proporzioni sono totalmente sconvolte, a favore un appiattimento o allungamento di naso, bocca, occhi. Tutto è teso verso la schematizzazione, senza alcun tipo di decorazione. Le sembianze che assumono le opere di Modigliani riecheggiano le maschere africane, l’arte primitiva già molto indagata dai fauves francesi, un gruppo di artisti attivi nel biennio 1905-07, ma anche dai cubisti, accomunati dalla geometrizzazione delle forme. Tuttavia, la sua pittura, fatta di grazia, contorni pronunciati, tendenza all’allungamento delle proporzioni, denota anche l’ispirazione che l’artista desume dal suo retroterra cultura, e in particolare dai grandi artisti toscani del passato come Simone Martini (Siena, 1284 – Avignone, 1344 c.a.), ma anche Filippo Lippi (Firenze, 1406 – Spoleto, 1469) e Sandro Botticelli (Firenze, 1445 – Firenze, 1510), autore della famosa Primavera conservata alla galleria degli Uffizi di Firenze.
Dopo l’abbandono della scultura, gli elementi “scultorei” della sua produzione passano alla pittura, tanto che i soggetti dei suoi dipinti cominceranno ben presto a riflettere le ricerche di purezza formale che Modigliani andava seguendo nella scultura. È quanto si nota anche nei suoi numerosi ritratti, dove i soggetti vengono resi con forme schematiche e secondo una geometrizzazione tesa a trasmettere al riguardante gli elementi più riconoscibili dei connotati del soggetto, ma sono anche caratterizzati da una straordinaria acutezza nella loro penetrazione psicologica. Con altre opere, come i suoi famosi nudi, Amedeo Modigliani riuscirà anche a ottenere risultati straordinariamente intensi e liberi, oltre che sensuali.
Modigliani non appartiene, di fatto, a una corrente precisa, né egli stesso ha mai dichiarato di essersi rifatto ai grandi maestri. Al contrario sceglie esplicitamente di non volersi avvicinare né all’avanguardia futurista, tantomeno a quella francese. Ma è indubbio lo sguardo e l’attenzione alle tendenze che allora circolavano nella Parigi metropolita all’inizio del Novecento. Il suo lavoro risulta di fatto isolato rispetto alle varie tendenze. La critica si è tuttavia sempre divisa sul suo conto: leggi anche un approfondimento sull’importanza storica dell’arte di Amedeo Modigliani.
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Amedeo Modigliani, Cariatide (1911-1912; olio su tela, 77,5 x 50 cm; Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen)
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medeo Modigliani, Testa (1911-12; pietra calcarea, 89 cm; Londra, Tate Modern)
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Amedeo Modigliani, Nudo sdraiato (1917; olio su tela, 60,6 x 92,7 cm)
Dove vedere le opere di Modigliani
Diversi musei in molte città italiane ospitano opere di Amedeo Modigliani. Dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (dove si trova un suo famoso ritratto di Anna Zborowska, moglie di Léopold), si arriva a Milano dove è possibile vedere qualche suo dipinto sia presso la Pinacoteca di Brera, sia nel Museo del Novecento, e poi ancora alla Galleria d’Arte Moderna. Molte opere di Modigliani si trovano in Francia, in ragione del fatto che qui l’artista lavorò per la maggior parte della sua carriera: solo al museo LaM di Lille si trovano sei opere di Modigliani, che sono state di recente oggetto di una campagna d’indagini. Cinque importanti ritratti, tra cui quello di Paul Guillaume, si trovano invece a Parigi, al Musée de l’Orangerie. I nudi più famosi sono invece quelli conservati nelle raccolte statunitensi, in particolare il Reclining Nude del Metropolitan Museum of Art e il nudo del Guggenheim di New York.
MODIGLIANI, LE DONNE
Modigliani nella sua vita ebbe numerose amanti e due figli, mai riconosciuti. Beatrice Hastings fu una delle sue prime amanti, che ritrasse anche in un dipinto. La donna da cui, a quanto pare, ebbe il primo figlio fu Simone Thiroux, ma la vera donna della sua vita fu senza dubbio Jeanne Hébuterne, anche lei pittrice e modella, soprannominata “noix de coco” cioè noce di cocco, per la bellezza del suo viso e i lunghi capelli castani.
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Ritratto di Jeanne Hébuterne di Amedeo Modigliani, 1919
La vita di Modigliani non fu semplice: la tubercolosi non gli lasciava tregua, e faceva uso frequente di alcool e sostanze, come molti facevano nella Parigi dell'epoca. Questo aspetto ha contribuito a creare la figura del Modigliani "maledetto".
Per cosa è famoso Modigliani?
Nell'immaginario comune, per cosa è famoso Modigliani? I tratti iconici dei soggetti dipinti dall'artista sono i nudi e i ritratti riconoscibili per i colli lunghi e gli occhi. Questi ultimi, in genere, hanno una forma allungata, sono scuri oppure addirittura senza pupille. Per l’artista gli occhi non possono essere rappresentati perché sente di non poter dipingere ciò di cui non è a conoscenza, ossia l'anima di chi ha davanti e sta posando per lui. Dispensatore di numerosi aforismi, una sua frase celebre recita: «Con un occhio cerca nel mondo esterno, mentre con l'altro cerchi dentro di te». Un fatto per cui il pittore è singolarmente celebre tutt'oggi sta nell'essere uno degli artisti le cui opere sono maggiormente falsificate.
Nella produzione di Modigliani i quadri di nudo ne rappresentano una consistente fetta. Sono opere in cui si legge la stessa purezza delle forme che l'artista applica alle sculture. Ciò avviene anche nei suoi famosi ritratti: schematici e sintetici, al contempo non dimenticano di sviscerare una profonda analisi psicologica dei soggetti rappresentati.
In "Nudo rosso", opera del 1917 conservata oggi presso una collezione privata milanese, si nota la capacità del pittore di rendere essenziali le forme. Una donna distesa taglia in obliquo la superficie della tela, mentre le sue braccia, il ventre e i seni sono definiti da un accenno minimo di chiaroscuro. Ciò che rende la plasticità della figura al meglio è la sinuosa linea di contorno. I colori vengono stesi in maniera densa: sono presenti soprattutto tre grandi campiture di giallo chiaro, rosso e blu. Ciò che trasmette l'opera è un senso di carnalità e serenità. Il discorso è valido anche per "Nudo sdraiato", dello stesso periodo, anch'esso presente in una collezione privata cinese.
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theautomaticpencil · 6 years ago
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The Betula Chair design by Apical Reform Studio
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asteticas · 2 years ago
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APICAL REFORM STUDIO® — BETULA CHAIR.
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falcemartello · 2 years ago
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A poco meno di quarant’anni dalla chiusura, ha riaperto a Londra la Battersea Power Station.
Quella che un tempo era la centrale termoelettrica della città, ha aperto ora nella veste di centro multifunzionale con negozi, ristoranti, il nuovo Apple Campus, spazi per il benessere, il tempo libero e la cultura, il primo art’otel londinese, nonché più di 250 residenze e un ascensore panoramico in vetro che sale all’interno di una delle ciminiere.
Il progetto di restauro e di riqualificazione della centrale è firmato dal noto studio londinese WilkinsonEyre.
L’intervento sull’edificio industriale, di “interesse storico culturale di II grado” (nella classificazione anglosassone), si è basato sulla salvaguardia della riconoscibilità (è stato adottato un abaco di materiali in linea con le preesistenze) e dell’integrità di tutti gli elementi originari: i vuoti a tutt’altezza degli ingressi sud e nord, le ciminiere e le Sale delle Turbine rimangono le caratteristiche dominanti dell'edificio.
Nell’edificio sembrano convivere un’anima Art Déco, che riflette lo spirito degli anni Trenta, e un’altra, più industrial e brutalista, inerente al nucleo degli anni ’50.
Per WilkinsonEyre, l'attenta espressione del contrasto tra vecchio e nuovo è fondamentale per il successo del progetto, in modo che, ovunque si trovi l'utente all'interno dell'edificio, gli venga ricordata l'esistenza del tessuto originale.
Una delle attrazioni, a breve visitabile, è il Lift 109: un nuovissimo ascensore in vetro ospitato in una delle iconiche ciminiere dell'edificio.
Il viaggio nel Lift 109 inizia nella magnifica sala Turbine Art Déco della centrale elettrica, dove, attraverso un'accurata mostra di documenti originali e display multimediali, si potrà scoprire di più sul ricco patrimonio dell'edificio, sul suo significato architettonico e sulla presenza duratura nella cultura popolare.
Proseguendo la visita, si salirà in ascensore fin sulla cima di uno degli iconici camini, a 109 metri di altezza, da cui si potrà godere di una vista panoramica senza eguali.
La silhouette della Battersea Power Station è stata a lungo un elemento di spicco nello skyline di Londra. Costruita negli anni '30 e operativa come centrale elettrica fino al 1983, al suo apice, generava un quinto dell'energia di Londra.
Sin dalla sua nascita, l'edificio ha fornito molto più della sola elettricità, diventando un'icona culturale che ha fatto da sfondo a film, video musicali e copertine di dischi, come quella dell’album Animals dei Pink Floyd (1977).
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a-tarassia · 3 years ago
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Il quadro della mia situazione mentale, personale, spirituale ed esistenziale in questo momento storico della mia presenza corporea su questa terra può essere riassunto nel mio tentativo di studiare come sia possibile che sia secondo la teoria della fine della storia, sia secondo il Kali Yuga, questa sia l’era finale dell’umanità così come la conosciamo Secondo queste due teorie , la prima storiografica e la seconda filosofico-religiosa (induista), il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità ha raggiunto il suo apice, snodo epocale a partire dal quale si starebbe aprendo una fase finale di conclusione della storia in quanto tale, l’uomo ha perso la connessione spirituale, un declino dell’anima che comporterebbe la difficile liberazione dalla corruzione e dall’ignoranza. Il desiderio di essere altro che ha la sua massima espressione nel consumismo estremo ci ha portato ad annullare i momenti universali a favore di momenti di soddisfazione effimera individuale e soprattutto materiale. Necessario per capire tutto ciò e approfondire le due teorie è lo studio della storia, della filosofia e della religione per lo più induista. E quindi adesso mentre che su Arrakis sta partendo la rivolta contro l’Impero io sto qui a capire cosa cristo sta succedendo intorno a noi e ad imparare a fare incantesimi e leggere tarocchi.
La lascio qui per la prossima volta che qualcuno mi chiede: come stai?
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diceriadelluntore · 4 years ago
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Storia Di Musica #153 - Led Zeppelin, Led Zeppelin IV, 1971
Quando uscì l’8 Novembre del 1971 sul disco non c’era scritto né il nome della band e nemmeno il titolo (che sarà il filo rosso che legherà le scelte degli album di Gennaio), tanto che l’Atlantic, la casa discografica che lo editò, era sicura che fosse un fiasco colossale, anche perchè la gestazione di questo lavoro fu travagliata e molto più lunga del previsto. La Storia poi dirà che il quarto disco dei Led Zeppelin, che propriamente non ha nessun titolo ma nei cataloghi, considerata la titolazione precedente, è segnato come IV o Four Symbols (ci arriveremo tra poco) diventerà uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, anche grazie ad una qualità musicale che ne fa, unanimemente, uno dei più grandi dischi della storia rock. La decisione che i quattro inglesi, Robert Plant,  Jimmy Page, John Paul Jones, John Bonham, all’apice del successo dopo tre dischi già leggendari (Led Zeppelin I e II, del 1969, e il III del 1970), cioè non firmare i loro ultimo lavoro, fu una presa di posizione contro il mondo della critica musicale, secondo loro tutta impegnata a dipingerli come rockstar viziate e a cercare di inquadrarli nel panorama musicale in uno stile predefinito. Come per il precedente III, che segnò una virata nel loro suono hard rock verso sonorità più acustiche, la band si ritirò a Headley Grange, nella villa rurale dell’Hampshire, con lo studio di registrazione mobile dei Rolling Stones. Tra il dicembre del 1970 e i primi mesi del 1971 fu scritto e provato moltissimo materiale, tanto che la band era orientata a spiazzare il mercato (e la critica) proponendo il disco come 3 Extended Play o addirittura un doppio disco. La Atlantic convinse il gruppo a ripiegare sul più classico 33 giri, ma Peter Grant, il tirannico manager del gruppo, impose alla Atlantic la scelta del gruppo di non avere né il nome sulla copertina né il titolo al disco. Tra l’altro l’uscita prevista per la primavera del ‘71 ritardò a causa del giudizio negativo sul mixaggio fatto a Los Angeles da parte di Page, che riorganizzò tutto il materiale agli Olympic e Island Studios di Londra. Musicalmente, il disco è, come già accennato, uno dei pilastri del rock, un apice di coesione, potenza, anche ammaliante poesia musicale con pochi paragoni. I Led Zeppelin trovano un equilibrio perfetto tra l’anima hard rock, l’elettrificazione del blues, i nuovi accenni folk acustici e scrivono 8 brani, nessuno escluso, leggendari. Black Dog è lo strepitoso inizio, dedicata ad un golden retriver nero che gironzolava a Headley Grange durante le sessioni: è un brano portentoso, che ispirerà un’intera generazione di chitarristi, anche per l’uso delle sovraincisioni per l’assolo centrale; Rock’N’Roll è selvaggia come suggerisce il titolo, Misty Moutain Hop parla scherzosamente di un incontro con la polizia dopo aver fumato marijuana, Four Sticks è un omaggio a “Bonzo” Bonham e alla sua fragorosa classe di batterista (le 4 bacchette del titolo sono proprio un omaggio alla sua tecnica meravigliosa). E poi ci sono 4 canzoni ancora più grandiose: Going To California è una delle ballate più belle di sempre, probabilmente scritta e dedicata a Joni Mitchell, mito per Page&Plant, con il suo ritmo ondeggiante e sognante ha influenzato per decenni i musicisti; When The Levee Breaks è la ripresa di un vecchio blues di Kansas Joe McCoy e sua moglie Memphis Minnie nel 1929 e incluso nell'album Blues Classic By Memphis Minnie, uscito solo nel 1965: 7 minuti e mezzo di puro blues elettrico, dove la fanno da padrona il riff marziale di Page, l’armonica a bocca di Plant e la batteria di Bonzo, che fu posizionata nell’androne delle scalinate di Headley Grange per dare un effetto più fragoroso; nel disco c’è un’ospite, l’unica voce ospite in assoluto ad accompagnare Plant in qualsiasi disco dei Led Zeppelin, ed è quella meravigliosa di Sandy Denny, che all’epoca era la voce dei Fairport Convention; insieme cantano le gesta della suggestiva The Battle Of Evermore, forse ispirata ai racconti di Tolkien e a Il Signore Degli Anelli, dove Page suona un toccante mandolino. C’è poi un altro brano, che dura 8 minuti, che definisce forse come pochi altri il suono di una band, l’idea che avevano in mente questi 4 ragazzi inglesi: dall’intro suggestivo e quasi spiazzante, con un crescendo di strofa in strofa, raccontando una storia oscura e simbolica, probabilmente ispirata ad uno dei libri preferiti di Plant, Magic Arts In Celtic Britain di Lewis Spence, di una donna alla ricerca di qualcosa, in un mondo di regine di Maggio e pifferai magici, che ha poi uno degli assoli più fantastici di ogni tempo, e che probabilmente è la canzone più famosa di tutti i tempi: Stairway To Heaven. Il successo strepitoso, l’aura magica e misteriosa che già circondava il gruppo e la decisione di pubblicare un album senza nome scatenò le controversie più disparate: esistono ancora oggi gruppi di ascolto che sono sicuri che suonando il disco all’inverso sia zeppo di evocazioni sataniche, che i quattro simboli che ogni membro del gruppo usò per definirsi nelle pagine interne siano messaggi occulti (scelti da un libro molto famoso tra gli occultismi del ‘900, Il Libro Dei Segni di Rudolf Koch, da cui poi nasce Four Symbols altro identificativo del disco, anche se in realtà i simboli sono 5, perchè anche alla Denny ne fu assegnato uno) e dei messaggi subliminali che ha la copertina. Quest’ultima, tra le più belle e famose del rock, ritrae in fronte la foto di un muro scrostato con la carta da parati in disfacimento e un quadro di un anziano contadino intento a trasportare a schiena del legname: aprendo l’album il risultato (che si può vedere qui) mostra il muro semi caduto dalle cui rovine si intravede un grattacielo, l’allora appena inaugurata Salisbury Tower vicino Birmingham; all’interno c’era anche un bellissimo disegno di Barrington Coleby (accreditato come Barrington Colby MOM nelle note di copertina) raffigurante L’eremita, da allora simbolo della band. Il disco, con buona pace della Atlantic, andrà in classifica dovunque e per anni ha detenuto numerosi record di vendita, tipo 267 settimane consecutive nella classifica di Billboard, con 35 milioni di copie vendute nel mondo, il punto più alto di una musica spettacolare che come poche altre ha segnato intere generazioni di ragazzi, tanto che c’è un’ultima storia da raccontare: sebbene mai uscita come singolo, anche per la durata, molti dj radiofonici iniziarono a far passare in tutta la sua durata Stairway To Heaven, scatenando così tanto entusiasmo che lo spartito della canzone è di gran lunga il più venduto della musica pop occidentale. Era così tanta la smania di impararla a suonare tra gli appassionati che nei grandi negozi di dischi americani, dove è pratica comune poter provare gli strumenti, ci fu per un periodo un cartello: No Stairway, l’avevano sentita così tante volte storpiata e suonata male che era meglio non provarci subito.
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apicesstudio · 1 year ago
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https://blognow.co.in/the-a-list-of-indian-design-unveiling-mumbais-top-interior-firms
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ca-la-bi-yau · 5 years ago
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"Col postfordismo sembra aver toccato un nuovo apice quella "piaga invisibile" dei disordini psichici e affettivi che, silenziosamente e subdolamente, ha preso a diffondersi sin dal 1750 circa (e cioè dagli inizi del capitalismo industriale). È qui che il lavoro di Oliver James diventa importante. Ne "Il capitalismo egoista" James fa notare come negli ultimi 25 anni abbiamo assistito a un significativo aumento del tasso di "disturbi mentali": "Secondo la maggior parte dei criteri, il livello di sofferenza è quasi raddoppiato tra le persone nate nel 1946 (che avevano 36 anni nel 1982) e quelle nate nel 1970 (che ne avevano 30 nel 2000). Per esempio, nel 1982 il 16% delle donne trentaseienni ha riportato di soffrire di "problemi di nervi, sentirsi giù, tristi o depresse, mentre nel 2000 era del 29% (per gli uomini era l'8% nel 1982, il 13% nel 2000)." In un altro studio inglese citato da James, viene messo a confronto il tasso di morbilità psichiatrica (ovvero nevrosi, fobie e depressione) in campioni interrogati tra 1977 e 1985: "Mentre nel 1977 i casi ammontavano al 22% del campione, entro io 1986 la cifra era salita a quasi un terzo della popolazione (31%). Rispetto ad altre nazioni comunque rette da sistemi capitalisti, i tassi più alti arrivano da quei paesi in cui vige quello che James chiama "capitalismo egoista": James ipotizza quindi che siano proprio le politiche "egoistiche" (vale a dire neoliberali) le principali responsabili dell'incremento. In particolar modo James si sofferma sul modo in cui il capitalismo egoista istiga all'idea che qualsiasi aspirazione o aspettativa possa essere realizzata:"
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doktorzo · 2 years ago
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pangeanews · 5 years ago
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“Si deve entrare nel vero o rimanere al di fuori”: Jean Josipovici, il pensatore radicale che ha lottato contro “la scienza oscurantista” e la riduzione dell’uomo a macchina
L’uomo dimenticato. Penna dotta, graffiante, a tratti ironica e polemica; sguardo limpido, solare, impersonale ma unitario; questo, e molto altro, è stato Jean Josipovici, un grande studioso che, dopo una presenza importante nell’editoria italiana, con pubblicazioni numerose, anche presso case editrici del calibro di Fratelli Laterza e Rusconi, ha visto obliata la propria opera – saggistica e poetica –, che oggi risulta, per la maggior parte, introvabile.
A una riscoperta della figura di questo pregevole ricercatore è dunque votata la ripubblicazione di una delle sue opere più importanti: La scienza oscurantista (Iduna, Milano 2019). Al suo interno Josipovici propone un paradigma con cui valutare e criticare l’approccio antropologico, epistemico e gnoseologico dominante nella modernità occidentale. Un modello dominato dal riduzionismo razionalista, secondo Josipovici, che trova il proprio apice d’inveramento nella scienza moderna e, in particolare, in quelle branche scientifiche che hanno per oggetto del proprio studio l’uomo – dunque, fondamentalmente: biologia, medicina e psicoanalisi. In questi ambiti, infatti, diventa manifesto come la meccanicizzazione determinista e materialista del sapere, prendendo come proprio oggetto la forma più evidente della vita – ossia l’uomo –, riduca, secondo un processo di reificazione (à la Marx), il vivente a oggetto. Trasformandolo così nell’uomo a una dimensione che Herbert Marcuse duramente stigmatizzava, senza, tuttavia, riuscire a opporgli un’alternativa autenticamente costruttiva. «L’uomo ha smesso di porsi nella prospettiva del vivente», spiega Josipovici, intendendo “il vivente” in senso affatto biologista, piuttosto in modo plurale e gerarchico, secondo una prospettiva affine a quella espressa da Guénon ne Gli stati molteplici dell’essere.
Un uomo oggi dimenticato – Josipovici – ci conduce così nei meandri di una serrata critica alla scienza oscurantista, colpevole proprio di dimenticare l’uomo (L’uomo dimenticato è, non a caso, il titolo del primo capitolo del saggio). Lo fa, diversamente da molti antimoderni che si sono occupati della questione, con estrema precisione tecnica e con numerosi riferimenti ad autori, teorie e correnti che hanno variamente innervato l’approccio oggetto della sua critica. Se alcuni passaggi possono dunque risultare prolissi o eccessivamente puntigliosi per un lettore interessato alla storia delle idee più che alla storia della scienza, a emergere in ultima istanza è una grande competenza sull’argomento trattato – una dote che valorizza l’efficacia della critica, prevenendo obiezioni sulla competenza dell’autore rispetto a una materia tanto complessa. Proprio partendo dal metodo e dal linguaggio biologico, medico e psicoanalitico, Josipovici riesce a ribaltare dall’interno delle categorie del paradigma modernista le conseguenze che ne vengono solitamente tratte. Con un procedimento, quindi, per certi versi affine a quello di Horkheimer e Adorno, Josipovici mostra la dialettica dell’illuminismo scientista. È da queste premesse filosofiche, non organicamente delineate ma sempre emergenti nella fitta prosa dell’autore, che prende piede la pars destruens del saggio. La cui qualità permette, a nostro avviso, di “passare sopra” a taluni suoi riferimenti meno centrati, che paiono talvolta strizzare l’occhio a certa superficiale New Age.
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In «viaggio verso l’oscurantismo estremo». La psicoanalisi moderna, di cui, citando Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, ma anche Wilhelm Wundt, Oswald Kulp, Edward Bradford Titchener, James McKeen Cattel, Wilhelm Reich e moltissimi altri, Josipovici ricostruisce magistralmente genesi e sviluppi, è una forma di «chiusura all’essenziale»: anziché aprire in senso verticale l’uomo, connettere le sue possibilità realizzative soggettive alle condizioni oggettive dei ritmi cosmici, segna «il cammino dell’intelletto a spese dello spirito», la riduzione dell’uomo a macchina. Questo «è il prezzo pagato da chi, appoggiandosi pigramente all’intelletto, cerca di sostituire la qualità con la quantità, i valori con la materia scomponibile e misurabile». La dimensione psichica, che il Pensiero di Tradizione ci insegna situarsi su un piano dell’essere mediano fra la dimensione corporea (somatica) e quella spirituale (noetica), viene intesa come l’unica esperibile e, in tale accentratura monotonica, perdendo ogni possibilità di connessione e mediazione, viene del tutto disgregata. In questo senso, la serrata critica di Josipovici è complementare e integrativa rispetto alle interessanti osservazioni che Julius Evola dedicò all’«infezione psicanalista».
La biologia moderna risulta altrettanto castrante rispetto alle potenzialità insite nell’umano. Essa, infatti, riducendo l’uomo al puro piano biologico, commette un tradimento dell’essenza stessa del bios, che si struttura, certo, in elementi quantitativi, misurabili e meccanici, ma soprattutto – questo il suo tratto primario – si dipana in forme organiche, metamorfiche, relazionali, qualitative. Il Behaviorismo, secondo cui l’organismo agirebbe automaticamente in funzione della dinamica stimolo-risposta, ne è un esempio lampante. Parimenti la neurobiologia, pur partendo da premesse differenti, tende a ridurre l’uomo alla sola dimensione fisiologica, interpretata secondo schemi causali, razionalisti e deterministi. «L’uomo – spiega invece Josipovici – anche se dipende da fattori esterni e da fattori biologici – quando non c’è degenerazione o deficienza troppo grave –, conserva un margine in cui può esercitarsi la sua volontà personale, la quale deve consentirgli di crescere e di affermarsi spiritualmente». La natura, infatti, compie l’uomo solo parzialmente: per «divenire ciò che si è», nietzscheanamente, serve un intervento auto-creativo che completi la definizione della propria essenza.
Anche la medicina moderna che, olisticamente, dovrebbe interessarsi a tale compito, ne è del tutto aliena. Accompagnando la meccanicizzazione dell’umano agli sviluppi dell’industria e della farmacologia, la medicina «è divenuta un’immensa industria» e ha fissato l’immagine dell’uomo scisso e bisognoso di un surplus di chimica artificiale esterna come parametro antropologico – l’homo farmaceuticus.
Anche la sociologia, trattata più tangenzialmente nel volume, merita gli strali di Josipovici: ponendo al centro della propria speculazione la collettività, tale disciplina, frutto maturo della cultura della Rivoluzione francese, contribuisce alla distruzione dell’essenza della persona, identificandola con il semplice “ruolo” che l’individuo riveste nella società. È il ruolo impersonato nel sistema sociale che viene infatti da essa focalizzato: ancora una volta la multidimensionalità del singolo viene livellata dalle aspettative ed esigenze dei molti. Con una equazione: la società egualitaria sta all’io (diviso, molteplice, atomizzato – «i piccoli “ego”») come la comunità organica sta all’Io (plurale, differenziato, unitario). Non è un caso, nota l’autore, che «ogni qual volta si produce un vacillamento del quadro sociale, una nuova “apertura” spirituale compare; opera di un soggetto dotato d’una personalità totale, in rottura col suo tempo». La coscienza del singolo, la sua essenza sovra-personale, in questo caso cessa di essere un “residuo” e si fa fiamma.
Questa vampa, capace di disintegrare le certezze acquisite e verticalizzare lo scontro è a nostro avviso precisamente il superamento della visione del mondo d’orientamento modernista, stretta fra riduzionismi e monismi di ogni sorta – tutto è materia, tutto è sociale, tutto è psichico, per citarne alcuni –, soffocata da dualismi incapacitanti, contrari e convergenti, che conducono all’atomismo, alla parcellizzazione del mondo della vita e all’autismo dell’esperienza. L’oltrepassamento muove invece dalla possibilità, sempre vigente nell’estatica potenza dell’attimo, di «strappare i veli con cui Apollo nasconde la realtà originaria, osare di trascendere la forma per mettersi a contatto con la “atrocità” originaria di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso essendo soltanto potenza, nuda, libera potenza fiammeggiante» (J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo).
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Nel cuore dell’Invisibile. La pars destruens della raffinata operazione culturale proposta da Josipovici tende a ravvisare nelle diverse discipline considerate il medesimo vulnus: il riduzionismo razionalista. Sotto questo profilo, la riflessione del nostro rientra perfettamente in quel filone culturale che nel Novecento ha affrontato il problema della crisi dell’Occidente e dell’avvento del nichilismo. I paralleli con le speculazioni elaborate dalla letteratura della crisi sulle questioni della tecnica, sull’atomizzazione dell’individuo, sui rischi insiti nel pensiero collettivista così come in quello liberaldemocratico e scientista, sarebbero infiniti. Il confronto con le intuizioni di Edmund Husserl, Martin Heidegger e René Guénon – fra gli altri – risulta su svariati temi spontaneo e fruttuoso. Raccogliendo a nostro avviso questa importante eredità, il saggio di Josipovici procede da tale retroterra culturale per considerare nello specifico, con rigore metodologico, la materia scientifica.
Anche qui il razionalismo appare il problema fondamentale. Riducendo il reale ai suoi aspetti quantitativi, meccanici e deterministi, l’uomo l’ha intrinsecamente lacerato. Ma la realtà è scissa perché, ancor prima, è l’uomo a essere in sé scisso: la sua percezione alterata delle cose trasforma le cose stesse, rendendo la res extensa una costruzione mentale astratta, incapace di rendere conto della discontinuità, che pure è peculiarità intrinseca della vita.
D’altra parte, nel Novecento, la vita ha intrapreso una vigorosa reazione contro il modello positivista. Il crollo delle certezze manifestatosi nel Secolo Breve, l’avvento di prospettive relativiste, la comparsa di “anomalie” scientifiche quali il Principio d’indeterminazione di Heisenberg e il Teorema d’incompletezza di Kurt Gödel, nonché le intuizioni di Max Planck, Albert Einstein, Louis de Broglie, Niels Bohr, hanno segnato la bancarotta della scienza “cartesiana”, che pure rimane dominante nella vulgata comune. «Il materialismo, estrema negazione d’ogni liberazione spirituale, ha compiuto la sua opera, ma ha anche fatto il suo tempo; e appare per quello che è: un’illusione. Cede ormai il posto ai furori di forze inferiori, sole capaci di partecipare alla finale opera di dissoluzione» (Jean Josipovici, Il Fattore L.). Fa il suo ingresso trionfale il postmodernismo, che vince nelle accademie e si manifesta rizomaticamente nella quotidianità, senza aver però ancora integralmente scalzato la Weltanschauung ottocentesca. Il mattino dei maghi, per dirla con Pauwels e Bergier, ha lanciato la sua sfida al razionalismo, rivendicando l’integrità organica del sapere. Della sua eredità dobbiamo ancora farci carico, tuttavia.
Alla critica di Josipovici, che i quarant’anni del saggio non rendono affatto superata – pur richiedendo talvolta aggiustamenti, precisazioni e aggiornamenti –, si sommano riflessioni sparse che ci offrono la possibilità di identificare un potente afflato propositivo. La pars costruens del saggio si muove, a nostro avviso, attorno a due principali coordinate: l’identificazione di un modello antropologico alternativo a quello oggi dominante nel sensus communis (che proprio dalla cultura scientista tende a generarsi) e, alla luce del nuovo paradigma proposto, una integrazione della metodologia – e deontologia – delle discipline mediche, biologiche e psicoanalitiche.
Per quanto riguarda la prima questione, Josipovici concorderebbe con l’Ernst Jünger di Oltre la linea: nella modernità, a mancare è la «principesca apparizione dell’uomo». Nell’era della mobilitazione totale, infatti, alla centralità dell’uomo integrale si sostituisce la “cosalizzazione” dell’uomo-ingranaggio. Ecco che allora si crede di conseguire la conoscenza mediante questionari, sondaggi e test, anch’essi espressione di quel delirio sperimentale che accompagna la scienza moderna.
Josipovici, col suo radicale antimodernismo, intende precisare che a questa modernità ne sarebbe possibile un’altra – organica, completa, spiritualmente innervata. Così, «colui che decide di progredire sulla strada giusta deve adoperarsi coraggiosamente per sostituire alla ragione chiusa, quantitativa, una ragione aperta, qualitativa». Questo uomo “diversamente moderno” potrebbe allora procedere a un arricchimento e a un completamento delle discipline scientifiche considerate.
Così, in ambito psicologico, spunti interessanti provengono dall’orientamento psicosomatico e da tutte quelle tendenze che intendono l’uomo in senso olistico. William James, stando a Josipovici, avrebbe dato indicazioni importanti in tal senso, possedendo egli «un’autentica conoscenza della vita interiore che egli denomina – prendendo in prestito da Eraclito l’immagine – the stream of thoughts: esperienza certo unitaria e globale, ma in continua trasformazione; movimento che è vano intestardirsi artificialmente a dividere, come è vano tentare di estrarne degli stati, con il rischio di operare contro il significato stesso della natura umana». Anche in ambito terapeutico ci sono possibilità altre; in questo campo Josipovici sembra richiamare l’importanza di una comprensione filosofica – prima che neurologica – del disagio esistenziale: «Condurre il paziente ad affrontare l’esistenza, vuol dire innanzi tutto attrarlo a operare su se stesso. Scoprirà allora che il presente contiene in germe le determinazioni future, e che i problemi del momento hanno il loro giusto valore».
Solo affrancandosi dai pregiudizi correnti l’uomo potrà realizzare integralmente la propria natura, superando tanto il parossismo delle sensazioni quanto il culto della ragione. «La posizione giusta è quella dell’intuitivo […]. Intimamente orientato secondo la sua evoluzione creatrice, vibrante all’unisono, obbediente a un ritmo uguale, tutto il suo sforzo tende a inserirsi nella Grande Corrente Vitale».
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La verità dello sguardo mitico-simbolico. Il tipo intuitivo suggerito da Josipovici rimanda a una costituzione antropologica alternativa a quella moderna. Questa formula accende un’immediata catena di rimandi analogici ad altre grandi proposte di ribellione all’homo saecularis: dall’uomo dionisiaco di Nietzsche all’antropologia sapienziale di Rudolf Steiner, dal Dasein (esserci) di Heidegger all’uomo differenziato di Julius Evola, sino all’anarca di Ernst Jünger. Gli spunti offerti nell’opera di Josipovici sembrano tuttavia avvicinare ancor più il suo programma di rinnovamento interiore, tutto improntato a una mediazione feconda fra piano soggettivo, umano e animico (microcosmo) e dimensione oggettiva, vitale, spirituale (macrocosmo), a una prospettiva di ermeneutica mitico-simbolica, ossia a una interpretazione del reale imperniata su una lettura del “libro del mondo” mediata dalle forme del simbolo, dell’analogia e del mito.
Josipovici ci invita così a inaugurare uno sguardo differente sul reale: abbandonando gli affilati strumenti chirurgici del modernismo, l’uomo può riacquisire quella prospettiva simbolica fondata sulla corrispondenza fra la propria singolarità e i ritmi del cosmo. Il mondo può tornare a essere vissuto come flusso energetico, come epifania del divino, come concatenazione di una pluralità di stati essenziali, rappresentabili e conoscibili mediante miti, simboli, archetipi. È una ricerca dei segni e delle corrispondenze – visibili e invisibili – che rendono il cosmo un volume consultabile grazie a un’ermeneutica poetica e magica. In questo stadio «non si vive la propria vita: si è la vita, con quello ch’essa possiede di possibilità estreme. Fuori della portata del temporale e del caduco, essa assume valore di eternità» (Jean Josipovici, Iniziazione alla felicità).
L’esoterista prefigura così la possibilità di una esistenza totale, che così illustra ne La prigione esoterica: «C’è una dimensione magica dell’individuo, come c’è una dimensione magica dell’universo. Ma questa dimensione superiore, questo eterno presente, creatore di presente, appartiene solo all’uomo che si sia interamente liberato delle sue catene: le invisibili e le visibili. Ora, l’esser libero è poter attingere una seconda volta all’albero della conoscenza». L’esistenza totale trasfigura l’uomo interiore ma anche la natura, che è sinolo di potenze visibili e invisibili, concrezione fenomenica di istanze sovrafenomeniche, «il manifestarsi – insomma – d’una forza che circola distribuendo con generosità e conservando avaramente la vita in tutte le sue forme».
Il riduzionismo rimane, in tutta la riflessione di Josipovici, l’avversario più odioso. Alla conoscenza, infatti, ci si avvicina soltanto superando l’alternativa di affermazione e negazione, ossia affrancandosi «dall’“impasse” dualistica». Questa operazione necessita una trasfigurazione mistica del soggetto: significa tendere all’annullamento di quella rottura col Divino che è il principale stigma della modernità.
Tale passaggio è integralmente riposto nello sguardo in tensione con cui si coglie il mondo: la trasformazione parte tutta da lì. Come c’insegnano lo sguardo stereoscopico di Jünger e la prospettiva filosofica di Evola, l’Assoluto non c’è mai – spontaneamente, passivamente –, ma sempre può essere attivamente realizzato. «Si deve entrare nel vero o rimanere al di fuori» chiarisce Josipovici. Teoresi e prassi coincidono, si fanno Uno. È proprio qui che risiede il culmine realizzativo di un pensiero abissale. Lo sapeva bene il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila: «Quando sentiamo che davanti a un oggetto o a un fatto, il nostro spirito si cristallizza e si rapprende; quanto sentiamo che le nostre attività calzano le une con le altre; quando sentiamo che una gioia secca e lucida ci invade, il significato è esploso nel nostro spirito» (Notas).
Luca Siniscalco
* Il presente saggio è una versione abbreviata dell’Introduzione a Jean Josipovici, “La scienza oscurantista”, Iduna, Milano 2019
L'articolo “Si deve entrare nel vero o rimanere al di fuori”: Jean Josipovici, il pensatore radicale che ha lottato contro “la scienza oscurantista” e la riduzione dell’uomo a macchina proviene da Pangea.
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adamaskwhy · 6 years ago
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orsopetomane · 6 years ago
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Darling in the Franxx (che come quasi tutti gli anime ha un titolo assurdo, ma poco per volta lo spiega razionalmente) è un curioso miscuglio di spunti: l’erotismo “funzionale alla storia” di Kill La Kill, le battaglie in scala sempre più estesa di Gurren Lagann, le paranoie metempsicotiche di Evangelion, i temi della coercizione e dello sfruttamento minorile di The Sky Crawlers... e riesce a farli funzionare (più o meno).
L’elemento più bizzarro - quello che salta subito all’occhio e che determinerà se guarderete questa serie fino in fondo o se, invece, vi darete ad altre occupazioni perché “siete delle persone serie, voi, non dei morti di figa” - è il sistema di pilotaggio dei mecha. Come dice un personaggio verso le battute finali: “Niente è più potente del destino, a parte forse il desiderio”.
E Darling in the Franxx applica il concetto alla lettera, perché l’unica forza motrice in grado di manovrare i robottoni è, in poche parole, la Fregola. Un pilota maschio e una pilota femmina si sistemano nella cabina di comando in posizione equivoca: lui con il compito di manovrare il mezzo, lei  - prona e con le chiappe in alto - demandata a mantenerlo in funzione e, possibilmente, “assorbire” i colpi senza comprometterne le funzionalità. Durante le fasi di combattimento la scrittura non allude mai troppo esplicitamente al fatto che sì, questa situazione ha dei connotati sessuali e con tutta probabilità è proprio l’ormone che si sprigiona a fungere da fonte energetica, ma di base è così. Nelle fasi avanzate della storia apprendiamo che, a livello implicito, originariamente i ruoli erano invertiti - con la “donna” che costituiva la forza attante e l’uomo che fungeva da chiave d’avviamento. Unica eccezione al sistema, un corpo d’elite costituito da cloni androgini che possono indifferentemente stare sopra o sotto. A tal proposito - in un contesto dove la “connessione” tra piloti ha un carattere prima di tutto funzionale - il coming out di una protagonista lesbica si colora di tonalità anacronistiche, in quanto a limitare la sua capacità di agire non è tanto il pensiero comune (in questo futuro alternativo i sentimenti sono stati banditi, la gente non si innamora né sviluppa degli autentici legami affettivi), ma la tecnologia stessa.
Messa giù senza troppe pretese, la morale della storia è che, se la Fregola genera una quantità di energia notevole, la Fregola accompagnata dall’Amore può sprigionare un Big Bang di proporzioni cataclismatiche. È stucchevole, ma non lo è.
Venendo a quello che è il piatto forte della serie, l’approfondimento psicologico dei personaggi è il perno su cui si regge l’intera produzione: dove il fan service spingerà alcuni di noi ad accogliere con pacato entusiasmo l’ennesimo sventagliamento di poppe e fondoschiena, la scrittura dei protagonisti vi spingerà ad affezionarvi ai proprietari di quelle poppe e di quei fondoschiena - e questo vale indifferentemente sia per le femmine che per i maschi (nel caso di questi ultimi, poppe escluse).
Quello che ho apprezzato in particolar modo è l’evoluzione caratteriale dei vari protagonisti, con il rapporto tra la coppia principale che comincia come una relazione bondage (lui è un masochista con tendenze suicide, lei distrugge tutti gli uomini con cui entra in contatto), raggiunge una sorta di apice autodistruttivo, e poi si sviluppa in un progressivo avvicinarsi, allontanarsi, rischiare, fino a raggiungere il territorio dei sentimenti e della fiducia incondizionata.
In molti hanno evidenziato un netto calo di qualità da metà serie in avanti, ma personalmente non darei un giudizio così drastico. Dopo l’episodio 15 la storia si focalizza sui rapporti tra i ragazzi mettendo da parte le battaglie, e queste parentesi sono scritte talmente bene che è difficile lamentarsene.
Il problema, semmai, arriva nell’ultima cinquina di episodi (se proprio vogliamo restringere il campo, i 3 episodi conclusivi): l’azione ritorna prepotentemente in campo, laddove certe animazioni realizzate “al risparmio” evidenziano che le risorse a disposizione dello studio si sono ridotte, e anche la regia si fa pigra, a tratti poco ispirata. Allo stesso modo, il ritmo della vicenda diventa didascalico, espositivo, meramente sequenziale. Ci sono troppi elementi da gestire, e per assicurarsi di trattarli tutti la sceneggiatura spesso sacrifica i personaggi, trasformandoli - da organismi viventi - a mere pedine disposte su una scacchiera.
Se nella prima metà della serie l’equilibrio tra ammiccamenti erotici, angosce esistenziali e colpi di scena rimane miracolosamente intatto, è vero che giunti alle battute finali qualcosa nel meccanismo - più che incepparsi - si allenta. Alcuni personaggi affrontano una maturazione affascinante, sfaccettata, persino imprevedibile; altri rimangono pressoché identici; altri ancora riescono a sbrogliare in modo netto e incontrovertibile le proprie criticità sepolte, con la conseguenza di trasformarsi in figurine di carta, generiche e poco interessanti.
Invece, non ho trovato affatto problematica la scarsa caratterizzazione dell’antagonista (il nemico che fa la sua comparsa nell’ultimo arco narrativo), perché si tratta essenzialmente di un concetto, e come tale non ha bisogno di una backstory. Graficamente, comunque, si sarebbe potuto osare un po’ di più.
Ma se c’è una cosa in cui Darling in the Franxx riesce alla perfezione è strappare la canonica lacrima di rito durante l’epilogo. Ognuno dei personaggi raggiunge un punto d’arrivo, i pezzi s’incastrano al proprio posto e ciò che rimane è il ricordo di una serie che ha osato, ha saputo stupire, magari è inciampata un paio di volte ma alla fine ne è uscita a testa alta.
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grandtourxp-blog · 6 years ago
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GRAND TOUR_02/
\JAPAN_2014/CAMBODIA_2019
/Stefano Gio Semeraro
http://stefanogiosemeraro.it/works.html
- ANGKOR_NATURAL KINGDOM -
Ho sempre desiderato visitare le rovine di Angkor, affascinato dalla storia e il mistero di questa leggendaria Atlantide Perduta che, dopo aver raggiunto il suo apice sotto l’Impero Khmer (IX-XV secolo), era stata abbandonata e custodita per secoli dalla natura, nel profondo della giungla cambogiana. Fu infatti nell’800, in seguito alle testimonianze di viaggio di Henri Mouhot, che si risvegliò un forte interesse per l’area archeologica. Molti dei templi visitabili oggi hanno avuto questo destino, avvolti dalla giungla fino agli inizi del ‘900, quando furono ripuliti dalla vegetazione e in parte ricostruiti sotto la dominazione coloniale francese. Il loro straordinario impatto visivo deriva proprio dal particolare tipo di recupero applicato, il metodo dell’anastilosi, teso a preservare il più possibile le stesse condizioni del loro ritrovamento, compresi gli elementi naturali che col tempo si sono riappropriati delle strutture architettoniche, in modo da far rivivere ai visitatori odierni lo stesso stupore dei primi esploratori.
Anche se lo sfruttamento intensivo delle risorse idriche causato dal turismo di massa, il sovraffollamento delle aree urbane limitrofe e la deforestazione di parte della giungla destabilizzano il terreno circostante, provocando cedimenti strutturali di vaste zone del sito. Si tratta dunque di un paesaggio in continua trasformazione ed evoluzione, caratterizzato dal perenne conflitto tra le attività umane e il “Regno della Natura”, e che in futuro potrebbe ancora mutare radicalmente. A livello fotografico la serie rappresenta per me un tassello importante nell’ambito di una ricerca personale su questo complesso rapporto tra complessi archeologici (storici e industriali) ed elementi naturali che in questi siti vengono ad integrarsi spontaneamente con le strutture architettoniche mutandone l’aspetto. Ricerca che in questi ultimi anni mi sta portando a viaggiare spesso in diverse aree del mondo alla ricerca di casi emblematici.
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Stefano Gio Semeraro, 1984. Dopo aver frequentato i corsi di Fotografia Analogica e Digitale e Visual Storytelling al CFP Bauer di Milano ( dal 2013 al 2015 ), nel 2014 è tra i co-fondatori di CROP  Collective, gruppo di fotografi indipendenti con i quali porta avanti una riflessione meta-fotografica sulla natura e il significato delle immagini fotografiche. Il suo lavoro è stato presentato al Photofestival Milano 2015 nell’ambito dell’evento HTTP_HyperText Transfer Photography, a Fabbrica del Vapore presso Ram Studios, a Palazzo Marino, presso Spazio Soderini nell’ambito dell’International Photo Project (2015), al Festival Spazivisivi a Sanremo e al Festival 10x10 di Gonzaga (2018).
Il suo interesse è rivolto principalmente al paesaggio in trasformazione, il rapporto tra natura e archeologia urbana, il viaggio attraverso il racconto fotografico. Attualmente lavora a progetti di ricerca personale e collabora a distanza in progetti internazionali tra Italia, Spagna e Giappone.
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paoloxl · 6 years ago
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Sono ormai diversi anni che i maggiori enti di ricerca scientifica hanno lanciato l'allarme per salvaguardare il nostro pianeta giunto ad un punto di non ritorno. Le devastazioni ambientali dovute alle scellerate politiche economiche dei paesi industrializzati, hanno radicalmente cambiato l'aspetto di intere nazioni, rendendo invivibili alcuni territori e danneggiandone gravemente altri. Tutto ciò fa capo ad un modello di sviluppo nocivo, che antepone gli interessi di banche e industrie alle reali esigenze delle comunità, sempre più schiacciate dai ricatti.
Non fa eccezione il nostro Paese, che sta provando sulla propria pelle l'insistenza cieca dei governi che si susseguono nel realizzare le cosiddette grandi opere, veri e propri esempi di sperpero di denaro pubblico, di saccheggio ambientale e corruzione. Se da una parte questo costituisce un business per le solite tasche, dall'altra si scontra prepotentemente con le infrastrutture già esistenti che cadono a pezzi; si contano le vittime dopo ogni terremoto o ondata di maltempo, noncuranti del fatto che le prime cause sono imputabili proprio alla cementificazione selvaggia e ad una gestione delle risorse a senso unico. Tutto questo deve cessare.
Negli ultimi anni in tutta Italia sono nati comitati e movimenti che affiancano quelli già esistenti sui territori regionali, che lottano a gran voce contro l'imposizione di opere dannose, come il TAV, il MUOS in Sicilia, il TAP nel Salento, le trivellazioni petrolifere nell'Adriatico, nello Ionio e in Basilicata e soprattutto l'ILVA di Taranto (ora Arcelor Mittal) con la quale vecchie e nuove forze politiche si sono costruite una falsa identità, tradendo le promesse fatte nelle solite campagne elettorali e riciclandosi a nuovi tutori ambientali.
La piattaforma che intendiamo presentare alle suddette realtà, non è un frutto improvvisato di valutazioni di pancia, ma una condivisione di saperi ed esperienze di chi in questo territorio ci ha sempre messo la faccia e spesso la propria libertà personale, rendendo la questione ILVA molto più di una battaglia ambientalista.
Abbiamo imparato a nostre spese che in questa città è in atto un vero e proprio genocidio; l'avvelenamento dei fumi e delle polveri determina la mutazione genetica del DNA che provoca malattie mortali fin dalla nascita, oltre ai danni collaterali causati dai metalli pesanti che si insinuano nei nostri corpi. Tutto questo per salvaguardare gli interessi di un'industria che adesso evidenzia i propri limiti bloccando ogni tipo di sviluppo alternativo. Difatti è importante evidenziare come i disastri prodotti dall'intero polo industriale non siano soltanto ambientali ma soprattutto economici e sociali. All'interno del dibattito rispetto alle alternative in contrasto al modello industriale, vi è l'esigenza di un polo universitario autonomo e indipendente da altre sedi, che possa davvero essere il motore di una riconversione culturale e politica del territorio tarantino. L'abbandono da parte delle istituzioni ha raggiunto il suo apice con i Wind days, giorni in cui i bambini e le bambine del quartiere Tamburi non possono frequentare regolarmente le lezioni, vedendosi privati del diritto allo studio oltre che del diritto alla vita.
Non vi può essere altro tipo di sviluppo se nei pensieri comuni esiste tutt'oggi la monocultura dell'acciaio, l'industria come unica fonte di lavoro: mai negli ultimi sessant'anni ci si è interrogati su cosa questa città necessiti davvero, lasciando che interi quartieri vivessero in funzione del sistema ILVA e della criminalità organizzata, sempre padrona dei territori quando c'è mancanza di alternative lavorative e di avamposti culturali. 
Assistiamo ancora alla contrapposizione salute\lavoro, un ricatto che penalizza gli operai tanto quanto le decine di migliaia di disoccupati che non sono riusciti ad investire nel proprio futuro in questa città martoriata. Crediamo che ci sia la necessità di studiare piani di bonifica come prima misura per arginare la dispersione dell'attuale forza lavoro e garantirne il proseguo nei prossimi anni.
Per fermare questa macchina mortale è necessario attuare una forma di welfare sostenibile che includa diritti universali, piani di lavoro alternativi, bonifiche dei territori avvelenati, costruzione di modelli sociali inclusivi e non esclusivi, riqualificazione dei quartieri abbandonati, sanità pubblica e gratuita per chi soffre di patologie legate all'inquinamento e tutela delle specificità del territorio, salvaguardando arte e cultura.
Per questo il 4 maggio scendiamo in piazza, e lo facciamo chiedendo il supporto di ogni realtà nazionale vicina al nostro dramma, per dimostrare che la questione ILVA non è relegata soltanto al territorio tarantino, ma rappresenta quel tipo di modello di sviluppo sbagliato, da combattere ad ogni costo. Non vogliamo assistere quel giorno a passerelle di chi è stato complice finora con questa devastazione, da partiti bipartisan a sindacati firmatari degli accordi con l'azienda.
E' stata dichiarata guerra alla nostra città; lo Stato ha esplicitamente deliberato che Taranto deve morire e lo ha fatto emanando dodici decreti Salva-Ilva, oltre a garantire l'immunità penale per i nuovi proprietari. Noi abbiamo capito da che parte stare e non vogliamo più assistere a questa lenta agonia.
"Arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa cosi odioso, ti fa stare cosi male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote degli ingranaggi, sulle leve, sull'apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare." (Mario Savio)
evento 
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