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Commedia pubblicata a Londra nel 1912 e rappresentata la prima volta nella stessa città l’11 aprile del 1914. Shaw vuole presentare il suo lavoro come basato sull’importanza della fonetica. Ma appare invece molto più una satira nei confronti delle ipocrisie dell’epoca vittoriana e delle relazioni all’interno del mondo borghese.
Il ricco professor Higgins, esperto di fonetica, incontra per caso all’uscita da teatro una fioraia ambulante, Eliza Doolittle, chiacchierona e sgrammaticata e si ripropone di trasformarla in sei mesi in una dama raffinata e dall’eloquio corretto e adatto all’alta società. Il colonnello Pickering, studioso ed esperto di sanscrito, è presente allo sviluppo di questi propositi e scommette con Higgins sulla riuscita dell’esperimento.
Il ricco professor Higgins, esperto di fonetica, incontra per caso all’uscita da teatro una fioraia ambulante, Eliza Doolittle, chiacchierona e sgrammaticata e si ripropone di trasformarla in sei mesi in una dama raffinata e dall’eloquio corretto e adatto all’alta società. Il colonnello Pickering, studioso ed esperto di sanscrito, è presente allo sviluppo di questi propositi e scommette con Higgins sulla riuscita dell’esperimento.Il ricco professor Higgins, esperto di fonetica, incontra per caso all’uscita da teatro una fioraia ambulante, Eliza Doolittle, chiacchierona e sgrammaticata e si ripropone di trasformarla in sei mesi in una dama raffinata e dall’eloquio corretto e adatto all’alta società. Il colonnello Pickering, studioso ed esperto di sanscrito, è presente allo sviluppo di questi propositi e scommette con Higgins sulla riuscita dell’esperimento.Il ricco professor Higgins, esperto di fonetica, incontra per caso all’uscita da teatro una fioraia ambulante, Eliza Doolittle, chiacchierona e sgrammaticata e si ripropone di trasformarla in sei mesi in una dama raffinata e dall’eloquio corretto e adatto all’alta società. Il colonnello Pickering, studioso ed esperto di sanscrito, è presente allo sviluppo di questi propositi e scommette con Higgins sulla riuscita dell’esperimento.
Nel frattempo anche il padre di Eliza diventa, grazie ad un’eredità, un gentiluomo. La commedia si chiude con l’annuncio di Eliza, che sta per recarsi, assieme alla madre di Higgins, al matrimonio “regolarizzatore” del padre, che Freddy è innamorato di lei e con le beffe e le ironie di Higgins in proposito che comunque apprezza di trovarsi di fronte a una “donna” trasformata oltre che nella dizione nel carattere.
April 1914: Pygmalion Costumes and Stories
From the jacket of Huggett’s book, The Truth About Pygmalion. Left, Sir Herbert Beerbom Tree as Henry Higgins; Right, Mrs. Patrick Campbell as Eliza Doolittle.
Shaw ironizza nella sua appendice sui “lieti fini” obbligati e narra il “fine obbligato” di questa vicenda, che vede comunque una giovane donna costretta a fidare nel matrimonio per mantenere un proprio posto nella società, anche se come negoziante di fiori.
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Amedeo Modigliani. ARTISTA CONTROCORRENTE fece della femminilità dipinto.......pittore più originale nell'arte
Apic//Getty Images
Amedeo Modigliani (Livorno, 1884 - Parigi, 1920) rientra in una categoria di artisti che decisero di lasciare il paese natale per traferirsi in Francia. Parigi, all’inizio del Novecento, era la culla della cultura, della modernità, nonché luogo di scambio e aggiornamento per poeti, scultori, pittori, filosofi. In questo clima, vivace e florido, giungono artisti da tutta Europa, come il rumeno Constâtin Brâncuși (Pestisani, 1876 – Parigi, 1957), il russo Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint Paul de Vence, 1985), il russo Chaïm Soutine (Smiloviči, 1893 – Parigi, 1943) e l’italiano Amedeo Modigliani, che entrano in contatto con personalità già affermate quali Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973), Georges Braque (Argenteuil, 1882 – Parigi, 1963), Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 1869 – Nizza, 1954), il poeta Guillaume Apollinaire, André Derain e molti altri. Sempre a Parigi, negli stessi anni, soggiornano alternamente alcuni dei principali esponenti del futurismo, come Umberto Boccioni, Gino Severini, Carrà, Ardengo Soffici, a ulteriore dimostrazione della grande vitalità dell’ambiente in cui non necessariamente tutti entravano in contatto tra loro, ma potevano giovarsi della fervente temperie culturali.
Amedeo Modigliani nel suo studio
Modigliani all'interno della cornice degli artisti bohémien europei del primo '900. Centro nevralgico di questo movimento era Parigi, città in cui Modigliani visse e in cui venne a contatto con alcuni gruppi d'avanguardia, come ad esempio i fauves.
L'opera di Modigliani risentì inizialmente dell'influenza di Picasso e del cubismo novecentesco, di cui però non fece mai parte, e arrivò a sviluppare uno stile profondamente personale diverso dalla maggior parte delle correnti artistiche dell'epoca.
Amedeo Modigliani nel suo studio, fotografia del 1915 di Paul Guillaume
La libertà di stampa e di azione che la città di Parigi offriva, favorì l’avvicendarsi di quella scia di artisti non soddisfatta delle opportunità che il paese natale offriva loro. Nei manuali di storia dell’arte si trovano spesso classificati Brâncuși, Chagall, Soutine e Modigliani come appartenenti alla “Scuola di Parigi”, sebbene il loro fosse un modo comune di vivere e di pensare, più che una scuola. Un altro aspetto che li accomunava, oltre all’essere artisti forestieri in Francia, era il vivere nello stesso quartiere parigino, ossia Montparnasse, in un edificio soprannominato “l’alveare”, adibito a studio per gli artisti che non si erano arruolati in guerra; anche la partecipazione al Salon, famosa esposizione organizzata a Parigi già dal 1667, rappresentava un fattore di comune accordo.Un’esistenza, quella di Modigliani, non particolarmente fortunata: l’artista livornese di origini ebraiche fu infatti colpito, già in tenera età, da gravi problemi di salute. E la sua scelta di fare l’artista di professione fu rapida e senza ripensamenti.
Il 12 luglio 1884 , a Livorno , nasceva Amedeo Modigliani. Nella sua città , da giovanissimo, apprese la passione per la pittura grazie anche al primo insegnamento del maestro Giovanni Fattori. Ma fu a Parigi, dove andò nel 1906, che ampliò le sue vedute e formò il suo stile unico e rivoluzionario tra i quartieri di Montmartre e Montparnasse.
Fu dura la vita parigina di Modi', sempre al verde poiché spendeva tutto quanto aveva per droga e alcool e sempre a combattere contro la tubercolosi che lo affliggeva. Tanti lo ricordano come il pittore maledetto, ma tutti conoscono i suoi ritratti di donne languide dai lunghi e sinuosi colli , con gli occhi senza pupille e dagli intensi colori, di cui riusci' a cogliere la bellezza, rendendole immortali. Quelle donne che tanto lo amarono fra le quali, più di tutte, una giovane ragazza di nome Jeanne Hebuterne , anche lei pittrice, che per lui abbandonò la sua famiglia e lo sposo' contro il parere di ognuno.
Dalla loro unione, molto contrastata dai parenti di lei, nacque una bambina che fu chiamata Jeanne come la mamma .Ma la malattia non lascio' scampo a Modigliani, anche per la miseria in cui era costretto a vivere e il 24 gennaio 1920 , neanche a 36 anni, il pittore morì mentre la sua giovane moglie, di nuovo incinta, era al nono mese di gravidanza. Per il funerale del pittore gli amici fecero una colletta per pagarne le spese , la disperata Jeanne ,invece, non riuscendo a superare il suo dolore si suicidò
----gettandosi nel vuoto dal quinto piano uccidendo lei e il suo bambino in grembo.Fu seppellita con una frettolosa cerimonia dai suoi parenti che, neanche dopo la morte della figlia seppero esseri compassionevoli e non vollero riconoscere la nipotina.La piccola Jeanne fu adottata da una zia, sorella di Modigliani , e da grande sposò in prime nozze Mario Levi, fratello di Natalia Ginzburg.Jeanne Modigliani trascorse gran parte della sua vita a curare la memoria del padre, ricostruendone la biografia e provvedendo, anche se in ritardo ,a riunire i resti dei suoi genitori nello stesso cimitero di Pere-Lachaise , a ParigiL' epitaffio sulla tomba del padre recita : "Colpito dalla morte nel momento della gloria", quello sulla tomba della madre :"Devota compagna sino all'estremo sacrificio"...
Amedeo Modigliani, Ritratto di Paul Guillaume (1916; olio su tela, 81 x 54 cm; Milano, Museo del Novecento)
famoso per essere veloce, per cui chiudeva un'opera in massimo 1 o 2 sedute.
Amedeo Modigliani, Jeune fille rousse (Jeanne Hébuterne) (1918; olio su tela, 46 x 29 cm; collezione Jonas Netter)
Amedeo Modigliani, Nudo seduto (Beatrice Hastings?) (1916; olio su tela, 92 x 60 cm; Londra, Courtauld Gallery)
L’arte di Modigliani, dalla conoscenza di Brâncuși alle ultime opere
Modigliani comincia a dipingere nella sua Livorno in uno stile simile a quello dei macchiaioli, ma la sua arte cambierà radicalmente dopo il soggiorno a Parigi e in seguito, con la raggiunta maturità, si osserverà un ulteriore cambiamento a livello stilistico, dovuto all’assestamento delle scelte operative. La somma d’influenze che caratterizzeranno la sua produzione lo faranno giungere a una produzione che difficilmente si può incasellare in un genere preciso: la sua è un’arte caratterizzata da semplicità e purezza formale. Fondamentale per l’arte di Modigliani è la conoscenza di Constântin Brâncuși, che porta l’italiano a dedicarsi quasi totalmente alla scultura, sebbene sarà poi costretto dalla sua malattia a tornare sulla pittura, essendo la scultura un’attività molto più faticosa e debilitante per il fisico dell’artista. Della produzione scultorea sono inconfondibili le particolari figure allungate, ma anche la riduzione al minimo, in termini di semplicità delle linee e delle forme. Questi elementi di purezza formale sono desunti proprio dall’arte dello scultore rumeno.
Nella Testa del 1911-12 circa è ben evidente la volontà da parte dell’artista di deformare quello che dovrebbe essere un normale volto umano. Le proporzioni sono totalmente sconvolte, a favore un appiattimento o allungamento di naso, bocca, occhi. Tutto è teso verso la schematizzazione, senza alcun tipo di decorazione. Le sembianze che assumono le opere di Modigliani riecheggiano le maschere africane, l’arte primitiva già molto indagata dai fauves francesi, un gruppo di artisti attivi nel biennio 1905-07, ma anche dai cubisti, accomunati dalla geometrizzazione delle forme. Tuttavia, la sua pittura, fatta di grazia, contorni pronunciati, tendenza all’allungamento delle proporzioni, denota anche l’ispirazione che l’artista desume dal suo retroterra cultura, e in particolare dai grandi artisti toscani del passato come Simone Martini (Siena, 1284 – Avignone, 1344 c.a.), ma anche Filippo Lippi (Firenze, 1406 – Spoleto, 1469) e Sandro Botticelli (Firenze, 1445 – Firenze, 1510), autore della famosa Primavera conservata alla galleria degli Uffizi di Firenze.
Dopo l’abbandono della scultura, gli elementi “scultorei” della sua produzione passano alla pittura, tanto che i soggetti dei suoi dipinti cominceranno ben presto a riflettere le ricerche di purezza formale che Modigliani andava seguendo nella scultura. È quanto si nota anche nei suoi numerosi ritratti, dove i soggetti vengono resi con forme schematiche e secondo una geometrizzazione tesa a trasmettere al riguardante gli elementi più riconoscibili dei connotati del soggetto, ma sono anche caratterizzati da una straordinaria acutezza nella loro penetrazione psicologica. Con altre opere, come i suoi famosi nudi, Amedeo Modigliani riuscirà anche a ottenere risultati straordinariamente intensi e liberi, oltre che sensuali.
Modigliani non appartiene, di fatto, a una corrente precisa, né egli stesso ha mai dichiarato di essersi rifatto ai grandi maestri. Al contrario sceglie esplicitamente di non volersi avvicinare né all’avanguardia futurista, tantomeno a quella francese. Ma è indubbio lo sguardo e l’attenzione alle tendenze che allora circolavano nella Parigi metropolita all’inizio del Novecento. Il suo lavoro risulta di fatto isolato rispetto alle varie tendenze. La critica si è tuttavia sempre divisa sul suo conto: leggi anche un approfondimento sull’importanza storica dell’arte di Amedeo Modigliani.
Amedeo Modigliani, Cariatide (1911-1912; olio su tela, 77,5 x 50 cm; Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen)
medeo Modigliani, Testa (1911-12; pietra calcarea, 89 cm; Londra, Tate Modern)
Amedeo Modigliani, Nudo sdraiato (1917; olio su tela, 60,6 x 92,7 cm)
Dove vedere le opere di Modigliani
Diversi musei in molte città italiane ospitano opere di Amedeo Modigliani. Dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (dove si trova un suo famoso ritratto di Anna Zborowska, moglie di Léopold), si arriva a Milano dove è possibile vedere qualche suo dipinto sia presso la Pinacoteca di Brera, sia nel Museo del Novecento, e poi ancora alla Galleria d’Arte Moderna. Molte opere di Modigliani si trovano in Francia, in ragione del fatto che qui l’artista lavorò per la maggior parte della sua carriera: solo al museo LaM di Lille si trovano sei opere di Modigliani, che sono state di recente oggetto di una campagna d’indagini. Cinque importanti ritratti, tra cui quello di Paul Guillaume, si trovano invece a Parigi, al Musée de l’Orangerie. I nudi più famosi sono invece quelli conservati nelle raccolte statunitensi, in particolare il Reclining Nude del Metropolitan Museum of Art e il nudo del Guggenheim di New York.
MODIGLIANI, LE DONNE
Modigliani nella sua vita ebbe numerose amanti e due figli, mai riconosciuti. Beatrice Hastings fu una delle sue prime amanti, che ritrasse anche in un dipinto. La donna da cui, a quanto pare, ebbe il primo figlio fu Simone Thiroux, ma la vera donna della sua vita fu senza dubbio Jeanne Hébuterne, anche lei pittrice e modella, soprannominata “noix de coco” cioè noce di cocco, per la bellezza del suo viso e i lunghi capelli castani.
Ritratto di Jeanne Hébuterne di Amedeo Modigliani, 1919
La vita di Modigliani non fu semplice: la tubercolosi non gli lasciava tregua, e faceva uso frequente di alcool e sostanze, come molti facevano nella Parigi dell'epoca. Questo aspetto ha contribuito a creare la figura del Modigliani "maledetto".
Per cosa è famoso Modigliani?
Nell'immaginario comune, per cosa è famoso Modigliani? I tratti iconici dei soggetti dipinti dall'artista sono i nudi e i ritratti riconoscibili per i colli lunghi e gli occhi. Questi ultimi, in genere, hanno una forma allungata, sono scuri oppure addirittura senza pupille. Per l’artista gli occhi non possono essere rappresentati perché sente di non poter dipingere ciò di cui non è a conoscenza, ossia l'anima di chi ha davanti e sta posando per lui. Dispensatore di numerosi aforismi, una sua frase celebre recita: «Con un occhio cerca nel mondo esterno, mentre con l'altro cerchi dentro di te». Un fatto per cui il pittore è singolarmente celebre tutt'oggi sta nell'essere uno degli artisti le cui opere sono maggiormente falsificate.
Nella produzione di Modigliani i quadri di nudo ne rappresentano una consistente fetta. Sono opere in cui si legge la stessa purezza delle forme che l'artista applica alle sculture. Ciò avviene anche nei suoi famosi ritratti: schematici e sintetici, al contempo non dimenticano di sviscerare una profonda analisi psicologica dei soggetti rappresentati.
In "Nudo rosso", opera del 1917 conservata oggi presso una collezione privata milanese, si nota la capacità del pittore di rendere essenziali le forme. Una donna distesa taglia in obliquo la superficie della tela, mentre le sue braccia, il ventre e i seni sono definiti da un accenno minimo di chiaroscuro. Ciò che rende la plasticità della figura al meglio è la sinuosa linea di contorno. I colori vengono stesi in maniera densa: sono presenti soprattutto tre grandi campiture di giallo chiaro, rosso e blu. Ciò che trasmette l'opera è un senso di carnalità e serenità. Il discorso è valido anche per "Nudo sdraiato", dello stesso periodo, anch'esso presente in una collezione privata cinese.
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Dalla e Battisti, i due Lucio uguali solo nella nascita....
Difficile trovare due così grandi e così distanti: tanto il Lucio bolognese era estroverso, teatrale, dentro le cose, così il Lucio reatino era spinoso, diffidente, chiuso. Ma che artisti! E che canzoni...
Si sono celebrati gli ottant'anni potenziali dei due Lucio, Battisti e Dalla, potenziali perché se ne sono andati entrambi da gran tempo. Troppo tempo, come per quelli che ti invadono la vita, te la incidono. Coetanei nel giro di una manciata di ore, il che dimostra come l'oroscopo sia un bel gioco e niente più: due persone, due artisti più diversi sarebbe impossibile trovarli. Battisti, il burino reatino, spinoso, orgoglioso, allergico alla gente, “Lei dice che sono Battisti, eh già, me lo dicono tutti, mi spiace”, retrattile al sistema, allo stesso successo, “Tu credi che se volessi tornare a fare un disco da un milione di copie non saprei come si fa?”, ed è già nella fase finale, dei dischi bianchi, criptici---
Dalla, il bolognese, “e i bolognesi sono dei bonari figli di puttana” osservava Giorgio Bocca in una memorabile intervista per l'Espresso, Dalla che della gente ha bisogno, per giocare, per perdersi nel centro di Bologna, lui eterno bambino e non è un modo di dire, lui era di quelli depressi dentro che combattono l'ombra del vivere con continui scherzi e bugie mentre l'altro non aveva tempo per sofismi esistenziali, tutt'altro che superficiale, anzi, semplicemente bastava a se stesso. Dritto aperto logico, ma di una logica che puntava all'emozione, capace di melodie insuperabili: tra gli ammiratori, David Bowie e Paul Mc Cartney, tanto per dirne due. Ma è troppo pigro per provare davvero a sfondare all'estero.
Accomunati dal destino dello stesso nome – “Lucio” – e dalla nascita a un solo giorno di distanza – 4 marzo 1943 Lucio Dalla, 5 marzo 1943 Lucio Battisti – i due cantautori sembrano in realtà avere carriere e vite piuttosto distinte. Non hanno mai collaborato tra loro, intanto. Per lunghi anni hanno inciso per etichette rivali (RCA Dalla, Ricordi Battisti) e non ci è dato sapere se si conoscessero o stimassero (di Dalla, generoso nel rilasciare interviste, sappiamo che apprezzava i dischi del Battisti più sperimentale.
Due musicisti che hanno rinnovato profondamente la canzone italiana, influenzando inevitabilmente tutti coloro che sono venuti dopo. Battisti lo ha fatto in modo più personale, scegliendo di non apparire sulle scene per diversi anni, evitando i concerti e formando con Mogol (autore dei testi di gran parte delle sue canzoni) un sodalizio che resterà nella storia della musica italiana; Dalla, autore estroso capace di scrivere testi eccezionali, è stato meno solitario duettando con i più grandi artisti di fama nazionale e internazionale e addentrandosi con curiosità ed eclettismo nei più diversi generi musicali.
Separati da una notte di 80 anni fa, quella che intercorre fra il 4 marzo 1943, data di nascita di Lucio Dalla, e il 5 marzo dello stesso anno, giorno in cui nacque Lucio Battisti: a unirli, oltre al nome di battesimo che richiama la luce, l'identico destino artistico di cantautori, assegnati di diritto all'Olimpo della musica leggera italiana di qualità. Uniti ma mai vicini, mai una esibizione insieme sul palco e neanche in uno studio discografico di registrazione.
Del resto, le melodie e i testi delle loro canzoni - nel caso di Battisti da riferire in gran parte a Mogol, nel caso di Dalla prima al duo Bardotti-Baldazzi, poi al rapporto con il poeta Roberto Roversi - non erano assimilabili: uno, il sabino, più 'intimista' e romantico; l'altro, il bolognese, più proiettato nella società che ci circonda. Il mare valga da esempio generale.
Nella 'Canzone del Sole', Battisti canta: "Ma ti ricordi l'acqua verde e noi? Le rocce, bianco il fondo... Di che colore sono gli occhi tuoi? Se me lo chiedi non rispondo. O mare nero, o mare nero, tu eri chiaro e trasparente come me". Mentre in 'Com'è profondo il mare', Dalla intona: "E' chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce e come pesce è difficile da bloccare perché lo protegge il mare. Com'è profondo il mare! Il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così, stanno bruciando il mare, stanno uccidendo il mare, stanno umiliando il mare, stanno piegando il mare".
Gli interrogativi di Battisti - "Come può uno scoglio arginare il mare?" - sono invece più 'filosofici' di quelli più 'prosaici' di Dalla (testo condiviso in questo caso con Francesco De Gregori) - "Ma come fanno i marinai a fare a meno della gente e a rimanere veri uomini, però?" - e mentre per la fine di un amore in 'Fiori rosa, fiori di pesco' Battisti confessa: "Credevo di volare e non volo, credevo che l'azzurro di due occhi per me fosse sempre cielo: non è!", Dalla al contrario canta "Così come una farfalla ti sei alzata per scappare, ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare, se non fossi uscito fuori per provare anch'io a volare".
Grandi numeri per entrambi: Lucio Battisti ha inciso 17 album tra il 1969 e il 1994; Lucio Dalla in studio ne ha registrati 22 tra il 1966 e il 2009. Impossibile abbozzare un censimento completo dei loro brani di successo, c'è sempre il rischio di perdersi per strada qualche pietra miliare.
E se poi il primo vanta storici duetti televisivi con Mina, il secondo altrettanto storici concerti con De Gregori e con Morandi. Foulard al collo per Battisti, baschetto di lana per Dalla come note iconografiche, da associare alle note musicali di brani che per tantissimi italiani, dall'adolescenza con le chitarre e i falò in spiaggia alla maturità e oltre, hanno fatto da colonna sonora alla propria vita.
In comune qualcosa ce l'avevano però. Quel fondersi nella musica, quel vivere di musica che hanno pochi, rari artisti. Dalla nasce dalle cantine, dal jazz e dalla Bologna militante, i primi tentativi puntualmente fraintesi, snobbati e lui ci mette del suo, non sa adeguarsi, può passare delle mezze giornate nell'ascensore della Rai con un'arancia in testa, uno gnomo bonario, figlio di puttana e preoccupante, finché trova la chiave ed esce, ha bisogno di chi mette le parole sulle sue composizioni e lo trova in due poeti impegnati, prima Paola Pallottino, poi Roberto Roversi che è di quelli impegnati a tempo pieno e vuole stare in mezzo alle cose che succedono, è un narciso. Anche Lucio è un narciso, ma di grana diversa: vede, capisce che nel '77 tutto si rimescola, i compagni che si mettono a fare i borghesi, i borghesi che tirano su il pugno, e in mezzo il gran casino della sovversione giovanile e allora sparisce, si chiude in casa e si sfilaccia anche il rapporto con Roversi: pare la fine, è invece la sua fortuna perché decide di fare tutto da solo, anche le liriche e nascono gli album epocali, eponimi: “Lucio Dalla”, poi “Dalla”, e quelle canzoni che non vanno più via. Anche se di episodi fondamentali ne aveva già avuti, “E non andar più via”, “Quale allegria”, perfino, qui il folletto malizioso si scatena, il Disperato erotico stomp dove si racconta alle prese con l'autoerotismo, “e gliela fanno cantare anche alla Festa dell'Unità” annota Bocca, non si sa se più esterrefatto o ammirato.
Battisti è il contrario. Costruisce la sua ascesa con metodica spietata determinazione, il paroliere Mogol, che è già un padrone del business musicale, lo incontra, lo ascolta e gli dice: non mi sembri granché. Sono d'accordo, risponde Lucio e raddoppia gli sforzi. Quando parte con “Dolce di giorno”, “Per una lira”, ha già le idee chiare, quando porta a Sanremo “Un'avventura”, prima ed unica concessione al Festival; la svolta psicologica è arrivata al Cantagiro del '68 con “Balla Linda”: scende da palco e a Maurizio Vandelli dell'Equipe 84 dice: “A Maurì, ho capito che so' er mejo, nun me ferma più nessuno”. Ha ragione. Arriva “29 settembre”, affidata proprio alla Equipe, arrivano le “Acqua Azzurra, Acqua Chiara”, le “Dieci Ragazze”, “Mi ritorni in mente” ma il meglio è da venire ed è un meglio imparagonabile, che non patisce confronti. “Emozioni”, incisa in una volta sola, “Il tempo di morire”, mettici tutte quelle che vuoi, fino a quell'accoppiata pazzesca nel 1972, “Umanamente uno: il sogno” e “Il mio canto libero”, e poi l'Anima Latina che due anni dopo ridefinisce il concetto di progressive, uno degli album più belli e più sofisticati di sempre e per sempre. Anche lui non si adegua, ma per scelta, non per genetica. Nati all'inizio di marzo, corrono strade parallele e le disseminano di piccoli enormi capolavori popolari: non è esagerato dire che senza questi due l'Italia sarebbe stata diversa e meno Italia.
Dalla sta in mezzo al suo tempo, è un cantautore, è di sinistra ma coglie il senso del grottesco della politica e del tragico della vita, da correggere con l'ironia: siete dèi, fate il cazzo che volete, ma io resto divino anche in un bacio, anche in un amico “che c'ha una mira che con un sasso ti stacca la coda di un cane se lo tira”; Battisti è talmente fuori dalla politica che gli danno del fascista, a lui che al massimo scrive tenerissime lettere a Marco Pannella: ma un giorno, dice la leggenda, scoperchiano un covo delle Brigate Rosse e dentro ci sono tutti i suoi dischi, anche quei terroristi, quei guerriglieri sempre rintanati, sempre con la pistola per ammazzare ogni tanto tirano il fiato, si ricordano di essere umani, si affidano alla quotidianità ammiccante di Battisti e di Mogol, a quelle canzoni che sono più che canzoni, sono documenti di coscienza collettiva e sono colonne sonore delle giornate di ciascuno.
Ma finisce lì. Dalla si lascia fruire, e ne gode, Battisti non si cura di chi lo fruisce: a un certo punto molla anche Milano che è una fucina inesauribile di suggestioni, via da Largo Rio de Janeiro che sta sul limitare di Città Studi e si rintana al Dosso, nella Brianza Velenosa da cui non uscirà più. Dalla piglia la patente nautica e gira il mare a bordo del suo catamarano chiamato “Catarro”, dove ha messo su un piccolo attrezzato studio di registrazione. Roba impensabile per Battisti che d'altra parte a 40 anni scopre la vela, scopre il Windsurf e ci fa una canzone. Lucio di Bologna a un certo punto patisce anche, un po', il tempo che cambia tutto, cambia i gusti, gli eroi, scarica in Italia la pletora dei nuovi romantici inglesi, e allora prima escogita quel pezzo di romanza popolare che è “Caruso”, ruffiana sontuosa, poi si dà allo sperimentalismo come per tirarsi fuori dai giochi; Lucio di Poggio Bustone se ne frega anche della temperie, finito il lungo periodo con Mogol prima fa un disco per conto suo, poi aspetta 4 anni e nel 1986 se ne torna con “Don Giovanni che è una sorta di classicismo sintetizzato. Da lì, più che assorbire le nuove tendenze, il synth pop, la new wave, immagina un mondo tutto suo, elettronico e ricamato dalle sciarade di Pasquale Panella: un altro modo per uscire dall'intronata routine del cantar leggero.
Potevano incontrarsi quei due, coetanei paralleli diversi? Dalla, che per queste cose ha una fissazione, ci prova, anche se i due non si prendono, gli propone un tour, “I Due Lucio”: l'altro neppure si scompone e recita la frase lapidaria che, tutti lo sanno, chiude ogni discorso: “Non si può fare”. Forse è meglio così: Dalla è un egolatrico aperto, invasivo, Battisti nel suo sottrarsi a livelli patologici tradisce un'altra sorta di egocentrismo e si sa che due narcisi che si considerano i migliori, gli inarrivabili, insieme non ci possono stare. Tanto hanno fatto abbastanza per restarci dentro a vita e oltre la vita. Battisti se ne va 25 anni fa dopo lunga e segreta malattia, Dalla giusto dieci in modo proditorio, un colpo secco. Quando succede io mi trovo a casa di uno dei suoi amici più grandi, il compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra Piero Pintucci, quello che ha scritto cose come “Il carrozzone”, “La Tua Idea”, “Il Cielo” con Renato Zero. Non sappiamo ancora niente ma Piero è agitato, sente qualcosa; gli arrivano dei messaggi e si rifiuta di aprirli, teme la consapevolezza del dolore. Però quando siamo a tavola e parte il telegiornale, è impossibile sfuggire: Lucio Dalla è morto. Pintucci abbassa la testa sul piatto. Nessuno ha più voglia di mangiare. Più voglia di niente. Lui continua solo a mormorare: “No, Lucio, no...”. Poche volte io ho visto una sofferenza più viva, più disperata, poche volte ho capito come può mancare qualcuno che va via. Mandano un filmato d'epoca, c'è Dalla a Sanremo e lo sta accompagnando, con la chitarra, Pintucci. Lì io temo il crollo e invece l'angoscia si declina in dolcezza, si schiude nel sorriso e c'è dentro tutto, la vita nella morte. Quella io la ricordo come una delle giornate più difficili e più belle, senza mezzi termini, della mia vita. No, non sto parlando di “me e Lucio”, non c'è nessun me e Lucio, figuratevi, sto parlando dei due Lucio che ti restano dentro, anche morendo, che ti fanno bene anche ferendoti, che non smettono mai di starti nel sangue, nella fantasia, anche dopo la milionesima volta che li ascolti hai ancora un film da immaginare, un sogno da spremere, sei di nuovo ragazzo perso nella Milano caotica, pericolosa e stordente, e romantica, e suggestiva dove tutto sembra vivere solo per te.
Ancora oggi i due Lucio sono amatissimi anche dai più giovani, che li scoprono nelle playlist di giorno in giorno: dal 2019 – per fortuna – c’è anche Battisti, che fino ad allora non era presente nei cataloghi della musica digitale per volere della vedova. Negli anni Ottanta ci fu la fugace possibilità di un incontro sul palco, di un progetto assieme. L’idea fu di Dalla, che provò a coinvolgere Battisti con una proposta: «Lui non si esibiva in pubblico dai giorni dei concerti con i Formula Tre, roba dei primi anni Settanta, così pensai fosse venuto il momento di sottrarlo all’isolamento» raccontò in seguito. «Fu molto gentile. Accettò l’invito al ristorante e dopo aver parlato del passato gli esposi cosa mi frullava per la testa. Un grande show itinerante che si sarebbe chiamato “I due Lucio”». Ma il miracolo non si concretizzò mai: «Mi ascoltò con attenzione, per un attimo sperai di averlo convinto. Ma alla fine, con grande garbo, mi rispose che non era il caso: “Sai, ormai faccio cose diverse, mi piace sperimentare…”».
Se ne sono andati entrambi troppo presto, ma le loro canzoni acquisiscono col tempo sempre più valore
Vasco Rossi ricorda Lucio Battisti e Dalla: «Due giganti senza tempo. Mi sento discepolo ed erede» 23 FEBBRAIO 2023
Quella volta che Dalla e Morandi…
Poi Rossi ricorda quella volta che Lucio Dalla insieme a Gianni Morandi si presentò a casa sua per conoscerlo. «Aveva ascoltato “Vita spericolata” e aveva detto “come hanno fatto questi a scrivere una cosa così bella?”. Si riferiva a me e a Tullio Ferro». Di Dalla Vasco apprezza soprattutto «la sua voce. Anche lui è un genio assoluto. Mi fulminò al primo momento. Avevo 15 anni, ero in collegio, ci facevano vedere Sanremo. Apparve lui sul televisore con 4.3.1943. Fu quella volta lì. Al tempo Lucio faceva parte del giro dei cantanti, era stato quello il recinto degli anni Sessanta, fino a poco prima. La cosa incredibile è che sia riuscito a diventare un cantautore, dapprima facendosi aiutare dal poeta Roberto Roversi, in seguito azzardando da solo la scrittura di testi immensamente belli. Un caso unico, nella storia della musica italiana».
Cosa ci manca di Lucio+Lucio
Chiaro che le cose sono cambiate, e ormai San Siro o l’Olimpico lo riempiono anche i dilettanti, ma oggi ricordare Battisti e Dalla è un esercizio di maieutica, di memoria collettiva e di confessione religiosa. Da un lato perché occorre ogni tanto tirar fuori dai meandri nascosti della coscienza artistica del nostro Paese qualcosa che abbia un suo senso evidente e indiscutibile e non unicamente modaiolo. Dall’altro perché in questa “evidenza” scopriamo il non-detto: che abbiamo anche noi degli eroi e degli dei nel paradiso delle sette note. Dei da ricordare, da venerare, finanche da pregare. Cosa ci manca dunque di Lucio+Lucio?
i Battisti si potrebbe dire che manca l’incredibile vastità e qualità della scrittura musicale, la capacità di fare dello sporchissimo blues come in “Insieme a te sto bene” (Insieme a te sto bene, Fra le braccia tue, così, Adesso non parlare, Anch’io, sai, non ho avuto più di quel che ora tu mi dai) e dare subito dopo vestito orchestrale a “Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi” (quella di come può uno scoglio, arginare il mare…..). La magia della collaborazione con Mogol (fino a Una giornata uggiosa, 1980), paroliere perfetto, ad un certo punto (con il breve interludio dei testi della moglie con pseudonimo Velezia) lascia il campo agli equilibrismi letterali di Pasquale Panella: ed anche qui Battisti dimostra di poter musicare qualsiasi cosa, come si ascolta stupiti nell’immenso arrangiamento trovato per A portata di mano (E tutto il tempo è vicino, A portata di mano, Sul tavolino, sul ripiano, Su quanto ti è più caro). Non c’è musica oggi, e invece c’è musica ovunque, in Battisti. Questo ci manca. Come l’aria. Come il sole dopo un inverno cupo. Come un amore vero dopo storie sfigate. C’è grande musica in ogni canzone di Lucio Battisti: questo ce lo rende così importante.
A ricordare i due giganti della musica sono poi due persone che li conobbero bene: il teologo Vito Mancuso - intervistato da Emanuela Giampaoli - visse a casa di Dalla e parlarono di vita, morte, religione; Mogol racconta a Giandomenico Curi la sua lunga collaborazione con Battisti, interrotta bruscamente nel 1980: "L'ho voluto io".
Uno squarcio necessario
E cosa invece ci manca di Dalla? Inutile parlare della qualità delle sue storie (“4 marzo”: Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto, con l’unico vestito, ogni giorno più corto….) o della visionarietà dei suoi racconti (da “l’Ultima luna” a “Tutta la vita”, quella in cui Tutta la vita, Senza nemmeno un paragone, Fin dalla prima discoteca, Lasciando a casa il cuore o sulle scale, Siamo sicuri della musica? Sì, la musica, ma la musica). Anche con Dalla, come con Battisti, siamo di fronte ad una produzione artistica che fa impallidire per quantità, qualità, freschezza, originalità ed ampiezza. Il Lucio di “Caruso” (Potenza della lirica, Dove ogni dramma è un falso, Con un po’ di trucco e con la mimica, puoi diventare un altro) con i suoi brividi melodrammatici, è agli antipodi dello sberleffo onanistico di “Tragico Erotico Stomp” (Sono uscito dopo una settimana Non era tanto freddo, e normalmente, Ho incontrato una puttana, A parte i capelli, il vestito, La pelliccia e lo stivale, Aveva dei problemi anche seri, E non ragionava male). E ancora: l’acquarello metropolitano di “Piazza Grande” (Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me Gli innamorati in Piazza Grande, Dei loro guai, dei loro amori tutto so, sbagliati e no, A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io, A modo mio avrei bisogno di sognare anch’io) naviga su coordinate lontanissime da “Il motore del 2000” (con il testo del poeta Roberto Roversi), sguardo mistico sul futuro degli umani e delle loro meravigliose ed inutili prospettive cibernetiche (Noi sappiamo tutto del motore, Questo lucente motore del futuro, Ma non riusciamo a disegnare il cuore, Di quel giovane uomo del futuro, Non sappiamo niente del ragazzo, Fermo sull’uscio ad aspettare, Dentro a quel vento del 2000).
Ecco cosa ci manca di Dalla: della sua grandezza ci manca uno sguardo ed uno squarcio che erano solo suoi e che ci portavano le sue domande ed il suo senso del mistero. Ci manca il grande tutto che si apre immenso e sconosciuto in “Com’è profondo il mare”. Ci manca il cuore del ragazzo del Duemila appena citato, ignoto a noi che sappiamo tutto delle invenzioni futuribili. L’immensa risposta che c’è nella finestra che si apre sulla spiaggia e a cui si affaccia Maria, la donna sognata dall’ergastolano di “La casa in riva al mare”, un po’ Beatrice, un po’ Marilyn Monroe e un po’ Madonna. L’assurdità delle finte risposte di “Quale allegria” (Facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale). Ci manca il cocciuto e popolare coraggio di guardare avanti, che è la costante di tante canzoni perfette, da “Futura” ad “Anna e Marco”, da “L’anno che verrà” all’ “Ultima luna”. Quest’ultima, poi, è una storia che pare presa dai racconti horror di Ray Bradbury, e conclude nella speranza del bambino appena nato, l’unico che vide la luna finale, bimbo che Aveva occhi tondi e neri e fondi, E non piangeva, Con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani, E volò via e volò via, Era l’uomo di domani l’uomo di domani.
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JANE AUSTEN: UNA VITA
INFANZIA ED EDUCAZIONE
Jane Austen nacque nel 1775 e crebbe nel piccolo villaggio di Steventon, nell'Hampshire,
dove suo padre era un ecclesiastico della Chiesa d'Inghilterra. La famiglia Austen era numerosa, con otto figli – sei maschi e due femmine – oltre ad altri alunni, poiché il reverendo George Austen integrava il suo reddito d'ufficio accogliendo alunni maschi come convittori. C'era anche una piccola fattoria, per rifornire la famiglia di carne e verdure, e c'erano cameriere e servitori per aiutare nei lavori.
Lo Steventon di Jane Austen non è stato solo il luogo in cui è nata, ma è stato anche il luogo in cui ha vissuto quando la sua creatività è fiorita e ha scritto Orgoglio e pregiudizio, L'abbazia di Northanger e Ragione e sentimento. Steventon era un villaggio rurale con una piccola popolazione situato nel nord dell'Hampshire, in Inghilterra, situato a circa 7 miglia a sud-ovest di Basingstoke, tra i villaggi di Overton, Oakley e North Waltham. Jane visse lì dal 1775 al 1801, prima di trasferirsi a Bath con i suoi genitori. Jane Austen e Steventon erano legati non solo perché lei era nata lì, ma anche perché mentre viveva lì la sua creatività fiorì e scrisse Orgoglio e pregiudizio, L'abbazia di Northanger e Ragione e sentimento. Steventon era un villaggio rurale con una piccola popolazione situato nel nord dell'Hampshire, in Inghilterra, situato a circa 7 miglia a sud-ovest di Basingstoke, tra i villaggi di Overton, Oakley e North Waltham. Jane visse lì dal 1775 al 1801, prima di trasferirsi a Bath con i suoi genitori.
Albero genealogico della famiglia Austen
Il padre di Jane, George Austen, era rettore delle parrocchie anglicane di Steventon e della vicina Deane ed era sposato con Cassandra Leigh. Ottenne una residenza in chiesa e la canonica da un ricco parente, e Jane nacque nella casa canonica di Steventon il 16 dicembre 1775, quasi due anni prima della famosa mondana francese Madame Récamier. Jane Austen è venuta al mondo molto più tardi del previsto. Infatti, suo padre scrisse a sua sorella, Filadelfia, il 17 dicembre affermando:
«Senza dubbio da un po' di tempo in attesa di notizie dall'Hampshire, e forse vi siete chiesti un po'... perché Cassy si aspettava certamente di essere portata a letto un mese fa; Tuttavia, ieri sera è arrivato il momento e, senza molto preavviso, tutto è finito felicemente. Ora abbiamo un'altra bambina, un giocattolo per sua sorella [Cassandra] e una futura compagna".
Posizione di Steventon all'interno dell'Hampshire. Per gentile concessione di Wikipedia.
Foto di Jane Austen disegnata da sua sorella Cassandra. Per gentile concessione di Wikipedia.
All'età di sei anni, Jane e sua sorella maggiore Cassandra andarono a scuola, prima a Oxford e poi a Southampton, ma furono rapidamente riportate a casa quando una "febbre putrida" scoppiò in città ed entrambe le ragazze si ammalarono. Dal 1785 al 1786 frequentarono la Abbey House School di Reading, dove impararono a scrivere, ortografia, francese, storia, geografia, ricamo, disegno, musica e danza. In seguito, la loro educazione è stata intrapresa privatamente a casa. A causa di un inverno rigido, Jane si battezzò diversi mesi dopo la sua nascita. Accadde il 5 aprile in una chiesa locale quando ricevette il semplice nome di Jane Austen. Per quanto riguarda la predizione di George che le ragazze sarebbero state amiche, aveva ragione. Tra le due sorelle si sviluppò un'amicizia profonda e duratura che ebbe sempre un legame speciale l'una con l'altra.
Charles Austen. Per gentile concessione di Wikipedia.
Jane non fu l'ultima figlia della Austen nata a Steventon. Suo fratello minore Charles nacque lì nel giugno del 1799, con il risultato che i figli Austen si gonfiarono fino a otto anni e furono composti da 6 maschi - James, George, Edward, Henry, Francis (Frank) e Charles - e le due ragazze, Cassandra e Jane. Con una famiglia così numerosa, George aveva bisogno di aiuto per sbarcare il lunario e lui e sua moglie accolsero come studenti dei pensionanti, che vivevano in soffitta con i ragazzi Austen.
Il salotto della casa di Jane Austen
Giorgio insegnò anche a questi giovani pensionanti e ai suoi figli a leggere, scrivere, latino, greco e letteratura. Per quanto riguarda le ragazze, erano sotto la supervisione della madre e imparavano tutto ciò che riguardava la gestione di una casa: cucinare, pulire, rammendare, lavare e prendersi cura dei bambini. Infatti, a proposito delle faccende femminili di Jane, una volta scrisse:
"Mi piacciono molto le pulizie sperimentali, come avere una guancia di bue di tanto in tanto; Ne mangerò uno la settimana prossima, e intendo farci mettere dentro un po' di gnocchi, così potrò immaginarmi a Godmersham. [2]
La casa in cui Jane è cresciuta era piuttosto grande in quanto consisteva in 7 camere da letto, 3 salotti e 2 soffitte. Una descrizione della casa proviene dalla nipote di Jane, nata nel 1793 dal fratello maggiore di Jane, James. Il suo nome era Anna Lefroy:
"La sala da pranzo o salotto comune guardava verso la parte anteriore ed era illuminata da due finestre a battente. Sullo stesso lato la porta d'ingresso si apriva in un salotto più piccolo, e i visitatori, che erano pochi e rari, non erano meno graditi a mia nonna perché la trovavano seduta lì occupata con l'ago, a fare e a rammendare. In tempi successivi ... Al piano superiore si ricavava un salotto: "lo spogliatoio", come si compiacevano di chiamarlo, forse perché si apriva in una camera più piccola in cui dormivano le mie due zie. Ricordo il tappeto dall'aspetto comune con il suo fondo di cioccolato, e la pressa dipinta con sopra gli scaffali per i libri, e il pianoforte di Jane, e uno specchio ovale che pendeva tra le finestre; Ma il fascino della stanza, con i suoi scarsi mobili e le pareti dipinte a buon mercato, deve essere stato, per quelli abbastanza grandi da capirlo, il flusso di nativi con tutto il divertimento e le sciocchezze di una famiglia numerosa e intelligente. [3]
Un'altra descrizione afferma:
"Una distesa di ghiaia e un prato conducevano alla parte anteriore della casa, che si affacciava a nord e dava su Waltham Road... La casa stessa è stata migliorata da ... George e reso più grande e più confortevole. Aveva due ali sporgenti nella parte posteriore. Lo studio del Rettore era su questo lato sud e dal bow window c'era una piacevole vista sul giardino, su un ampio viale erboso, bordato di fragole, che conduceva a una meridiana ai piedi della terrazza. [4]
La canonica di Steventon, come raffigurata in "A Memoir of Jane Austen", si trovava in una valle ed era circondata da prati. Per gentile concessione di Wikipedia.
Anche se la vita a Steventon di Jane Austen era tranquilla, la scrittura di lettere e i pettegolezzi che si svolgevano nella zona spesso trovavano la loro strada nelle lettere di Jane Austen. Una lettera riguardava la famiglia Harwood, una famiglia in cui diverse generazioni avevano vissuto alla Deane House fin dal diciassettesimo secolo. La loro casa si trovava anche vicino alla vecchia canonica dove George e Cassandra vissero per i primi anni del loro matrimonio. John Harwood VI e sua moglie Anne ebbero tre figli: John VII, Earle e Charles, e, all'inizio di novembre del 1800, Jane menzionò uno degli Harwood in una lettera:
"Earle Harwood ha di nuovo messo a disagio la sua famiglia, e parla con il vicinato; – nel caso di specie, tuttavia, egli è solo sfortunato e non colpevole. – Una decina di giorni fa, armando una pistola nella stanza di guardia di Marcou, si è sparato accidentalmente alla coscia. Due giovani chirurghi scozzesi dell'isola furono così gentili da proporgli di togliergli subito la coscia, ma egli non volle acconsentire; E di conseguenza, nel suo stato ferito, fu messo a bordo di un Cutter e trasportato all'ospedale Haslar di Gosport; dove è stato estratto il proiettile, e dove si trova ora spero in un modo giusto di fare bene. Il chirurgo dell'ospedale scrisse alla famiglia in quell'occasione, e John Harwood scese da lui immediatamente assistito da James, il cui scopo nell'andare era quello di essere il mezzo per riportare le prime informazioni ai signori Harwood, le cui sofferenze ansiose, in particolare quelle di quest'ultimo, sono state naturalmente terribili. … James tornò il giorno dopo, portando resoconti così favorevoli da alleviare notevolmente l'angoscia della famiglia di Deane, anche se probabilmente ci vorrà molto tempo prima che la signora Harwood possa sentirsi del tutto tranquilla. [5]
Il fratello di Jane, Edward, alla fine ereditò la tenuta di Steventon e, nel 1828, sostituì la casa canonica che Jane aveva costruito con una nuova. Inoltre, nella tenuta c'era la Steventon Manor House, e, durante il periodo in cui Jane e la sua famiglia vivevano nella canonica, i Cavalieri, che erano signori del maniero, la affittarono a un nome di famiglia Digweed La famiglia Austen era amichevole con loro e Jane menzionò i Digweed nella sua corrispondenza. Ad esempio, una settimana prima di Natale del 1799, scrisse a Cassandra il 18 dicembre raccontandole di un terribile incidente che coinvolse un Digweed:
"James Digweed ha avuto un taglio molto brutto, come è potuto succedere? – Accadde a un giovane cavallo che aveva recentemente acquistato, e che stava cercando di riportare nella sua stalla; – l'Animale lo colpì con un calcio con le zampe anteriori, e gli fece un gran buco in testa; – si allontanò appena poteva, ma rimase stordito per un po' e soffrì una buona dose di dolore in seguito. – Ieri si è rialzato sul cavallo e, per paura di qualcosa di peggio, è stato costretto a buttarsi giù.
Giovedì 20 novembre 1800, Jane prese in giro sua sorella a proposito di James Digweed affermando:
"I tre Digweed sono venuti tutti martedì, e abbiamo giocato a biliardo al Commerce. – James Digweed ha lasciato l'Hampshire oggi. Penso che debba essere innamorato di te, per la sua ansia di vederti andare ai balli di Faversham, e anche per il fatto che suppone che i due olmi siano caduti dal loro grasso per la tua assenza. [7]
Oltre alle visite occasionali da e per i Digweeds, gli Austen amavano anche visitare altre persone che vivevano nella zona. Ad esempio, alla fine di ottobre del 1800, quando il tempo era "delizioso", Jane menzionò che lei e la sua famiglia visitarono molti dei loro vicini e condivisero le sue avventure in una lettera a Cassandra:
"Siamo stati molto occupati da quando te ne sei andato. … Giovedì siamo andati a piedi da Deane, ieri a Oakley Hall abbiamo fatto un ottimo affare: abbiamo mangiato dei panini con la senape, abbiamo ammirato il Porter di Mr. Bramston e i Trasparenze di Mrs. Bramston, e ci siamo guadagnati la promessa di quest'ultima di due radici di agio del cuore, una tutta gialla e l'altra tutta viola per voi. A Oakely comprammo dieci paia di calze pettinate e un turno. … Questa mattina siamo andati a trovare gli Harwood, e nella loro sala da pranzo abbiamo trovato Heathcote e Chute per sempre, Mrs. Wm Heathcote e Mrs. Chute, la prima delle quali ha fatto un lungo giro ieri mattina con Mrs. Harwood nel parco di Lord Carnarvon ed è svenuta la sera, e la seconda è scesa da Oakley a Steventon in seguito.
Silhouette di Cassandra. Per gentile concessione di Wikipedia.
le persone camminavano dentro e intorno allo Steventon di Jane Austen, e lo facevano ampiamente in quanto era il mezzo di trasporto più comune all'epoca. Jane e Cassandra passavano molte ore a camminare, e quando le strade erano sporche o fangose, non significava che rimanessero a casa. Un libro di memorie di Jane afferma che "le sorelle facevano lunghe passeggiate nei pattens". [9] Questi dispositivi venivano posizionati sopra le scarpe e sollevati sopra il terreno bagnato o fangoso, mantenendo così il fondo dei camici pulito e asciutto.
I balli erano un altro passatempo popolare per coloro che vivevano nella zona di Steventon di Jane Austen. Menzionò i balli dell'Assemblea a cui partecipò nella città mercato che si trovava a circa 9 miglia da Steventon chiamata Basingstoke. Quando partecipava a questi eventi, spesso soggiornava con le sue grandi amiche Catherine e Alethea Bigg che vivevano a Manydown Park, a circa sei miglia da Steventon. La casa dei Biggs era un antico maniero a Wootton St Lawrence, nell'Hampshire, e descritta come una bella casa "con un'ampia scala che conduceva al lungo salotto con il suo camino di marmo e la grande vetrata". [10]
Jane scrisse a Cassandra l'8 gennaio 1799 a proposito di un ballo a cui aveva partecipato:
"I Biggs e il signor Holder cenano lì domani e io li incontrerò; Dormirò lì. Catherine ha l'onore di dare il suo nome a un set, che sarà composto da due Withers, due Heathcote, un Blachford e nessun Bigg tranne se stessa. … Ho trascorso una serata molto piacevole, principalmente tra il gruppo di Manydown - . C'era lo stesso tipo di cena dell'anno scorso, e la stessa mancanza di sedie. – C'erano più ballerini di quanti la stanza potesse comodamente contenere, il che è sufficiente per costituire un buon ballo in qualsiasi momento. … C'era un gentiluomo, un ufficiale del Cheshire, un giovane di bell'aspetto, che mi era stato detto desiderava molto essere presentato a me; – ma poiché non lo voleva abbastanza da prendersi molta pena per eseguirlo, non potemmo mai realizzarlo. – Ho ballato di nuovo con Mr. John Wood, due volte con un Mr. South, un ragazzo di Winchester... Una delle mie azioni più allegre è stata quella di sedermi a ballare piuttosto che avere il figlio maggiore di Lord Bolton come mio partner, che ballava troppo male per essere sopportato". [11]
Oltre ai balli, la famiglia Austen amava anche esibirsi in spettacoli teatrali a Steventon e si diceva che si prendessero "grandi sforzi" per assicurarsi che fossero splendidamente drammatici. La figlia di Philadelphia e cugina di Jane, Eliza de Feuillide, scrisse di loro affermando:
"Il fienile di mio zio è allestito come un teatro e tutti i giovani devono fare la loro parte. La contessa è Lady Bob Lardoon nel primo caso e Miss Tittup nel secondo. Mi augurano molto della festa e si offrono di portarmi, ma io non ci penso. Mi piacerebbe essere uno spettatore, ma sono sicuro che avrei il coraggio di recitare una parte, né desidero ottenerla". [12]
Eliza menzionò di nuovo i teatri scrivendo nel novembre del 1787 quando scrisse a sua cugina, Phylly Walter:
"Sai che abbiamo a lungo progettato di recitare questo Natale nell'Hampshire e questo piano sarebbe andato avanti molto meglio se tu avessi prestato la tua assistenza Potresti ricordare quando eri a Tunbridge che ho espresso un desiderio molto sincero e molto naturale di averti con me durante il festival che si avvicinava, e quando ho scoperto che c'erano due parti non impegnate ho immediatamente pensato a te e sono stato particolarmente incaricato da mia zia Austen e da lei Tutta la famiglia per fare la prima domanda possibile e assicurarvi quanto sarete felici di loro e di me se poteste essere convinti a intraprendere queste parti e a darci tutta la vostra compagnia. … L'accondiscendenza mi obbligherà molto e il vostro rifiuto della mia proposta mi mortifica crudelmente. So che hai dei fidanzamenti, ma se mi ami rimandali ad un altro anno, considera che è l'unico Natale che possiamo passare insieme per molti anni... Per quanto riguarda qualsiasi diffidenza riguardo alla successione delle Parti, prego che possa essere inviata a Coventry, perché Ti assicuro che non sono né lunghe né difficili, e sono certo che Ti riuscirai. … Non lasciare che il tuo vestito né ti disturbi, poiché penso di poterlo gestire in modo che la Stanza Verde ti fornisca ciò che è necessario per agire. … Ricordati che devo avere una risposta favorevole". [13]
Un'altra attività sociale praticata durante il periodo di Steventon di Jane Austen era qualcosa che accadeva settimanalmente. Era quando la gente andava in chiesa la domenica. Nella città di Londra molte persone saltavano la chiesa, ma per coloro che vivevano in campagna la frequenza era più regolare e Jane era nota per andare in chiesa due volte ogni domenica per ascoltare la predicazione di suo padre.
George si rivolse alla sua congregazione in una piccola chiesa parrocchiale conosciuta come St. Nicholas che si trovava a circa mezzo miglio di distanza dal centro di Steventon e raggiungibile dalla canonica della Austen da un sentiero sassoso. Risaliva al XII secolo ed era un edificio semplice e stretto che durante l'epoca vittoriana fu restaurato e con l'aggiunta di un campanile. La chiesa è stata descritta come dotata di una "certa dignità". Più tardi, le due Cassandre (la signora Austen e la sorella di Jane) furono sepolte dietro questa chiesa.
Chiesa di San Nicola. Per gentile concessione di Wikipedia.
Mentre la loro istruzione formale era scarsa, le ragazze avevano accesso illimitato alla vasta biblioteca del padre; i suoi libri hanno instillato l'amore di Jane per la lettura che durerà tutta la vita.
Quando il padre di Jane andò in pensione, la famiglia si trasferì a Bath, ma ciò non significava che lei non visitasse occasionalmente Steventon poiché ha sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Quando morì, anche se non c'era alcuna menzione dei suoi libri sulla lastra tombale del pavimento della Cattedrale di Winchester dove fu sepolta, c'era una menzione di Steventon. L'iscrizione recita in parte:
"In memoria di Jane Austen, figlia minore del defunto Rev.do GEORGE AUSTEN, già Rettore di Steventon in questa Contea, ha lasciato questa vita il 18esimo del luglio 1817, all'età di 41 anni, dopo una lunga malattia sostenuta con la pazienza e le speranze di un cristiano". [14]
NOTIZIE STORICHE DAL WEB
Prima edizione di Orgoglio e pregiudizio ©: la casa di Jane Austen
Prima edizione di A Memoir of Jane Austen, di James Edward Austen-Leigh ©Jane Austen's House
Referenze:
[1] W. Austen-Leigh e R. A. Austen-Leigh, Jane Austen: Her Life and Letters: a Family Record (New York: Smith, Elder & Company, 1913), p. 22.
[2] E. Austen-Leigh, Janes Austen and Steventon: A Guide Book Illustrated (Londra: Spottiswoode, Ballantyne and Co. Ltd., 1937), p. 47.
[3] Ivi, p. 3.
[4] Ivi, p. 2.
[5] Deirdre Le Faye, ed., Jane Austen's Letters, 3a ed. (Oxford: Oxford University Press, 1995), p. 55.
[6] Ivi, p. 27.
[7] Ivi, p. 62.
[8] Ivi, p. 49-50.
[9] James Edward Austen-Leigh, A Memoir of Jane Austen (Londra: Richard Bentley and Son London, 1871), p. 38.
[10] E. Austen-Leigh, p. 17-18.
[11] D. Le Faye, ed., p. 34-35.
[12] Le Faye Deirdre, ed., Jane Austen's 'Outlandish Cousin': The Life and Letters of Eliza de Feuillilde (Londra: The British Library, 2002), p. 80-81.
[13] Ivi, p. 81-82.
[14] E. Austen-Leigh, p. 48.
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AFORISMI ED ALTRO...
"L'intelligenza negli occhi di una donna
è più seducente di qualsiasi altra parte
del corpo, per quanto scoperta sia.
Nessuna donna senza cervello
potrebbe essere provocante"!
"Howard Jacobson
Ci hanno tolto la magia
di una foto,
la poesia di una lettera,
la calligrafia,
l'odore di un libro,
il ritaglio di un giornale,
il "ci vediamo alle otto
in piazza",
il negozietto di alimentari
sotto casa,
le infinite chiacchierate
in una cabina,
i baci su una panchina,
la paura che rispondesse
il padre al telefono fisso,
il diario segreto,
il pallone nel cortile,
l'attesa del rewind,
la dedica alla radio,
l'impaccio nel ballare
un lento,
i giochi di società,
la comunicazione .
Quando la tecnologia avrà
seppellito anche l'ultimo
sussulto relazionale,
avrete completato l'opera
inarrestabile di
desertificazione emotiva,
perché allora, e solo allora,
ci avrete reso animali urbani,
sempre più vicini, eppur
così lontani !!
WEB
Vieni, ti presto le mie scarpe,
per farti immergere un po'
nelle stesse acque in cui mi sono trovata.
Vieni, ti presto le mie scarpe,
in modo che tu percorra il sentiero della mia vita
e forse tu possa capire.
Vieni, ti presto le mie scarpe,
vivi ciò che ho vissuto,
e dimmi se ti dà ancora fastidio il mio cammino.
Vieni, mettiti le mie scarpe,
sentiti come mi sono sentita,
e poi dimmi se hai ancora voglia di giudicare.
Conosci solo una parte della storia
e giudichi solo quello che vedi
Vuoi sapere tutta la situazione?
Vieni, mettiti le mie scarpe.
percorri il mio cammino
e poi dimmi se ti fanno male i piedi.
Cit.
Il più grande codardo è un uomo che risveglia l’amore di una donna, senza alcuna intenzione di amarla.
Bob Marley
Il dolore ti rompe in mille pezzi e ti ricompone a suo piacimento,
rendendoti una persona totalmente diversa da quella che eri.
(Amy Winehouse)
Le parole vanno ascoltate,i silenzi vanno rispettati, le emozioni vanno vissute.
H. Hesse
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rubrica settimanale
Chissà per quanti anni ancora sarebbe durato "Portobello", se la più vigliacca delle ingiustizie non avesse ucciso il suo "papà" Enzo Tortora! Quel grande sogno continuò in parte a vivere in tutte le trasmissioni che ne avrebbero poi copiato e saccheggiato le idee: ma la cosa consola ben poco davanti a tanta assurda malvagità. Il "Big Ben" disse basta per sempre: e fu un dolore. Per tutti!
Il successo di una trasmissione come Portobello è indissolubilmente legato al nome del suo creatore Enzo Tortora. Il presentatore nonché autore televisivo fu allontanato per diversi anni dalla Rai per un’intervista critica nei confronti dei suoi vertici.
Anni dopo, ispirato dagli annunci pubblicati sul settimanale La domenica del Corriere ebbe l’idea di un programma basato sulla dinamica della vendita e acquisto. Assieme alla sorella Anna, con l’autrice e collaboratrice Gigliola Barbieri e il pubblicitario Angelo Citterio propose il progetto all’allora direttore della Rete 2, Massimo Fichera che ne rimase affascinato.
Chi era Portobello, il pappagallo del programma omonimo condotto da Enzo Tortora. Solo Paola Borboni, nell''82, riuscì a farlo parlare. Ma in casa era alquanto diverso.Sono passati trent’anni dalla fine del programma, andato in onda su Rai 2 dal ’77 all”83 (prima serie) e dall”87 all”88 (seconda serie). Portobello, il pappagallo, se n’è andato qualche anno dopo il suo proprietario, nel 1995. Aveva ben 45 anni: per l’ultimo periodo ha vissuto in via Niccolini a Milano, nello stesso negozio di animali dove era stato allevato. Là Tortora lo notò verso la metà degli anni Settanta. Era un Amazzone a fronte gialla, importato in Italia dal Brasile. Per un breve periodo, poco prima del debutto, Tortora lo ospitò a casa sua. “Diceva parolacce e dovemmo sistemarlo in bagno, dove poteva sporcare liberamente”, ricorda la figlia Silvia a Vanity Fair. In tv però se ne stava muto: in ogni puntata di Portobello, vip e nip tentavano l’impossibile in 30 secondi. Dopo infiniti tentativi, il 1° gennaio dell”82, Paola Borboni riuscì nell’impresa di farlo parlare.
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SANTE E PECCATRICI, NOBILI E PLEBEE, DAME E CORTIGIANE: LE DONNE DI CARAVAGGIO
(A sinistra) Caravaggio, Madonna di Loreto, Roma, Basilica di Sant'Agostino. (Al centro) Riposo durante la Fuga in Egitto, Roma, Galleria Doria Pamphilj. (A destra) Giuditta che taglia la testa a Oloferne, Roma, Gallerie Nazionali d'Arte Antica di Roma, Palazzo Barberini
GIANNI PITTIGLIO
15/12/2017
Alle donne di Caravaggio sono stati dedicati studi, libri e romanzi. Non finisce di stupire il fatto che l’artista – per ritrarre le sue Vergini e le sue sante - abbia impiegato come modelle alcune cortigiane note nella Roma a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Una scelta che già a quel tempo aveva destato non poco scandalo, e più di un rifiuto da parte dei committenti di lavori già portati a termine dall’artista.Era una pittura realistica quella di Michelangelo Merisi , improntata alla resa del “vero”, e questo spiega il necessario ricorso alle modelle.Di alcune di loro conosciamo i nomi, che compaiono nei documenti dell’epoca e nelle biografie del pittore. Alcune erano donne che i bandi papali escludevano dalla vita sociale o confinavano in alcuni quartieri, e comparivano sugli altari delle più importanti chiese della città prestando il volto alla Vergine nel Riposo dalla fuga in Egitto, alla Madonna dei Pellegrini, alla Giuditta che uccide Oloferne . Una scelta provocatoria che doveva risultare assai intollerabile per gran parte della gerarchia ecclesiastica romana, di una Roma controriformata peraltro.
La letteratura sul tema è vasta. A tutte le “Donne di Caravaggio ” è stato dedicato l'omonimo volume di Francesca Santucci, in cui trovano spazio anche quelle ancora non rintracciate nei dipinti, ma citate dalle fonti, come ad esempio Monica Calvi detta Menicuccia, che frequentava personaggi d'altro lignaggio come il cardinale d'Este.Il romanzo “Lena, che è donna di Caravaggio ” di Alessandra Masu, invece, ruota tutto intorno alla figura di Maddalena Antognetti e alla vita nel rione Campo Marzio, tra taverne, osterie e odore di pittura.
Ma tre donne in particolare furono molto vicine a Caravaggio e attraverso l’analisi delle loro apparizioni nei dipinti è possibile collocarle in ordine cronologico all’interno della biografia del pittore.
Michelangelo Merisi, Riposo durante la Fuga in Egitto, 1597, olio su tela, 135,5 x 166,5 cm. Roma, Galleria Doria Pamphilj
ANNUCCIA «DAI CAPELLI LUNGHI E ROSCI»
La prima è Anna Bianchini, immortalata in alcuni dei primi quadri religiosi realizzati a Roma, ma anche in uno dei più celebri dell'ultimo periodo prima della fuga. La donna, infatti, è la Maddalena penitente, la Maria del Riposo dalla fuga in Egitto, entrambi alla Galleria Doria Pamphilj, la Marta di Marta e Maddalena, oggi a Detroit (Institute of Arts), realizzati nella seconda metà degli anni '90, ma compare anche come protagonista della Morte della Vergineoggi al Louvre (1604 ca.).In tutte le tele Annuccia mostra il suo carattere più identitario, la chioma fulva che le valse il soprannome di Anna la Rossa, a cui si riferisce Bellori che la descrive «dai capelli lunghi e rosci», nonché un rapporto di polizia che riporta «più presto piccola che grande e dai capelli rosci et lunghi». Figlia di una prostituta senese e prostituta anche lei, viene citata dalle cronache del tempo come “frequentatrice di pittori”, una ragazza impetuosa e attaccabrighe. A tal proposito, un episodio da osteria la ricorda reagire a un «ecco qua Anna bel culo che ha» con un perentorio «forse tu hai il bel culo che io non ci attendo»; quando alcuni «volevano entrare dentro e me volevano toccare il culo», lei li aggredì con un coltello e uno di questi la definì «frustata», riferimento alle processioni sul dorso di un asino che Clemente VIII Aldobrandini (1598-1605) riservò alle prostitute come monito di morale pubblica. Indubbiamente la raffigurazione in cui la donna destò più scandalo fu quella nella Morte della Vergine commissionata per la chiesa di Santa Maria della Scala, poi rifiutata e acquistata dai Gonzaga grazie alla segnalazione di Rubens. Ancora oggi resta il dubbio se fu l’interesse dei signori di Mantova la reale causa del rifiuto del dipinto oppure la raffigurazione di una Madonna gonfia, per la quale la tradizione vuole che Caravaggio ritrasse una donna affogata nel Tevere, e in cui forse è possibile riconoscere proprio Anna Bianchini, che morì venticinquenne nel 1604, anno di esecuzione della tela.
LA SENESE FILLIDE MELANDRONI Tornando invece al dipinto di Detroit, la Maddalena convertita dalla sorella, ritratta mentre regge lo specchio, tradizionale simbolo di vanità, è impersonata da Fillide Melandroni, altra prostituta molto nota al tempo, amica della stessa Anna Bianchini e, come lei, proveniente da Siena. La ragazza compare, in un arco di tempo che va dal 1597 al 1602, anche nei panni della Santa Caterina oggi a Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza), in quelli dell'eroina biblica in Giuditta e Oloferne (Roma, Palazzo Barberini), e in due tele purtroppo scomparse: il ritratto che Caravaggio aveva dedicato alla donna e che venne distrutto a Berlino durante la Seconda guerra mondiale (stessa sorte che spettò alla prima versione del San Matteo e l’angelo della Cappella Contarelli) e nella Natività con i santi Francesco e Lorenzo dell’oratorio di San Lorenzo di Palermo, da dove venne trafugata nell’ottobre del 1969 e mai più trovata. Fillide abitava in via Condotti, dove spesso organizzava feste a cui partecipavano invitati non sempre raccomandabili. Tra i suoi amici c’era anche Ranuccio Tomassoni, l’uomo che verrà ucciso nel 1606 dallo stesso Caravaggio dopo una lite durante una partita di pallacorda, l’omicidio che costringerà il pittore alla fuga da Roma e a quel peregrinare in attesa della grazia di Paolo V Borghese, che arriverà troppo tardi. Anche Fillide fu spinta a lasciare Roma qualche anno più tardi, nel 1612, dalla famiglia del suo amante, l’avvocato apostolico Giulio Strozzi. Morì a trentasette anni nel 1618 e le fu negata una sepoltura cristiana non essendo “in ordine” con la Chiesa.
Michelangelo Merisi, Madonna di Loreto (Madonna dei Pellegrini), 1604-1605, olio su tela, 260 x 150 cm. Roma, Basilica di Sant'Agostino, cappella Cavalletti
MADDALENA ANTOGNETTI, LA DONNA DI MICHELANGELO
La terza donna protagonista delle tele caravaggesche è Maddalena Antognetti, detta Lena, “interprete” della Vergine sia nella Madonna dei Pellegrini di Sant’Agostino che nella Madonna dei Palafrenieri della Galleria Borghese, nonché della Maddalena in estasi in collezione privata a Roma (e di cui ne esistono otto versioni copiate in quegli anni). Il primo dei tre dipinti, oltre per i celebri piedi sporchi dei pellegrini, venne criticato per l’eccessiva avvenenza della Vergine, inopportuna dopo i dettami controriformistici, tanto da far parlare Baglione di “lascivia dalla sfacciata bellezza”. Anche Lena era una prostituta e da giovanissima era stata l’amante del cardinal Montalto, il potente Alessandro Damasceni Peretti, nipote di papa Sisto V (1585-90). Nel 1602 la nascita di un figlio le chiuse le porte della clientela ecclesiastica e, dal 1604 al 1606, epoca a cui risalgono i dipinti in cui compare, fu molto vicina a Caravaggio, tanto da essere chiamata in alcune cronache la “donna di Michelangelo”. Morì ventottenne nel 1610.
Per dare mostra della propria capacità, Michelangelo Merisi quindi prese a modello, per primo, se stesso: la sua prima opera nota è, non a caso, il cosiddetto Bacchino malato (galleria Borghese), nel quale il Caravaggio si ritrae probabilmente uscito da poco dal nosocomio nel quale era stato ricoverato anche per i concreti stenti dei suoi primi anni a Roma.E non solo dipingeva se stesso, ma anche suoi "colleghi" che con lui condividevano stenti e vita "da artista", come per esempio il siracusano Mario Minniti, ritratto nel giovinetto con canestra di frutta (galleria Borghese)
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L'ISOLA CHE NON C' E'
Da oltre un secolo una piccola figura si aggira nel Mondo dell’immaginario umano, in particolare –ma non solo – quello infantile: Peter Pan, uno dei personaggi della letteratura più famosi al mondo. Peter vola e si rifiuta di crescere, trascorre un’avventurosa infanzia senza fine sull’Isola-che-non-c’è, come capo di una banda di Bambini Sperduti, in compagnia di Sirene, Indiani,Fate e Pirati; occasionalmente incontra persone nel mondo reale, da dove egli stesso proviene, avendo vissuto i primi Tempi della sua eterna infanzia nei Giardini di Kensington.
Pochi conoscono il nome dell’autore, ma quasi tutti conoscono la sua opera: James Matthew Barrie (1860-1937), scrive una delle più famose storie per bambini: Peter Pan. Nato a Kirriemuir, nelle Lowlands scozzesi (terre ricche di miti, tradizioni secolari, leggende di origine celtica), il 9 maggio 1860, nono di dieci figli, Jamie, così chiamato in famiglia, ha un rapporto molto stretto con sua madre, che, appassionata di Stevenson, gli racconta storie di pirati. Frequenta la scuola e si laurea poi per diventare giornalista con degli scritti per lo più umoristici. Nel 1888 raggiunge una discreta fama con ironici affreschi della vita quotidiana scozzese. La critica elogia la sua originalità ma in seguito scriverà principalmente per il teatro. Nel 1894 sposa Mary Ansell. Nel 1903 il nome di Peter Pan appare per la prima volta nel romanzo "The Little White Bird". Nel 1904 Peter Pan diviene testo teatrale, mentre nel 1911 appare la versione definitiva del romanzo "Peter and Wendy". James Barrie acquisì poi il titolo di Sir e nel 1922 ricevette l'Ordine di Merito. Venne poi eletto rettore della "St. Andrew's University" e nel 1930 "Cancelliere dell'Università di Edimburgo".
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HAIKU
Ritaglio stellE
./Nel cielo anche la tua.
/Risplende nella notte SIMO 2000
Astri colorati.
/Sentore dell'autunno./
La tua stagione. SIMO 2000 Il mare ci accolse
. /Ricordo di un tempo.
/ Vacanza serena. SIMO 2000 Ottobre assolato.
/Le foglie ingialliscono./
Anche noi su quel ramo. SIMO 2000 Mano nella mano
/attraversammo il giardino
./Nacquero fiori. SIMO 2000
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Ostia Antica.....giornate assolate invitano
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L'isola di Arturo
Lo specchio deformante dell’infanzia riversa nello sguardo di un figlio l’immagine di un padre perfetto: alto, biondo, brillante, un guerriero senza paura che un giorno tornerà e lo porterà via dalla sua solitudine. Arturo è un ragazzo di 15 anni nato e cresciuto a Procida, isola dalla quale non è mai uscito. La madre è morta e il padre Wilhelm vive a Napoli e si fa vedere solo raramente, ma ogni volta che torna per Arturo è una gioia grandissima. In uno dei suoi ritorni il padre si presenta con Nunziata, appena sposata a Napoli, che ha solo due anni più di Arturo e aspetta un bambino. Inizialmente arrabbiato con la matrigna per avergli portato via un padre già assente, imparerà a conoscerla trasformando il suo sentimento in qualcosa che non conosceva.Scoprirà anche che il padre ha uno strano legame con un ex detenuto, che una volta scarcerato sarà ospite nella loro grande casa, fino a quando un evento inaspettato sconvolgerà l’ordine già precario delle cose. Da questo momento Nunziata cercherà di ritrovare il suo uomo, mentre Arturo lascerà per la prima volta la sua isola per andare alla scoperta di ciò che si trova al di là del mare, lo stesso mare che non aveva mai attraversato perché la sua unica certezza era quella che suo padre, prima o poi, sarebbe tornato a Procida.
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LE OTTO MONTAGNE DI PAOLO COGNETTI...DAL ROMANZO AL FILM
IL ROMANZO "Le otto montagne” di Paolo Cognetti vincitore Premio Strega nel 2017
Questa storia Paolo Cognetti l’ha sempre avuta dentro di sé, qualcosa che è cresciuto con lui e che lo ha accompagnato anche nel corso delle sue precedenti pubblicazioni. Ricordiamo Il ragazzo selvatico - Quaderno di montagna in cui i temi della solitudine sui monti, della vita lontano dalla città e della libertà come scelta consapevole e a volte dolorosa diventano un meraviglioso inno alla natura e alle sue incredibili bellezze---
Cognetti sapeva di voler scrivere una storia su un padre e un figlio e su un’amicizia tra uomini oltre che una storia al profumo di larici e abeti, con torrenti, colorata dalle nevi perenni e sincera come la vita.Un poetico universo di aspettative disilluse nei vecchi e nei giovani, in chi resta e in chi va per ritornare. Un padre pieno di rancore che ama i suoi monti in maniera assoluta, un uomo che cerca di trasmettere al figlio lo stesso amore, la stessa passione per il gusto della salita, la frenesia della vetta e un figlio che di quella dedizione non sa che farsene. Pietro è un solitario e capisce suo padre sempre meno, lo segue di malavoglia, ha altri interessi, legge Mark Twain e Hemingway, percepisce un’attrazione particolare verso quei luoghi che lo calamitano e spesso lo respingono. L’incontro con Bruno giunge provvidenziale per spezzare quella specie di primaria avversione verso la montagna, con Bruno Pietro scopre le arrampicate, e negli inverni più duri anche il piacere di salire su vette altissime. Bruno chiave di volta di un processo di conoscenza che riporta Pietro, ormai adulto, a capire la parte bambina che aveva lasciato indietro.
...diventa un film al Festival di Cannes 2022, una storia d’amicizia...
....lunga una vita che inizia dall’infanzia dei due protagonisti per arrivare fino alla maturità.
film diretto da
Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
. Nonostante perda intensità nell’ultima parte, il film ha la capacità di restituire la malinconia delle cime, delle rocce, degli sterpi e delle foglie.....film di immagini accorte questo di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, attente alla terra, in un formato che fa pensare alle vecchie diapositive, o che nella cura della luce ricorda i bei versi sulle montagne della giovane Antonia Pozzi.
ANTONIA POZZI
FESTIVAL DI CANNES...PRESENTAZIONE
Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
... è in concorso nella selezione ufficiale al Festival di Cannes interpretato da Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
amicizia nata tra due bambini che, divenuti uomini, cercano di prendere le distanze dalla strada intrapresa dai loro padri ma, per le vicissitudini e le scelte che si trovano ad affrontare, finiscono sempre per tornare sulla via di casa.
Interessante
la analisi
, con tanti TEMI -
L’AMICIZIA
IL PADRE
LA NATURA
RITORNO ALL’ESSENZIALE
IL MONDO CHE SCOMPARE
viaggio di scoperta interiore, COME SCALARE UNA MONTAGNA, RIPERCORRERE LE TAPPE DI UNA PROFONDA AMICIZIA, ESPERIENZA INTENSA DI CONOSCENZA CHE I PROTAGONISTI PORTERANNO SEMPRE NEL LORO BAGAGLIO EMOTIVO. A SCENEGGIARE E DIRIGERE DUE REGISTI DI ORIGINE BELGA, FELIX VAN GROENINGEN E CHARLOTTE VANDERMEERSCH.
L’ANDAMENTO DEL FILM OSCILLA TRA QUEL CHE CONOSCIAMO E QUEL CHE CI STUPISCE, LO RICONOSCIAMO COME UNA STORIA NOSTRA MA È RACCONTATA CON UN LINGUAGGIO DIVERSO. IL GROSSO OVVIAMENTE SARÀ SVOLTO NELLA FASE MATURA E RACCONTERÀ DI COME TUTTI, ANCHE IL MONTANARO STESSO, VIENE CAMBIATO DALLA DIPENDENZA DALLA MONTAGNA, UN POSTO CHE NON SOLO ATTIRA MA CONDIZIONA L’AMICIZIA DEI DUE, LA AGEVOLA E LA CEMENTIFICA, CAMBIA LE LORO VITE CON UN PIGLIO UMANO IRRESISTIBILE
Al centro del mondo
c’è la montagna più alta, il Sumeru, circondata da otto mari e otto montagne», dice Pietro appena tornato dal Nepal all’amico Bruno che dalle sue montagne in Val d’Aosta non si è mai mosso in vita sua. Disegna su un foglio un tondo a spicchi con dentro un circolino più piccolo. Poi dice: «La domanda è: Chi ha imparato di più? Chi ha visitato le otto montagne o chi ha raggiunto la vetta del Sumeru?».
Su GQ
un puntuale recensione da tenere presente....A Le otto montagne e ai suoi protagonisti (Alessandro Borghi e Luca Marinelli) si vuole subito un gran bene
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Il mio laboratorio di ceramica presso #artesottoiltetto, realizzare idee a mano...
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MEMORIE DI ROMA
Campo Marzio
Signora Lionora
...nel 1518 che Leone X realizzò questa strada, ebbe infatti da subito il suo nome, fino a quando molti anni dopo si realizzò il porto di Ripetta, ma ai tempi di Leone X la zona era un semplice scalo, popolato da una tanto varia, quanto colorita e colorata, umanità. Si avevano insieme personaggi altolocati e popolino della specie più infima, ad esempio malavitosi. Fu nel 700 con il porto di Ripetta che l’importanza della strada raggiunse il massimo. Parlando della varietà delle classi sociali nella strada si ebbero due personaggi di spicco. Eleonora Fonseca Pimentel al civico 17 fu un’irredenta napoletana, anima della Repubblica Partenopea nel 1799. Essa non ebbe solo questi meriti ma anche e soprattutto fu l’antesignana di quello che negli anni 900 fu chiamato sprezzantemente movimento femminista, anticipando le anglosassoni di, circa, duecento anni. Oppose una disperata resistenza al potere costituito dell’epoca, il re borbonico ma perse la vita nell’intento. Il popolo per il quale ella si spese quando la impiccarono con feroce sarcasmo cantava. A signora Lionora, cantava ‘n miezzo à o’ teatro, ora balla ‘n miezzo à ‘o mercato. Il secondo personaggio per noi romani più famigliare fu Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio. Protagonista della fallita Repubblica Romana morto fucilato con il figlio tredicenne. Oggi le sue ossa riposano al Gianicolo, nel Sacrario Garribaldino. da Memorie di Roma
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