#quel libro aveva tutto
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While you were reading harry potter, i was studying nina la bambina della sesta luna
#italy tag#nina la bambina della sesta luna#quel libro aveva tutto#androidi alchimia bambini pronti ad ammazzare animali magici che muoiono
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Il 6 Agosto di 79 anni fa il lancio della prima bomba atomica sul Giappone.
Polverizzarono all'istante più di 70000 persone ed altrettanto morirono per cro negli anni successivi.
Lo ricordiamo oggi come il primo lancio di bombe chirurgiche e democratiche di chi da li a breve penso' che in fondo, lanciarne un'altra, non era poi così disumano perché la pace prima di tutto.
I criminali di guerra USA non dovranno comparire davanti ad un tribunale militare stile Norimberga, non verranno mai giudicati.
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Il Giappone voleva arrendersi. Lo aveva detto chiaramente a più riprese e loro, gli Usa, lo sapevano. Lo sapevano perfettamente!
Ma non gli bastava una resa, a loro non è mai bastato raggiungere l'obiettivo della pace, non gli è mai importato nulla di tutto ciò. Hanno sempre mirato a mostrare al mondo intero uno strapotere militare criminale per i propri vantaggi economici e per riscrivere la storia a proprio piacimento. L'obiettivo è stravincere e umiliare gli avversari spargendo sangue e macerie, soprattutto per dare benzina al motore della propaganda Hollywoodiana, per fare in modo che tutti pensino di essere di fronte al paese perfetto che salva sempre il mondo dai cattivi e che persegue la democrazia per sé e per conto terzi.
Nessuno ancora oggi, almeno nella parte occidentale, chiama le bombe atomiche sganciate a Hiroshima il 6 agosto e a Nagasaki il 9 agosto del 1945 "crimini di guerra". Nessuno in quel pezzo di mondo occidentale ha il coraggio di pronunciare questa frase nonostante siano stati inceneriti in mezzo secondo centinaia di migliaia di civili bambini, donne e anziani Giapponesi che non c'entravano nulla. Il crimine di guerra più atroce della storia pari solo ai crimini di guerra israeliani ai danni dei Palestinesi.
In quel lontano 1945, come dicevamo, il ministro degli esteri Giapponese aveva inviato un messaggio al suo ambasciatore a Mosca. Quel messaggio diceva che volevano far finire la guerra perché ormai si erano resi conto di essere stati sconfitti. In sostanza avevano offerto la resa a patto che l'imperatore non subisse ritorsioni. Cosa peraltro successa anche dopo le bombe atomiche perché gli Usa imposero che l'imperatore diventasse un loro fantoccio. Oltre a questo c'è un'altra cosa altrettanto importante, c'è il Memorandum MacArthur: questo documento riporta ben cinque richieste di resa arrivate agli Usa da alte personalità Giapponesi che agivano per conto dell'imperatore.
Ma agli USA non interessava nulla. Loro dovevano sganciare quelle bombe, bruciare vivi civili e contaminare per le successive generazioni un intero territorio per far vedere al mondo intero, soprattutto alla Russia che era stata già designata come prossimo avversario strategico di avere a disposizione queste armi nucleari. Qualcuno nei ranghi dell'esercito statunitense propose di sganciare le bombe in un'isola remota per evitare una strage. Ipotesi scartata perché quando sei un criminale naturale nato da un genocidio, la cosa più importante è continuare a delinquere. Allora come oggi.
Questa è storia che viene scientemente tenuta nascosta subdolamente. Infatti in nessun libro di storia dei cicli di istruzione nel mondo occidentale la si trova. Intere paginate sullo sbarco in Normandia mentre le bombe atomiche relegate come nota a margine. Esattamente come la battaglia di Stalingrado dove venne sconfitto Hitler per mano del sangue Russo. Ma non può essere cancellata. Bisogna fare in modo che non venga cancellata, costi quel che costi! È necessario coltivare la memoria per non essere fuorviati dalla propaganda che continua a trattarci come degli imbecilli.
Si continua a far credere, con ogni metodo possibile e immaginabile, che ci sia un paese detentore di verità e giustizia. Un paese che si erge e viene eretto a più grande e perfetta democrazia del mondo. Credo che queste siano le bugie più grandi della storia dell'umanità. Ma non perché lo dica io, semplicemente perché i fatti smentiscono categoricamente questa narrazione. Parliamo dello stesso paese che, ed è bene rammentarlo continuamente, a oggi è stato l'unico a sganciare l'atomica. Senza alcuna motivazione. Solo perché avevano deciso così...
GiuseppeSalamone
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“Nonoo” questa mattina sei venuto a mancare e dopo aver lottato per altri tre mesi, anche se in ospedale ti avevano dato pochi giorni, ininterrottamente non hai mai mollato quel filo sottile che divide la vita dalla morte; anche contro le tue volontà a testa alta col tuo carattere (in cui non mi rispecchiavo) sei riuscito a tenerti vivo, ahimè, purtroppo, la morte vince si tutto, non ha pietà.
Fin da piccolo il tuo sogno era di vedermi guidare, cosa che se pur col tempo ho saputo apprezzare non ho mai amato fare come te, prima che l’infarto ti colpisse definitivamente ti avevo fatto una promessa, di portarti a vedere un gran premio di formula uno, da noi tanto amata, questo seppur per evidenti problemi economici non mi avrebbe mai impedito di non farlo, però non avresti avuto le forze, anche se immagino che ti saresti commosso, anche se una persona come te era difficile vederla piangere.
Abbiamo avuto periodi in cui ci costruivamo mentalmente dei muri invisibili e proprio per la differenza del nostro carattere questo ci ha ferito entrambi, fuori sicuramente eravamo orgogliosi ma il problema poi è sempre dentro, quel peso che a lungo andare ti consuma fino a trasformalo in malattia.
Col senno di poi siamo bravi tutti, tu hai le tue responsabilità e io le mie, non esistono santi, nessuno di noi due ha vinto o perso, nonostante abbiamo sofferto, ci siamo riavvicinati pian piano, con più fiducia e lo abbiamo fatto raccontandoci la mia, la nostra infanzia, nostra perchè alla fine hai passato davvero tanti anni assieme a me quando ero piccolo, io non dimentico i tuoi errori nonno, ma nemmeno il bene che mi hai fatto, la tua immensa disponibilità per me e la mamma quando aveva bisogno di essere portata per lunghi anni su e giù in ospedale, sappi che queste cose rimarranno impresse nella mia testa, perché col tempo, forse crescendo, anche se ancora mi vedo, sai, un po’ bambino, quel Mattia che era il tuo idolo, che doveva essere il migliore di tutti, ma che in realtà voleva solo essere come tutti, e che quei tutti avessero il mio stesso cuore, quella bontà che col tempo è pian piano svanita.
Chi si dimentica di tutta quella gente che ci Incontrava in bici la mattina presto?
La tua felicità negli occhi, nel vedere come tutti si fermassero a guardarmi, a parlarmi e a sottolineare il fatto che il sorriso non mi mancasse mai.
Si andava a prendere il pane, ne volevo subito un pezzo, ci fermavamo a vedere tutti i cani della via con la speranza che rispondessero alle mie parole, e restavo lì convinto fino a quando sentivo abbaiare e tu mi davi conferma delle loro risposte.
Che periodi, cercavo sempre mia mamma, purtroppo per via del lavoro per me era come stesse via intere settimane ma in realtà così non era, però tu ben sapevi quanto io sia legato a mamma, e tranquillo ricorderò sempre quanto anche tu lo fossi, anche se spesso avevi qualcosa da ridere per via del tuo carattere ricorderò le tue ultime parole: “La mamma è la donna più intelligente che ho conosciuto, fin troppo buona e disponibile per tutti, voglio che lei lo sappia”.
Potrei scrivere un libro, non un poema su ciò che abbiamo vissuto insieme, sei stato la mia infanzia, il mio periodo preferito, lo rivivrei mille volte, nonostante il tuo modo di essere, ma chi sono io per giudicare? Certo, quello che penso lo dico, come hai sempre fatto tu, ma allo stesso tempo non mi nasconderò mai come non giudicherò mai!
Ora stai vicino alla nonna, e assieme fatemi il regalo più grande, che non sono i soldi, non sono una vita di successi, ma la speranza di vedere vostra figlia, mia mamma, stare un po’ meglio.
Solo questo.
Il pensiero rimbomberà sempre nella mia testa, fra cose belle e cose brutte, ma per vivere di questi tempi, bisogna affidarsi solo all’amore, lo sai nonno no?
Quella piccola parte di odio che io ho sempre avuto verso la mia generazione, e tu, verso chi ben sapevi, era molto simile, però se fossi qui so che con un sorriso, e magari una lacrima, diresti: “Qua te ghe rason”.
Ciao caro nonno, ti voglio bene❤️
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[...]
Luana è morta il 3 maggio del 2021 finendo nell’ingranaggio di un orditoio della fabbrica in cui lavorava, a Montemurlo, in provincia di Prato. Lavorava lì da circa due anni, aveva fatto quella scelta per avere una paga sicura anche per dare stabilità al suo bambino. Si era alzata come ogni mattina alle cinque per andare a svolgere il suo lavoro di apprendista. «Quel giorno lei sarebbe dovuta rientrare a pranzo: era il mio compleanno – ricorda la madre Emma – alle 13.40, mentre l’acqua della pasta stava per bollire, sono arrivati due carabinieri a darmi la notizia: mia figlia si trovava all’obitorio».
La signora Marrazzo si batte per il tema della sicurezza sul lavoro, porta avanti le sue istanze, partecipa ai processi, interviene nelle scuole. «Senza la sicurezza, non si torna a casa. Voglio dirlo ai giovani perché le Istituzioni sono assenti e, mentre i responsabili patteggiano o si salvano, in un modo o nell’altro, con attenuanti e con sospensioni della pena, il nostro, di noi famigliari, è un ergastolo a vita. Ci vogliono pene gravi o gravissime».
«Non si può immaginare il dolore di una mamma che perde un figlio. Non passa, aumenta. Mi aggrappo a mio nipote, non ricordo più com’ero prima di quel giorno. Luana riempiva la casa di gioia, mi manca in tutto. Quella porta non si apre più e così la ritrovo nei ricordi e nel suo cellulare, dove riascolto i suoi audio. Mi manca andare in giro con lei, condividere. Quando riscuoteva lo stipendio era felice e mi portava subito fuori. Aveva tempo per tutti, anche dopo il lavoro. Con suo figlio, con me, con le amiche, con il suo compagno: trovava il tempo per amarci tutti. Non è giusto andare a lavorare per produrre quel poco di più per l’azienda e perdere la vita, lasciare un figlio orfano. I sindacati devono unirsi tutti. Non ho mai ricevuto una lettera da parte dell’azienda e il giorno del funerale hanno lasciato aperta la fabbrica. Non voglio vendetta, ma dare un segnale chiaro».
Sono passati diversi anni, ma di lavoro si continua a morire, come ha scritto Raffaele Bortoliero nel libro “Non si può morire di lavoro – Storia di giovani vite spezzate”. L’autore è impegnato a promuovere la sicurezza sui luoghi di lavoro raccontando le storie di giovani, alcuni studenti lavoratori, che hanno perso la vita lavorando e che nessun Paese civile dovrebbe dimenticare. Così come non si dovrebbero dimenticare le loro famiglie, abbandonate al loro dolore e alla rassegnazione.
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In un villaggio viveva un vecchio molto povero, ma perfino i re erano gelosi di lui perché aveva un bellissimo cavallo bianco; non si era mai visto un cavallo di una simile bellezza, una forza, una maestosità… i re offrivano prezzi favolosi per quel cavallo, ma l’uomo diceva a tutti: “Questo cavallo non è un animale per me, è come una persona. E come si può vendere una persona, un amico?”. L’uomo era povero, la tentazione era forte, ma non volle mai vendere quel cavallo.
Un mattino scoprì che il cavallo non era più nella stalla. L’intero villaggio accorse e tutti dissero: “Vecchio sciocco! Lo sapevamo che un giorno o l’altro ti avrebbero rubato il cavallo. Sarebbe stato molto meglio venderlo. Potevi ottenere il prezzo che volevi. E adesso il cavallo non c’è più, che disgrazia!”.
Il vecchio disse: “Non correte troppo! Dite semplicemente che il cavallo non è più nella stalla. Il fatto è tutto qui: il resto è solo giudizio. Se sia una disgrazia o meno non lo so, perché questo è solo un frammento. Chissà cosa succederà in seguito?”. Ma la gente rideva, avevano sempre saputo che era un po’ matto.
Dopo quindici giorni, una notte, all’improvviso il cavallo ritornò. Non era stato rubato, era semplicemente fuggito, era andato nelle praterie. Ora non solo era ritornato, ma aveva portato con sé una dozzina di cavalli selvaggi.
La gente di nuovo accorse e disse: “Vecchio, avevi ragione tu! Quella non era una disgrazia. In effetti si è rivelata una fortuna”.
Il vecchio disse: “Di nuovo state correndo troppo. Dite semplicemente che il cavallo è tornato, portando con sé una dozzina di altri cavalli… chissà se è una fortuna oppure no? È solo un frammento. Fino a quando non si conosce tutta la storia, come si fa a dirlo? Voi leggete solo una parola in un’intera frase: come potete giudicare tutto il libro?”.
Questa volta la gente non poteva dire nulla, magari il vecchio aveva ragione di nuovo. Non parlavano, ma nell’intimo sapevano bene che il vecchio aveva torto: dodici bellissimi cavalli, bastava domarli e poi si potevano vendere per una bella somma.
Il vecchio aveva un unico figlio, un giovane che iniziò a domare i cavalli selvaggi. E dopo una sola settimana, cadde da cavallo e si ruppe le gambe. Di nuovo la gente accorse, dicendo: “Hai dimostrato un’altra volta di avere ragione! Non era una fortuna, ma una disgrazia. Il tuo unico figlio ha perso l’uso delle gambe, ed era l’unico sostegno della tua vecchiaia. Ora sei più povero che mai”.
Il vecchio disse: “Sempre a dare giudizi, è un’ossessione. Non correte troppo. Dite solo che mio figlio si è rotto le gambe. Chissà se è una disgrazia o una fortuna?… non lo sa nessuno. È ancora un frammento, non ne sappiamo mai di più…”.
Accadde che qualche settimana dopo il paese entrò in guerra, e tutti i giovani del villaggio furono reclutati a forza. Solo il figlio del vecchio fu lasciato a casa perché era uno storpio. La gente piangeva e si lamentava, da ogni casa tutti i giovani erano stati arruolati a forza, e tutti sapevano che la maggior parte non sarebbe mai più tornata, perché era una guerra persa in partenza, i nemici erano troppo potenti.
Di nuovo, gli abitanti del villaggio andarono dal vecchio e gli dissero: “Avevi ragione, vecchio: la tua è stata una fortuna. Forse tuo figlio rimarrà uno storpio, ma almeno è ancora con te. I nostri figli se ne sono andati, per sempre. Almeno lui è ancora vivo, a poco a poco ricomincerà a camminare, magari solo zoppicando un po’…”.
Il vecchio, di nuovo, disse: “Continuate sempre a giudicare. Dite solo che i vostri figli sono stati obbligati a partire per la guerra, e mio figlio no. Chi lo sa… se è una fortuna o una disgrazia. Nessuno lo può sapere veramente. Solo dio lo sa, solo la totalità lo può sapere”.
Non giudicare, altrimenti non sarai mai unito alla totalità.
Sarai ossessionato dai frammenti, vorrai trarre delle conclusioni basandoti solo su dei particolari.
Una volta che hai espresso un giudizio, hai smesso di crescere.
Di fatto, il viaggio non finisce mai.
Un sentiero finisce, e ne inizia un altro.
Una porta si chiude, e un’altra se ne apre…
Tratto da un racconto di Osho
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Temino: in base alle tue recenti letture, immagina di scrivere una breve epistola a Cesare Pavese: cosa gli diresti?
Svolgimento.
Caro,
❤ Sto capendo, lettera dopo lettera, quanto la prigione e l'isolamento del confino ti abbiano fatto male. Con le dovute proporzioni, la tua vicenda interiore mi ha ricordato quella di Primo Levi in Se questo è un uomo. Lui è stato in un campo di prigionia tedesco, ha vissuto esperienze più dure, ma pure su di te il regime fascista ha esercitato violenza, abuso, estirpandoti dal tuo ambiente socio-culturale; ti ha piegato il capo e fatto vivere in condizioni innaturali, bestiali, che hanno ulteriormente minato la tua percezione di te stesso, la tua dignità. Mi dispiace tanto non esserci stata per te, allora.
❤ Ho capito che il tuo amore per Tina, la ragazza per cui eri andato in prigione, è cresciuto, si è esacerbato, è divenuto ossessione proprio in quel periodo di forzato isolamento. Lei era diventata il tuo sogno di donna che avresti sposato non appena fossi tornato un uomo libero. Era diventata l'emblema della stessa libertà e della tua riscossa. Ma lei si faceva pregare pure per scriverti una semplice cartolina. Era distratta, non era connessa con te.
❤ Capisco perché svenisti non appena sapesti che aveva sposato un altro. Mettesti tutto te stesso, la scoperta di te stesso attraverso l'amore per lei, nella poesia intitolata "Dopo". Ti aspettavi che, leggendola nel tuo libro appena pubblicato, "Lavorare stanca", lei ti scrivesse. Ma niente, era di sasso. Allora la tua smania si è fatta più feroce, perché avevi segretamente riposto in questa pubblicazione l'aspettativa di essere apertamente corrisposto da lei.
In effetti, è una poesia folgorante, che smuoverebbe i sassi, e tanto più una donna che è stata con te. Ma lei non aveva condiviso la tua gioia: forse era distratta. Infatti, successivamente, scrivesti che far poesia è come fare l'amore: non sai mai se la tua gioia è condivisa. Però, dico io, non lo sai solo se la donna sta un po' sulle sue...se non legge con interesse la poesia, insomma!
😊 Comunque, se scrivi buona poesia, non resti mai a mani vuote: qualche anima gemella sparsa per le epoche e il mondo la trovi sempre! ❤🌹
Ingeneroso da parte di quella donna, scrivere nella sua autobiografia che tu volevi un pubblico e pretendevi che lei svolgesse questa funzione: piuttosto, volevi un'anima con cui condividere il sentimento della vita, la scoperta della natura, dell'amore, del "tutto"; una compagna di avventura intellettuale ed esistenziale! Quello che potrei essere io,
La Tua dev.ma
***
Prof, ho usato alcune emoticon per fare capire meglio a Cesare cosa provo per lui: non me le segni in rosso, per favore.
#tema#io speriamo che me la cavo#per non sapere né leggere né scrivere#università della vita#sei politico#appunti
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In questi giorni penso sempre più spesso che sia la scelta giusta quella di tornare a casa per tutta una serie di motivi che non è necessario elencare. Credo che sia una convinzione profonda dato che oggi ho sognato un banchetto in mio onore, per il mio ritorno a casa: stavamo cenando tutti insieme e avevano organizzato un'altra cena dove avrebbero portato del cibo che mi piace ed io chiedevo esplicitamente la ricotta fresca perché non la mangiavo da tempo. Ci sarebbero tanti altri dettagli in questo sogno da attenzionare: prima di diventare una cena in mio onore era una normale cena in famiglia con mia nonna che era ancora viva, io ero stranamente accudente nei suoi confronti, ad un certo punto scivola e con mia madre ci apprestiamo a rimetterla in piedi ed è semplicissimo perché lei è leggerissima. La cosa mi sorprende nel sogno stesso: non era un peso morto da sollevare col rischio di farti male, ma era come se mia nonna avesse contribuito a rialzarsi, lì nel sogno stesso ho pensato "mia nonna si è fatta salvare". E non solo: credo anche sia un modo per fare pace con lei dato che la guardavo con gli occhi impietositi ma senza giudizio di chi guarda una persona malata. Forse insomma, adesso, a distanza di anni ho fatto pace con lei, ho accettato e riconosciuto la sua malattia e tramite l'atto di sollevarla mi piace pensare che sia un modo per stabilire una sorta di contatto con lei, forse anche il desiderio che avevo al tempo di aiutarla se fossi stata capace di non farmi accecare dal dolore che lei mi provocava; averla sentita complice e collaborativa, nel sogno, mi aveva fatta sorridere, finalmente era nostra amica e non una nemica. Altri elementi degni di attenzione era un quadro digitale con un mio ritratto in tre pose differenti tra le quali vi era anche un nudo; io ero contenta di quel quadro, pensavo che le foto fossero venute bene e che io fossi venuta bene nonostante il fisico. Nel sogno ricevevo dei giudizi negativi, io al solito mio mi limitavo ad ascoltare per poi dire in tono stizzito ma non eccessivamente sentito che loro pensavano che dovevo fare questo o quello per stare meglio ma non avevano presente niente di me. Un ragazzino, che non ho idea di chi fosse, nel sogno era il figlio della vicina, mi disse che studiava al classico indirizzo di filosofia (che non so cosa voglia dire se non che studiava al classico e anche filosofia) e allora io mi mostrai molto entusiasta dicendo che trovavo la filosofia molto interessante. Ci sono stati elementi disturbanti, anche, quali uno scorpione che chiaramente aveva puntato me, mi seguiva in maniera aggressiva lanciando il veleno dalla coda; o l'aver "beccato" nel sogno un uomo – e non una persona qualunque, ma un uomo in particolare che non mi piace immaginare in quel modo – toccarsi e masturbarsi di fronte ad un porno.
Insomma, tutto questo per dire che anche se è dura ammetterlo sono felice di ritornare a casa in Sicilia e che lo sono in maniera profonda tanto da coinvolgere anche l'inconscio e la vita onirica, che forse sto iniziando a fare pace con tanti elementi passati della mia vita che ho messo da parte in maniera rabbiosa, schifata e disgustata e profondamente arrabbiata. E che ultimamente sto facendo sogni interessanti, che mi colpiscono e di fatti qualche giorno fa ho iniziato a leggere un libro su Jung perché voglio iniziare a leggere Jung.
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L'inizio
“A poco a poco devi creare intorno a te una nebbia; devi cancellare tutto ciò che ti circonda, finché non si possa dare più nulla per scontato, finché più nulla è certo o reale…”
Questa frase, giunta chissà da dove, gli trapanò la testa in un nanosecondo e invase il suo cervello a ranghi compatti, come una falange dell’antica Roma.
Fortunatamente il foro prodotto permise anche alla musica, che proveniva dal potente impianto stereo poggiato sulla libreria, di entrare e ricamarsi il suo spazio, con un subitaneo effetto benefico.
“C’è un tempo per andare dritti giù all’inferno, c’è un tempo per tornare a saldare il conto…”
La musica e le parole che gli fecero drizzare i peli delle braccia e allargare il cuore, erano quelle della Gang, uno dei suoi gruppi preferiti. Il migliore nella vasta costellazione delle band italiane. Li aveva sempre amati, fin dal loro esordio, oramai molti anni prima. Li aveva ascoltati crescere, passo dopo passo, aveva approvato e condiviso senza riserve la scelta di passare dall’inglese all’italiano per la scrittura dei testi, anche se, lo sapeva con certezza, non sarebbero comunque mai arrivati a tutti con la dovuta forza. Peccato. E peccato anche non averli mai incontrati di persona. Chissà, forse le cose sarebbero potute andare diversamente. Chissà!
“Quando un uomo decide di fare una determinata cosa, deve andare fino in fondo, ma deve prendersi la responsabilità di quello che fa. Qualunque cosa faccia, deve prima sapere perché lo fa e poi deve andare avanti con le sue azioni senza dubbi o rimorsi…”
Queste invece erano le parole del Libro. Dischi e libri insieme. Mescolati tra loro, impastati col suo stesso sangue, a formare un unico corpo con la consistenza del cemento armato e l’elasticità di una tela di ragno.
A ciò stava pensando l’uomo intento a radersi, ben piantato di fronte allo specchio del bagno. E radersi, per lui, non era una semplice operazione quotidiana di pulizia, che so, come lavarsi i denti o farsi la doccia,ma un vero e proprio momento catartico, una pulizia, vero, ma quasi più interiore che esteriore. Del resto anche la stanza da bagno somigliava più ad un luogo di meditazione e purificazione, piuttosto che al luogo che tutti conosciamo e vogliamo che rimanga. Era amplissima e luminosa, bianca, completamente bianca, muri, maioliche, sanitari, cornice dello specchio e la lunga mensola che correva su tre lati delle pareti: tutto rigorosamente bianco. Le uniche concessioni al colore e che davano carattere al luogo erano: la sedia a dondolo in bambù ed una stampa raffigurante l’Urlo di Munch; poste una di fronte all’altra.
“Bruciami l’anima, fammi ridere il sangue nel cuore, bruciami l’anima…”
Questo era il disco.
“C’è di male che una volta che ti conoscono, tu sei una cosa data per scontata e, da quel momento in avanti, non sarai più capace di rompere i legami dei loro pensieri. Io personalmente amo la libertà ultima di essere sconosciuto…”
Questo invece era il libro.
“E passala sta cazzo de palla, Salvato'! E’ vero che l’hai portata tu, ma ci dobbiamo giocare tutti! Cazzo!”
Questa era una voce nuova! E non proveniva né dal libro, né dal disco.
L’uomo terminò di radersi, si risciacquò il viso con abbondante acqua fresca e si affacciò sul vicolo sottostante. Un gruppo di una decina di ragazzini stava giocando al calcio in strada. Era una partita vera, cinque contro cinque, chi arriva prima ai dieci goal segnati, e i maglioni gettati in terra erano le porte regolamentari. La scena lo commosse e lo riportò indietro nel tempo, in un’altra galassia. Anche lui, secoli prima, era stato uno di quei monelli e si era battuto come un leone con i suoi coetanei, nei vicoli del suo paese, così simili a quelle vie della vecchia Roma che, in senso lato, erano diventate la sua nuova dimora.
Ma non aveva tempo per affogare nel miele dei ricordi. Con uno schiocco della lingua li ricacciò indietro e tornò alle sue faccende. Ammirò per l’ultima volta allo specchio il suo lavoro, approvò con un accenno di sorriso il disegno perfetto del pizzetto e si passò ripetutamente il palmo della mano sui corti capelli neri a spazzola. Gli sarebbe piaciuto rasarli a zero, lo aveva anche fatto tempo prima, molto tempo prima, ma si era accorto che dava troppo nell’occhio. Troppe persone lo notavano e non poteva permetterselo; così aveva optato per quel taglio anonimo.
Era vero che, negli ultimi due o tre anni, i pelati erano tornati di moda ed erano cresciuti in maniera esponenziale. E anche se le teste rasate erano ancora ben lungi dal raggiungere il numero delle teste di cazzo, si poteva tranquillamente affermare che la forbice si era ristretta.
Andò in camera ed iniziò a vestirsi. Erano le otto di sera di un bel sabato di fine settembre. L’aria era fresca e pulita e lui aveva un appuntamento cui non poteva mancare. Indossò il suo impeccabile vestito nero, comode ed eleganti scarpe di pelle, anch’esse nere, infilò la pattada sarda nella tasca interna della giacca e fece poi scivolare la sua trentotto special nella fondina ascellare perfettamente nascosta dal taglio dei suoi abiti. Infine spense la luce ed uscì in strada. Il lupo era sceso dalla montagna. La caccia era iniziata.
“Il mondo è un luogo misterioso. Specialmente al tramonto.”
Era di nuovo il libro a far udire la propria voce.
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Il mio omaggio a #Outlander
Ho finito Outlander, non ne avrò più di nuovo fino a Novembre, oltretutto è finito su un cliffhanger devastante, e io in questo momento, in preda a una vera e propria sensazione di astinenza come mi era successa soltanto con qualche libro da giovane, vorrei potermi smemorizzare come un hard disk.
Invidio chiunque di voi là fuori, anime affini, che non l’abbia ancora visto.
Probabilmente non è pane per i denti di tutti - ad esempio per me la scintilla non è mai scattata con Game of Thrones, e nemmeno con quel freddissimo capolavoro di Boardwalk Empire, per citare alcune serie che scaldano il cuore dei più ma non il mio- ma se amerete Outlander come l’ho amato io in questo mese, in cui mi ha tenuta calda la sera prima di dormire, come avevano potuto fare soltanto i libri della mia infanzia, state per godervi una delle storie più appassionanti degli anni duemila.
Claire (pure il nome!), infermiera militare britannica reduce di guerra, abituata agli orrori dell’ultimo conflitto mondiale sui fronti orientali e africani e nelle retrovie del D-Day, nel 1945, mentre tutti festeggiano la vittoria, è già straniera in patria e nel suo stesso mondo interiore.
Irrequieta e vivacissima, intelligente e piena di bontà, ormai cambiata dal dolore e segretamente colpita da stress post traumatico che si manifesta soprattutto con i forti rumori, Claire non ha più confidenza con il marito Frank, anche lui militare britannico dopo tanta guerra e tanta lontananza.
I due decidono, per cercare di salvare il proprio matrimonio, di passare una “seconda luna di miele” in Scozia, in una vacanza nei pressi del borgo medievale di Inverness, sulle montagne del nord del paese, per tornare a riconoscersi.
Qui Claire, durante una passeggiata solitaria per raccogliere alcuni fiori, viene attratta come da una calamita da un antico cerchio di pietre su un colle, dove la notte precedente lei e suo marito, storico militare, avevano assistito a una danza di un gruppo di persone del luogo che avevano salutato l’alba con un rito druidico.
Claire non lo sa, ma è una “viaggiatrice”: la storia non lo spiega ma qualche rara persona, forse per un retaggio magico e soprannaturale, per qualche lascito genetico extraterrestre o fatto della stessa essenza della Scozia immortale, può entrare in una sorta di risonanza con certi cerchi di pietre che sono veri e propri portali verso il passato.
A Craigh na Dun, nel cerchio di pietre, Claire, ipnotizzata dal loro canto, che solo lei può sentire, si appoggia ad una di esse e improvvisamente viene catapultata indietro di 200 anni, nel bel mezzo delle guerre tra Inghilterra e Scozia per la successione confessionale del trono tra Stuart e Hannover (gli odierni Windsor).
Da questo inizio sorprendente parte un’avventura alla “Angelica” che attraversa quarant’anni di storia europea e americana, vista attraverso gli occhi puri di Claire, eroina indomita e indimenticabile, pronta ad attraversare tempo e spazio per restare fedele al suo cuore e a quella che è, sempre in dubbio se poter cambiare la storia che lei conosce, o lasciare che le cose (e il dolore che ne deriva) facciano il loro corso ineluttabile.
Outlander è una storia indefinibile, non bene inquadrabile e molto originale, nessuno aveva mai pensato di ambientare un’opera sostanzialmente di fantascienza classica (c’è tutto Herbert G.Wells) nell’ambito delle guerre continentali tra settecento e primi dell’Ottocento, rappresentate come in un romanzo storico più che in un romance di costume e in costume.
L’originalità è la pausa di vent’anni tra i due ritorni “al passato” con la protagonista che si laurea in medicina, diventa un abile chirurgo, cresce la figlia e vive sostanzialmente una vita dissociata (lei è *sempre* straniera, “outlander”, “sassenach”, ovunque e in qualsiasi tempo si trovi) nella Boston della Golden age del secondo dopoguerra, poi torna dal suo grande amore, il buio e violento, e insieme tenerissimo Highlander Jamie nel settecento, ma vent’anni dopo, ed entrambi hanno già qualche filo grigio tra i capelli.
Si tratta di una rivisitazione elegantissima del classico romanzo d���appendice, ma di una qualità stellare.
Con momenti anche di stanca (avrei evitato sia la storia del pirata nella quinta stagione sia quella dello stupro di gruppo, c’è qualche scena d’amore sessuale di troppo per i miei gusti, io sono per il vedo non vedo), ma anche momenti di poesia purissima - l’episodio dello schiavo nella piantagione americana salvato da Claire soltanto per poi doverlo poi consegnare, il vecchio crudele abbandonato nella cabina dalla sua moglie bambina; le prime stagioni (meravigliose) che vedono “in diretta” la fine di un mondo ancora quasi medievale come quello delle highlands, in cui si usavano ancora le spade seicentesche di Toledo, per forza di quelli (gli inglesi) che erano a tutti gli effetti degli oppressori, le scene di battaglia nel nuovo mondo e tutto il filone sulla rivoluzione americana, le scene caraibiche degne di Stevenson e i suoi tesori nascosti, le traversate degne di Patrick O’Brian se non di Conrad, il mistero delle pietre e il “rumore” che sentono soltanto “i viaggiatori”, il personaggio struggente di Lord John, capo militare inglese, nobilissimo e puro di cuore, che amerà e rispetterà Jamie per tutta la vita sapendo di non poterlo mai avere, la potenza della medicina del novecento che deve districarsi nel segreto tra le superstizioni del settecento (Claire, medico del novecento, rischierà più volte di finire al rogo come strega)… come sempre non è quello che si prende dall’immaginario collettivo ma è dove lo si porti, come dice Jodorowsky. E in questo Ronald Moore (Battlestar Galactica) e Toni Graphia (Dr.Quinn, Medicine Woman) sono maestri.
Elegantissimo pastiche (polpettone? Polpettone sia), Outlander per me resta una delle cose più belle di sempre, degna dei miei libri di bambina, e del ricordo della mia mamma che per prima me li ha messi in mano.
Anche solo per quanto questa storia straordinaria mi abbia fatto pensare a lei, ne è valsa davvero la pena.
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È stata la nonna!
Arrivo al laghetto dei cigni e un gruppo di cinque di loro mi aspettava già con le ali messe a mo' di pugno e se vi state domandando come sono delle ali messe a forma di pugno vi posso solo assicurare che sono grosse. Morbide all'inizio ma poi fanno male. Inutile dire che le ho prese di santa ragione e mi sono dovuto imbarcare sull'aereo indossando gli occhiali da sole per coprire i segni della sconfitta. Neanche a farlo apposta gli occhiali da sole li ho tenuti su per tutti i giorni a venire anche se di sole non se ne è visto molto ma così si notava di meno quando piangevo.
Il paese dove vivono i nonni era tappezzato di manifesti con il nome della nonna. Non sono abituato a vedere gli annunci mortuari su i muri e ancora meno di leggere il nome da nubile di mia nonna. È una strana usanza. Sembrava quasi ci sarebbe stato un suo concerto, "Prossimamente, nella chiesetta più vicina a voi, Pupetta live!". Leggere il suo nome mi ha fatto capire che era tutto vero. Non so da quanti anni non moriva qualcuno in famiglia. La malattia, quella c'è sempre, è nostra compagna, ma la morte ci ha sdegnato per quasi una ventina di anni e ora sta tornando a prendere ciò che aveva lasciato in sospeso, come una madre che dice al figlio in fila al supermercato "Aspettami qua, ho scordato una cosa" e tu rimani fisso a guardare il cassiere avvicinarsi sperando che torni il prima possibile perché non hai neanche un soldo finché non arriva e te le fa pagare tutte.
La morte fa schifo ma la malattia fa schifo ancora di più. La morte arriva e cancella i ricordi della malattia e di colpo la nonna era quella delle foto dove sorrideva e non la minuscola crisalide riposta nel letto freddo. Ci hanno provato tutti questi anni di sofferenza a farmi scordare come era una volta ma non ci sono riusciti.
In chiesa il prete ha chiesto un volontario per leggere qualcosa davanti a tutti i parenti. Ovviamente mi hanno indicato dicendo "Vai Matteo, fai tu" perché se cresci facendo lo stronzetto arrogante egocentrico se lo ricorderanno sempre. Indossavo gli occhiali da sole ovviamente, il prete neanche si è accorto delle lacrime su i fogli plastificati per i funerali. Ogni tanto erompeva un singhiozzo ma ho dato la colpa a una colazione abbondante. - Leggi questo estratto dal libro della Sapienza - Ah, bene bene, certo, e come vuole che lo legga? - In che senso? - Posso interpretarlo un po' rap, magari un po' trap, o lo faccio bello teatrale eh, che dice? - ... - Eh, che dice? - Leggi questo estratto dal libro della Sapienza. I preti sono davvero un pubblico difficile.
Mi sono seduto vicino al nonno che stava piangendo accarezzando la bara. Ho accarezzato il nonno con la stessa delicatezza e ho sentito la sua pelle ora che non è ancora legno. "Nonno, mi hanno chiesto di leggere qualcosa, che dici, leggo con una vocina un po' alta e buffa così faccio ridere la sala che qua sono tutti tristi?". Il nonno si mette a ridere mi guarda e fa "Fetente!". Vedere il nonno piangere e ridere allo stesso tempo è stata una grande novità. Poi ha aggiunto "A fessa e soreta!" salvo rendersi conto dell'imprecazione appena pronunciata e tornare su i propri passi parlandone con tutti "Sapete che mi ha fatto dire quel fetente di Matteo? A fessa e soreta! In chiesa! Al funerale della nonna! È proprio nu fetente!" e rideva perché si era stancato di piangere e un po' tutti ci siamo messi a ridere e quando sono salito per leggere quel testo difficilissimo, ho ringraziato l'avere un podcast dove mi impegno a stare calmo e controllare la voce altrimenti non ci sarei riuscito.
Quindi è questa la morte di cui tutti parlano. Un posto in meno a tavola. Una sedia abbandonata dove per rispetto non voglio poggiare nemmeno una borsa. Fotografie ovunque che ingialliscono. Momenti dove i ricordi esplodono e bisogna condividerli e piangere. Tracce di chi non c'è più all'interno del telefono in chat che non vuoi archiviare per non farle passare in secondo piano. Guardare video per sentire la sua voce. Allenare la mente e portare alla luce gli elementi più preziosi. Riorganizzare una stanza, spostare un letto, togliere i vestiti e metterli in una valigia di lato, nell'armadio. La morte arriva e fa ordine lei. Se hai lasciato abbastanza pezzi di te allora potrai andare avanti in formati diversi e penso sia per questo che facciamo figli: perché loro diventano un pezzetto di noi quando non ci saremo più. Mia nonna vive nella memoria dei nipoti e di tutti quelli che la ricordano come la persona più dolce mai esistita. Io non ho figli, non so se ne avrò. Ho un gatto ma lui non mi parla e anzi oramai è ovvio che proprio mi odia. Tutto quello che lascerò sono le mie parole e questi post o delle canzoni o puntate di un podcast e allora spero che arrivi un'intelligenza artificiale a ricostruirmi completamente basandosi su tutta la mia produzione e io tornerò in vita sotto forma di un software di mediocre qualità. Sarebbe bello mi riponesse pure in un cd o un dischetto, meglio ancora in una cartuccia come quelle del Gameboy, tanto non è che sarei un software chissà che complicato. Uno vuole parlare con me e mi chiede "Come stai" e io rispondo con qualche battuta che non fa ridere nessuno e poi inizio a lamentarmi dei dolori alla schiena (che non ho) e di come le band di oggi abbiano nomi difficilissimi da ricordare. Forse è per quello che spero che una band prenda il nome di mia nonna così almeno saprei come pronunciarlo. Sarei una cartuccia interessante, delle volte fingerei di non funzionare solo per farmi soffiare nelle zone intime.
Un'altra cosa che accade quando un evento ti fa sbatte in faccia l'ovvio, cioè che siamo qua per un limitato periodo di tempo e poi "puff" si sparisce, è che inizi a cercare segnali ultraterreni ovunque. Per dare un po' di profondità alla desolazione. Il vuoto lasciato adesso devo capire come riempirlo e io ci voglio vedere qualcosa di bello. Pioveva senza sosta da tre giorni e stavo andando verso l'aeroporto. Non conosco laghetti pieni di cigni dove fare risse nelle zone di Napoli così la mia rabbia non sapevo come disinnescarla. Sono arrivato giusto in tempo per vedere le nuvole aprirsi e un arcobaleno è comparso a salutarmi prima dell'imbarco. È nata una vocina dentro di me che adesso dice ad ogni cosa bella che accade "È la nonna!". Ovviamente io non ci credo a queste cose, lo sanno tutti che gli arcobaleni non sono nonne defunte che vengono a salutare i nipoti prima della partenza ma che sono un fenomeno metereologico finanziato dalla comunità LGBTIQ+. Ti attirano con la promessa di una pentola stracolma di monete d'oro, la trovi, ti chini per raccoglierla e taaac! Ora ti piacciono gli unicorni.
Quella vocina che ho in testa è molto simile a quella di mia madre. "Vedrai che adesso ci pensa la nonna a te" mi ha detto dopo il funerale, quando cercavo di fare su una canna lontano dai parenti. Mi spiace essere quello che preoccupa tutti perché non ha idea di cosa sta facendo su questo pianeta se non cercare di disturbare il meno possibile. Mi spiace pure dover scomodare la nonna da lassù che magari ora vorrebbe solo svagarsi e giocare a volleyball. Dall'aereo ho visto il posto esatto dove costruiranno il campetto e dove lei vincerà tutti i tornei.
Mi ero dimenticato di aver partecipato ad un concorso, di aver passato tutto l'inverno a scrivere un libro per sfuggire dalla depressione generata dalla disoccupazione e dal grigio innevato viennese. Mi arriva un messaggio. "Leggi la mail". La leggo. "Siamo felici di comunicarle che il suo romanzo ha vinto!" per fortuna avevo ancora su gli occhiali da sole così nessuno ha notato che stavo nuovamente piangendo. Non sto facendo altro che piangere da settimane accidenti. Ho vinto. Cioè ora mi devo sbattere ok, devo riscriverlo, correggerlo, seguire i consigli di un mentor ma tutto questo non importa, i mesi di lavoro che mi aspettano non mi spaventano. Ho vinto.
"È stata la nonna" ha detto mia madre al telefono. O forse era la vocina nella mia testa. Poco importa, di voci in testa ne ho sempre avute tantissime e non è male averne una gentile che si contrappone alle altre che urlano "Fai schifo! Sei brutto! Sei grasso! Sei antipatico! Fallito!". Ora che c'è questa nuova comparsa mi sento meglio e posso dirlo senza troppa paura. Sono felice.
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Questo uomo no, #136 - Quello che lui è l'erede di Giulio Cesare
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Impazza la solita inutile ipocrita polemica su un libro scritto da un generale dell'esercito e pieno delle opinioni più discriminanti che si possano immaginare. E non è difficile immaginarle, visto che buona parte dell'opinione pubblica italiana le condivide. Ovviamente "condannare" l'autore di questa autopubblicazione non serve a nulla; uno vale l'altro, e di gente che la pensa in questo modo è piena l'Italia. È molto più difficile, come diceva una nota condottiera di persone che non aveva bisogno di divisa, "chiamare le cose col loro nome".
Gli stralci del libro che i giornali fanno a gara a pubblicare non si soffermano molto a lungo nell'analisi, né il più delle volte hanno gli strumenti per farla - o il coraggio di portarla fino in fondo. Come sa bene chi lavora con le questioni di genere e le discriminazioni, l'uso violento che si fa nel libro della parola "normale" è uno degli strumenti discriminanti più noti, longevi ed efficaci: confondendo il normale con il generale (la cosa si tinge di un sinistro umorismo) i più confondono "quello che è giusto che accada" con "quello che accade più di frequente". Se lo fanno o meno in malafede è un loro problema morale, ma che questa confusione ancora regni sovrana nella pubblica opinione è un problema etico.
Prendiamo a esempio l'omosessualità. In natura le specie fanno, riguardo il genere, la qualunque: sono ormai accertate scientificamente omosessualità e transgenderismo in numerose specie; in più, per molte specie è del tutto naturale avere individui che cambiano genere durante la loro vita, anche più volte a seconda delle condizioni ambientali, come sono naturali ogni tipo di comportamento e organizzazione sociale, dalla monogamia a vita al branco indistinto nel sesso e nell'accudimento. Quindi, per quanto certamente comportamenti non generali, sono certamente naturali. Il fatto che alcuni di questi comportamenti non siano numericamente la maggioranza, in natura non conta nulla: alla natura interessa mantenere alto un tasso di diversità, quindi anche se certamente l'omosessualità (e, già che ci siamo, il transgenderismo) non è il comportamento di maggioranza, è una naturale costante presenza. Esattamente come accade nella specie umana.
La parola normale - dovrebbe bastare il vocabolario - significa invece che c'è una norma, una regola; e questa regola, com'è oramai scientificamente accertato, in natura non c'è. Nessuno nega che, per molte specie, l'eterosessualità è necessaria alla riproduzione della specie, e infatti rimane il comportamento della maggioranza; ma questa non è una regola, e soprattutto non elimina né discrimina gli altri casi riguardo il genere. In nessuna specie non umana è stato osservato accanimento di qualsiasi tipo contro gli individui non etero. Che esistano individui non eterosessuali, o che non siano interessati alla riproduzione, non ha finora mai compromesso l'esistenza di nessuna specie. Per quello che scientificamente sappiamo, le specie scompaiono per violente o coatte modificazioni dell'habitat naturale o perché altre specie (di solito quella umana) le sterminano per i loro motivi privati. Di norma in natura ce n'è una sola: preservare le diversità e farne sempre accadere un certo numero, non maggioritario ma necessario. Un po' come in quel comportamento sociale che si è inventato la specie umana e che ha chiamato democrazia.
Socialmente le norme, le regole che descrivono cosa è normale e cosa non lo è, sono invenzioni del tutto umane che cambiano molto frequentemente, come qualsiasi storico o sociologo non in malafede può confermare. Non sono affatto naturali ma sociali: vengono usate dalle organizzazioni umane, grandi e piccole, per mantenersi nel tempo. Il normale è quindi ciò che serve a preservare nel tempo un certo gruppo sociale in una posizione di potere, o quantomeno rilevante e identitaria; ignorando, più o meno consapevolmente, che la normalità cambia continuamente proprio per adeguarsi ai continui cambiamenti sociali, e che il perenne atteggiamento nostalgico di valori e mondi che realmente non sono mai esistiti è il sintomo di una completa inadeguatezza - eufemismo per ignoranza - di sé e dell'idea del mondo che si ha.
Chi pensa, com'è scritto in quel libro autoprodotto di cui in questi giorni si parla tanto, che il comportamento non etero (un esempio tra i tanti) sia non normale, mostra diverse cose: 1) ignoranza di fronte a come funziona la natura, compresa la specie umana; 2) ignoranza dei comportamenti sociali più efficaci che, in natura come nelle situazioni non naturali costruite dall'uomo, prescrivono sempre la salvaguardia delle diversità e delle differenze; 3) una sostanziale debolezza ideologica di fondo, nel sentirsi attaccati dalla presenza di queste minoritarie diversità che, pur avendo gli stessi diritti di qualsiasi altro gruppo sociale, non sono una minaccia né per la specie né per le istituzioni artificiali create dalla specie umana; 4) una profonda debolezza personale, nel creare la figura immaginaria di "eroe" di valori del passato con illustri predecessori, fingendo o non rendendosi conto che: 4a) non c'è nessun eroismo nell'appartenere alla maggioranza delle persone etero, e in più in una posizione sociale di grande rilevanza e potere; 4b) non c'è nessun eroismo nel professare "valori" antiscientifici, antistorici e antisociali come quelli descritti e sostenuti nel libro autoprodotto di cui si parla tanto; 4c) quelli di cui si parla sono "valori" che la società ha rigettato innumerevoli volte nella sua storia, essendo appartenuti periodicamente a ideologie genericamente appellabili come autoritarie (dai vari colori, dal nero al rosso al verde all'arancione) e che hanno tutte perso irrimediabilmente le loro guerre - visto che parliamo di un autore di libro che ha un altissimo grado militare - e i cui attuali esponenti politici devono continuamente fare acrobazie per non farsi rinfacciare l'adesione a quei valori - visto che un ministro di destra è stato costretto a destituire l'autore di questo libro autoprodotto e a dissociarsene pubblicamente.
Queste debolezze, queste opinioni fragili come la maschilità che le produce, sono alla base di quella imbarazzante credenza che caratterizza le persone più ignoranti e impaurite (se non in malafede) di fronte alle questioni di genere sollevate da soggettività che reclamano i loro sacrosanti diritti umani: la dittatura delle minoranze. Un ridicolo ossimoro che è la giusta sintesi di secoli di varie ideologie di gruppi politicamente o ideologicamente conservatori o reazionari, che per giustificarsi hanno sempre bisogno di raccontarsi sotto attacco di qualcosa, di instillare paure invece di diffondere consapevolezze.
In più, visto che sono soprattutto le persone più convinte di questi "valori" sostanzialmente disumani a sostenersi con serietà, è quasi inevitabile che personaggi come l'autore di questo libro autoprodotto si coprano di ridicolo: l'autore si professa infatti, tra le altre cose, erede di un Giulio Cesare che, oltre a scrivere molto meglio di lui, oltre a essere militarmente decisamente più preparato ed esperto di lui, sessualmente tutto era tranne che quello che oggi intendiamo - e l'autore del libro autoprodotto intende - con "uomo etero". Giulio Cesare probabilmente, di un uomo che professa queste opinioni deboli e ignoranti ne riderebbe di gusto, anche perché saprebbe che al rango di generale, nel suo mondo, non arriverebbe mai. Noi invece, suoi contemporanei, ce ne preoccupiamo, perché a quel rango ci è arrivato ed è ben spalleggiato da molte altre persone. Cosa che è sintomo di altri fenomeni sociali molto preoccupanti.
Questo uomo no.
P.S. per chi volesse una bibliografia in merito, può cominciare da questa. Buone letture.
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Amici del cuore,
oggi, mentre guardavo una pubblicità della Lindt, mi è venuta l’ispirazione per un libro (sì, sono strana, lo so). Senza perdere tempo, mi sono messa all'opera e ho iniziato a scrivere.
Ora, eccovi una scena spicy nata direttamente dalla mia mente 👀🍫. Pronti a immergervi?
Mi sorrise con quel luccichio malizioso negli occhi, afferrando una piccola ciotola di cioccolato fuso che aveva tenuto da parte. Senza dire una parola, versò un filo sottile sulla mia pelle, che iniziò a scivolare lungo il mio collo e verso la clavicola, caldo e avvolgente. Trattenni il respiro, sentendo il cioccolato fondersi con il calore del mio corpo, ogni goccia sembrava accendere i miei sensi.
Lui si chinò lentamente, e il primo tocco delle sue labbra mi fece rabbrividire. Con movimenti lenti e attenti, seguì il percorso che il cioccolato aveva tracciato, la sua lingua morbida e calda che raccoglieva ogni sapore, alternando baci leggeri a carezze più intense. Mi sfuggì un respiro profondo, quasi una supplica, mentre lui si prendeva tutto il tempo per esplorare ogni centimetro.
Il profumo dolce del cioccolato si mescolava alla sua pelle, creando un’atmosfera quasi ipnotica. Le sue mani scivolavano lungo i miei fianchi, ferme e rassicuranti, mentre i suoi occhi si sollevarono verso i miei per un istante, le sue labbra si fermarono un attimo, i suoi occhi ancora su di me, e sorrise con quell’espressione che conoscevo bene, un sorrisino malizioso che faceva sempre battere il mio cuore più forte. “Che dici, continuiamo?” sussurrò, la sua voce bassa e quasi un invito.
Prese di nuovo la ciotolina, e con movimenti lenti versò un filo di cioccolato caldo sulla mia pelle. Lo sentii scivolare in un rivolo sottile che mi colpì, dolcemente, e iniziò a colare tra i miei seni. Il calore mi fece rabbrividire, e mi ritrovai a chiudere gli occhi, completamente rapita dalla sensazione che si diffondeva lungo il mio corpo.
Le sue labbra tornarono a sfiorarmi, seguendo il percorso del cioccolato con lentezza quasi provocatoria, la sua lingua che accarezzava ogni goccia.
Le sue dita sfiorarono la mia pelle mentre faceva scivolare con delicatezza la spallina della mia blusa azzurrina, seguita dal reggiseno. La stoffa si abbassò lentamente, e lui si prese tutto il tempo per tornare con le labbra al punto in cui aveva lasciato il cioccolato, seguendo con la bocca ogni curva, ogni sfumatura.
Le sue labbra si fermarono di nuovo, i suoi occhi brillavano di malizia mentre afferrava nuovamente la ciotolina. Versò un filo di cioccolato caldo che scivolò lentamente su uno dei miei seni, avvolgendolo in una morbida coperta di dolcezza. Il calore del cioccolato si mescolava perfettamente alla freschezza della mia pelle, e un brivido mi attraversò.
Si chinò, la sua lingua che si avventurava a esplorare il cioccolato, assaporando ogni goccia con una delicatezza inebriante. La sua bocca si fermò su quel punto sensibile, ogni leccata un modo per farmi impazzire, mentre il suo respiro caldo mi attraversava.
“Aaron…” sussurrai, i miei occhi chiusi, completamente persa nella sensazione di quel momento.
“Stai tranquilla,” mi mormorò, la sua voce un caldo soffio contro la mia pelle. “Sono qui, solo per te.”
Iniziai a sbottonare la sua camicia, il tessuto morbido che si apriva con ogni movimento, rivelando il suo torace muscoloso. Le sue spalle erano ampie, e ogni volta che svelavo la sua pelle, il desiderio aumentava, come se il nostro legame diventasse sempre più tangibile.
Una volta che la camicia cadde, la sua mano si posò sulla mia schiena, un gesto che fece venire meno la distanza tra noi. Le dita di Aaron scorrevano lungo il mio corpo, esplorando, mentre io scivolavo le mie mani lungo i suoi fianchi, sentendo i muscoli sotto le dita.
Con un gesto deciso, presi la sua cintura e la slegai, mentre lui sorrideva, un misto di eccitazione e curiosità. I pantaloni scivolarono a terra, rivelando la sua pelle nuda, e il mio cuore iniziò a battere più forte, l’attesa si trasformava in impazienza.
Aaron si spostò con determinazione, spingendo via gli oggetti dal bancone di metallo del laboratorio con un gesto impaziente. Gli strumenti da pasticcere e le ciotole di cioccolato si scontrarono con un rumore metallico, ma lui non si preoccupava. Il suo sguardo era fisso su di me, la passione nei suoi occhi che brillava come il cioccolato fuso.
“Dobbiamo fare spazio,” disse, la voce carica di desiderio. Mi fece sedere sul bancone, il metallo freddo che contrastava con il calore del mio corpo. Sentii un brivido lungo la schiena mentre la sua presenza si avvicinava, ogni sua mossa piena di urgenza.
Le sue mani mi accarezzarono, il tocco deciso ma delicato, mentre esplorava ogni curva del mio corpo. Le sue dita scivolarono lungo il mio braccio, e il contatto mi fece rabbrividire, ogni tocco un promemoria di quanto fossimo vicini.
Con un movimento fluido, si avvicinò e le sue labbra trovarono le mie, ogni bacio un'esplosione di sapore e desiderio. La sua lingua danzava con la mia, mentre il profumo del cioccolato avvolgeva l'aria intorno a noi, creando un’atmosfera carica di dolcezza e intimità.
Le sue labbra si spostarono verso il mio seno, assaporando ogni curva, mentre io sentivo il battito del mio cuore accelerare. Ogni leccata, ogni morso gentile mandava a corto circuito il mio cervello.
Quando finalmente ci unimmo, un brivido di piacere mi attraversò.
La sua presenza era imponente, e la sua dimensione si fece sentire in ogni centimetro. Mi riempì completamente, creando una sensazione intensa che mi fece chiudere gli occhi per un momento, mentre il mio corpo si adattava al suo. Ogni spinta era profonda, come se volesse marchiare il nostro legame in modo indelebile. La sensazione di essere così piena mi fece chiudere gli occhi, mentre il mio corpo rispondeva a ogni movimento, lasciandomi completamente rapita.
"Sei mia," ansimò, la voce carica di desiderio. "Cazzo, sei mia, Yas."
Le sue spinte si facevano più lente ma profonde, ogni movimento che mi lasciava senza fiato, incapace di proferire parola. Cercai di dire qualcosa, ma ogni volta che provavo, il piacere mi travolgeva e la voce mi moriva in gola.
Aaron se ne accorse e, con un sorriso malizioso, sussurrò: “Che c’è, Yas? Niente da dire adesso?” La sua voce era carica di una sfida giocosa, e ogni sua parola si mescolava al movimento ritmico dei nostri corpi. "Di solito hai sempre una risposta pronta."
Mi lasciai andare, il mio corpo tremante che si scioglieva sul bancone, la mia schiena nuda che contrastava con il gelido piano metallico sotto di me, intensificando ogni sensazione. Ogni movimento di lui mi faceva vibrare, e non potevo fare a meno di aggrapparmi al bordo, persa nel piacere.
"Quanto sei bella, Yas," boccheggiò, le sue mani forti che non lasciavano mai le mie anche, tenendomi stretta contro di lui. "Quanto cazzo sei bella."
Sentii i muscoli di Aaron tendersi, le sue mani ferme sui miei fianchi, muovendomi contro di lui con un’intensità che mi lasciava senza fiato mentre il suo respiro si trasformava in un ansimo profondo. Era sul punto di raggiungere il culmine, e anche io mi trovavo lì, sospesa in quel piacere condiviso.
"Ti piace, eh?" sussurrò, la voce profonda e carica di desiderio. "Guarda quanto tremi, Yas. Guarda quanto ti sto facendo godere. Solo io, nessun altro"
Mi limitai a gemere, incapace di rispondere, persa nelle sensazioni che mi travolgevano. Lui ridacchiò piano, soddisfatto della mia resa, e continuò a muoversi più profondamente, facendomi socchiudere gli occhi.
Con un ultimo movimento, il piacere ci travolse. Io mi abbandonai, il mio corpo tremante contro di lui. Aaron si staccò da me appena in tempo, e il suo respiro divenne irregolare mentre si lasciava andare, il calore del suo piacere che raggiungeva il mio stomaco.
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Spero che questa scena vi abbia fatto venire voglia di saperne di più… o magari di un po' di cioccolato! 😉 Fatemi sapere cosa ne pensate, adoro leggere le vostre opinioni!
A presto, Nicole <3
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all'improvviso
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Aveva una bellissima voce. E un bellissimo sorriso. I ricordi sono sempre più frammentati, ma quelli che rimangono sono vividi e uccidono. Ricordo il nostro primo sguardo mentre si allontanava sul bus, ricordo quanto mi aveva fatto stare bene. Quel giorno iniziai a vedere il mondo con colori diversi e non riuscivo a smettere di sorridere. Ricordo che lo cercavo spesso a lezione e sentivo le farfalle nello stomaco quando lo vedevo arrivare. Ricordo i suoi occhi buoni, sono quelli che mi hanno fregata. È una delle prime cose che gli dissi, “hai gli occhi buoni” e lui mi disse che avevo visto male. Forse avrei dovuto ascoltarlo. Quando scoprii che era appassionato di cinema il mio cuore ha avuto un sussulto e ho pensato “ecco, è lui. È quello giusto”. E Dio se era quello giusto. Aveva così tanto bisogno di amore che penso avrebbe fatto di tutto per farmi innamorare di lui, perfino dirmi “ti amo” dopo una settimana e chiedermi di sposarlo dopo 10 giorni. “andiamo a Las Vegas e sposiamoci”, fu il capodanno più bello che avessi avuto fino a quel momento.
E non riesco a non darmi la colpa per non aver capito niente, non riesco a non sentirmi una stupida a scrivere tutto questo. Il ricordo di lui, di lui all’inizio, di un lui che non so se esiste davvero, mi fa sentire in un modo strano. Fisicamente sento una forte stretta al petto e non riesco a smettere di piangere ed emotivamente sento che mi manca tanto e vorrei che non fosse cambiato niente tra noi. Vorrei che il conoscermi meglio non lo avesse allontanato, vorrei che non mi avesse mai tradita nemmeno col pensiero, vorrei che quei “ti amo” che mi diceva sempre fossero stati veri. Avrei voluto che mi dicesse “ti amo” guardandomi negli occhi. Vorrei non aver dovuto chiedere di dirmi “ti amo” guardandomi negli occhi e vorrei non aver dovuto vedere quello sguardo scocciato sul suo viso quando gli chiedevo di farlo. Vorrei che fosse andato più nel profondo, che se qualcuno gli avesse chiesto cosa preferisco al mondo non avrebbe risposto banalmente “il sushi”. Vorrei cancellare ogni notte in cui sono andata a dormire piangendo, mentre ero sdraiata accanto a lui girato di spalle. Ho cominciato a capire che forse non era la persona per me, o non era più la persona per me, quando mi sono identificata nella frase di un libro che diceva “ho scoperto che il luogo più solitario del mondo è quando sei a letto, accanto a una persona che ti fa sentire piccola, schiena contro schiena, mentre speri che l’altro si giri e ti stringa tra le braccia” ed è nato in me il pensiero che forse l’amore non doveva essere così, che l’amore non deve farti sentire piccola. L’ho capito negli occhi delle mie amiche, nelle loro parole, nel fatto che ci fossero sempre per me e non dovevo chiederlo. Avevano sempre una parola dolce per me e non dovevo chiederla. Mi volevano bene per ciò che sono e non per ciò che potevo dare loro, non mi volevo bene perché sono bella o per ciò che so fare a letto.
Ho in mente tante cose che non ho il coraggio di dire a nessuno, tante impressioni e sensazioni che mi mettono a disagio. Mi metteva a disagio la sua ossessione per il sesso, per l’avermi sempre nuda anche se non mi piaceva starci. “Vuole aiutarmi, vuole farmi stare bene col mio corpo”, ho romanticizzato perfino questo, perfino la perversione di un bambino che continua a considerare la donna come un oggetto. Mi è rimasto impresso il fatto che all’inizio non gli piacevo fisicamente, non avevo il seno abbastanza grande, ma per fortuna lui aveva visto che “avevo del potenziale”. Ho iniziato a mangiare e mangiare, come mangiava lui, perché avevo paura di dimagrire. Avevo paura che se fossi dimagrita avrei perso chili di seno e non di pancia o di cosce. Lo vedevo talmente ossessionato da queste cose che avevo paura di qualsiasi ragazza con una quarta di seno, pensavo bastasse questo per vederlo andare via. Ho iniziato a dubitare di ——, ne ho parlato anche con lei. Mi sentivo inferiore. Mi sentivo stupida in confronto a lui. Lui che si ricordava tutto ed era bravo in tutto ciò che faceva mentre io non ero in grado neanche di decidere cosa fare della mia vita.
E c’ero sempre per lui, a ogni partita, a ogni uscita con i suoi amici, ogni volta che finiva di lavorare alle 5 di mattina io c’ero. C’ero in chiamata o al suo fianco. C’ero in ogni momento, perfino a ogni volta che andava in bagno. Lui mi voleva con sé, me lo diceva. Mi ricordo che mi piaceva tantissimo lavarci i denti insieme, lo guardavo nello specchio e pensavo a quanto fosse bello e a quanto fossi fortunata ad averlo, pensavo a quanto sarebbe stato bello lavarsi i denti nella nostra casa. Già, la nostra casa. Era un po’ che non ci pensavo. Non ricordo chi dei due l’aveva proposto, ma probabilmente io. La casa che mi ero impegnata a cercare, la casa a cui pensavo sempre. La casa di cui lui non voleva parlare perché “ne abbiamo già parlato una volta, quante volte ne dobbiamo parlare?”. Così come la famosa proposta di matrimonio. Forse ci ho creduto troppo, ma come puoi dire con leggerezza una cosa del genere e aspettarti che l’altro semplicemente se ne dimentichi? “Non sono più sicuro che sia quello che voglio, non so più se voglio sposarti”. Ed erano piccole cose, piccole rispetto a ciò che mi era successo prima. Ma forse non erano così piccole perché ogni parola mi tagliava dentro. Mi tagliavano dentro ma non sapevo come dirglielo, avevo paura. Avevo paura di rovinare tutto, avevo paura di essere io quella sbagliata. Sono troppe le volte in cui mi sono sentita sbagliata, un peso, una bambina immatura. E con lui mi sentivo davvero di nuovo bambina, ma in un senso buono. Mi sentivo di potermi permettere di essere fragile, sentivo che avrebbe capito. Sentivo che mi avrebbe stretta a lui dicendomi che non sarei più dovuta stare così, che avrebbe capito. Che avrebbe capito quanto è difficile fidarsi di nuovo di qualcuno, di quanto è difficile credere nell’amore quando non l’hai mai visto in casa. Di quanto distrugga vedere la tua vita che va a pezzi e non riuscire a rialzarti e che quando ci provi, ti casca tutto addosso. Vorrei che non mi avesse mai incolpata per queste cose. Non riuscivo più a sfogarmi con lui dopo un po’, avevo capito che non era ciò che mi aveva fatto vedere all’inizio. Ma ormai ero fottuta, ero innamorata, pensavo ci volesse solo del tempo. Ma così non è stato e ho il cuore a pezzi, ho il cuore a pezzi perché ho permesso a un’altra persona di farmi questo e ora ho una paura fottuta di innamorarmi di nuovo. Non mi era mai capitato prima, cercavo l’amore dappertutto e se non lo avevo facevo di tutto per trovarlo. Ora non lo voglio, non voglio più nessuno vicino a me in quel modo, non prima di essere sicura che non si approfitti di me. È una consapevolezza davvero davvero brutta per una persona che ama l’amore.
Eppure il suo ricordo continua a farmi effetto. Scrivo queste cose e una parte di me continua a sperare di vedere il telefono illuminarsi e leggere il suo nome, rispondere e sentire la sua bellissima voce che mi dice “sono qui sotto, scendi?”. E vorrei scendere e vedere il suo bellissimo sorriso. Vorrei vedere il ragazzo di cui mi sono innamorata, il ragazzo del bus, il ragazzo dagli occhi buoni. Vorrei che mi dicesse “ti amo” guardandomi negli occhi e che mi stringesse in un abbraccio come per dire che non mi sarei più sentita così.
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" Si trattava ancora una volta di un libro, e l'autore si chiamava Kafka, Franz, e il libro era intitolato "Nella colonia penale". Più tardi ho chiesto a Boris se davvero non immaginava le conseguenze di quello che faceva quando, alla fine del '44 (!), raccomandava a Leni uno scrittore ebreo, e lui mi ha risposto: «Avevo tanta di quella roba in testa, tante cose a cui pensare che me lo sono dimenticato». Dunque, Leni andò un'altra volta col suo bravo biglietto alla biblioteca, ce n'era ancora una in funzione e la bibliotecaria, per fortuna, era una donna piuttosto anziana e abbastanza ragionevole che strappò il biglietto e prese subito Leni in disparte e le ripeté, alla lettera, quello che le aveva già detto la madre superiora quella volta che aveva chiesto con tanta insistenza di Rahel: «Ma figliuola, ha perso la testa? Chi l'ha mandata qui a chiedere questo libro?» Però Leni, sa, anche stavolta non ha mollato. La bibliotecaria dev'essersi accorta subito che non era un agente provocatore, perciò l'ha presa da parte e le ha spiegato esattamente che quel Kafka era ebreo, che tutti i suoi libri erano stati proibiti e bruciati eccetera, e certo Leni dev'essersene uscita col suo solito disarmante «E con questo?», e allora quella donna le spiegò ben bene, anche se tardi, come stavano le cose tra nazisti ed ebrei, e le mostrò - naturalmente ce l'aveva in biblioteca - lo "Stürmer"* e le spiegò tutto, e Leni, quando venne da me, era inorridita. Finalmente aveva afferrato qualcosa.
Ma non mollò, s'era messa in testa di avere il suo Kafka e di leggerlo, e ci riuscì! Pensi che andò in treno a Bonn, da alcuni professori per i quali suo padre aveva lavorato e di cui sapeva che avevano delle grandi biblioteche, e infatti ne trovò uno che ormai era un nonnetto di settantacinque anni passati e se ne stava là in mezzo ai suoi libri, ormai pensionato, e sa che cosa le disse quello, alla lettera? «Ma figliuola, ha perso la testa? Kafka, nientemeno? Perché non addirittura Heine?» Però fu molto gentile con lei, si ricordò di lei e di suo padre, solo che non aveva quel libro e dovette andare da un collega e poi da un altro finché ne trovò uno con cui la fiducia era reciproca e che per di più possedeva il libro. Non fu tanto semplice, la cosa durò un giorno intero, sa, arrivò a casa nel cuore della notte e aveva il libro nella borsetta, non era una cosa tanto semplice perché non solo bisognava trovare uno che si fidasse del professore e di cui il professore potesse fidarsi, ma quello doveva fidarsi anche di Leni, e non solo doveva avere il libro ma anche cacciarlo fuori! Effettivamente ne trovarono due che lo avevano, ma il primo non volle darlo. Roba da matti, le preoccupazioni di Leni e di Boris, quando era in ballo la vita, la vita nuda e cruda. "
*Settimanale di propaganda nazista veementemente antisemita, edito sin dal 1923.
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Heinrich Böll, Foto di gruppo con signora, (traduzione di Italo Alighiero Chiusano), Einaudi (collana Tascabili), 1972.
[Edizione originale: Gruppenbild mit Dame, Verlag Kiepenheuer & Witsch, Köln, 1971]
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No, non sono pronto. Ci sto provando. Seguire i consigli non desiderati di "lasciala andare", ancora non fanno per me. Ho conservato le chiavi di "casa nostra" da sette anni. All'inizio lo abbiamo trovato una cosa pratica: c'erano mille problemucci da risolvere e allora se bisognava scappare, si aveva le chiavi e si andava. Poi ci siamo detti: "no tienile lo stesso, non ho nessuno (non è vero, ci sono le sorelle), se succede qualcosa so che le hai tu e puoi intervenire". E con questo principio le ho tenute nel cassetto finora quasi "dimenticandole", sapendo benissimo, invece, dove stessero. Mesi fa all'ennesimo "fattaccio" (so bene che non devo definirlo così ma sto io a provare da coglione le pene dell'inferno) mi sono ricapitate tra le mani perché dovevo prendere altro. "e mo' che faccio?, che senso avrebbe tenerle ancora?". Non so se adesso le rivorrebbe, probabile che l'abbia dimenticato che io ne posseggo ancora una copia, ma probabilmente all'inizio, se le avessi restituite, l'avrebbe presa a male, conoscendola un po'. Ma giorno dopo giorno, insieme all'idea di mettere insieme in un libretto tutto quello che ho scritto finora, si è fatto spazio anche quella di restituire in via definitiva le chiavi. Non ha alcun senso, se bisogna andare avanti, e sarebbe un segno di vera presa di distanza. Anche se, da immaturo come spesso mi ritrovo, all'inizio ho pensato che potesse essere usato come un segnale per dire "vai a..., sparisci". E invece no, mi convinco che sarebbe un vero gesto di maturità quello di consegnarle, senza nessun sottinteso, ma semplicemente per dire "è finita, ognuno per la sua strada, che questo libro si chiuda definitivamente, almeno per me", perchè restare in questo limbo non mi fa bene. Non è un rinnegare. Non rinnego nulla. Non posso farlo. E' stato il pezzo più importante della mia vita, quello che ha modificato tante cose in me. Tutto mi parla di lei, a casa e fuori, quando sono in auto. Non c'è un giorno che un pensiero non corra a lei, e non è perché ha scelto la sua strada (anche scegliere le giuste parole è complicato) ma perché se una storia deve finire, per convertirsi in altro deve avere il giusto distacco, la giusta "sepoltura". Ed ecco che stamattina ho ripreso il mazzo di chiavi in mano: ce ne sono tante in quel portachiavi, che ha segnato un altro pezzo di percorso della mia vita. Molte non le riconosco, ma quelle essenziali si. Le ho tenute in mano per un po', le ho soppesate, ho pensato come fargliele recapitare senza incontrarla, perché so bene che ci starei una pezza... ma niente, ho avuto un tuffo al cuore, un senso di stordimento, una fitta che sapeva di dolore. Le ho prese e le ho riposate nel cassetto, perché appunto non sono pronto. Quelle chiavi non rappresentano solo lei: quelle chiavi sono il simbolo del nostro progetto di vita insieme fallito miseramente, del non essere mai stai un "noi". Il fatto che lei continui ad abitare in quella casa, oltre ad essere un puro bisogno di comodità, conferma implicitamente che quella non è mai stata casa nostra ma solo sua. Ma io da quel mazzo di chiavi, a cui sono legati sogni, speranze e delusioni, non riesco ancora a staccarmi. Non sono pronto. Ma devo riprovarci, se voglio davvero svoltare. Sarebbe il primo segno di maturità (senile) acquisita sul campo. Farà male, lo so, ma va fatto.
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Ig:serenabanzato
Ho scoperto questo libro per puro caso.
Quel giorno mia mamma sta guardando un programma in TV,quei soliti programmi televisivi dove parlano di varie cose e gli ospiti esprimono le proprie opinioni e impressioni sulla cosa.
Generalmente guardo poco la televisione,molto spesso i programmi che passano non attirano la mia attenzione ma quel giorno è bastata una parola ad attirare la mia più totale attenzione sulla TV "IL CAMMINO DI SANTIAGO".Da sempre questa pellegrinaggio mi affascina.Tutta la storia che c'è dietro questo antico percorso che affrontano milioni di persone,credenti e non credenti,che si mettono in viaggio affrontando quasi 800 km di cammino in una quasi totale desolazione per ritrovare se stessi o semplicemente per provare a stare lontano dalla civiltà moderna.
L'ospite in questione era una psicologa,Serena Banzato,che raccontava come si è ritrovata all'improvviso,sul Cammino di Santiago,ad affrontare la quasi morte.Lei e la sua amica Laura erano partite per fare questo viaggio insieme ma Serena,a seguito di un batterio che le era entrato in una vescica,ha dovuto interrompere il cammino per essere operata d'urgenza alla caviglia.
Subito dopo aver ascoltato la sua storia ho voluto assolutamente il libro per poter leggere quella storia che mi aveva lasciato così senza parole.
Un libro che tra le pagine ha una storia forte,vera ma che nelle parole di Serena ti da uno slancio per "ALLACCIARSI LE SCARPE E RIPARTIRE DA ZERO" proprio come dice la canzone della Pausini che ha citato nell'ultima parte del libro.
Un libro che mi ha fatto piangere,riflettere ma soprattutto mi ha fatto capire che dovrei lasciare andare tutti i sassi che mi porto dentro.Proprio come si fa sul Cammino di Santiago che ogni pellegrino lascia un sasso,che porta da casa,come simbolo di purificazione da tutti i pesi che vuole lasciare andare.
Serena ha,purtroppo,portato dal cammino un sasso più grosso del suo però ha imparato che su quel sasso può ricostruire tutto il suo nuovo mondo ripartendo a piccoli passi e ritrovando se stessa e lasciando cadere tutti quei pesi inutili che si porta dentro.
-la ragazza dal cuore nero♡
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