#quando il cinema era la settima arte...
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Il film in versione originale con sottotitoli in italiano lo potete scaricare da qui. 👈
#maboroshi no hikari#maborosi#hirokazu koreeda#hirokazu kore eda#hirokazu kore-eda#film#cinema#film completo#cinema giapponese#cinema d'autore#quando il cinema era la settima arte...
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E c'è chi, oggi, si sente innovativo!
Man with a Movie Camera , Dziga Vertov , 1929.
#man with a movie camera#dziga vertov#l'uomo con la macchina da presa#1929#quando il cinema era la settima arte...
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"Che fareste se io mi suicidassi?"
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Ecce Bombo, Nanni Moretti, 1978.
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Claire Denis
Claire Denis, regista e sceneggiatrice brillante e contemporanea, che ha diretto le pi�� grandi star del cinema francese, rappresenta un faro di sapienza e maestria nella settima arte.
Nei suoi lavori crea connessioni tra il post-colonialismo e la globalizzazione, analizzando la fenomenologia umana, spesso, a partire dalle sue caratteristiche sessuali.
L’Africa, con i suoi spazi dilatati e la sua luce, e l’immigrazione nel continente europeo, con il suo drammatico impatto sulle difficoltà della vita quotidiana, sono stati spesso i suoi riferimenti tematici.
Nata a Parigi il 21 aprile 1948, è cresciuta in Africa, suo padre era amministratore civile presso le colonie francesi. Ha frequentato le scuole elementari camerunesi, somale, gibutiane e burkinabé. Ammalatasi di poliomielite all’età di dodici anni, era tornata in Francia curarsi, continuando la sua formazione presso il Lycée de Saint-Germain-en-Laye, dove ha scoperto le magnificenze del cinema, soprattutto quello giapponese.
Dopo una laurea in Lettere e una in Economia, ha avuto un breve matrimonio con un fotografo con cui lavorava.
Quando si è separata si è trasferita per un po’ in Africa, dove ha lavorato come regista presso Télé Niger. Rientrata in Francia è stata assunta dal dipartimento di ricerca dell’Office de Radiodiffusion Télévision Française.
Mentre studiava all’Institut des hautes études cinématographiques, ha realizzato i suoi primi cortometraggi e documentari.
Fondamentale è stata l’esperienza come assistente di registi come Constantin Costa-Gavras, Wim Wenders e Jim Jarmusch.
Il suo primo lungometraggio, Chocolat, del 1988, è stato in concorso al Festival di Cannes. La storia è quella di una donna che torna in un piccolo presidio francese del Nord del Camerun, dove aveva trascorso gran parte della sua infanzia, per rendersi conto di quanto la società fosse cambiata esteriormente e di quanto certi comportamenti fossero stati tramandati alle persone che erano rimaste.
Nel 1990 è uscito S’en fout la mort, ambientato nella banlieue parigina, sulla vita di alcuni immigrati di origine africana, coinvolti in un giro di combattimenti di galli e di scommesse clandestine. Si inizia a palesare, nello stile e le tematiche a lei care, l’aggiunta di violenza da noir e l’interesse per il corpo che prenderanno sempre più definizione nei lavori successivi.
Nel 1991 ha fondato la sua società di produzione, Les films de Mindif.
Tre anni dopo è uscito J’ai pas sommeil, ispirato alla storia vera di un serial killer, film struggente e disperato in cui ancora una volta racconta la solitudine, il desiderio d’amore e la morte tra quelli che ha definito “i tanti apartheid quotidiani“.
Nel 1996 Nénette et Boni ha vinto il Pardo d’oro al Festival di Locarno. Il film racconta la vita di un fratello e una sorella che vivono soli a Marsiglia. Lei è decisa a dare il neonato in adozione, lui rapisce il piccolo nel disperato tentativo di ridare vita a una famiglia.
Nel 1999 ha realizzato Beau travail, girato a Gibuti, un altro dei paesi della sua infanzia in cui mette in scena una storia di potere e morte all’interno della Legione straniera. Nel film, alla presenza totale e magnetica del paesaggio si sovrappone il suo occhio di donna che descrive un mondo maschile secondo coordinate lucide e acute.
Sono seguiti film che mescolano sesso e cannibalismo, persone bianche e nere, ripulsa e desiderio, come Trouble every day con Vincent Gallo e Cannibal Love – Mangiata viva che rappresenta l’apice della sua estetica post-moderna, dove sangue è pienezza e il corpo è desiderio e fonte di sazietà.
Vendredi soir, del 2003, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
La sua filmografia è continuata con diversi altri apprezzati lavori, tra cui L’amore secondo Isabelle, del 2017, con Juliette Binoche che è stato candidato a vari premi, César, European Film Award e Best European Film.
Per Avec amour et acharnement è stata insignita dell’Orso d’argento per il miglior regista e Stars at Noon le ha portato il Grand Prix al Festival di Cannes.
Ha girato praticamente un film ogni due anni, compresi diversi documentari.
È apprezzata dalla critica mondiale per la sua ricerca sobria ma appassionata che mette in rapporto il gioco delle relazioni interpersonali con la costruzione dello spazio, il valore espressivo della luce, lo sguardo sui corpi e sul loro equilibrio emotivo.
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Un chien andalou, Luis Buñuel (e Salvador Dalì), 1929.
Side by Side
Metropolis (1927) Fritz Lang
Spellbound (1945) Alfred Hitchcock
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L'uomo dei cinque palloni aka Break up di Marco Ferreri (1965)
Film completo
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Un capolavoro misconosciuto che, dopo sessanta anni, è ancora infinitamente più moderno e innovativo di tanto cinema attuale.
Fatevi un favore, guardatelo! 😉
#marco ferreri#break up#l'uomo dei cinque palloni#1965#film completo#cinema d'autore#quando il cinema era la settima arte#cinema italiano#cinema#Youtube
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Milano, Quentin Tarantino saluta il pubblico alla Mondadori in Duomo: il regista presenta il suo nuovo libro
Milano, Quentin Tarantino saluta il pubblico alla Mondadori in Duomo: il regista presenta il suo nuovo libro. Il 7 aprile QUENTIN TARANTINO sarà alla Libreria Mondadori Duomo di Milano (ore 18.00). Il grande regista americano saluterà il pubblico e firmerà le copie del suo nuovo libro “Cinema speculation”, disponibile dal 21 marzo per La nave di Teseo. L’incontro nasce dalla collaborazione tra La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, La nave di Teseo e Librerie Mondadori. Modalità di accesso per il pubblico: coloro che acquisteranno copia del libro (disponibile dal 21 marzo) presso la Mondadori di Piazza Duomo riceveranno un tagliando che consente l’accesso al firma copie. Sarà possibile mettersi in coda dalle ore 16.00 del 7 aprile. L’accesso sarà consentito secondo la capienza. L’incontro terminerà alle 20.30 circa. L’evento si configura come anteprima de La Milanesiana 2023, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, che, giunta quest’anno alla 24esima edizione, approda per la prima volta in libreria. In “Cinema speculation” Tarantino racconta la sua passione per il cinema: i film che ha amato, i grandi registi da cui ha imparato; quasi un’autobiografia attraverso una personalissima, e sorprendente, storia del cinema fuori dai canoni tradizionali. «A un certo punto, quando mi resi conto di vedere film che ai miei coetanei non era concesso vedere, ne chiesi il motivo a mia madre». Mi rispose: «Quentin, mi preoccupa di più se vedi i telegiornali. Un film non può farti male». “Cinema speculation” è la storia di un bambino innamorato del cinema che passa le serate con i genitori nelle sale di Los Angeles. Quello spettatore vorace, che preferisce ai giochi l’incanto del grande schermo, cresce affascinato da una nuova generazione di attori e registi – come Steve McQueen, Burt Reynolds, Clint Eastwood, Sam Peckinpah, Don Siegel, Brian De Palma, Martin Scorsese – che dalla fine degli anni Sessanta spazza via la vecchia Hollywood. Sono pellicole rivoluzionarie che ispirano l’immaginario di quel ragazzo, un incontro che si rivelerà decisivo per la sua carriera dietro la macchina da presa. Quentin Tarantino è uno straordinario appassionato di cinema, in tutte le sue forme: “Cinema speculation” è il racconto di come è nato questo amore e al tempo stesso una entusiasmante, sovversiva, dirompente storia del cinema secondo Tarantino. Raccontato in prima persona raccogliendo recensioni, ricordi, aneddoti, tra autobiografia, critica e reportage, questo libro offre uno sguardo unico sulla settima arte, nella versione senza filtri di un suo eccezionale interprete. «Da esperto narratore, Tarantino intreccia immagini, racconti e scene, inventa storie che ci incantano e spingono a riflettere come accade con i suoi film» The New Yorker «Tarantino celebra sfacciatamente il vizio del cinema» The New York Times Book Review Nato nel Tennessee nel 1963, QUENTIN TARANTINO si è trasferito in California all’età di 4 anni. Il suo amore per i film lo ha portato a lavorare in una videoteca, e durante questo periodo ha scritto le sceneggiature di Una vita al massimo e Assassini nati - Natural Born Killers. Il debutto alla regia di Tarantino è avvenuto con Le iene del 1992, nel 1994 con Pulp Fiction ha vinto un Oscar per la migliore sceneggiatura e la Palma d’oro al Festival di Cannes. Tra i suoi film successivi Jackie Brown (1997), Kill Bill Vol. 1 (2003) e Vol. 2 (2004), Grindhouse - A prova di morte (2007). Ha ottenuto diverse candidature agli Oscar per Bastardi senza gloria (2009) e Django Unchained (2012), quest’ultimo gli è valso un secondo Oscar per la migliore sceneggiatura. I suoi film più recenti sono The Hateful Eight (2015) e C’era una volta a... Hollywood (2019). Presso La nave di Teseo sono usciti il romanzo C’era una volta a Hollywood (2021) e Pulp Fiction (2023). ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Mai giudicare un libro dalla copertina... e un disco? Perchè no!
La musica, una forma d’arte che a primo impatto potrebbe sembrare puramente intangibile ed eterea, da decenni invece si serve anche del potenziale comunicativo delle immagini. L’apporto della comunicazione visiva delle cover di cassette, CD, vinili e altri supporti ha infatti plasmato in maniera innegabile l’immaginario non solo di moltissimi artisti, ma anche di interi generi, tra cui ovviamente il rap. Non dovremo quindi sorprenderci se anche tra vent’anni la nuova generazione di rapper dovrà vendere ancora copie fisiche, oltre ad aggiornare il proprio profilo Spotify (o almeno si spera), o qualunque altro sarà il metodo di fruizione della musica nel futuro. Possiamo dire con una buona dose di certezza che la copertina di un disco sarà fondamentale tra vent’anni come tra cent’anni, così come lo è stata e lo è tutt’ora.
La cover è un aspetto estetico significativo dell’intenzione dell’artista: può essere lo specchio dei suoi interessi come può riassumere il contenuto dell’album. In altri casi può essere semplicemente un mero feticcio estetico, eppure - soprattutto in tempi come questi - il valore della componente estetica è inquantificabile. Che si limiti a restare nel booklet del CD o nella cover del vinile, oppure che si limiti ad essere un file .jpg utilizzato come cover negli store digitali, o ancora che finisca per essere stampato su migliaia e migliaia di accessori e capi di merchandising, l’iconografia di ciascun disco incide in maniera notevole sull’impatto che un disco ha sugli ascoltatori, sul mercato e in generale sulla cultura pop dei tempi correnti e, nel caso dei classici, su quella futura.
Il rap, genere nato grazie al recupero, al riutilizzo e alla rivisitazioni di canzoni e componimenti già esistenti, anche a livello grafico non è da meno: frequenti sono infatti le citazioni ad artisti, letterati, registi, fotografi e opere provenienti da altri generi e altri medium. Abbiamo deciso di analizzare due esempi piuttosto esplicativi di questa tendenza, ma scavando nel web - soprattutto declinando la ricerca al mondo del rap americano - i risultati sono tantissimi, fin troppi per essere raccolti in un solo elenco; servirebbe una vera e propria antologia.
Il primo esempio è “Quello Che Vi Consiglio Vol. 4″, il quarto capitolo della celebre saga di mixtape di Gemitaiz rapper che ha esordito nel 2009 e che nel decennio successivo si è imposto come una delle voci più autorevoli della scena italiana. La copertina di questa istallazione della saga, risalente al 2013, si ispira alla celeberrima foto di Eisenstaedt. Una cover che cita indirettamente le passione dell’artista per il cinema: nei suoi lavori possiamo trovare riferimenti a Gus Van Sant, Werner Herzog e altri cineasti che hanno ispirato i suoi testi, nonchè ad altri musicisti, autori - tra i più ricorrenti troviamo gli scrittori della beat generation, su tutti Jack Kerouac - e pittori. In questo caso la reinterpretazione dello scatto è tanto apparentemente impercettibile quanto d’effetto: Gemitaiz non si sostituisce agli iconici protagonisti dello scatto, anzi, si mischia allo sfondo. Una scelta che sembra stridere con la mania di protagonismo che è parte integrante dell’attitudine rap, ma che in realtà ben si sposa con l’immaginario del rapper romano, che si è sempre contraddistinto per la capacità di dar voce alle vite di tanti, alle vite dei dimenticati, soprattutto agli esordi della carriera. Nella cover torna a mimetizzarsi tra la folla, cosa che non può più fare nella vita reale a causa della notorietà, ma che gli riesce ancora bene quando prende un foglio e una penna per dedicarsi allo storytelling.
Il secondo è “Persona“ di Marracash, attesissimo lavoro del rapper di Barona - storico quartiere di Milano -, che arriva a quattro anni di distanza dal suo ultimo lavoro solista. Indubbiamente il disco più atteso di questo 2019, che ha nuovamente consegnato Marracash all’Olimpo degli interpreti di questo genere in Italia, grazie ad un concept album dalle intenzioni tanto ambiziose quanto artisticamente impressionanti. L’album è infatti un’analisi introspettiva ma anche un fortissimo confronto tra Marracash e Fabio Rizzo - questo il nome dell’artista all’anagrafe -, tra persona e personaggio, tra ciò che siamo, ciò che pensiamo di essere e ciò che gli altri percepiscono di noi. E’ davvero possibile ritenere queste tre figure diverse? Esiste un “noi” in quanto noi, oppure esistiamo solo in virtù di ciò che vediamo riflesso di noi negli altri?
Si tratta di un argomento intrigante e complicato, già affrontato dal regista Ingmar Bergman in un film del 1966, dal titolo omonimo del disco di Marracash. La citazione ovviamente non è casuale, così come la scelta della cover del rapper, che ha rivisitato - anche se in maniera impercettibile - proprio una scena carica di pathos dell’opera cinematografica. Caratteristica dell’opera di Bergman è anche una forte natura metatestuale: il regista riflette sul cinema, e lo fa anche con scene d’impatto come quelle in cui si vede una pellicola bruciare o una mano bucata da un chiodo, come nei capisaldi del Surrealismo cinematografico europeo dei vari Buñuel e Léger. Bergman ispirò infatti fortemente il pensiero dei fautori della Nouvelle Vague come di altre correnti cinematografiche del continente, proprio grazie ai suoi lavori e le sue riflessioni tanto uniche da considerarlo uno dei registi più autorevoli della Settima Arte. In periodi dove mezzi semplici, attori semiprofessionisti e bianco e nero erano gli unici strumenti a disposizione, le opere del regista riuscivano e combinarli in un connubio perfetto, orientato all’analisi dell’essere umano. Questo non significa però che ciò che c’è stato prima vada però considerato scadente:così come i dischi precedenti di Marracash hanno tutti un proprio valore intrinseco, allo stesso modo i capolavori neorealisti hanno comunque giovato di importanti strutture e di mezzi di qualità distribuiti da aziende come la Ferrania Film, ricollegabile ai classici del Neorealismo italiano di Fellini e De Sica, incisi in maniera immortale proprio nelle pellicole Ferrania.
In Persona Marracash però non si addentra nel sentiero metatestuale, si limita ad abbracciare il percorso di autoanalisi, e il risultato è liricamente impressionante, sin dalla prima traccia, sin dal primo ascolto. Anche qui ritroviamo svariati riferimenti letterari, artistici e cinematografici, talmente tanti che è difficile tenere il conto. Ci aveva però già abituato a questo modus operandi: era il 2011, usciva il suo disco “King Del Rap”, e il video estratto dall’omonimo singolo era ispirato ad un’opera televisiva che aveva cresciuto l’intera generazione dei ‘90, ossia Willy Il Principe Di Bel Air. Che, guarda caso, in America non era solo un personaggio iconico, ma anche e soprattutto il nome dell’alter ego di Will Smith come rapper.
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Georges Mèlies
“Le Voyage dans la lune” 1902
#quando il cinema era la settima arte#georges méliès#voyage dans la lune#1902#cinema#cinema d'autore
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“Sulla sua tomba soltanto fiori rossi”: dall’Argentina a Rimini, cercando Federico Fellini, a 25 anni dalla morte
25 anni dalla morte di Federico Fellini, tra i grandi registi del cinema mondiale; tra i più amati a Hollywood. In 25 anni, tanto s’è visto, molto s’è fatto, ma l’esito, in sintesi, è un poco sconcertante: basta pensare che il mitologico “Libro dei sogni”, testimonianza artistica pazzesca, è irreperibile. 25 anni dopo, tiepidamente, si ricorda Fellini. Soprattutto, la sua città, Rimini, ha varato il Fulgor, sta pensando a un immane Museo Fellini. Doveroso. Troppo tardi, vien da malignare – meglio tardi che mai, rispondono gli ottimisti. Resterebbe da fare la cosa più semplice: far vedere i film di Fellini in tivù, per tutti. Quando mai. Fellini è troppo bravo, imbarbarirebbe le strategie di chi vuol farci restare imbecilli. In un recente viaggio a Buenos Aires – città decisamente felliniana, onirica, pericolosa, stramba, rosolata nella nostalgia – ho incontrato un uomo – portoghese alloggiato laggiù da decenni – che di Fellini sapeva tutto, perfino le frasi più celebri dei suoi film. Conosceva la Rimini felliniana meglio di un riminese: all’altro capo della terra ho scoperto più cose, del miracoloso regista, che abitando dieci anni in Romagna. L’anno scorso, la brava scrittrice Maria Soledad Pereira ha fatto un tour a Rimini sulle tracce di Fellini, ricavandone un reportage pubblicato su ‘La Nacion’, il massimo quotidiano argentino. Da quell’articolo abbiamo estratto alcuni passaggi, in memoria di Fellini. Affascinante, piuttosto, è lo sguardo ‘oltreoceanico’ che viene dedicato al maestro. Che percezione si ha di Fellini nella sua città natale? Che percezione dell’onore, del valore, della dedizione riguardo ai propri grandi ha uno straniero, quando sbarca in Italia?
***
Pomeriggio di maggio, Caffè Commercio – Rimini, di fronte a Piazza Ferrari – i tavoli sulla strada sono pieni. Nell’aria, un clima che precede l’estate e in qualsiasi caffè italiano ci si siede davanti a uno spritz o a un aperol a parlare con gli amici. All’interno del caffè, il pubblico si divide in due: chi ordina un espresso, lo prende, scappa via e chi è piegato su un banco a leggere ‘la Repubblica’.
Probabilmente, nessuno sa che il ‘Commercio’ esiste dalla fine del XIX secolo; che da allora ha cambiato posto tre volte; che il caffè che sto cercando – quello che appare su una grande insegna in neon blu, durante la scena delle Mille Miglia, nella pellicola Amarcord – non è, in senso stretto, né questo né alcun altro; probabilmente, nessuno lo sa, ma Lenny, responsabile di sala, lo sa, me lo racconta.
“Il primo Caffè Commercio”, dice, prendendo un pezzo di carta e tracciando un rapido schizzo del centro storico della città, “era qui, in questo angolo di Piazza Cavour. Negli anni Sessanta si è installato dove adesso c’è il Caffè La Galleria, dall’altro lato della piazza. Lì andava Fellini. Noi abbiamo aperto solo nel 1996”.
Rimini, Borgo San Giuliano, 2017: una fotografia di Maria Soledad Pereira
Mi pare curioso, però, che nel Caffè La Galleria – dove andrò più tardi – non ci siano riferimenti del tipo, ‘Questo è il caffè frequentato da uno dei registi più insigni della settima arte’, come accade, ad esempio, a Les Deux Magots, a Parigi, dove si fermavano abitualmente Sartre e Simone de Beauvoir, a al Martinho de Arcada, a Lisbona, che esalta Fernando Pessoa come un cliente molto speciale. In effetti, nessuno dei luoghi legati alla storia personale dell’artista italiano, come la casa in via Dardanelli 10 o quella in via Clementini, ha insegne che ne ricordano il passaggio, ad eccezione del Grand Hotel di Rimini. Quello che non manca sono i nomi dei locali che si riferiscono ai film del maestro: Caffè La Dolce Vita, negozi di souvenir o di prodotti locali che si chiamano Amarcord, l’Hotel La Gradisca, il ristorante ‘dalla Saraghina’.
*
“Il fatto evidente – confessa Fellini nel suo libro – è che non mi piace tornare a Rimini. Lo devo ammettere, è come una paralisi… Quando torno a Rimini mi sento invaso dai fantasmi”. Eppure, Fellini è tornato. “Sono andato via nel ’37. Sono tornato nel ’46. Trovai una marea di macerie…”. Credeva che l’oltraggio della guerra fosse incommensurabile. Tornando nel 1967, per scrivere il suo libro su Rimini, ha avuto la stessa sensazione di quando era passato vent’anni prima. Prima, aveva trovato un mare di macerie. Ora, vicino al mare di luci e di hotel, scopriva quell’atmosfera falsa e felice che si percepisce nell’aria. Fu attraversato da una fitta mortificazione. Nel frattempo, Fellini aveva scoperto un’altra Rimini vicino a Roma. “Rimini a Roma è Ostia”, diceva.
Ma Rimini desidera ancora il suo ‘figlio maggiore’? Paolo Fabbri – riminese, professore di semiotica e ultimo direttore della Fondazione Federico Fellini – mi dice in una mail che è una domanda difficile a cui rispondere. “Rispetto ad altre città culturali, Rimini è turistica, per questo la sua memoria è a breve termine, è stagionale”… La presenza del maestro nella sua città natale è innegabile, ma impalpabile. L’ammiratore riconosce la fontana ‘della Pigna’ in piazza Cavour, nel centro di Rimini, visibile in Amarcord, ma forse non localizza il luogo della ‘fogheraccia’… non ci sono riferimenti, non c’è – ancora – un museo, ma ci sono diversi appassionati disposti a parlare di Fellini. Su indicazione di un commerciante, ho attraversato il ponte di Tiberio per andare a San Giuliano, che fu un quartiere di pescatori, con le case colorate e dipinti felliniani. Su suggerimento di Lenny ho visto la Chiesa dei Servi, che Fellini ricorda nel suo libro come un edificio buio e tenebroso. Passo davanti al cinema Fulgor, con il proprietario il futuro vincitore di cinque premi Oscar aveva fatto un accordo: realizzare caricature dei divi e dei personaggi delle pellicole in cartellone, in cambio di biglietti gratis per lui e per gli amici. Poi vado al cimitero. Benché a Fellini non piacesse tornare a Rimini, infine vi è tornato. Qui c’è la sua tomba: e quella della moglie e del figlio. La tomba è all’ingresso del cimitero monumentale, ha la forma di una vela che viaggia nel tempo e, secondo lo scultore Arnaldo Pomodoro, che l’ha realizzata, rappresenta la gloria e la grandezza del regista.
“Se sono per Fellini – mi dice, qualche minuto prima, il fioraio – che siano rossi”.
Maria Soledad Pereira
L'articolo “Sulla sua tomba soltanto fiori rossi”: dall’Argentina a Rimini, cercando Federico Fellini, a 25 anni dalla morte proviene da Pangea.
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Cinema cinema cinema. Film a tutto tondo con i video a 360 gradi.
“Andare al cinema è ridurre all'immobilità il corpo. Non molto ostacola la percezione. Tutto ciò che si può fare è guardare e ascoltare. Ci si dimentica dove si è seduti. Lo schermo luminoso diffonde un torbido chiarore attraverso l'oscurità. Fare un film è una cosa, guardarlo un'altra. Impassibile, muto, fermo siede lo spettatore. Il mondo esterno svanisce quando lo sguardo sonda lo schermo. Importa che film si sta guardando? Forse una cosa che tutti i film hanno in comune è il potere di portare la percezione da un'altra parte.”
Robert Smithson
Era il 19 marzo del 1895 quando davanti all’ingresso della propria fabbrica Auguste e Louis Lumière inventarono, utilizzando una macchina da presa da loro perfezionata, quella cosa che nel corso degli anni si trasformerà nel cinematografo. Girando “La sortie des usines Lumière” (L'uscita dalle officine Lumière) contribuirono a cambiare per sempre la percezione della nostra realtà.
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Molta strada è stata fatta dall’epoca delle cineprese a manovella. In poco più di un secolo siamo passati, dalla ripresa fissa di un gruppo di operai che tornano a casa dopo una giornata di lavoro a filmati che sfruttano le più moderne invenzioni come la tecnologia 360°; da una situazione quasi statica ad una in cui l’azione esce dallo schermo e si costruisce intorno allo spettatore.
Per questo tipo di riprese si utilizzano telecamere che possono, nello stesso momento, registrare immagini a 360 gradi, producendo opere totalmente immersive. Va da se che il dispositivo ideale per “gustare” a pieno questi nuovi nati della settima arte sia un visore dedicato, dai semplici ed economici Google Cardboard ai costosi PlayStation VR, ma se volete comprenderne il funzionamento potete guardarlo su Youtube anche solo con un computer o un tablet, toccando l'immagine con il puntatore o con le dita per muovere il focus virtuale intorno alla scena.
Se non avete mai visto nulla del genere, vi consigliamo di iniziare con il corto presentato all’ultimo festival di Cannes “My Brother's Keeper”, nove stupendi minuti che narrano la vicenda di due fratelli che si battono sui fronti opposti della guerra civile americana. Un esperimento riuscito perché la visuale a 360° non è solo un accessorio tecnico, ma è un pilastro narrativo per la storia, che raccontata in questo modo - e solo in questo modo - offre allo spettatore la possibilità di seguire (vedere) gli eventi da molteplici punti di vista.
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Se alla tecnologia 360° volete affiancare anche l’animazione non potete perdervi “Pearl” del premio Oscar Patrick Osborne. Una avventura on the road in perfetto stile americano, con protagonisti un padre e sua figlia, che crescono ed invecchiano all’interno della loro macchina. Il terzo protagonista è ovviamente lo spettatore che seduto sul sedile anteriore del veicolo assiste in prima fila a tutti le vicissitudini tristi e gioiose della famigliola.
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Vi lasciamo con due consigli per orientarsi meglio in questa “nuova realtà”: La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene un approfondito trattato di Francesco Cassetti per comprendere come il cinema possa mantenere la propria natura attraverso moderni dispositivi di visione e nuovi luoghi di rappresentazione. Cinemology. La grande storia del cinema, in sintesi il titolo dice già tutto sull’opera di Matteo Civaschi e Matteo Pavesi.
Buona lettura
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Sei chi frequenti - parte 3
Infatti si passa all’adolescenza, più o meno.
Diciamo al periodo delle scuole medie in cui si alternavano le cotte clamorose per questo o quel compagno di classe (a caso, come girava la giornata) agli amori per gli attori famosi.
Per me erano più pratici quelli, perché richiedevano meno impegno.
Credo di essermi sempre presa le mie cotte di bambina per questo e quel compagno per non venire meno ai miei doveri di essere umano.
Più ci penso ora e più mi accorgo che tutto ciò che ho pensato dell’amore e della coppia fino ai sedici, diciassette anni non era null’altro che pensiero, appunto.
Mai avuto intenzione di mettere in pratica nulla e così le mie cotte vere erano molto simili a quelle per gli attori. Ti guardo da qui, ti penso, mi struggo per te, ma stai lì dove sei.
Da una parte può essere socially awkward, ma dall’altra direi che mi ha fatto rimanere una ragazzina per tutto il tempo in cui era necessario che lo fossi, per non crescere troppo in fretta.
E sono grata a me stessa di questo, perché mentre certe ragazze decidevano di agire, io giocavo ancora con le barbie e a conti fatti ho fatto proprio bene.
Questo vale per me, ovviamente.
Durante le medie quindi mi sono ritrovata catapultata anche nel mondo reale, quello in cui dire a qualcuno “Mi piaci” equivaleva a qualcosa di già più concreto rispetto al dire la stessa cosa al compagnetto delle elementari. Non a caso alle elementari mi era capitato di trovare il coraggio di dichiararmi, cosa che non è mai più successa durante le medie. Tipo “Zitta, che se lo dici non te lo puoi più rimangiare”.
E infatti dovevi stare attenta pure a dire qualcosa alle amichette che poi lo andavano a riferire, per la gioia di vederti in difficoltà, anche se loro credevano di fare il tuo bene.
Le medie le ho cominciate in compagnia di Fiorello. Anche qui era palese il motivo della scelta. Per i primi anni del suo successo Fiorello era stato un buffone di prima categoria. Io adoravo Il Gioco Dei Nove e lì spopolava interpretando personaggi e dando sfogo a tutta la sua idiozia. Al tempo infatti apprezzavo. E apprezzerei quel Fiorello lì ancora oggi. Purtroppo poi si cresce.
Fiorello è stato l’artefice di una gran cosa. Col fatto che mi piaceva e che era un imitatore di cantanti famosi ho comprato sia Veramente Falso che Nuovamente Falso (i suoi due album di esordio come cantante/imitatore) e ho scoperto artisti che magari non avrei mai conosciuto. E ho imparato a memoria canzoni meravigliose che so ancora oggi.
Nel primo anno delle medie ho scoperto Michael J. Fox.
Ecco, questa è stata proprio passione per l’attore.
Ho amato Marty McFly, eh beh, ho amato forse anche di più Scott Howard e il lupo, e sono stata pazza di Alex P. Keaton per tutto il tempo di programmazione di Family Ties.
Michael è stato un bravo attore e un viso che rimarrà sempre il simbolo di un’epoca.
Ci sono cose stupide per cui si ringrazia, insieme alle cose importanti. Ed io ringrazio lui di avermi accompagnata per larga parte delle mie giornate in quel periodo che l’ha visto protagonista dei miei pensieri. Era sua la faccia tipo del bravo ragazzo dell’epoca; non so chi abbano adesso, ma noi avevamo Michael.
Tragica è stata, poco dopo, la clamorosa rivelazione che ebbi con il successivo grande amore della mia vita, Matthew Broderick.
Il primo film che vidi con lui fu Ferris Bueller’s Day Off.
Il connubio tra bel faccino e idiozia colpì nuovamente la mia fantasia e caddi preda dell’attore. Poi seguì Ladyhawke (io non vedevo i film come uscivano, allora non era come adesso) visto a scuola per farci perdere tempo, come si usava. Dico perdere tempo per me, perché io andavo pazza per i film mentre i bambini normali no, quindi gli altri schiamazzavano e urlavano ed io non seguivo niente.
Beh, quello che feci io fu andare ad affittarmi il film il pomeriggio stesso e ancora oggi non c’è fantasy che possa batterlo.
Sì, hanno girato altri fantasy bellissimi che amo e che riguarderei all’infinito, ma come Ladyhawke non c’è nulla. E nonostante l’eleganza e il coraggio di Navarre siano innegabili, io di Philippe ero innamorata, c’era poco da fare.
Ma è con Project X che arrivarono i problemi. In quel film, non so se ricordate (qui da noi era Fuga dal Futuro, credo) si parlava di un progetto crudele per utilizzare gli scimpanzè come piloti di aerei al posto degli esseri umani. Le scimmiette venivano usate come cavie e sottoposte a potenti radiazioni, se non ricordo male, perché essendo scimmie non potevano temere di morire visto che non sapevano a cosa andavano incontro, al contrario degli esseri umani che, in sostanza, si cagavano addosso.
Beh, la storia era incentrata su questa scimmia speciale che conosceva il linguaggio dei segni e che perciò comunicava con Jimmy, Matthew Broderick, e lui che cercava di tirarla fuori dal laboratorio perché le si affezionava.
Ecco, il problema per me sopraggiunse quando mi accorsi del movimento delle labbra di Matthew Broderick quando per insegnare alla scimmietta la parola -mela- non sillabava -mela-. Per niente.
C’è da ridere fino allo svenimento, ma io allora realizzai che gli attori non parlavano tutti la mia lingua solo perché i film erano in italiano. Io lo scoprii così, nessuno si era preso la briga di dirmelo!
Scoprii che Matthew sillabava -apple-, era impossibile non accorgersene, e ricordo con precisione il mio sentimento di allora: una tristezza infinita. Penso sia stato quello l’esatto istante in cui imparare l’inglese per me divenne di fondamentale importanza.
Ad oggi posso dire: grazie, Matthew, grazie mille per aver sillabato -apple- così precisamente.
Avevamo il cineforum a scuola.
Oltre al videoregistratore che si utilizzava per buttare via tempo avevamo anche il cineforum, cioè due o tre film all’anno che si andava proprio a vedere al cinema con tutta la classe.
Così scoprii Crocodile Dundee. E beh, Paul Hogan mi esaltò moltissimo, ma il vero amore di quel periodo arrivò col secondo film in programmazione per il cineforum. Film che non potei vedere perché quel giorno ero malata e così, visto che c’erano dei compiti da farci sopra, mia madre decise di affittarlo.
Credo di non averlo restituito se non per un paio di giorni ogni tanto nelle successive due settimane. Dire che l’ho imparato a memoria, ancora oggi, è un eufemismo.
The Princess Bride.
Quella meraviglia di storia così magistralmente portata sullo schermo.
The NeverEnding Story era stato il primo film visto al cinema a sei anni e la scintilla che fece divampare il mio amore per la settima arte.
The Princess Bride fu quasi un ritorno a quel mondo fatto di personaggi incredibili, coraggiosi e leali. E assurdi al limite dell’immaginabile.
Stranamente, nonostante fosse carismatico e brillante, non mi innamorai di Inigo Montoya, no, ma proprio di Westley, che anche se non era il classico principe azzurro, diciamocelo, sempre biondo era e non era figo come Inigo.
Ad ogni modo fu Cary Elwes per un sacco di tempo.
Che poi mica stavo zitta, lo dicevo in giro, e così è stato Cary Elwes per un sacco di mie amichette tutte dietro alla sottoscritta e alle sue passioni.
Mi pare che anche con Matthew Broderick avevo scatenato lo stesso problema di massa, eh?
In tutto ciò avevo cominciato a leggere Stephen King e dal primo libro all’ultimo (l’ultimo letto l’anno scorso) mi sono sempre innamorata perdutamente di tutti i suoi personaggi. Non sempre dei protagonisti, ma uno per cui perdere la testa lo trovavo.
Passiamo a Michael Keaton con Batman.
La trilogia di Nolan è uno spettacolo per gli occhi e Christian Bale è sicuramente un ottimo Batman.
Heath come Joker poi, strepitoso.
Ma, perché c’è un ma, il mio Batman è quello di Burton e Keaton.
É così, non ci sono storie e Jack Nicholson rimarrà sempre l’unico vero joker portato sullo schermo.
Non perché quello di Heath sia inaccurato, anzi, ma è perché è venuto dopo e tutto ciò che viene prima, se è buono, deve essere rispettato e portato in trionfo.
Sei arrivato dopo; sei bravo. Ma sei arrivato dopo. Punto. Altrimenti chiunque potrebbe prendere la trama di un bel libro e riscriverlo da capo e vedere se è più bravo del primo scrittore. Cazzo, coi film è lo stesso è per questo che odio i remake.
Michael Keaton è rimasto nel mio cuore per un bel po’ con Batman e pure con Beetlejuice.
Poi fu la volta di Steve Guttemberg con il suo Mahoney.
Ricorda qualcuno com’era Mahoney?
Esatto, un idiota.
Per merito di Steve scoprii anche uno dei film anni ’80 che più amo: Short Circuit.
Lui e Number 5 sono stati nel mio cuore per lungo tempo. Ancora ci sono.
Grande passione che mi ha visto affittare una quantità infinita di film, poi, la scatenò Tom Hanks.
Da Big in avanti fu tutto un susseguirsi di pellicole una più bella dell’altra che mi facevano scompisciare dalle risate. I miei preferiti erano The ‘Burbs, in italiano qualcosa di stupido tipo L’Erba del Vicino, se ricordo bene, e The Money Pit (Casa Dolce Casa). E poi c’era Turner & Hooch, ovviamente, che abbinava il mio attore preferito con un cagnone meraviglioso, come non amarlo. E quanto piangere per quel film ogni santa volta.
In quel periodo i telefilm che guardavo con costanza erano una caterva, manco a dirlo. Ne ho fatto una malattia per Charles in Charge e per Growing pains.
Poi guardai The Hidden con Kyle MacLachlan e altra follia.
Ricordo che all’epoca comprare videocassette originali era un problema un po’ perché non si trovava tutto e un po’ perché costavano e così si ripiegava sul noleggio che a lungo andare più o meno ti succhiava lo stesso quantitativo di soldi.
Questo se eri noi e se un film, effettivamente, lo affittavi quaranta volte.
Chiedete alla nostra videoteca di fiducia (se ancora esistesse, ahimè) il numero di volte in cui Benji The Hunted (Quattro cuccioli da salvare) è passato per casa nostra.
Tante volte mia madre andava lì, appoggiava la vhs sul bancone e diceva semplicemente “La vede? Ecco, ora la riporto a casa, quant’è?”
E per The Hidden (L’alieno) diventò un problema, perché non volevo staccarmi da quella vhs.
Solo che affitta questo un mese affitta quell’altro un altro mese e si dilapidava un patrimonio.
Vero è che capitava anche di fare cose sensate, ogni tanto, tipo videoregistrare film che parevano belli nella speranza che noi piccoli ci si fissasse su quelli che erano gratis e lì a disposizione.
Mia mamma ebbe la brillante idea di registrare, infatti, Stand By Me, consumato al punto che la vhs stessa ci pregava di lasciarla in pace ogni tanto.
Meno brillante, e mia mamma se ne accorse ben presto, fu l’idea di registrare The Fly (La Mosca) con Jeff Goldblum.
Ecco altro brillante esempio di film visto anche in preda al terrore, solo perché c’era lui.
Jeff è stata un’altra delle mie grandi passioni sfociate nel videonoleggio di tutto ciò che trovavo con lui. Ma The Fly, quello registrato e lì a disposizione, era incredibilmente il mio preferito.
Non importava che la notte non dormissi, anche se di fatto io avevo visto poco e niente di quel film dal momento della trasformazione in poi. Io comunque ero terrorizzata, non dormivo, e il giorno dopo ero di nuovo lì davanti alla tele a riguardarmi il primo tempo del film.
Ricordo che trascinai mio fratello nella follia, tanto che la videocassetta con su registrato il film era diventata una specie di oggetto maledetto da guardare in un misto tra ammirazione e timore reverenziale. Come a dire “É ancora lì? Meno male...però ho paura.”
Alla fine mia madre ci registrò su una puntata di Bim Bum Bam con una performance di Paolo Bonolis e Uan talmente divertente che, finito di piangere perché non avevamo più il film, io e mio fratello imparammo a memoria a furia di guardarla e riguardarla.
Eravamo bambini che si adattavano in fretta.
E veniamo infine al più grande amore delle medie. C’era stato quello delle elementari e c’era stato quello delle medie.
Poi si passerà ad altri amori ed altri film, ma lui rimane la cotta clamorosa del periodo tra gli undici e i quattordici anni.
E mi piacevano più grandi, farei notare, parecchio più grandi.
Trattasi di Mel Gibson, che amavo perché era bello come il sole e interpretava un sacco di personaggi fighi che apprezzavo in tutto e per tutto. Il mio preferito, quello per cui stravedevo, era Martin Riggs, non serve specificarlo, ma direi che nella filmografia di Mel ho sempre trovato tanto di buono.
E poi chi potrebbe mai criticarlo come attore?
Ma Martin Riggs rimane il mio eroe di quei tempi, l’uomo per cui ho trascorso ore ed ore ad appendere ritagli di giornale per tutta la stanza, uomo che mi accompagnava ovunque andassi e che si beccava anche le prese per il culo dei miei parenti come fosse un vero fidanzato.
Ricordo mio zio che, per farmi arrabbiare, si nascondeva dietro al tavolo, tirava su una mano, la sventolava e diceva “Sono Mel Gibson, anch’io voglio la pasta.”
Era divertente, io però all’epoca mi arrabbiavo davvero.
Ricordo anche mio nonno, che aveva preso da un giornale di programmi tv una foto di Mel e me l’aveva plastificata con cura prima di regalarmela.
Quanto gli fui grata per quel gesto lo so solo io.
Non tanto per la foto in sè che ne avevo tante e una in più non serviva, ma il far notare ad una bambina che avevi capito cosa le piaceva e che avevi speso tempo su quella cosa per potergliela regalare era una cosa senza prezzo.
Beh, quella è a tutt’oggi una cosa che per me ha valore inestimabile.
Accorgersi di quello che mi piace e ricordarselo è molto più importante e gradito di qualsiasi regalo mi si possa fare.
Sei chi frequenti - parte 1
Sei chi frequenti - parte 2
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Senza computer e prima che inventassero la pellicola a colori...
In many chronicles concerning myself, I have often read that my practice of magic was attributed to the skill I had little by little acquired in cinematographic special effects. What a mistake! In conjuring, we operate under the watchful eye of the public, to whom no false movement escapes… while in the cinema, we quietly create our own little kitchen, far from secular eyes, and we redo things 36 times, if necessary, until we have succeeded. This allows you to go much further in the field of the marvelous. (from Méliès, magie et cinéma, by Jacques Malthête and Laurent Mannoni).
Voyage à travers l'impossible, dir. Georges Mèlies, 1904.
#quando il cinema era la settima arte#Voyage à travers l'impossible#1904. #georges méliès#cinema d'autore#cinema
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la vita di Bombolo solo tardi si è incrociata con il cinema. E allora le strade di Trastevere, le ristrettezze che precedono, attraversano e seguono la seconda guerra mondiale. Franco con suo fratello Renato che cercano nel Rione Ponte, tutte le strade possibili per arrangiarsi, che aiutano la famiglia a tirare avanti ai tempi della borsa nera. E sembra, ancora, di vederlo, Bombolo, mentre parte per l’anno da militare a Pisa, felice perché alla fine potrà mangiare con regolarità. E si sorride in modo amaro quando si legge del suo primo ritorno a Roma, il padre che vende i suoi anfibi da soldato per poter comprare un po’ di cibo al resto della famiglia. Poi il lavoro come ambulante e l’incontro con Regina, sua moglie. La vita gli cambia da Picchiottino, una trattoria di Trastevere. E’ l’estate del 1975, Bombolo ha già 44 anni. Francesco Pingitore e Mario Castellucci lo guardano e gli lasciano un bigliettino. Viene arruolato subito, stavolta tra i ranghi del battaglione della settima arte. “Era un miracolo artistico”, ricorda Pingitore. “E durante le riprese del film, non smise mica di fare l’ambulante: vendeva piatti a tutti quelli che gli capitavano a tiro”. E dopo il cinema, il teatro, l’ingresso al Bagaglino. Senza mai andarsene di testa, senza mai perdere il senso della realtà. Una sera, durante le prove, Pippo Franco lo rimprovera: “C’hai fatto perdere una risata”. E lui: “E che t’ho fatto perde ‘n preciutto?!’”. "a camerie'... Arriva sta pizza?" 🍕👐 cia Bombole'🖌️ #francolechner #roma #attoriitaliani #movies #bfilm #filmitaliani #colore #tecnicamista #marcofiorenzaart #caricature #portraits #ritrattidautore #tratti #bombolo #tomasmilian #milianbombolo #80s #borgata #pizze #maresciallogiraldi #francobertarelli #bocconotticinzia #fiorenzart #fiorenza2019 #tvitaliana 🎨 https://www.instagram.com/p/B1h64I4imV_/?igshid=t4909o2giixy
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Intervista a Valentina Sampaio, modella e attivista LGBT+
Milano ama il Brasile. Lo dimostrano i sempre più frequenti appuntamenti dedicati al Paese sudamericano. Primo tra tutti, il festival “Agenda Brasil”, promosso dall’associazione Vagaluna, che offre un punto di vista interessante, plurale e aggiornato, spaziando dal cinema all’arte contemporanea, dalla musica alla danza, alla lettura. Questo mese l’appuntamento è dal 17 al 29 luglio con una rassegna cinematografica alla Cineteca – Spazio Oberdan.
Tra i 16 film presentati, anche “Berenice procura”, in cui fa il suo debutto come attrice la modella trans Valentina Sampaio, già apparsa in copertina su Vogue Paris. Noi l’abbiamo intervistata per Vogue.it. Ecco cosa ci ha raccontato del suo lavoro. E del suo Paese.
Come hai comiciato la carriera di modella? Da piccola volevo fare l’artista. Disegnavo modelli di abiti e sognavo di diventare stilista. Quando poi mi sono iscritta alla facoltà di moda, alcuni addetti ai lavori mi hanno notato, proponendomi i primi ingaggi come modella. Non è stato facile: mi sono dovuta confrontare con molti pregiudizi, ma non ho rinunciato. E con molto orgoglio, oggi sono qui.
Parliamo del film “Berenice procura” che viene presentato per la prima volta in Italia. Sì, il mio primo film! Un’esperienza incredibile, che mi ha arricchito molto. All’inizio, quando finivano le riprese, era molto complicato per me uscire dal personaggio, perché l’immedesimazione è stata molto forte, ma ora non vedo l’ora di poterlo rifare.
Nel film sei una trans che muore assassinata. Purtroppo, la storia narrata dal film è piuttosto comune in Brasile, che conta il più alto numero di trans e persone LGBT+ uccise. Che cosa pensi di questa situazione? Ci sono segnali di cambiamento? È triste, ma è la realtà di oggi. Ci stiamo battendo per un mondo più giusto. Penso che, seppur molto lentamente, stiamo facendo passi avanti. Per esempio, l’Organizzazione mondiale della salute ha di recente tolto la transessualità dalla lista delle malattie: assurdo che non fosse stato fatto prima. È una grande vittoria per la popolazione trans di tutto il mondo. Era ora che fossimo alleviati dalla pena di dover rientrare il questa classificazione vergognosa per una condizione che invece è del tutto naturale. Siamo transgender, ma prima di tutto semplici esseri umani come gli altri. Alla fine dei conti, solo le corrette informazioni e il rispetto saranno in grado di debellare ogni pregiudizio. I pregiudizi, appunto: non sono ormai così fuori moda?
Che cosa vuoi dire ai giovani trans? Lottate per voi stessi e per quello in cui credete. Siate forti perché ne siete capaci.
Ti vedi come un simbolo della causa LGBT+? Non come un simbolo, ms come la causa in sé. Quando lotto per me, lotto per tutti noi. Per il rispetto e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Concentrarmi sul lavoro di modella e studiare arte, per crescere professionalmente e come essere umano. La vita è un continuo apprendistato. Io prendo tutte le cose buone che mi offre.
Valentina Sampaio recita nel film “Berenice Procura”, che sarà proiettato sabato 21 luglio alle ore 19 allo Spazio Oberdan di Milano durante la settima edizione del festival Agenda Brasil, promosso dall’Associazione Vagaluna (17-22 luglio).
L'articolo Intervista a Valentina Sampaio, modella e attivista LGBT+ sembra essere il primo su Vogue.it.
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Lettere che potrei aver ricevuto io...
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