#tracotanza
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Wonder Woman 1984 rappresenta egregiamente la tracotanza degli uomini e la loro naturale predisposizione all'autodisintegrazione.
Fa capire anche il perché si sia scelta la forza di volontà e il merito per fare evolvere la società di questo Sistema.
Chi desidera, non al cospetto della Verità della Coscienza, ma dei desideri e dei bisogni della personalità, diventa ego senza etica, senza responsabilità, senza cuore e senza scrupoli. Diventa quel carnefice a cui spesso vorrebbe sottrarsi.
In giro ci sono lunghe e distorte diffusioni a proposito dei desideri, ti dicono di desiderare per entrare in contatto con la tua gioia, ma non è così che ci si arriva. La tua essenza e la tua autenticità non hanno niente a che vedere con questi strati di inganno e di delirio.
Quella dei desideri senza Verità è l'ennesima bugia che ti inchioda alla sofferenza. Ti blocca nell'illusione dei criceti.
Potresti anche chiederti come mai molti paraguri hanno costruito la loro carriera sulla soddisfazione dei desideri, incatenandoti in realtà alle tue paure.
T.me
#desideri#trappole#zombie#società#società malata#svegliatevi#aprite gli occhi#sistema#manipolazioni#verità#schiavi#ego#responsabilità#lavoro su di sé#wonder woman#film#conosci te stesso#crescita interiore#crescita personale#tracotanza#volontà#paura#biaogni#sofferenza#paraguri#mondo marcio
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" Nel novembre 1972, Oriana Fallaci riuscì a intervistare Henry Kissinger, che gestiva i destini dell’America in Vietnam. Kissinger si dipinse come «il cowboy che guida la carovana, che entra tutto solo nella città. Come nei western». «Agli americani ciò piace immensamente» aggiunse. Il paragone era ciò che la Fallaci aspettava per trovare una conferma al ritratto di uomo vanitoso che s’era fatto dell’allora potentissimo assistente agli affari esteri di Nixon. Così lei, insistendo sull’argomento, nella domanda successiva completò astutamente l’identikit, accostando Kissinger all’attore Henry Fonda, icona dell’eroe disarmato pronto a menar botte per onesti ideali. E lui lusingato riprese: «Esser solo ha sempre fatto parte del mio stile».
Un’apoteosi. Pubblicata su «L’Europeo», e poi ripresa per intero da numerosi giornali americani, l’intervista creò a Washington un putiferio. Kissinger, che dopo il successo della «diplomazia del ping-pong» con la Cina godeva di una stampa generosa, fu definito un presuntuoso pronto a oscurare Nixon. E la satira dell’uomo con cappellaccio e speroni invase i giornali. Finì per smentire quelle dichiarazioni che gli procurarono un paio di settimane di gelo nei rapporti col presidente: «Non mi sono paragonato a un cowboy solitario, Miss Fallaci ha distorto il mio pensiero: come ho fatto ad accettare quell’intervista, non lo so. È stata la cosa più stupida della mia vita!». La reazione di Oriana fu in tipico Fallaci style. Mandò a Kissinger un lunghissimo e furente telegramma in cui considerava la smentita un insulto alla sua onestà e alla sua professionalità. «Chiunque può ascoltare la registrazione dell’incontro!». La lite è rimasta come uno degli episodi più gustosi nella letteratura delle interviste che la Fallaci ha fatto ai potenti della Terra. Al pari del clamoroso gesto davanti a Khomeini, quando, per reazione al giudizio che l’imam aveva delle donne, si levò il chador. Chi aveva ragione tra Oriana e il cowboy Kissinger? A un anno dalla morte [di Oriana Fallaci], il «Corriere della Sera» ha ritrovato il nastro dell’intervista. Lo custodisce François Pelou, il giornalista della France Presse che fu legato sentimentalmente a Oriana in quegli anni. Il verdetto del dialogo dà sostanzialmente ragione alla Fallaci. Le parole di Kissinger sono più scarne di quanto fu pubblicato da «L’Europeo» e successivamente nel libro Intervista con la storia. Inoltre il politico americano non pronuncia la parola “cowboy”. Ma si definisce effettivamente il condottiero solitario nel Far West: il nocciolo c’è. "
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Brano tratto dall'articolo di Alessandro Cannavò «Fallaci contro Kissinger: aveva ragione lei» pubblicato sul «Corriere della Sera» il 10 settembre 2007, ad un anno dalla morte della giornalista.
#Henry Kissinger#Heinz Alfred Kissinger#guerrafondai#citazioni#Oriana Fallaci#giornalismo#giornalisti#Alessandro Cannavò#Corriere della Sera#Storia del '900#XX secolo#Richard Nixon#guerra del Vietnam#crimini contro l'umanità#sionismo#sionisti#relazioni internazionali#Medio Oriente#Palestina#Palestinesi#prepotenza#vietnamizzazione#guerra fredda#anni settanta#tracotanza#imperialismo americano#Stati Uniti d'America#verità#USA#testimonianze
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io sempre basita quando stimati professori magari pure ordinari non sono assolutamente in grado di fare un intervento rispettando i tempi prestabiliti
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Cosa si può imparare dalla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi del 26 luglio 2024?
Sono sempre stato riluttante a criticare l'Occidente "da fuori".
Credevo, e lo credo, che la maggioranza delle critiche all'Occidente, o all'Europa, provengano da criteri o valori di natura occidentale.
L'Occidente è cioè per sua natura autocritica, e messa in discussione.
Tuttavia, credo che negli ultimi dieci anni qualcosa in più sia accaduto.
Vedo la dissoluzione di una intera civiltà come neve al sole.
Vedo il dominio del brutto, dell'osceno, del cattivo gusto.
Vedo la tracotanza estetica del male.
E la vedo esprimersi senza pudore, senza vergogna, a cielo aperto, dinanzi a capi di stato - che non dicono nulla - a vescovi - che in pochi dicono qualcosa - a giornalisti - che dicono tutto per il potere.
In confronto alla presentazione di ieri, Hunger games sembra un'esibizione di misura e di umanità.
Una società che profana il bello, che educa all'osceno, non può che essere una civiltà di guerra, di nichilismo, di ingiustizia.
Una civiltà di odio.
Quanto odio c'era ieri sera?
Quanto odio si voleva diffondere ai miliardi di persone che guardavano quella "cerimonia".
Ci sarebbero molte domande da fare.
Se una civiltà crolla in così poco tempo, significa che aveva dei problemi strutturali.
E poi ci sarebbe da interrogare la storia e il destino della Francia.
Sul piano culturale, il loro continuo voler scandalizzare, essere originali, spararla grossa, decostruire e poi post-decostruire, ha fatto danni immensi, non tanto alla cultura tradizionalista ma al filone critico.
Lo ha sottratto dalla realtà.
Un continuo "Épater la bourgeoisie", che oramai non scandalizza se non gli ultimi, i poveri, i bambini.
Cosa è che oggi realmente scandalizza? Lucio Dalla scriveva che oggi è difficile essere normali.
A me non piace il termine normale. Diciamo che oggi scandalizza la potente realtà dell'umano, il suo mistero abissale e semplice, l'umiltà di un fiore, l'esistenza di una donna e di un uomo, la verità ferita della nostra anima.
Insomma, scandalizza la bellezza, che non è che lo sprigionarsi della verità. Ecco, questo realmente scandalizza il potere, non quella buffonata oscena.
Quella di ieri è una cerimonia reazionaria, un rito di difesa dello status quo.
L'anticonformismo delle oligarchie, questo è stato. Il vero anticonformismo siamo noi.
Ecco, verrà un tempo, in cui si stabiliranno nuovi criteri di giudizio, severissimi, in cui ci sarà un esercito della bellezza, totalmente non violento, ma che manifesterà civilmente contro episodi del genere.
Perché non c'è nulla di più antidemocratico che la bruttezza diffusa come strumento pedagogico. Non c'è niente di più antisociale, e antirepubblicano di quella "cosa" che abbiamo visto ieri.
Non è una questione di estetismo ma di difesa dei diritti dell'uomo e del cittadino.
Ma in quella patria se ne sono dimenticati, sommersi da un cumulo di pseudoprogressismo e laicismo instupidito.
Gabriele Guzzi
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La scienza s'è scippata il termine greco, travisando il significato originario, e va girando a mo' di sciantosa atteggiandosi sul sapere pur non avendo capito manc' o cazz'. Risultato? Ignoranza con l'aggravante della tracotanza.
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IL MESTIERE DELL'EDITOR - di Gianpiero Menniti
CARILLON
Testo leggero e sognante scritto da due poeti - Angela Ada Mantella e Gaetano Interlandi - riuniti ciascuno con il proprio decalogo di liriche.
Ma non solo: la realizzazione, per ogni testo, di un'immagine realizzata con l'intelligenza artificiale.
Ne è scaturito un vero cammeo, un "Carillon" che ho avuto il piacere di curare nell'editing e nella redazione del "commento critico" affiancato all'ottima "prefazione" di Rossella Rafele.
Leggero e sognante ma non per questo meno intenso e profondo: una riflessione sulla limpidezza e la fragilità, l'amore materno e gli interrogativi incessanti sull'esistenza.
Ecco uno stralcio dal commento critico che ho intitolato "Melodia disarmata":
[...] Sullo sfondo, la sensazione di solitudine, freddo passaggio di una ricerca già sbiadita prima d’iniziare, destinata a stemperarsi come i sogni, i ricordi, il giorno che declina verso il tramonto. Passeggeri di una nave trascinata della corrente, ogni immagine scorre lontano. Imprigionati nei corpi sferzati dal declino e dal malanno imponderabile, memoria nostalgica di gioventù vigorosa o di gioventù interrotta e mai vissuta. Quanta pena nell’affanno di vivere come appendici di muscoli irrorati di misteriosa energia. Così, quando la fragilità ignorata e vilipesa si pone di fronte ai nostri occhi, è come il risveglio della coscienza sopita, ancestrale traccia, evidenza nascosta. “Carillon” è questa limpida, delicata, riscoperta: da leggere con muta partecipazione, a mo’ di preghiera, come riposta, antica carezza spezzata dalla hỳbris (ὕβρις), l’insolente tracotanza che già la cultura greca pose all’indice, pericolosa fonte del disastro, eccedenza smodata carica di egoismo. Carezza che scioglie il tormento, che rende onore al sorriso innocente di una fanciullezza perenne, alla delicatezza di un animo che mai sarà macchiato dalla prudenza della parola e del gesto. Tutto è terso, il nitore del cielo macchiato di leggere nuvole candide pennella il colore del mare increspato per rompere il silenzio con la cadenza di onde: anche loro sono un lieve tocco, tenera moina, lusinga amorevole. Dieci poesie di Angela Ada Mantella e dieci poesie di Gaetano Interlandi: da par loro, i due fecondi autori danno vita a recessi carichi di malinconico romanticismo: divengono parole per una voce mai udita. In questo, mi pare, si possa cogliere la semantica della piccola ma intensa raccolta di versi che dialogano a distanza per raccontarsi la nascosta bellezza della mancanza, della malinconia tramutata in sorriso da un’inspiegabile eppure percepita ricchezza interiore. Una percezione che può appartenere solo ai poeti. [...]
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Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
Oriana Fallaci
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E se invece ci si rendesse conto della tracotanza dell'ego e si pensasse a diventare "soltanto" umani?
#super umani#zombie#società malata#paraguru#società#svegliatevi#sistema#aprite gli occhi#manipolazioni#tracotanza#ego#spiritualità#conosci te stesso
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House Of The Dragon S2 Episodio 8 (The Queen Who Ever Was): Fuoco e Sangue is Coming
Siamo arrivati alla resa dei conti nel finale della seconda stagione di House of the Dragon (2x08)… o forse no? Un epilogo aperto per una stagione avvincente e che ci prepara per quel che verrà.
I draghi di Valyria solcano il cielo dei Sette Regni tutte le pedine si muovono sulla scacchiera ed il tempo del fuoco e sangue si avvicina. Almeno è questo che ci viene mostrato nell'ottavo ed ultimo episodio della seconda stagione di House of the Dragon. Episodio che ci costringe a salutare i Targaryen e la storia della loro dinastia fino al 2026, per un terzo ciclo già ordinato da HBO dopo il successo della serie prequel. Una seconda stagione forse altalenante, che non ha raccolto i consensi praticamente unanimi del ciclo inaugurale, probabilmente per alcune scelte narrative volte ad allungare ed espandere il racconto rispetto a quel compendio storico che è il romanzo originario di George R.R. Martin.
Un finale di stagione atipico
Rhaenyra passa finalmente all'azione
È un epilogo che apparirebbe pieno di tensione, perché è tempo per tutti i personaggi di arrivare alla resa dei conti. I due schieramenti dei Neri e Dei Verdi, che avevano aperto la Danza dei Draghi ad inizio stagione, fanno sfilare i propri eserciti. Rhaenyra (Emma D'Arcy) ha avuto successo coi Dragonseeds, ovvero coloro che pur se bastardi e di basso lignaggio, contengono sangue Targaryen nelle proprie vene, essendo quindi capaci di cavalcare i draghi. Nonostante questo, c'è grande scontento a corte da parte di Jacaerys (Harry Collett) e tracotanza da parte dei nuovi arrivati, in particolare Ulf (Tom Bennett), tecnicamente suo prozio (ma sappiamo quanto non sia un narratore affidabile). Dall'altra parte Aemond (Ewan Mitchell) sta perdendo lucidità e va su tutte le furie, al punto da gettare a ferro e fuoco un'intera cittadina e i suoi abitanti.
Aemond perde il controllo
Segno che il suo machiavellico controllo sta vacillando, al punto da voler coinvolgere l'unico altro possibile cavaliere in famiglia: la sorella Helaena (Phia Saban), che gli rinfaccia di sapere che cosa ha fatto ad Aegon (Tom Glynn-Carney) sul campo di battaglia e di aver visto il futuro nelle sue visioni: non è destinato a regnare sul Trono di Spade, qualunque cosa faccia, e non sarà certo lei ad aiutarlo nell'impresa. Si impone tra loro anche la madre Alicent( Olivia Cooke), cercando di proteggere la figlia e tentando il tutto per tutto. Aegon del resto sembra confermare la regola della resilienza degli storpi nel mondo di Martin: dopo Bran Stark ne Il Trono di Spade e in questo frangente Piededuro, col quale guarda caso decide di fare squadra, anche il Re Usurpatore potrebbe sopravvivere nonostante le ferite.
Visione dal futuro
Proprio le predizioni accompagnano il finale di stagione di House of the Dragon 2. L'altro squarcio di futuro più importante avvolge Daemon (Matt Smith), insieme ad Alys Rivers (Gayle Rankin) sull'albero cuore di Harrenhal, patria degli Strong. Questa visione rappresenta le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, e in parte rappresenta ciò che Viserys disse a Rhaenyra che poi l'ha tramandato a propria volta al suo primogenito. Si osserva il futuro dei Sette Regni, al grido di "L'inverno sta arrivando" pronunciato in valyriano antico, con Daenerys circondata dalle fiamme e dai suoi piccoli draghi e il Re della Notte pronto ad invadere oltre la Barriera insieme ai suoi Estranei: il Principe Consorte finalmente comprende il proprio posto nel grande disegno delle cose e giura fedeltà davanti a tutti alla moglie e legittima erede al Trono.
Un confronto necessario e aspettato da quando lui si era nascosto tra le mura di quel castello infestato e lei rimaneva bloccata a Roccia del Drago per volere del proprio Concilio. Ora l'esercito è con loro, così come i draghi e i loro cavalieri e la flotta di Corlys Velaryon (Steve Touissant) capitanata dalla Serpente di Mare, rinominata Regina Che Non Fu Mai in onore di Rhaenys. Anche quest'ultimo ha un duro confronto rimandato da troppo tempo: proprio adesso che ha perso praticamente tutta la sua famiglia, si riavvicina a Alyn di Hull (Abubakar Salim), fratello maggiore di Addam (Clinton Liberty), tra i nuovi cavalieri di draghi scovati dalla Regina: abbiamo la conferma, entrambi sono figli illegittimi e potrebbero avere un ruolo anche nella successione del Trono di Legno.
il (secondo) confronto tra Rhaenyra e Alicent
Dato che si tratta di una puntata dedicata alle discussioni troppo a lungo rimandate, quella più importante e decisiva (e che farà gioire i fan) è quello tra Rhaenyra e Alicent: questa volta è la seconda a voler parlare con la prima, intrufolandosi di nascosto a Roccia del Drago. Le due amiche/nemiche che un tempo provavano/provano ammettono tutte le invidie e le gelosie che hanno avuto negli anni: Alicent (Olivia Cooke) è pronta ad aprire le porte di King’s Landing, alla regina dei neri, senza spargimenti di sangue, addirittura compiendo una scelta dolorosa sacrificare Aegon, pur di mettere fine a questa guerra civile insensata.
Ed è proprio qui che l'ending non delude: durante questo faccia a faccia si nota quanto le due ancora tengano l’una all’altra anche se il tempo, le dispute e gli uomini delle loro vite hanno cercato di danneggiare il sentimento che le unisce. Alicent è pronta a lasciarsi tutto alle spalle e quel “Come with Me” è stato in aspettato sia per chi vi scrive sia per entrambe le protagoniste. Alicent incredula di averlo detto ad alta voce e Rhaenyra che finalmente sembra riconoscere la sua vecchia amica,( io ho un idea ben precisa sul loro rapporto, del resto ognuno è libero di vederci ciò che vuole, ma il sottotesto è là e sta ognuno interpretarlo). Sta di fatto che questa stagione conferma come Rhaenyra e Alicent siano il centro di HOTD. E questa seconda stagione parla proprio di questo. Di loro alle prese con la possibilità di portare la pace prima di un inevitabile guerra, mentre affrontano la propria autorità messa in discussione in un mondo dominato dagli uomini. Piaccia o no, questa stagione è stata coerente per tutta la sua durata, ecco perchè è finita dove è finita.
Manca il colpo di scena che ha sempre caratterizzato la scrittura di Martin e di Game of Thrones: è assente quell'evento culminante che faccia esplodere il climax narrativo, che invece rimane sospeso ma del resto questo non è Game of Thrones ma il suo prequel e non c'è bisogno che sia uguale in tutto e per tutto. L’episodio si conclude con un montaggio che vede susseguirsi i vari protagonisti, con una musica enfatizzata in sottofondo, le pedine sono pronte e la guerra è oramai alle porte. L’unica nota veramente dolente della conclusione di questa stagione è che dovremmo aspettare due anni per il prosieguo della storia.
Conclusioni
In conclusione il finale della seconda stagione di House of the Dragon è fatto da reunion a lungo rimandate e che apre al futuro per ciò che accadrà. Un futuro che intravediamo attraverso la preveggenza di alcuni personaggi, che omaggiano la serie originale, ma sopratutto il destino che attende i personaggi di questo prequel non c’è che attendere la prossima stagione e di sicuro sarà Fuoco e Sangue.
👍🏻
I confronti tra Rhaenyra e Daemon e Alicent, tra Aemond e Helaena, tra Corlys e Alyn.
l’intera sequenza tra la Rhaenyra di Emma D’arcy e l’Alicent di Olivia Cooke è davvero struggente.
Il ripescare la legittimità della dinastia di sangue Targaryen.
Le visioni e le citazioni a Game of Thrones.
👎🏻
Dovremo aspettare due anni per la continuazione.
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Non c'è colpa
Non c'è colpa
in un'idea che spira
in un vento contrapposto.
Un alito che tocca le corde
di una foglia dimenticata
da una stagione sfuggente.
Non c'è resa in una voce
che non vuole sovrapporsi
alle parole roche e laceranti
della tracotanza.
Non c'è codardia nel sedersi
nel giardino dell'attesa
quando il cielo è squarciato
dal rantolo di un tuono.
Non c'è debolezza in un rossore
che umanizza l'indifferenza.
Non c'è forza che non sia sgorgata
da una rovinosa caduta
e non c'è comprensione
che non sia nata
dalla suzione di un neonato.
La nostra esistenza
non è mai inesistenza,
siamo una mano tesa
oltre gli intralci dell'ineluttabile.
Gigante Francesco
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Che si fottano tutti. Gli oracoli su TikTok e i nuovi profeti di Instagram.
Non voglio farmi turlupinare dai responsi su Fb della nuova generazione di filosofi del web, o dai nuovi vate su X.
Che possano affogare nella loro stessa tracotanza, nella melma di odio e astio che divulgano. Con i loro seguaci del diritto d’opinione a tutti i costi e comunque sacra. Alla faccia della libertà. Non si è liberi di distruggere o demolire senza rispetto, solo per ego, ma diventa una dittatura verbale senza un confronto civile. Io penso, io dico quindi io sono e voi muti.
La verità è che molti sono incattiviti, sopraffatti dall’ego smisurato che ha come metro di misura il numero di follower. La mia paura è quella di essermi incattivito anche io, nonostante io cerchi di mantenere un equilibrio sempre più precario. Vorrei scegliere la vita, ma la vita è piena di invidia e competizione.
A volte penso che una vita fatta di famiglia, mutuo, lavoro, polizza, ristorante una volta a settimana, cinema, divano super confortevole, televisore con tanti canali a pagamento, abiti firmati, sushi all you can eat, il Natale tutti insieme, nulla a cui pensare o di cui preoccuparsi fino alla fine dei propri giorni, sia il desiderio di tantissime persone.
Io è da molto che non ho più questi desideri. Dovrei essere tanto arrabbiato per quello che mi è successo e che ho subito in passato, ma è difficile restare rancorosi quando impari a stare sulle punte dei piedi e guardare al di là dello steccato della quotidianità indotta. Quando scopri che esiste tanta bellezza nel mondo, perché esiste in alcune persone.
Quando ho la fortuna di incontrarne una provo un enorme senso di gratitudine verso il destino, ringraziandolo per ogni singolo momento che mi sarà concesso di condividere con queste persone nella mia piccola vita. Anche un messaggio, un caffè condiviso, una telefonata rubata ai mille impegni quotidiani. Soprattutto anche quando queste persone non capiscono l’importanza che hanno per me, temendo l’ennesimo “caso umano”.
Ho potuto toccare con mano degli orrori, orrori che stanno nella vita di alcune persone. Dolori e ingiustizie subite, spesso come fossero delle torture. Non esistono parole per descrivere quello che ho ascoltato, in parole che erano come un grido di aiuto, a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. Ho percepito cose che molti esseri umani non s’immaginano, ho visto cuori distrutti di una bellezza inaudita.
L’orrore molte volte è creato e nutrito da chi l’orrore non lo conosce, non avendolo mai subito ma facendone parte. Senza remore o colpe molte persone sono parte dell’orrore di altri esseri viventi. Ma sorridono e stringono mani come se fossero persone a modo. Non accettano giudizi, i giudizi indeboliscono la loro convinzione di essere i migliori.
Tutta quella bellezza. In alcune anime non riesco a vederne la fine. Ci si potrebbe navigare per una vita intera, spesso certe menti le trovo troppo grandi per me. Rimango ad ammirarle come un neonato di fronte alla bellezza del seno materno. A bocca aperta, ma in silenzio per non disturbare. Darei l’anima per poter essere degno di una piccolissima attenzione da parte loro.
Mi dispiace, ma io non voglio fare il saccente, non voglio avere ragione. Se do questa impressione me ne dispiaccio, non era nelle mie intenzioni. Vorrei aiutare tutti, se possibile chiunque.
Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo trarre pace e soddisfazione dalla felicità del prossimo, credetemi io l’ho fatto e mi sono trovato meglio che a godere dei miei successi in solitudine.
Non guardiamo troppo al passato, non scervelliamoci sul futuro, viviamo appieno il presente. Se lo faremo sarà un buon passato da ricordare, ogni tanto, e la base per un radioso futuro.
E in maniera che oggi non riusciamo manco a immaginare, perché potrebbe davvero sorprenderci.
Non sapevo cosa scrivere, senza diventare troppo prolisso. Qui funziona così, poche righe altrimenti sei illeggibile, da passare oltre. Ma se tu stai leggendomi a questo punto, vuol dire che un po’ di attenzione te l’ho presa.
Siamo nell’inferno dell’egoismo oggi, ma chi crede nell’altruismo o fa squadra o affonderà nella melma dell’individualismo.
Credetemi. Sarà una vita fatta di schiaffi e senza luce.
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Discesa al calvario
Ci sono momenti in cui la mia anima s'eleva, respira, come ieri sera, passeggiando in un bosco notturno, alle pendici di un castello, tra il crepitare delle foglie e la luna incorniciata da rami sempreverdi o ancora acerbi. Conoscevo quel luogo profondamente, culla di fatiche e nostalgici ricordi, perciò nel buio tetro che lo avvolgeva vi trovai rifugio, liberando tra gli spiriti aghiformi tutti i miei timori. Non era così - come avrebbe potuto, d'altronde? - per i miei compagni di avventure: alcuni erano impegnati nell'organizzazione della via crucis che si sarebbe tenuta lì la sera successiva, mentre altri, pur non essendo coinvolti nell'iniziativa come me, erano travolti da una noia scalpitante, al punto da inscenare scherzi infantili e disturbare la quiete della fauna silvica. Non appartenevo più a quel luogo, eppure mi sentivo ancora la sua custode e l'atmosfera che si era creata mi provocò una stretta al cuore, come se l'indifferenza e la tracotanza umane avessero profanato il sacro giaciglio della natura e della bellezza. "Perché non vi prendete qualche minuto e non vi lasciate travolgere dalla meraviglia di questo luogo ameno, riservato a noi eccezionalmente all'ora tarda, in religioso silenzio e rispettosa gratitudine? Cercate Dio ma non vi accorgete dei suoi doni generosi, celati nella semplicità del quotidiano!" avrei voluto implorare. Tuttavia, ebbi il buon senso di non parlare, perché in cuor mio ero perfettamente conscia della loro innocenza e della mia frustrazione, non tanto diversa dalla loro protervia. Non ha senso possedere una sensibilità rara e usarla come vanto anziché come dono. "Avrai la tua occasione per educarli alla bellezza, con delicatezza e benevolenza", mi sussurrai, placando le mie ardenti fiamme cardiache. Così mi isolai e continuai a camminare, respirando a pieni polmoni l'aria fresca e pungente, raccontando agli alberi i miei mesi di assenza e percorrendo la discesa del calvario chiacchierando amabilmente con chi prima era salito, assieme a me.
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mito->poesia->tragedia->metodo scientifico: uno sviluppo straordinario
Il genere tragico in Grecia: riproposizione ed evoluzione del mito arcaico.
La forma della tragedia classica greca è il punto di arrivo di un processo sviluppato a partire da un primitivo nucleo del coro, progressivamente ridimensionato a favore di uno spazio sempre maggiore riservato al dialogo dei personaggi. La tragedia ripropone e riplasma del materiale mitico ereditato dal mondo arcaico. Il suo appellativo si collega etimologicamente alla parola tragos con riferimento al capro, riferimento che è stato interpretato in vari modi quali: a) il sacrificio rituale celebrato alla fine della rappresentazione; b) la maschera indossata dal coreuta, c) il premio dato al vincitore. In ogni caso, si tratta di un riferimento a qualcosa di animalesco, ferino, primitivo, selvaggio (si veda ciò come traccia dell’animalesco selvaggio dionisiaco rispetto all’olimpico armonioso compositore delle passioni rappresentato da Apollo).
La struttura era articolata in un prologo sugli antefatti dell’azione, un parodo, canto di ingresso del coro, gli episodi costituiti da dialoghi con gli stasimi, i canti di stacco tra gli episodi, e l’esodo, canto di uscita. Il coro (12 coreuti ai tempi di Eschilo con uno di loro, il corifeo, dialogante a nome degli altri con gli attori) cantava in armonia con la musica e la danza ( infatti il verbo koreuein significa danzare). Gli attori, tutti di sesso maschile, indossavano maschere, coturni, ovvero alti calzari per essere più visibili agli spettatori e la scena era dotata di macchine teatrali. In genere le rappresentazioni avvenivano in occasioni di feste in onore di Dioniso, dio rurale patrono della fertilità. Erano dei veri e propri festival in cui gareggiavano i poeti tragici con la loro tetralogia (3 tragedie ed un dramma satiresco). C’era una commissione selezionatrice fatta da un arconte ed altri due membri che sceglieva i tre concorrenti per la gara finale, ogni tetralogia veniva rappresentata in una giornata intera e quindi il concorso durava 3 giorni. La giuria per assegnare la vittoria della corona di edera era formata da 1 rappresentante per tribù estratto a sorte da una lista fornita da ognuna delle 10 tribù, che dava una classifica dei concorrenti su una tavoletta, delle 10 poi ne venivano estratte 5 a sorte per avere il vincitore. I contenuti delle opere attingevano ad un patrimonio di racconti mitici tradizionali e la rappresentazione drammatica era fondata sul contrasto, la lacerazione tragica tra protagonista umano e divino e degli uomini tra loro. Tutto il popolo partecipava, lo stato finanziava i poveri con due oboli per indennizzo delle ore di lavoro perdute ed i costi degli spettacolo (scenografia, costumi, attori, coreuti, musicisti) che erano in parte sostenuti anche dalle famiglie ricche, c’era anche un servizio d’ordine dotato di robusti manganelli contro eventuali disturbatori. La partecipazione popolare al "RITO COLLETTIVO" funzionava da presa di coscienza, grazie a questa esteriorizzazione del dramma tragico reso nello spettacolo teatrale, che determinava una presa di distanza, una assunzione di responsabilità collettiva di fronte alle tensioni tremende dell’esistenza umana secondo una visione che affondava le sue radici nei sanguinosi rituali del mondo pre-greco. In questo consiste la CATARSI di cui parla Aristotele: LA RAPPRESENTAZIONE HA UN EFFETTO LIBERATORIO DALLE PASSIONI (i patemata = patemi di animo).
La tragedia si differenzia dal mito per un tratto sostanziale: se nel mito lo scontro è nel mondo divino, qui il piano si sposta sulla violenza tra dei e uomini e degli uomini tra di loro. Questo è testimoniato dal lessico tragico. Sono fondamentali alcune parole chiave ricorrenti nei dialoghi, che mostrano la inconciliabilità nella tragedia di polarità opposte di comportamento: parole da un lato come collera (che però è anche invidia!) (ϕθόνος),e accecamento divino (΄Άτη) , tracotanza (ύβρις), e violenza brutale (βία) , dall’altro legge (νόμος), diritto (δίκη), autorità legale (κράτος), timore (ϕóβος), e pietà (ʹΈλεος), parole che segnano nella loro opposizione il contrasto inconciliabile che caratterizza la tragedia. Viene bollata la tracotanza, si esibiscono i valori morali e le norme etico-sociali cui conformare i comportamenti dei cittadini della polis ed il ricorso al mito serve a rinsaldare il tessuto connettivo della convivenza. Nella trilogia più famosa, l’Orestea, formata da Agamennone, Coefore, Eumenidi, la tragedia si risolve con Oreste portato nella sede suprema della istituzione della polis, l’Areopago, dove Oreste è alla fine assolto e le furiose persecutrici Erinni si trasformano nelle benigne Eumenidi. Si impone la Giustizia, la DIKE, che si esplica nel NOMOS, nella Legge della città, a fronteggiare la violenza, ma ciò non sarà sufficiente se nell’Antigone la legge del cuore e degli affetti si scontrerà con la legge ufficiale della città stessa, che tuttavia prevarrà alla fine. Ma a questo punto, gli Dei c’entrano poco, il conflitto è tra gli uomini, gli Dei sono solo spettatori. I drammi umani riportano le scorie dei drammi divini. Più i conflitti "si umanizzano", più si perde la carica istintiva, travolgente dell’eros e della violenza primitiva e questo porta alla famosa tesi di Nietzsche che ne La nascita della tragedia (1871) vede nelle prime tragedie un equilibrio tra le parti del coro che rappresentano la potenza dionisiaca degli istinti e le parti del dialogo degli attori che moderano con la razionalità apollinea lo scatenamento degli istinti, fino ad arrivare ad Euripide che descrivendo con realismo delle vicende umane fa prevalere il distacco dello spirito superiore ed equilibrato apollineo in contemporanea all’avvento del razionalismo di Socrate in filosofia e la definitiva eclissi del dionisiaco, evento che il filosofo tedesco denuncia come la più grande perdita per tutta la cultura occidentale.
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Più i miti perdono valore di Verità, staccati dal culto dionisiaco, più i paragoni e le similitudini linguistiche, da "strati intermedi" tra il mondo degli dei e quello umano subiranno una trasformazione che costituirà i primi gradini delle deduzioni analogiche di cui il metodo empirico si servirà più tardi.
-Franco Sarcinelli (WeSchool)
-Bruno Snell (le origini del pensiero europeo)
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Ci rimangono lo strutto e i cappelletti col brodo di cappone, meglio se non sgrassato, e il ragú (scritto così che in quell’altro modo, alla francese, è da fighetti e noi i fighetti li compatiamo) con poco magro e molto grasso.
Oh, poi certo, abbiamo anche la piadina (anche quella con lo strutto, quella vegana qua è vietata per legge) e i ciccioli (ignoranti) che ti risollevano l’umore almeno quanto i trigliceridi, meglio se accompagnati da un litro di sangiovese del contadino: che è così denso e così nero, il sangiovese, non il contadino, che se te ne cade una goccia sulla tovaglia fa il buco anche sul tavolo, ma a noi che siamo romagnoli con fierezza ci fa il solletico all’epiglottide. Che qua a noi ci hanno cresciuti così, a ignoranza e tracotanza, alimentare e culturale. Che quelli di Bologna ci guarda(va)no come i terroni della via Emilia, salvo provare a invaderci come le cavallette da giugno a settembre, perdendo ogni possibile gara (da quelle di rutti a quelle di pallone), per poi tornarsene sotto le Due Torri con le pive nel sacco e una domanda a cui, da generazioni, non riescono a dare risposta: “ma come fanno i romagnoli”?
Eh, fanno che fanno finta.
Facciamo finta di essere scemi e siamo svegli, facciamo finta di essere ignoranti e siamo colti.
Così colti che solo noi (solo noi!) possiamo permetterci di dare del Pataca a Dante e far ridere perfino i fiorentini.
Perché solo noi, qua nella bassa dove c’è così tanta nebbia che ci appoggiamo le biciclette, abbiamo sviluppato uno sguardo così acuto da trapassare anime e nebbioni.
Uno sguardo tipo questo che vedete qua sotto, che era lo sguardo di uno che non era per niente un Pataca, parche l’era prôpi un sburón!
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Il mito narra che Narciso era circondato da numerosi innamorati ma la sua superbia era tale da rifiutare chiunque gli si dichiarasse. Tra questi vi era il giovane Aminia che, folle d’amore, non si dava pace. Narciso allora gli donò una spada per uccidersi e placare così ogni vano tentativo di conquista. Aminia si uccise trafiggendosi il petto con la spada, invocando gli dei affinché punissero Narciso per tale tracotanza. La vendetta divina non tardò e si compì quando Narciso ammirò, per la prima volta, la sua immagine riflessa tanto da rimanerne ammaliato. Fu così che si innamorò perdutamente di se stesso e preso dalla disperazione per non poter ricambiare questo amore, prese come Aminia una spada e si trafisse. Dal sangue versato sulla terra germogliarono quelli che noi oggi chiamiamo narcisi. Qual è la condanna del narcisista? L’incapacità di amare e di sentire amore.
Regolatevi, io ho già dato.
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“Simposio” di Platone. L'elogio di Eros (Amore) Dialogo introdotto, letto e commentato da Lapo Lani
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Museo Casa Rurale di Carcente
Comune di San Siro (CO)
Sabato 19 agosto, ore 17:00
(In caso di maltempo la lettura verrà rinviata a sabato 26 agosto, ore 17:00)
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Aristofane [1] racconta, celebrando Eros durante il simposio [2], che l’uomo in antichità era di figura rotonda, ed era doppio, con quattro braccia, quattro gambe, doppie pudende, e due visi simili fra loro. Non c’erano due sessi come oggi, ma tre: maschio, femmina e androgino. Quest’ultimo aveva sia del maschio che della femmina.
Quegli uomini originari avevano vigore e animo grande, ed erano assai superbi, condizione che li portò a sfidare gli dèi. Zeus, dopo aver tenuto consiglio coi numi, decise di limitare la loro potenza e tracotanza segandoli in due, dando a ciascuna metà un sesso, maschile o femminile. Chi proveniva da un intero androgino, cercava la propria metà nel sesso opposto; chi proveniva dal maschio o dalla femmina, si accoppiava con la metà del suo stesso sesso.
Così da quel momento l’amore è innato negli uomini: esso ci riconduce al nostro essere primitivo, e si sforza di unire due creature in una sola ricreando l’intero, risanando la primordiale natura umana.
Quindi, conclude Aristofane, Eros (Amore) è il desiderio di trovare la propria metà originaria e unirsi a essa.
L’intervento di Socrate espone una visione che confuta quella di Aristofane, la quale troppo rimane vicina al pensiero mitologico dal sapore sentimentale. (Dalla narrazione di Aristofane nascerà l’idea dell’”anima gemella”, della “dolce metà”; idea che ancora oggi continua a regolare il concetto di Amore.)
Socrate racconta che Eros è l’amore di qualche cosa che viene desiderata, quindi di una cosa che non è posseduta: e viene desiderata per sempre.
Socrate poi riferisce la storia che una donna di Mantinea, Diotima [3], gli ha confidato riguardo a Eros, il quale, racconta lei, non è un dio bensì un demone, un essere tra il mortale e l’immortale, tra l’uomo e il dio; è quindi un messaggero che mette in comunicazione gli dèi con gli uomini, un interprete che non possiede il bello e il bene [4], ma li desidera passionalmente.
Eros (Amore) è figlio del dio Poros (Acquisto) e della mendicante Penia (Povertà), la quale, terminato il banchetto che riunì gli dèi nel giorno natalizio della bella Afrodite, si unì all’ubriaco Poros rimanendo incinta.
A Eros quindi toccò la seguente sorte: «Innanzi tutto è sempre povero, e lungi dall’essere delicato e bello, come generalmente si crede, è anzi duro, squallido, scalzo, senzatetto, uso a dormire sulla nuda terra, senza coperte, dinanzi alle porte, a cielo aperto, per natura simile alla madre e sempre in miseria. Ma, d’altro lato, per parte del padre è pronto sempre a tendere insidie ai belli e ai buoni, coraggioso, temerario, impetuoso, cacciatore terribile, sempre occupato a preparar lacciuoli, avido d’intendere, ricco d’espedienti, dedito a filosofare per tutta la vita, incantatore, mago e sofista insuperabile. E di sua natura non è né immortale né mortale, ma a volte, nello stesso giorno, germoglia e vive, quando tutto gli va a vele gonfie; a volte muore e poi, data la natura del padre, rivive d’accapo, e spreca sempre tutto quel che guadagna, sicché non è mai né povero né ricco, e d’altro lato tiene il mezzo tra la sapienza e l’ignoranza» [5].
Riguardo allo scopo di Eros, Diotima prosegue: «Degli dèi nessuno filosofeggia [nessuno viene preso dalla forza Erotica di conoscere il vero] o desidera di divenir sapiente – perché è già tale. Ma, d’altronde, neppure gl’ignoranti filosofeggiano o desiderano di diventar sapienti. Perché proprio questo è il guaio dell’ignoranza: che chi non è né morale né saggio s’illude di essere un uomo che basti a se medesimo. E chi non crede di essere manchevole non desidera nemmeno per sogno quello di cui non crede di essere privo» [6].
Eros quindi, come tutti gli Amanti [7], non si accontenta dell’intesa sentimentale o del piacere dei corpi, ma desidera ardentemente conoscere ciò che è vero, eterno e immutabile [8]. (A discapito dei luoghi comuni, il Cristianesimo confermerà quest’impostazione: Dante Alighieri, nel Canto V dell’Inferno della Divina Commedia, confina gli eterni innamorati Paolo e Francesca nel secondo cerchio dell’Inferno, luogo in cui sono puniti i peccatori carnali, giudicando perverso il loro amore, cioè incapace di fare loro conoscere e raggiungere il vero fine dell’Amore, che certo non risiede nella loro reciproca e smisurata passione.)
Socrate, attraverso la voce di Diotima, insiste sulla natura di Eros, intenta a conoscere: «Perché la sapienza è tra le cose più belle, ed Eros è l’amore del bello, sicché di necessità Eros deve aspirare alla sapienza, deve essere filosofo, e come filosofo tenere in mezzo tra sapiente e ignorante. E anche questo gli viene dalla nascita, perché è di padre sapiente e ricco, ma di madre né sapiente né ricca» [9].
Diotima esorta poi Socrate a non confondere l’amante con l’amato: Eros è l’amante, tutt’altro che bello, delicato, leggiadro, perfetto e tale da stimarsi beato. Ma è solo l’amante che, conoscendo il bello e il buono, ovvero le virtù eterne e immutabili, può raggiungere la beatitudine.
Così si chiude la critica mossa al racconto tenuto precedentemente da Aristofane, tutto chiuso a voler mortificare l’amore riducendolo all’unione privata di due persone: «Eppure, seguitò Diotima, corre per le bocche un certo discorso: che quelli i quali vanno in cerca della propria metà, questi amano. Il mio discorso invece dice che l’amore non è né nella metà né nell’intero, ove non si creda di scorgere un bene. Perché io non vedo altra cosa che gli uomini amino, all’infuori del bene» [10].
Con il concetto di bene, Diotima (ovvero Socrate, quindi Platone) non intende un bene privato; non una passione condivisa tra due amanti, ma qualcosa di diverso: l’amore per la saggezza e le altre virtù, di cui sono interpreti e generatori i poeti e gli artisti [11]. Poi, procedendo verso ciò che è ancora più prezioso: l’amore per gli ordinamenti politici – a cui corrispondono le virtù di prudenza e giustizia –, per le istituzioni politiche, per le leggi. E dopo le istituzioni, la guida di Eros può condurre più in alto, alle scienze, affinché l’Amante possa mirare «all’ampia distesa del bello, non più, estasiandosi come uno schiavo, davanti alla bellezza di una singola cosa, d’un giovanetto o d’un uomo [o di una donna] o d’una istituzione sola, e servendo sia una abietta e meschina persona [l’amato]; ma vòlto al gran mare della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli e magnifici ragionamenti e pensieri in un amore sconfinato di sapienza, fino a che non si elevi alla visione di quell’unica scienza, che è la scienza di tanta bellezza [la filosofia, la conoscenza del vero, dell’epistème]» [12].
Così Socrate conclude il suo elogio di Eros: «Per questo affermo che ogni uomo ha l’obbligo di rendere onore a Eros: io stesso coltivo in modo speciale le cose amorose e vi spingo gli altri; e ora e sempre, per quanto è in me, lodo la potenza virile di Eros» [13].
Lapo Lani Milano, marzo 2023
Note:
Le notazioni tra parentesi quadra non appartengono agli scritti originali, ma sono state da me aggiunte per renderne più comprensibile la lettura.
[1] Commediografo, nato ad Atene nel 446 a.C. e morto a Delfi nel 386 a.C.
[2] Il discorso si è svolto durante un simposio immaginario – il simposio è un banchetto di fine cena, destinato alla degustazione dei vini, al canto e alla musica, alla recita dei carmi conviviali, e ad altri trattenimenti –, ambientato nel 416 a.C. circa a casa di Agatone (poeta e drammaturgo, 448-400 a.C.), in occasione della sua vittoria di un concorso drammatico. I partecipanti – seguendo l’ordine degli interventi: Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate, Alcibiade – fecero a turno l’elogio di Eros.
“Simposio”, (in greco antico Συμπόσιον, Sympósion) tradotto anche con “Convito” o “Convivio”, è un dialogo scritto in greco antico dal filosofo Platone, nato ad Atene nel 428 o 427 a.C. e morto ad Atene nel 348 o 347 a.C.
[3] Non sappiamo se sia un personaggio storico o di fantasia. Il nome Diotima significa “onorata da Zeus”. Alcuni storici pensano che potrebbe essere una sacerdotessa straniera molto ben reputata, che, capitata ad Atene alcuni anni prima della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e della pestilenza che afflisse la città, suggerì agli ateniesi dei sacrifici rivelatisi successivamente salvifici.
[4] Nella cultura della Grecia antica una delle virtù più importanti è “kalòs kai agathòs”, il “bello” e il “buono” (il bene); la bellezza è concepita come una virtù eterna e immutabile, donata dagli dèi agli uomini; per Platone il bello è la causa dell'azione morale, quindi strettamente legato al buono. Plotino scrive nelle “Enneadi”: «Al bene bisogna risalire, a quel bene a cui ogni anima agogna… e sa in che modo sia bello». “Kalokagathìa”, concetto derivato da “kalòs kai agathòs”, identifica l'ideale di perfezione fisica e morale dell'uomo, virtù dell'uomo ottimo.
[5] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXII, traduzione di Emidio Martini.
[6] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIII, traduzione di Emidio Martini.
[7] I greci antichi differenziano le figure dell’amante (Eros) e dell’amato, tenendole rigorosamente separate; il concetto verrà semplificato dal Cristianesimo – e ancor più dal Cattolicesimo –, che tenderà ad avvicinare le due figure, facendo diventare ciascuna delle due contemporaneamente amante e amata: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» («L’Amore non tollera che l’amante, colui che ama, non sia amato a sua volta»), verso 103, Canto V dell’Inferno, Divina Commedia.
Tuttavia deve essere chiaro che l’amore dei due amanti-amati è finalizzato, in perfetta analogia con la cultura Greca, alla virtù divina, e non alla loro reciproca passione sentimentale e carnale.
[8] I greci antichi chiamano la verità “epistème”, parola che deriva dal greco (ἐπιστήμη) ed è composta dalla preposizione epì- (“su”) e dal verbo histemi (“stare”); quindi “stare sopra”. L'epistème designa la conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che intende porsi “al di sopra” di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti. Platone contrappone epistème a “dòxa” (opinione personale soggettiva).
[9] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIII, traduzione di Emidio Martini.
[10] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIV, traduzione di Emidio Martini.
[11] L’uomo, se amante, può concepire solo stando nel bello, e viene spinto a farlo perché ama l’immortale, cioè l’immortalità. Ci sono uomini fecondi nel corpo, e sono amorosi per questa via, procurandosi l’immortalità per mezzo della generazione dei figli; e ci sono uomini fecondi nell’anima, capaci di partorire la saggezza e altre virtù.
[12] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXVIII, traduzione di Emidio Martini.
[13] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIX, traduzione di Emidio Martini.
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Copertina: “Eros”.
Disegno di Lapo Lani, realizzato con colori acrilici su carta bianca, e successivamente elaborato con processi digitali. Dimensioni: cm 26x32,8. Anno: marzo 2023. Collezione privata.
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