#poeti italiani del '900
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“ Il dialetto gaddiano, il romanesco del Pasticciaccio tanto spesso avvicinato a quello pasoliniano, entra in un rapporto ludico complesso con la lingua, con i suoi differenti livelli, e nel gioco quello che conta è la scrittura, l'artificio della scrittura come suprema abilità di maneggiare (e magari di distruggere, ma dall'interno) il registro del simbolico, la comunicazione (e la tradizione) letteraria. Al contrario il romanesco pasoliniano vuole prima di tutto essere puro suono, nasce indifferente ai significati, esterno alla comunicazione, posto al servizio di un progetto di ipnosi, di trance. È un dialetto "brutto", rigorosamente privo di tensioni formali, tutto concentrato sulla propria noia. Se nei primi racconti di Alí l'artificio letterario tradizionale, inteso come abilità ed eccezionalità linguistica, era ancora ben presente, col dialetto dei romanzi passa in secondo piano e ci sembra di leggere semplici registrazioni vocali. La letterarietà dell'operazione si è spostata, ha cambiato scopo. L'« intervento dello scrittore in quanto tale »* non si indirizza piú al perfezionamento interno della scrittura, ad esibire gli artifici, le astute scelte, a molare e render "bello" il pezzo testuale; ma punta piuttosto all'effetto finale, pratico, del testo: non interessa la tenuta estetica ma il potenziale di fascinazione che il testo può produrre. Perciò i romanzi pasoliniani, nonostante le apparenze spesso alessandrine, possono anche mostrare rozzezze, e trascuratezze di scrittura. Il romanesco non è affatto un registro "d'arte", viene adottato e trascritto in una chiusa brutalità che lavora efficacemente come un suono addormentatore. Tale vistosa modifica della letterarietà testuale chiarisce le profonde differenze tra l'operazione dialettale romana e il precedente friulano. Nel Friuli il dialetto funzionava come metafora della dimensione immaginaria ma conservava tutti i segni "letterari" del gergo ermetico. L'immaginario era messo in gioco per via di metafora, proprio attraverso la strumentazione raffinata dell'artificio: la cantilena ipnotica del fantasma era prima di ogni altra cosa una scrittura, un'elaborazione testuale, e fingeva abilmente di essere il suo contrario, l'oralità liberata di un registro pre-linguistico. Ora invece l'esperimento pasoliniano è diverso, molto piú radicale. Ora il dialetto dei romanzi, appiattito nella ripetizione, è letteralmente quella oralità dell'immaginario. Se volessimo servirci di una sottile distinzione potremmo dire che il friulano era una « scrittura », il romanesco è invece una « trascrizione » del fantasma.** Certo, anche nel caso del romanesco il dialetto è prima di tutto linguaggio, quindi interno alla generale dimensione della comunicatività; ma Pasolini ne fa un uso così speciale, così limitato (fatto di formule, di indifferenza, quasi di cecità linguistica), che il salto dal dialetto-linguaggio al dialetto-fantasma è facilissimo. Il romanesco, così ridotto e impoverito, è una catena di significanti, senza semantica, e una tale catena non riesce neppure a localizzarsi come sistema di opposizioni, di simboli, di segnali riconoscibili e produttori di senso: insomma, il puro significante di questo dialetto non riesce a diventare organizzazione, griglia simbolica dentro la quale ordinare le cose. “
*Si veda la dichiarazione pasoliniana: « Per assumere nel romanzo il colloquio in dialetto occorre perciò un intervento dello scrittore in quanto tale molto piú accentuato e dichiarato che in una pagina scritta nell'italiano letterario ». Cfr. F. Camon, Il mestiere di scrittore, Milano, 1973, p. 107. **Ci serviamo di una distinzione enunciata da Lacan, a proposito dei suoi seminari, nella Postface a J. LACAN, Le séminaire livre Xl. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris 1969, pp. 251-254.
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Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Ugo Mursia Editore (collana Civiltà letteraria del Novecento - Profili N. 40), 1982¹; pp. 145-46.
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Dove vanno le fotografie?
Dove va la fotografia? È la domanda che da tempo noi, sprovveduti amatori e ingenui amanti di questa “arte”, ci siamo fatti e continuiamo a farci, e sulla quale i nostri Soloni amano illuminarci con sapienti, profonde e immaginifiche dissertazioni, ogni volta che qualcosa di nuovo nelle funzionalità tecniche o nelle concezioni artistiche viene a turbare convinzioni assodate, usi affermati o legittimi interessi. Quando? Per esempio: quando l’arte concettuale ha scombussolati i principi estetici anche nella fotografia; quando il computer ha messo nelle mani dei “creativi” un nuovo attrezzo, permettendo loro di invadere il mondo della fotografia; quando il sensore digitale ha sterminati i laboratori di sviluppo e stampa; e nel presente, dacché il medesimo strumento ha reso smart tutto il mondo, oltretutto mettendo in affanni anche i più svelti fotogiornalisti. Ed è arduo immaginare che cosa ancora ci possiamo aspettare. [1]
Noi, nella nostra innocente ingenuità, brancoliamo disorientati fra miraggi ed incubi, e non sappiamo dove e a chi guardare per concretizzare una visione personale distinguendo fra innovatori, profeti e pataccari. Piuttosto che “dove va La Fotografia”, la domanda, forse la sola, alla quale possiamo cercare di darci risposta con un sforzo di ricerca personale non sovrumano è la seguente: dove vanno le fotografie? Cioè: dove possiamo indirizzare il nostro sguardo per informarci sullo stato attuale della fotografia? Dove andremo a cercare la fotografia viva e vitale in una propria autonomia, non come ancella subordinata alle varie altre forme della contemporaneità artistica? In che ambiente la fotografia e i suoi autori si confrontano con un mondo reale al di fuori di quello artificioso e circoscritto delle mostre e del mercato dell’Arte? Dove guadagnano il pane quotidiano i fotografi che nella loro professione tendono a esiti personali non banali e possibilmente nuovi?
Non è neppure da pensare alla televisione, che eroga le notizie a base di filmati (spesso di origine smart sistematicamente orientati in verticale, sovvertendo malamente l’orizzonte del nostro campo visuale). Quanto ai periodici di informazione: Time, Life e i loro omologhi europei e italiani, che commissionavano inchieste fotografiche al fior fiore dei fotografi internazionali, il loro tempo si è chiuso ormai da decenni. Ora l’offerta della stampa periodica del settore si è ridotta ai settimanali di gossip, stipati di falsi scoop realizzati colla complicità di soggetti caratterialmente smutandati (che d’altronde sono generosi di selfie in quello stile).
I libri fotografici? Molti fra quelli proposti ricordano quei volumetti di poesia che in altri tempi editori specializzati nel settore stampavano per aspiranti poeti disposti a pagare tutte le spese e a riempire la soffitta colle copie rimaste dopo la distribuzione a parenti e amici. E comunque sono rimasti un settore di nicchia, come erano già nel secolo scorso e forse ancora di più, visto che sui banchetti reali e virtuali le opere di fotografi “puri” (termine da prendere ormai in senso lato [2]) si mescolano a altre di “creativi” che combinano il pennello fotografico con altri mezzi collo scopo di produrre “arte” più o meno figurativa.
Le riviste fotografiche si sono da tempo assegnate la missione di svuotare i portafogli degli appassionati riempiendo le borse di costoro con nuove miracolose attrezzature. Le presentazioni di nuovi autori capaci di un impatto reale sono rare; le recensioni di nuovi libri, sempre encomiastiche, rischiano di gravare i nostri scaffali di pesi superflui.
Ma allora, dove cercheremo gli autentici fotografi “in marcia”? A chi stanno, questi altri, consegnando le loro fotografie?
Esiste forse un solo settore della stampa nel quale, senza infingimenti, il fine per il quale l’autore viene ingaggiato ed opera è palese e dichiarato: ed è il settore della moda (o fashion, per dirlo con eleganza). Un settore che già dalla prima metà del ‘900 è stato frequentato da autori che hanno innovato nella fotografia di moda e nello stesso tempo portato la fotografia d’arte verso storici progressi.
Già negli anni ’20 Man Ray a Parigi realizzava servizi fotografici per riviste di moda come Vogue e Vanity Fair e, dagli anni ’30 in poi, per l’americana Harper’s Bazaar. Anche la sua opera più famosa, Noire et Blanche, fu pubblicata la prima volta su Vogue nel 1926. Nella seconda metà del XX secolo delle stesse riviste furono collaboratori fissi Helmut Newton e Richard Avedon.
Quelle riviste esistono ancora. Anzi, nel tempo hanno ampliato la loro diffusione, affiancando all’edizione madre versioni locali nelle lingue di vari paesi. Da noi, l’edizione nazionale del settimanale Vanity Fair arriva ogni giovedì in tutte le edicole. Negli articoli accompagnati da un servizio fotografico – praticamente tutti, salvo quelli delle rubriche fisse – viene indicato il nome del fotografo. I fotografi sono tutti professionisti con siti ben articolati e dettagliati. Se le immagini del servizio colpiscono per qualità e originalità, nulla di più semplice che approfondire la conoscenza dell’autore trasferendo in rete la ricerca. Operazione meno dispendiosa di tempo, danaro e fatica di qualsiasi altra ricerca. Si troveranno “mostri sacri” affermatisi nello scorcio del vecchio millennio e ancora attivi; ma molto più spesso si noteranno giovani innovativi e/o rampanti. [3]
Nella prima categoria, troveremo per esempio l’inventivo fotografo e cineasta britannico Nick Knight (https.//www.nikknight.com), del quale avremo forse già presente l’icona della cantante/modella Bjork acconciata alla giapponese e coll’occhio sinistro completamente opacizzato (nella stampa!) da una vernice celeste. Nel 2021 le sue immagini per “Dom Pèrignon x LADY GAGA” Champagne Rosé Millesimato Limited Edition [4] hanno invaso sia le pagine dei servizi che quelle della pubblicità, invitandoci a rivisitare il suo costante rapporto artistico colla cantante, attrice e modella, e a constatare la perdurante vitalità della sua opera.
Nick Knight, Pubblicità per per “Dom Pèrignon x LADY GAGA”, 2021.
A fare da legame fra i mostri sacri e gli autori affermati di recente, servirà il giovane Victor Lemarchelier, figlio dell’autore dei Calendari Pirelli 2005 e 2008 Patrick Lemarchelier (1945 – marzo 2022). Una sua nota personale sembra l’accoppiamento di immagini colla modella en mise e la stessa “senza mise” (ma qualcosa del genere non l’aveva già fatto qualcun altro?).
Si troveranno spesso servizi e copertine di Gianluca Saragò con ritratti di “personalità” mondane, il suo settore di specializzazione. Il suo sito (http://www.gianlucasarago.com, Celebrities) immergerà il lettore nella più vivace attualitè, stuzzicandolo a far scorrere sullo schermo qualcuno dei molti servizi completamente dettagliati: su Belen (nozze con Stefano De Martino, i due nell’intimità, lei in attesa di Santiago, frutto del loro amore), su Michelle Hunziker, su Luciano Ligabue [5] e così via.
L’incontro certamente più inaspettato avverrà con articoli di Vanity Fair Italia o Vogue Sposa recanti l’intestazione “foto Gabriele Basilico”. Si imparerà che dal 2015 collabora con queste riviste un Wedding Photographer, dallo stile Young, Fresh and Dynamic, [6] che condivide nome e cognome col grande fotografo scomparso recentemente.
Non dovrebbe sorprendere l’ampia presenza di fotografe fra i collaboratori fissi più apprezzabili. A cominciare da quella che viene comunemente definita “la più grande ritrattista del mondo”, Annie Leibovitz. La sua fama, nata sul mensile Rolling Stone, “la Bibbia della cultura Pop”, si è consolidata proprio sulle riviste nostro oggetto - per essere infine consacrata nei ritratti ufficiali di Elisabetta II e della famiglia reale, nei quali l’autrice ha rafforzato la tendenziale tetraggine dei suoi colori.
Annie Leibovitz, foto per Vogue
Fra le autrici della Generazione Y [7], spicca la danese Signe Vilstrup, che lavora in questo settore dal 2002. I suoi servizi per e con Monica Bellucci (visitabili nel sito dell’agenzia che la rappresenta [8], in quello di Dolce e Gabbana e nell’archivio di Vanity Fair [vedere: Vanity Fair archives Signe Vilstrup]) spiccano fra quelli dei tanti fotografi per i quali l’attrice si è prestata come modella.
Monica Bellucci by Signe Vilstrup, 2012.
L’italiana Nima Benati, ora poco più che trentenne, potrà sorprendere col suo servizio ispirato (ma senza piaggieria) a Rubens, commissionato da Dolce e Gabbana [9]. Da un lato, è una significativa dissociazione dalle apoteosi dell’anoressia delle correnti sfilate di moda. Da un altro, è molto più nuovo e convincente dei tentativi pretenziosi, ma ridicoli nei risultati, di rifare fotograficamente gli interni di Veermer. [10]
Nima Benati- Sin.: Copertina per Vanity Fair. Ds. Pubblicità per Dolce e Gabbana.
In conclusione, ci permettiamo un facile suggerimento agli amatori curiosi di verificare dove stanno andando le fotografie. Ai Signori. Regalate alle vostre mogli, compagne o amichette un abbonamento a Vanity Fair Italia (settimanale) o a Vogue Italia (mensile) o a Harper's Bazaar Italia (solo in edizione digitale), o a altri periodici del rango “alto” del settore. [11] Non fatevi scappare l’occasione di accedervi, chiedendo di non buttare nei rifiuti i numeri già letti, o prelevandoli direttamente dalla pila nei pressi del WC, tradizionale santuario della lettura: tanto, per il nostro scopo, non invecchiano. Alle Signore appassionate all’immagine fotografica. Fatevi regalare l’abbonamento dal vostro marito, compagno, fidanzato o amichetto: ne trarrete doppia soddisfazione, per gli interessi femminili e per la cultura. Per gli uni e le Altre. Sfogliate le riviste accanto al PC, soffermatevi sugli articoli in cui è indicato il nome del fotografo e, dove le immagini vi intrigano, digitate Nome, Cognome, Fotografo (o Photographer), Almeno uno dei siti di volta in volta scaturiti sarà ricco di notizie e di immagini. Buon divertimento.
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Avvertenza. La fotografia del titolo è stata “prelevata” dal sito http://www.danjacksonphoto.com/, una delle scoperte più interessanti di questa informale indagine. Si ringrazia l’inconsapevole ma brillante e versatile autore.
[1] Intervista a Frédo Durand, Réponses Photo N° 348, Aprile 2022.
[2] Rinunciando forzatamente all’integralismo della autentica “vera fotografia” che ormai esiste solo presso Gianni Berengo Gardin. In cuor nostro Santo, anzi Santo Subito, poiché per un comune mortale, seppur devotissimo alla fotografia, resistere alla tentazione di un ritocco digitale è un atto di eroica religiosità.
[3] Le nostre fonti sono state Vanity Fair Italia, settimanale, abitualmente disponibile in casa, e qualche numero occasionale di Vogue Italia, mensile. Purtroppo le immagini pubblicitarie, che coprono la gran parte delle pagine di queste riviste e talvolta sono di grande effetto, non portano mai il nome degli autori, raramente quello dell’agenzia. Qualche risultato si è ottenuto ricorrendo al sito della maison.
[4]https://images.squarespace-cdn.com/content/v1/5c7d2067b2cf79edfe1a3a2a/1551714272998-XQ4AM6EOE2X5QEUJYC37/nk-65_v10-1_1100x0.1100x0.jpg
[5]http://www.gianlucasarago.com/PANNELLO/IMAGES/PRESS/COVERS/bd558875efa23a9307d1061d4806c6c7.1_mini.jpg
[6] http://www.gabrielebasilico.com/about/;
[7] La prima “generazione digitale”, di nati prima del 2000, i primi a formarsi già sul digitale, per i quali è stata istituita la denominazione Millennials (che viene usata erroneamente per i nati dal 2000 in poi).
[8] https://www.studiorepossi.com/photographers/signe-vilstrup/
https://attheloft.typepad.com/.a/6a00e54ecca8b988330168eac81bce970c-650wi
Click su: Vanity Fair archives Signe Vilstrup
[9] Si deve riconoscere che, fin dai tempi del servizio con Marpessa commissionato a Scianna, questi imprenditori della moda stanno lasciando una traccia nella spinta al rinnovamento della fotografia italiana non solo in questo settore.
[10] https://www.fotopadova.org/post/632851203594862592
[11] Sfortunatamente, nessuno dei loro editori remunera Fotopadova per
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“A cosa serve fare il dittatore quando uno ha famiglia?”: Dylan Thomas sfotteva Mussolini a teatro
Per prima cosa passarono da Milano, “città gigantesca, da incubo”, solo perché avevano perso i bagagli, poi giù verso la Riviera ligure, Rapallo, San Michele di Pagana, i paesi diventati una indelebile pagina delle letteratura inglese grazie a Ezra Pound, William Butler Yeats, Ernest Hemingway. Era aprile, era il 1947, quando Dylan Thomas, questa specie di Bacco malato, icona caravaggesca della poesia occidentale, questa specie di Rimbaud redivivo, folle&pingue, nato a Swansea, la città con il cigno sullo stemma, Galles, il brutto anatroccolo diventato il più grande poeta del dopoguerra, arrivò a Firenze.
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Del fatidico ‘Giubbe Rosse’, dove s’affollavano i futuristi e Soffici brindava con Papini, Dylan Thomas, alieno ai bagliori dei club letterari, ricorda il tavolino. Lì sopra scrisse una delle tante, patetiche, lettere livide di lacrime alla moglie Caitlin, enormemente tradita (lei ricambiava, per altro, con godimento): “Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso. Ti amerò. Davvero ti amo. Sei la donna più bella che sia mai vissuta”. Quando i poeti arrivavano a omaggiarlo, Dylan si nascondeva. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava nel vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita” (Paul Ferris, in Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra, Mattioli 1885, 2008).
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Preferiva la compagnia di Luigi Berti, grande traduttore dall’inglese: si davano, insieme, a memorabili bevute. I poeti italiani erano noiosi già all’epoca, evidentemente. Eppure, Dylan Thomas, poeta puro, che depurò la poesia dall’eccesso culturale, riportandola alla sua natura formale e ferina, ha influenzato una bella fetta della lirica italiana. Eugenio Montale e Piero Bigongiari lo onorarono con le loro traduzioni (modeste quelle di Montale), uno dei grandi poeti di oggi, Alessandro Ceni, nasce ispirato da Dylan Thomas. D’altronde, anche Dylan ha un antico debito verso l’Italia.
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Siamo nel 1932, o giù di lì, Dylan è un “ladro del fuoco”, direbbe Rimbaud – l’unico paragone decente – uno che ha il fuoco lirico dentro. Nel 1932 Dylan Thomas ha diciotto anni: l’anno successivo sarebbe sbarcato a Londra con una poesia in tasca, destinata a una fama infinita, And death shall have no dominion, che strapperà sospiri a Sua Maestà Lirica Thomas S. Eliot. Di lì a pochissimo, nel 1934, Dylan Thomas sorge alla poesia inglese con la prima raccolta, 18 Poems. Nei primi anni Trenta, giovanissimo, Dylan Thomas pratica il giornalismo (sul South Wales Daily Post) e fa teatro, presso il Little Theatre, con la sua amica Ethel Ross.
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Precocissimo, uno sparo, va considerata la verve ‘teatrale’ di Dylan Thomas. Dal 1945 la BBC ingaggia Dylan per una serie di conversazioni radiofoniche: lui è un po’ druido, un po’ aedo, un po’ pagliaccio. Il 18 giugno del 1946 delinea il poeta così: “un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il suo tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra che ha tutta l’aria di voler andare all’inferno”.
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La poesia, estremamente, è una attitudine, un Nord delle ossa, una postura. Poi, nell’eventualità, si scrive. Dylan Thomas ci insegna che, beh, si può vivere come poeti – affollati da una strana disperazione, da una straordinaria gioia.
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Un pagina di “Lunch at Mussolini’s”, testo di Dylan Thomas del 1932, scoperto da Roberto Sanesi
Gli archivi di Ethel Ross, ora, sono al Swansea University Archives, ma fu Roberto Sanesi, supremo anglista e grande traduttore delle Poesie di Dylan Thomas (la prima fu nel 1953, per Guanda, aveva 23 anni…), a fare la scoperta. “Alla ricerca di testimonianze sugli anni giovanili di Dylan Thomas, nel 1958 incontrai a Swansea Ethel Ross, cognata del pittore Alfred Janes. Nel 1932, quando Miss Ross conobbe per la prima volta Dylan Thomas allo Swansea Little Theatre, il giovanissimo poeta era già un ‘veterano’ delle peripezie filodrammatiche di quel periodo di provinciali tentativi di revival nella piccola sala di tipo parrocchiale incastrata fra il mare e la collina a Southend, Mumbles”. Ethel mostra a Sanesi “tre fogli battuti a macchina”. Titolo: Lunch at Mussolini’s. Pranzo da Mussolini. Questa la testimonianza di Ethel: “Questo particolare sketch (Thomas) me lo diede per metterlo in scena al Little Theatre. A quel tempo ero io che di solito scrivevo degli sketches comici per i parties che si tenevano dopo ogni spettacolo; ma quello non venne mai rappresentato… Comunque, il testo l’ho ancora io”. Il testo viene pubblicato nel 1970 sulla rivista Il Dramma e riproposto nel 1972, da M’Arte Edizioni in Milano, in un libro artistico, stampato in 100 copie numerate, con silografie di Mino Maccari. Ora, per altro, è leggibile in un sito italiano dedicato a Thomas, con parecchi materiali interessanti.
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Beh, pare una ‘chaplinata’, qualcosa tra l’atto buffo, la smorfia di Chaplin, l’esigenza comica dei Marx, lo sgorbio di Buster Keaton. Il Dux è un tipo assillato dalla famiglia, che brontola e che agisce d’impeto, come una bestia fragile, contro chi non la pensa come lui. Siamo negli anni Trenta, in Galles, e Benito Mussolini è osservato da un ragazzo di 18 anni con l’ossessione per la poesia e la fantasmagoria biblica in corpo. Il guizzo geniale mi pare proprio quello: guardare il Duce, di cui è nota la prorompente oratoria pubblica, nell’atto privato, incalzato dalla moglie sul cibo (conta soltanto quello e guai a dire che la cucina italiana è modesta), che si premura di sottolineare, niente aglio, per favore, perché “stasera devo tenere un discorso patriottico”, e quando ha l’indigestione scatena incidenti diplomatici e guerreschi. D’altronde, direi, si governa come si caga, il cervello è l’appendice dell’intestino. (d.b.)
***
“Pranzo da Mussolini”
Un atto unico di Dylan Thomas
La stanza da pranzo nella casa di Mussolini a Roma. Entra Mussolini. Indossa la sua uniforme più pittoresca e la migliore della sue espressioni inscrutabili. La famiglia scatta sull’attenti. Lui si siede. Loro si siedono.
MUSSOLINI (versandosi il caffè). Insomma, questo è troppo. L’acqua per la barba era fredda un’altra volta. Lo scaldabagno non funziona, e il bagno è in condizioni schifose. LA MOGLIE. Beh, ma cosa pretendi caro, se ci vuoi tenere una mitragliatrice? MUSSOLINI. Bisogna pure che mi difenda, no? LA MOGLIE. Ma non nella stanza da bagno, caro. MUSSOLINI. Bah! (Sbucciandosi una banana). E guarda questa banana, è marcia. Possibile che non vada mai bene niente in questo posto? LA MOGLIE (compiacente). No, caro. Spero ti sia ricordato di cambiarti la biancheria. MUSSOLINI. Certo. E di far prendere aria alla camicia. E di pulirmi i denti. E di lavarmi dietro le orecchie. IL FIGLIO. Perché papà s’è messo l’uniforme oggi? Deve andare a posare una prima pietra o a inaugurare una biblioteca pubblica? LA MOGLIE. Sta’ zitto, caro. Deve andare a farsi fotografare. MUSSOLINI (secco). Piantala, signorino. (Il ragazzo comincia a frignare. Le donne si guardano). LA MOGLIE. Benito! (Nessuna risposta) Benito! MUSSOLINI. Insomma, cosa c’è? Non ce l’ha un fazzoletto questo ragazzo? LA MOGLIE. Sì, caro. MUSSOLINI. E allora perché non lo adopera? (Il ragazzo ricomincia a frignare) Non lo vedi che sono occupato? Stasera ho un discorso importante. LA MOGLIE. Allora non ti dimenticare l’ombrello, caro, sembra che stia per piovere. MUSSOLINI. Bah! LA MOGLIE. A proposito del vestito nuovo di Edda… MUSSOLINI. E t’aspetti che mi metta a discutere d’una faccenda del genere? EDDA. Dovrò pure averne uno, no? MUSSOLINI. Non essere impertinente. LA MOGLIE. La bambina ha ragione. Se non facciamo alla svelta, perdiamo la svendita. MUSSOLINI. Vorrei sapere a cosa serve cercar di fare il dittatore quando uno ha famiglia. LA MOGLIE. Vorrei che tu non fossi così violento, caro. Quasi rompevi un piattino. MUSSOLINI. Ma come osa? Come osa? Io lo faccio fucilare. Lo faccio fare a pezzi. Lo faccio… LA MOGLIE. Qualcuno che non è d’accordo con te, caro? MUSSOLINI. Che non è d’accordo? Quell’infernale direttore di tutta ’sta porcheria ha avuto il coraggio di criticarmi. (Afferra il campanello). LA MOGLIE. No, un minuto caro. Non abbiamo ancora deciso cosa si mangia a pranzo. MUSSOLINI. Pranzo! Quando i destini dell’Impero tremano?… LA MOGLIE. Sì, caro. Non tornerai tardi anche oggi, eh? MUSSOLINI. Non lo so. Come faccio a saperlo. Perché? LA MOGLIE. Se continui ad arrivare in ritardo per i pasti non riusciremo mai a tenerci in casa una donna di servizio. MUSSOLINI. Mai sentita una cosa simile. Sei tu che ti devi imporre. LA MOGLIE. Sì, caro. Forse ti piacerebbe cominciare con la cuoca? MUSSOLINI (in fretta). Io… eh… certo che no. Ho già abbastanza da fare. (Suona il campanello. Entra il segretario). IL SEGRETARIO. Eccellenza? MUSSOLINI (mostrando il giornale). L’avete visto? IL SEGRETARIO. Sì, Eccellenza. La polizia segreta l’ha arrestato un’ora fa. Vogliono sapere cosa gli devono fare. MUSSOLINI. Fare? Dobbiamo essere indulgenti. Era un vecchio amico di mio padre. Diciamo vent’anni di galera in una fortezza e un’ammenda di tre milioni. IL SEGRETARIO. Molto bene, Eccellenza. E c’è un’altra questione. MUSSOLINI. Un’altra? IL SEGRETARIO. Al Lido due tedeschi si sono lamentati della cucina dell’albergo. MUSSOLINI. Si sono lamentati della cucina italiana? È un insulto. Immediata rappresaglia con l’Ambasciatore tedesco. IL SEGRETARIO (si inchina e si ritira). Molto bene, Eccellenza. MUSSOLINI. Ecco come ci si deve comportare… Con fermezza. A fronte alta. È così che Napoleone… LA MOGLIE. Sì, caro. Ma cosa vorresti a pranzo? MUSSOLINI. Pranzo! Ma che importanza ha? Lo sai che non bado a cosa mangio. LA MOGLIE. Cosa ne diresti di un po’ di vermicelli, allora? MUSSOLINI. Assolutamente no. Li abbiamo mangiati lunedì. LA MOGLIE. Ma sono nutrienti, ti fanno bene, caro. MUSSOLINI. Ti ho detto niente vermicelli. Non facciamo che mangiare vermicelli. LA MOGLIE. Magari potresti pensare tu a qualcosa. IL FIGLIO. Maccheroni. EDDA. Ssssh! MUSSOLINI. Cosa vuoi dire, signorina? Ssssh? Suppongo di poter avere maccheroni se mi va di avere maccheroni, sì o no? LA MOGLIE. Sì, caro. Ma ricordati cos’è successo l’ultima volta che abbiamo mangiato maccheroni. MUSSOLINI. Eh? IL FIGLIO. Sì, papà. Ti sei preso l’indigestione e hai mandato la flotta contro la Grecia. MUSSOLINI. Come osi? Sai quanta gente è morta per avermi detto molto meno? LA MOGLIE. Sì, caro, ma si può sapere cosa vuoi a pranzo? MUSSOLINI. Te l’ho detto che non mi interessa. Basta che non ci sia l’aglio. Stasera devo tenere un discorso patriottico. LA MOGLIE. Vermicelli, allora? MUSSOLINI. Bah!
L'articolo “A cosa serve fare il dittatore quando uno ha famiglia?”: Dylan Thomas sfotteva Mussolini a teatro proviene da Pangea.
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Gino De Dominicis. Il profeta e il mago dell’autoinganno
Sono diventato amico intimo di Gino De Dominicis a Venezia durante la Biennale del 1990. Non ci siamo più separati fino al giorno della sua morte. Quasi ogni giorno andavo a trovarlo nello studio dove operava e abitava nel cuore di Roma. La sera uscivamo assieme e tiravamo fino a tardi per trattorie e locali di cui era affezionato avventore. Gino non amava i critici d’arte, li considerava figli di un dio minore capaci di fabbricare castelli di parole e perlopiù incapaci di plasmare le opere. Li teneva lontani dal suo mondo con poche eccezioni. Accettò di pubblicare i suoi pensieri in forma di dialogo tra me e lui, dal titolo ‘Promemoria di fine secolo’, sul catalogo della XII Quadriennale d’Arte di Roma (“Ultime Generazioni”, editore De Luca, 1996). Quel colloquio sulla contemporaneità contiene quanto Gino De Dominicis aveva da dire in fatto d’arte e costituisce punto di riferimento per chi ne studia l’opera.
Gino è morto a cinquantuno anni, fine novembre del 1998. Su Roma e nel mondo dell’arte si è spento un faro di cui si avverte ancora il vuoto. Dell’ amicizia con Gino De Dominicis e della nostra convergenza umana e morale vissuta nell’ ultimo decennio del ‘900 ho offerto un resoconto con il libro “De Dominicis amico pittore. Storia e cronistoria di un sodalizio”, pubblicato dall’editore Maretti nel 2012. Da quel tempo non è cambiato nulla riguardo ai pensieri, ai problemi di estetica e critica che l’ amicizia e la frequentazione di Gino De Dominicis suscitarono allora in me, come non è cambiato nulla rispetto all’ influenza che egli ebbe sulle cronache e sulla situazione artistica italiana di quegli anni. Per questo motivo rinvio chi lo desideri alla lettura del libro.
Sono più di venti anni che l’amico è mancato. La sua virtù originale consiste nell’ avere saputo esprimere al meglio per varietà e accento visivo e con immediata semplicità una domanda che da sempre lo assillava e che ogni coscienza non chiara a sé stessa coltiva nell’ intimo: “che cosa c’entra la morte…?”. La risposta a questa domanda affiora e zampilla da tutto il frondoso albero della sua opera bizzarra e inquietante, fatta di pittura, testi scritti, improvvisazioni ambientali ed ingannevoli accorgimenti visivi.
Ho presente di fronte a me una nota fotografia scattata con il gruppo di artisti italiani partecipanti alla Biennale di Parigi, nel 1971: il giovane Gino ventiquattrenne vi compare mascherato sul volto, messo di lato, come uno sconosciuto ed estraneo spauracchio in mezzo al gruppo, e solleva un cartello dove campeggia la domanda cruciale –“che cosa c’entra la morte?”- che disarticola tutti i livelli comunicativi dell’ immagine.
Spiazzare, mascherare, doppiare, sparire: ecco alcuni espedienti che ricorrono nella sua variabile e versatile tecnica espressiva, dal contenuto interno tuttavia ripetuto o suggerito in permanenza, quando velato e quando rivelato: “che cosa c’ entra la morte…?”. Gino possedeva una formidabile capacità informativa e persuasiva che sorprendeva e toccava i precordi di noi esseri umani viventi. Il ‘sogno di una cosa’ di Marx (l’ illuminazione della coscienza non chiara a sé stessa, non per mezzo di dogmi ma per mezzo della coscienza stessa) diventava per lui la domanda fondamentale di chiarimento sulla onnipresenza della morte, quella intrusa e non richiesta interruzione della vita che ne rivelava la precarietà.
Che cosa c’entra la morte con la nostra vita, se la vita è intrinseco desiderio di vita eterna e immortalità…? La sua era una protesta ironica e una domanda orgogliosa e pervasiva. Se la portava dentro fin da quando era bambino. L’aveva poi confrontata e misurata con tutte le risposte che la religione, la scienza e la filosofia potevano offrire. Ne era rimasto deluso. Io non cerco la salvezza dell’ anima nell’ al di là, diceva, per rispondere al dettato della fede. Io cerco la vita eterna e l’ immortalità del corpo vivente, qui ed ora. E vedo solo morte che insidia la vita da ogni parte, degrada, disfa’ e decompone. Dalle indagini, dai metodi, dai risultati e dalle conquiste della scienza non aveva tratto maggiore soddisfazione. Il secondo principio della termodinamica lo persuadeva dell’ inevitabile entropia dell’ universo. Ne risultava una svalutazione sostanziale della mentalità scientifica. Dalla scienza si ricavano descrizioni di fatti e fenomeni, parziali rimedi che possono procrastinare ma non mutare il destino esiziale della vita.
Alla fine di ogni quesito irrisolto, emergeva sempre la domanda retorica: “che cosa c’entra la morte…?”. E Gino aveva anche per ciò a un certo punto concluso che, in quanto mortali, ‘le cose non esistono’, ma sono solo la verifica di una ‘possibilità di esistenza’ (Lettera sull’immortalità, 1970). Nell’ansia morale di attingere la pienezza della ‘vita eterna’ Gino si era dunque dissociato dai vincoli del sapere e della fede religiosa nell’ al di là, riconoscendo all’ arte una posizione di assoluta libertà creativa: quest’ ultima gli pareva la sola possibilità di espressione umana in grado di condensare anziché disperdere l’energia vitale, per assicurare al paesaggio visionario una metaforica e auspicata immortalità.
Si costituiva un credo speciale di eroismo e di protagonismo artistico. L’arte diventava accertamento sperimentale dei limiti del sapere scientifico e religioso ed occasione per oltrepassare ogni interpretazione razionale della realtà. Se le ‘cose’ non esistono, è legittimo allora ipotizzare l’esistenza di un altro mondo, di un mondo vero, di cui le ‘cose’, e con esse l’umanità, non siano che una imperfetta e mortale riproduzione. Così vaticinava Gino. L’esercizio della fantasia consisteva nell’ accreditare il paradosso come verità. Era la chiave di tutta una poetica che postulava la figurazione di un mondo di entità immortali iperuranie, sagomate sulla falsariga della mitologia sumera e della fanta-archeologia.
Diventava possibile, nella taumaturgia del gioco e della illusione visiva, rispondere alla originaria domanda sulla immanente presenza invisibile della morte : “la vita dice alla morte: ‘per esistere lei deve eliminarmi ed è per questo che è stata sempre odiata; a me invece per esistere basta che lei rimanga alla debita distanza, questa è la differenza’. La morte colta di sorpresa risponde qualcosa e in quel momento si accorge di poter esistere anche lei autonomamente. La vita allora…” .
La citazione del lungo titolo apposto ad un dipinto del 1983, mostra fino a qual punto la sua ‘meditatio mortis’ fosse pervasiva nel modo di affrontare e valorizzare la prova dell’ arte. Non so fino a qual punto sia conosciuta l’ ammirazione incondizionata di Gino De Dominicis per la personalità di Giorgio De Chirico. Era l’artista che rispettava maggiormente. Ne subiva l’influenza. Di lui aveva soprattutto raccolto il messaggio premonitorio ed enigmatico –il ‘mystère laique’ di Cocteau- come incitamento a procedere nella via evocativa della immortalità. “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, aveva titolato (1911) il suo autoritratto il giovane De Chirico non senza avere appuntato su un libro di Schopenhauer anche questa sintomatica frase in latino : “…Meditatio mortis et somniorum magna semper poetarum et philosophorum delectatio fuit…” (‘la meditazione della morte e dei sogni fu sempre gran diletto dei poeti e dei filosofi’).
Era un magistero tantomeno dichiarato quanto assimilato nel profondo. De Dominicis raccoglie ed esalta tutta la carica di spaesante ironia contenuta nell’ aura misteriosa dell’ opera e nel richiamo enigmatico di De Chirico. La sua arte però non si misura tanto sul tono minore della malinconia che alimenta l’ immaginario del grande metafisico, ma piuttosto rilancia l’atmosfera del mistero laico nel canto maggiore di una briosa e paradossale allegria visiva.
Si spiega così e si precisa il filo conduttore di tanta parte dell’ opera di Gino De Dominicis: un mobile campionario affidato al paradosso, al gioco di parole, alla prestidigitazione, alla osmosi spazio-temporale, alla duplicazione e sparizione delle immagini, ad una pittura che associa figure arcaiche con visioni cosmiche che trascinano lo sguardo verso inusitati orizzonti d’ epoca e di civiltà.
Inseguendo il metodo propiziatorio di tenere la morte ‘a debita distanza’, Gino De Dominicis ha costruito nel tempo tutto un mondo poetico cui prestò fino all’ultimo una fede indiscutibile. Al di là delle esistenze mortali si presentava alla sua folgorata immaginazione la teoria del ‘mondo vero’. Era lo scenario popolato dalla dea Urvasi e dall’aspirante immortale Gilgamesh, dalle principesse e le divinità sumere, dai paesaggi siderali e gli avioggetti ultraterrestri naviganti nello spazio, la cui sagoma lo impegnava in una traduzione visiva alternata da colori elementari come la eco aurorale dei primordi, il bianco e il nero, il rosso scarlatto, l’argento e l’oro.
Il mondo di figurazioni paradossali messe in opera cresceva come armatura protettiva e giustificazione della sua libertà creativa. Il primo ad autoconvincersi della presunta verità ultramondana era il loro autore. E la ‘meraviglia’ diventava il primo contrassegno della qualità di un’ opera : “un pittore-diceva- è come un prestigiatore che con i suoi giochi deve riuscire a sorprendere sé stesso. In questo sta la complessità…”.
Gino De Dominicis fin dall’ inizio si tenne distante dalle classificazioni e dalle correnti contemporaneiste del suo tempo. E non a caso. Voleva camminare da solo, con una fascinosa produzione figurativa, persuaso com’era di riproporre la parabola del re sumero Gilgamesh, nel tentativo -che gli fu fatale- di schiudere la via al segreto della immortalità. Taumaturgia dell’ arte, eroismo dell’ artista: questo mitico itinerario di salvezza (‘In Arte Salus’) compendia ed ilumina la pittura di Gino, profeta e mago dell’ autoinganno.
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Reading peotico alla Riviera d'Ulisse
Locandina Ci sarà una installazione poetica permanente curata dall’Associazione Culturale Leggendarie, che arricchirà i sentieri del parco. Tramite dei QR-code reperibili sul posto, il visitatore potrà scaricare, sul proprio dispositivo, un'applicazione che, sfruttando la geolocalizzazione, proporrà una poesia diversa per ogni luogo. Questa idea, curata da Giovanna Iorio, già adottata in Regno Unito (Hyde Park, Epping Forest), Irlanda, Francia (Nizza, Sète, Parigi, Marsiglia), New York (Central Park), Nuova Zelanda, Groenlandia e Giappone, renderà ancora più suggestivi luoghi come il Sentiero Natura Promontorio Villa di Tiberio, Monte Orlando, Gianola e la Torre Quadrata.I percorsi, attualmente, includono più di 20 poeti italiani dal 900 ad oggi e anche artisti locali contemporanei. Inoltre sono disponibili “12 Poesie d'amore per un albero” di Giovanna Iorio, declamate dalla voce di Barbara Marchand, con musiche di Lucio Lazzaruolo. Ha spiegato la presidentessa del Parco Carmela Cassetta: “Un modo esemplare per coniugare tecnologia, cultura e immersione in natura. E probabilmente non si poteva farlo che con la poesia”. Read the full article
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Introduciamo gli autori che presenteranno le loro opere il 13 settembre a La scimmia in tasca
Francesco Terzago (1986) è nato a Verbania (VB) e vive alla Spezia. Ha pubblicato 𝐶𝑎𝑟𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑖 (2019) con Vydia, prefazione di Gian Mario Villalta, raccolta di poesie vincitrice del "Premio Elena Violani Landi" dell'Università di Bologna per l'opera prima. I suoi versi sono presenti in periodici quali: Nuovi Argomenti, Smerilliana, Italian Poetry Review, e ClanDestino. Redattore della rubrica di reportage su Neutopia Magazine. È possibile leggere una sua silloge su lavoro, dissociazione e robotica su Nazione Indiana.
Presente, come uno dei quattro interventi di poetica, nell’edizione 2020/21 di Ultima *Eldorado.
Ha scritto di poesia di strada e street art per Boll ‘900 e Planum. Fa parte del collettivo Mitilanti della Spezia e del comitato di ricerca sulla creatività urbana Inopinatum.
Con Galerie21 ha prodotto commenti critici di artisti come CCH ed Elio Marchegiani.
Su atelierpoesia.it e Leparoleelecose.it sono disponibili alcune sue traduzioni, dal cinese, delle poesie di Ren Hang.
È presente in varie antologie, ultima delle quali è Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia, 2020).
Ha pubblicato tre racconti fotografici: Euridice, su leparoleelecose.it; La mobilità del marmo, In Pensiero e, con il fotografo Jacopo Benassi, Anche loro sono riders.
Con Alessandro Ratti ha dato vita a 𝑁𝑖𝑑𝑜𝑐𝑖𝑡𝑡à, progetto di animazione e prosa poetica sul periodo di lockdown dovuto al Covid-19.
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Tu dove sei? Ti spero in qualche porto… L’uomo del faro esce con la barca, scruta, perlustra, va verso l’aperto. Questi versi sono di Mario Luzi, uno dei più grandi poeti italiani del’900, dimenticato. ma a chi serve la poesia oggi? A tutti. #faro #lighthouse #beach #spiaggia #sea #mare #luzi #poesia #poetry #navigare #barca #citazioni #instagram #blackandwhite https://www.instagram.com/p/BtCF-ebhkaj/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=5umrlip8wxbd
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"Riva di pena, canale d'oblio..."
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Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/ermitage-il-potere-dellarte-al-cinema-il-21-22-23-ottobre/
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Più di tre milioni di oggetti d’arte di epoche diverse, 66.842 mq di spazio espositivo, oltre 30 km di percorso di visita e 4,2 milioni di visitatori nel 2018. Sono i numeri di uno dei musei più amati e visitati del mondo: quello dell’Ermitage.
È a questo luogo straordinario che è dedicato Ermitage. Il Potere dell’Arte, una produzione originale 3D Produzioni e Nexo Digital, realizzata in collaborazione con Villaggio Globale International e Sky Arte, il patrocinio di Ermitage Italia e il sostegno di Intesa Sanpaolo, che arriverà in anteprima nelle sale italiane solo il 21, 22, 23 ottobre per essere poi distribuita in tutto il mondo.
Diretto da Michele Mally su soggetto di Didi Gnocchi, che firma anche la sceneggiatura con Giovanni Piscaglia, il documentario fa parte del progetto de La Grande Arte al Cinema ed è stato realizzato con la piena collaborazione del Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo e del suo Direttore Michail Piotrovskij per raccontare il museo in maniera inedita ed emozionante, attraverso i secoli della storia Russa e le vicende culturali che hanno portato allo sviluppo delle sue collezioni nel cuore della città.
A guidarci in questo viaggio l’attore Toni Servillo. Sarà lui a farci respirare lo spirito di questi luoghi e delle sue anime baltiche e a presentarci le bellezze dell’Ermitage e di San Pietroburgo, a recitare brani tratti da poesie e romanzi, a narrare le grandi storie che hanno attraversato quelle strade, dalla fondazione di Pietro I allo splendore di Caterina la Grande, dal trionfo di Alessandro I contro Napoleone, alla Rivoluzione del 1917 fino ai giorni nostri. Immagini spettacolari ci porteranno nei grandiosi interni del Museo e del Palazzo d’Inverno, nel Teatro, nelle Logge di Raffaello, nella Galleria degli Eroi del 1812. Visiteremo i laboratori di restauro e conservazione di Staraya Derevna, i suoi tesori archeologici e la sezione di Arte Moderna e Contemporanea dell’Edificio dello Stato Maggiore, che custodisce le straordinarie collezioni Shchukin e Morozov, con la più grande raccolta di Matisse al mondo.
Per raccontarne visivamente lo sviluppo urbano e architettonico, la città verrà presentata nella sua veste diurna e negli splendori delle sue notti: la Prospettiva Nevskij, il lungoneva, i ponti, il complesso dell’Ermitage, il Cavaliere di Bronzo, le statue di Pushkin, Gogol e Caterina la Grande (amica di penna di Diderot e Voltaire), le dimore nobiliari che si affacciano sui canali. I grandi architetti italiani che disegnarono San Pietroburgo – Trezzini, Rastrelli, Quarenghi – sono i progettisti dei palazzi più belli; ma l’anima di San Pietroburgo e della Russia è sfuggente e prova a raccontarla anche una coppia di Roofers, giovani in cerca d’infinito che si arrampicano sui tetti della città offrendo prospettive sorprendenti.
Era il 1764 quando la zarina Caterina II acquistò a Berlino la collezione da cui sarebbe nato il primo germe dell’Ermitage. Da quel momento prese il via l’arricchimento sistematico di un patrimonio che già dieci anni dopo vantava oltre 2.000 tele e che implementava via via di disegni, pietre intagliate, sculture, capolavori dell’arte decorativa ed applicata.
Dentro l’Ermitage si percorre così la grande arte europea, da Leonardo a Raffaello, da Van Eyck a Rubens, da Tiziano a Rembrandt e Caravaggio. Fuori dall’Ermitage, la storia passa per luoghi ricchi di memorie. La Fortezza di Pietro e Paolo è il primo edificio costruito a San Pietroburgo: è teatro di avvenimenti celebri, come la grazia a Dostoevskij davanti al plotone di esecuzione, e ospita le tombe degli Zar.
Ma la leggenda di San Pietroburgo passa anche per la grande letteratura con Alexandr Pushkin – primo tra tutti – e il suo fondamentale contributo allo sviluppo della poesia e della lingua letteraria russa. Il docufilm mostra gli ambienti della casa-museo in cui è conservato il divano in cui morì e quelli del Caffè Letterario in cui bevve il suo ultimo caffè. Della vita e dell’opera di Fedor Dostoevskij è ancora testimonianza l’abitazione dalla quale lo scrittore poteva osservare la vita della Neva, ambientazione dei suoi romanzi, tra i quali Le notti bianche, il suo inno d’amore a San Pietroburgo.
Dall’Otto al Novecento, da Oriente a Occidente i mondi dell’arte, della letteratura e della musica orbitano intorno all’Ermitage. Da Nikolaj Gogol, citato attraverso brani de La Prospettiva Nevskij, ai poeti e gli scrittori del ‘900: Anna Achmatova e Vladimir Nabokov sono più vivi che mai nei loro luoghi simbolo, mentre l’Hotel Angleterre conserva ancora la camera in cui morì Sergeij Esenin. Rivivremo le difficili condizioni degli intellettuali delusi dalla Rivoluzione e l’assedio di Leningrado, in uno dei momenti più tragici della storia della città. Il capitolo buio del regime di Stalin sarà evocato a partire dalla cessione di importanti opere dell’Ermitage a collezionisti stranieri: capolavori di Raffaello, Botticelli, Van Eyck, Perugino.
San Pietroburgo è inoltre la culla della grande musica russa. Da Michail Glinka a Sergej Prokofev, da Piotr Caikovskij a Nikolaj Rimskij-Korsakov a Dimitrij Shostakovich: autori che hanno cercato attraverso la musica il suono autentico della Russia. Le loro note sono interpretate dal soprano Anastasiya Snyatovskaya e dal maestro Dmitry Igorevich Myachin. Infine, le immagini de Il Lago dei Cigni, in programma al Teatro dell’Ermitage, ci porteranno alle radici del balletto russo.
Dentro e fuori dall’Ermitage, scrigno dell’anima russa, scorre l’identità complessa di San Pietroburgo, città giovanissima eppure da subito protagonista della storia. Ad arricchire il suo ritratto composito e sfaccettato così come quello del suo museo c’è Aleksandr Sokurov, che con il film Arca Russa ha interpretato l’Ermitage come un luogo sospeso nel mondo e nel tempo, in perenne navigazione sul mare della storia. Oltre a lui e al Direttore Generale del Museo Statale Ermitage Michail Piotrovskij, intervengono nel docu-film lo scrittore Orlando Figes, il Direttore dell’Accademia Russa di Belle Arti Semyon Michailovsky, la Curatrice del Dipartimento Arte Fiamminga dell’Ermitage Irina Sokolova, lo Storico della Letteratura Evgeniy Anisimov, la Curatrice del Dipartimento di Arte Veneta dell’Ermitage Irina Artemieva, lo Storico dell’Arte Ilia Doronchenkov, il Curatore della Library of Congress di Washington Harold Leich e il Direttore della National Gallery di Londra Gabriele Finaldi.
Ermitage. Il Potere dell’Arte è una produzione originale 3D Produzioni e Nexo Digital realizzata in collaborazione con Villaggio Globale International e Sky Arte, con il patrocinio di Ermitage Italia e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Diretta da Michele Mally su soggetto di Didi Gnocchi, che firma anche la sceneggiatura con Giovanni Piscaglia, sarà nelle sale italiane solo il 21, 22, 23 ottobre (elenco a breve su www.nexodigital.it).
Hermitage. The Power Of Art, la colonna sonora del docu-film (Nexo Digital/Masterworks), firmata da uno straordinario nuovo talento russo, il pianista e compositore Dmitry Igorevich Myachin, e presentata con l’elettronica d’ambiente del sound designer Maximilien Zaganelli, sarà disponibile su tutte le piattaforme digitali dal 18 ottobre.
La Grande Arte al Cinema è un progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital che dal suo debutto ad oggi ha già portato al cinema 2 milioni di spettatori.
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Più di tre milioni di oggetti d’arte di epoche diverse, 66.842 mq di spazio espositivo, oltre 30 km di percorso di visita e 4,2 milioni di visitatori nel 2018. Sono i numeri di uno dei musei più amati e visitati del mondo: quello dell’Ermitage. È a questo luogo straordinario che è dedicato Ermitage. Il Potere […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Chiara Guida
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“ Disteso sul pagliericcio del carcere, mi sentivo a casa mia, dissi a Chiellino, nel sogno ora stavo bene, ma lui mi svegliò veramente dal bel torpore dell’ultimo sonno con le parole “La campagna si fa lunga”. Il carcere era per lui, come quella della Libia e del fronte italiano, un’altra campagna. Caddi dalla branda. Volli prendere lo straccio, non so se mi spettava, e se pure mi spettava, Chiellino in mia vece era già accoccolato e così, piegato sulle ginocchia, indietreggiava man mano che con lo straccio puliva il pavimento e la striscia bagnata arrivava ai suoi piedi. «No, no, deve venire uno specchio, tu lo lisci, devi calcare; calca forte» mi diceva Chiellino. Calcavo forte e nello sventagliare lo straccio due opposti pensieri, a destra e a sinistra, mi salivano in capo: perché dobbiamo pulirci noi il pavimento? Ecco l’origine della schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è lì che fischietta e sorveglia, da padrone: lui, ed anch’io, faremmo crescere la polvere dei mesi e degli anni, lui per protestare e chiedere il colloquio e dire al procuratore di provvedere con uno spazzino o con una guardia, io per richiudermi nello sdegno e nell’isolamento, per non darla vinta ai boia, ai comandanti, ai giudici: essi non ci hanno soltanto messi in galera per scacciarci dalle strade, ma così ottengono che ci avvezziamo all’umile ordine interno e che ricreiamo tra noi la gerarchia dei servizi, la necessità di una legge. Loro ci volano sopra, sorridenti e beati come il generale passa a cavallo a dire col mento, col mento suo e con quello del cavallo: “Bravi, voi siete il mio ordine e la mia volontà, il mio regolamento. Fra poco morirete da cani in battaglia; anche questo è previsto”. Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame. Così essi mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e il sempre nuovo annuncio del vangelo, ogni giorno e ogni domenica, ripete la legge degli uomini e ognuno dice a se stesso: “Io sono la via, la verità, la vita” e subito corre a comandare alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al più debole di sé. Il pavimento si bagnava, potevo vedermi la faccia dentro e mi arrestai nel vederla. “
Rocco Scotellaro, L' uva puttanella-Contadini del Sud, Laterza (collana Universale, n° 4; prefazione di Carlo Levi), 1977⁴, pp. 79-80.
[Prime Edizioni originali, postume: Laterza (collana Libri del tempo), 1956-1954]
#Rocco Scotellaro#L' uva puttanella#antifascismo#Carlo Levi#narratori italiani del XX secolo#letture#libri#narrativa#Sud#Italia meridionale#Lucania#Basilicata#leggere#uguaglianza#letteratura italiana del '900#poeti#citazioni letterarie#carcere#romanzo autobiografico#anarchici#socialismo#Mezzogiorno#intellettuali italiani del XX secolo#reclusione#disoccupazione#intellettuali meridionali#Mezzogiorno d'Italia#meridionalismo#secondo dopoguerra#domenica
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Giovedì 19 settembre 2019 avrà luogo a Trieste, dalle 18 alle 24, un “Incontro multimediale con Umberto Saba”, ideato e curato dall’architetto Marianna Accerboni, in occasione del centenario dell’inizio dell’attività libraria di uno dei maggiori poeti italiani del ‘900 (Trieste 1883 – Gorizia, 1957), la cui opera è stata tradotta in più lingue. Un percorso …
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“Voglio la poesia che va dritta all’osso”: dialogo con Juan Arabia, che traduce Pound e canta l’anarchica raffinatezza
Eroe della new wave della poesia argentina, Juan Arabia, 35 anni quest’anno, ha una voracità rimbaudiana negli occhi e sembra un personaggio uscito da un film di Martin Scorsese. Lo abbiamo interpellato recentemente, perché Samuele Editore ha pubblicato il suo primo libro compiuto, Il nemico dei Thirties. Poi, un precipizio nell’amicizia. Arabia, tramite la sua rivista, Buenos Aires Poetry, porta in Argentina testi inediti di Ezra Pound e dalla letteratura nordamericana, ama una poesia diretta come un pugno (recentemente, sta riscoprendo la poesia di Charles Bukowski). Animatore culturale inafferrabile, Arabia è un po’ l’anima poetica di Buenos Aires. Ha la stessa aggressiva potenza della città argentina, l’indole anarchica, la raffinatezza – nelle sue poesie si mescolano suggestioni poundiane, gli spettri di Rimbaud e di Hart Crane, di Gautier e di Paul Verlaine. Un paio di settimane, a Buenos Aires, Arabia ha pubblicato Desalojo de la naturaleza, una ventina di poesie di nitida forza. Passando per BA, abbiamo avuto modo di pigliare il plico e di leggerlo. Segue dialogo.
Partiamo dal titolo. Cosa significa questa “espulsione”, questo “sfratto” (desalojo) della natura, de la naturaleza.
“Il titolo viene dalla poesia B.A. (Buenos Aires), che in seguito ha dato il titolo a un altro poema (Desalojo de la naturaleza), e infine al libro. Ho scritto questo libro di poesia a partire da una esperienza specifica. Ho lasciato Buenos Aires per otto mesi, muovendomi vicino alla campagna (a circa 200 chilometri), poi sono tornato in città. Niente è stato premeditato, né il titolo né il finale del poema. L’ho terminato a Puerto Madero, un barrio moderno, isolato e borghese della città di Buenos Aires”.
Nel libro tornano i tuoi ‘miti’ poetici: Rimbaud, Hart Crane, Verlaine, T. S. Eliot. Perché queste ossessioni? Forse rifiuti la letteratura ispanoamericana?
“Certo, alcuni autori sono ricorrenti. Sebbene, ci siano esplicite allusioni a César Vallejo, e impliciti riconoscimenti a poeti come Vicente Huidobro e Omar Cáceres. Nelle poesie a cui sto lavorando attualmente, sono presenti, tuttavia, autori come Julio Flórez (Colombia) o Pablo de Rokha. La tradizione latinoamericana, per la sua innata complessità e congiuntura, richiede molto più sforzo artistico e intellettuale di qualsiasi altra forma di letteratura. Perfino Borges è molto presente, ma nel mio primo libro, El Enemigo de los Thirties”.
Nell’introduzione al tuo libro, Victor Nunez parla di poesia ‘anti-moderna’ ma anche di “poesia dell’esperienza e del neobarocco”. Cosa significa? Ti riconosci in queste categorie?
“Penso che Victor si riferisca a due correnti dominanti della letteratura spagnola. La cosa curiosa di un paese come la Spagna è che ha spadroneggiato e dettato una lingua su un continente così vasto. Nel mio caso specifico, questa tradizione significa poco, anche perché in Argentina ci sono molti più discendenti italiani che in altri paesi. La nostra cultura, in tutta la sua estensione, non ha nulla a che fare con la Spagna. Borges stesso, ne Gli scrittori argentini e Buenos Aires, diceva, ‘mi manca solo il sangue italiano per essere un porteño tipico’”.
Cosa stai studiando attualmente, quali autori leggi e scopri?
“Sto studiando e rileggendo in profondità molti poeti che sono andati direttamente all’osso: Hemingway, Bukowski. Inoltre, sto preparando una nuova traduzione di Ezra Pound (Exultations, nella sua totalità) e una vasta antologia della poesia nordamericana del XX secolo”.
Dunque: cosa leggiamo nel prossimo numero di ‘Buenos Aires Poetry’?
“Nel numero 7 di BAP c’è una intervista al critico J. H. Miller, saggi di Kenneth Rexroth, Raymond Williams, e poesie di Cavalcanti, Cocteau, Chatterton, Mallarmé, Vernon Watkins, Luis Cernuda, Kingsley Amis e i poeti della meat school, tra gli altri”.
B.A.
Città dove sono nato sporca come una schiava, ascolta:
mi sono allontanato dalle tue strade come i miei antenati si sono allontanati dall’Europa;
stordito dai tuoi depositi e dai tuoi nuovi quartieri…
Ma non sembro un contadino: ora so che voglio distruggere tutto.
L’animo si alimenta della tua barca ubriaca. Un unico proposito, una sola determinazione:
recuperare ogni sfratto dalla natura. Il bene e il male, dalle sue radici.
B.A.
Ciudad donde nací, sucia como una esclava, escucha:
me alejé de tus calles como mis ancestros se alejaron de Europa;
aturdido por tus depósitos y por tus nuevos barrios…
Pero no parezco un campesino: ahora entiendo que quiero destruir todo.
El interior se alimenta de tu barco ebrio. Un solo propósito, una sola determinación:
recuperar cada desalojo de la naturaleza. El bien y el mal, desde sus raíces.
Juan Arabia
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GROTTAMMARE – Prende il via il percorso del 9° Premio Letterario Nazionale Città di Grottammare. Organizzato dall’ Associazione Pelasgo 968 di Grottammare, si è ritagliato in breve tempo uno spazio di tutto rispetto nel panorama nazionale: basti pensare che alla 8^ edizione del concorso hanno preso parte 571 autori, provenienti da tutte le regioni italiane, nessuna esclusa, con oltre 900 opere in concorso fra poesie in lingua, poesie in dialetto, racconti brevi e libri editi.
Quattro sono, infatti, le sezioni in cui è suddiviso: poesia inedita in lingua italiana, poesia in dialetto, racconto breve e libro edito. A queste si aggiunge un premio speciale, oltre quello alla metrica presente fin dalla prima edizione, per una poesia o racconto breve a contenuto umoristico e/o erotico intitolato a Giuseppe Gioachino Belli.
Altri premi speciali: un premio dedicato ad un racconto o libro giallo, thriller, noir e un premio speciale per un’opera con tema l’autismo, in collaborazione con l’associazione Omphalos. Il bando ha scadenza il 31 gennaio 2018, termine entro il quale i partecipanti, purché maggiorenni, possono inviare le loro opere.
Da ricordare il patrocinio dato alla manifestazione dal Comune di Grottammare e anche dalla Regione Marche. Per il settimo anno consecutivo, inoltre, aderisce all’iniziativa anche il prestigioso Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati.
La giuria è composta da elementi di spicco del panorama culturale italiano, e per il secondo anno Presidente Onorario del Premio sarà Franco Loi, uno dei più grandi poeti italiani viventi. Le premiazioni sono fissate per sabato 5 maggio 2018, presso la sala Kursaal del Comune di Grottammare.
Come è consuetudine, farà seguito la tradizionale Cena di Gala, un appuntamento ormai fisso di cultura e spettacolo, che ogni anno culmina la cerimonia di premiazione, con momenti, appunto, culturali ma anche di spettacolo. Per informazioni: www.pelasgo968.it
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“ Eravamo nell'atrio, tutto rivestito di capelvenere. Dinnanzi m'era lo scenario che godevo da un mese e che mi sembrava di vedere ogni giorno per la prima volta. Il declivio verde di aranci, costellato di frutti d'oro, poi l'azzurro del mare, l'azzurro del cielo; e su quell'orizzonte a tre smalti diversi, i piú divini modelli che l'arte dorica abbia, col Partenone, tramandato sino a noi. Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d'Era con la sua fuga di venti colonne erette e di venti colonne abbattute, e, piú oltre, il Tempio d'Ercole, ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e Polluce: tutte le sacre rúine che Agrigento spiega a sfida tra l'azzurro del cielo e del mare, ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre, di frantumi divini. Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava «il mio tempio», il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. — No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi.
Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra «i monumenti infernali dell'idolatria» per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che forni materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolari alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare le terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto d'Empedocle. — Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. — Il gregge! Il gregge dell'Abazia! — Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, — il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. “
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Brano tratto dal racconto di Guido Gozzano Alcina, pubblicato per la prima volta sulla rivista culturale milanese L’illustrazione italiana il 26 dicembre 1913.
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“ Nella mia camerata, che era la migliore e aveva due panorami, stettero per qualche giorno i capi fascisti, avvocati e dottori, dopo il 18 Settembre; qui vennero alcuni grossisti di olio e di grano negli anni delle leggi sui granai e sugli oleari del popolo: uno di questi, anzi, guardando fuori dalla finestra, comodamente perché la persiana un giorno si trovò asportata o cadde e le pratiche per rimetterla andarono per le lunghe, s’innamorò di una sontuosa fanciulla che si affacciava al suo balcone ad innaffiare le piante grasse sulle lastre di marmo, e che per la prima volta alzava gli occhi al nido dei serpenti, quando il giovane grossista cantava. Dopo pochi giorni si sposarono. Con i fascisti entrarono piatti in quantità, il maresciallo chiese aumento di forza, tanto le guardie erano occupate. “Uscirete presto, la galera non è fatta per voi”. Dicevano i comuni che s’ingrassarono in quei giorni. Io ero tenuto come quelli dai contadini e dagli altri: un calzolaio, un camionista, un ambulante, un piccolo proprietario. Il camionista che disse al commissario: «Non so niente. Sono stato chiamato a caricare paglia». La paglia se n’era caduta alla grande velocità che lui andava ed erano spuntate sul carro le corna dei buoi rubati, lui però non ne sapeva niente. Anche lui mi diceva: «Uscirai presto, la galera non è fatta per te!». Volevo che non fosse così. Non c’erano certi miei signori che avevano ucciso, sia pure per colpa, avevano rubato, violentato la servetta di dodici anni? Stavano protetti nel loro castello e ricevevano le autorità in salotto con la fotografia del genitore, il defunto senatore del Regno, secondo istruttore del processo Matteotti. Il maresciallo non sarebbe venuto qui per i suoi soprusi, i suoi reati, nemmeno il maresciallo del carcere se io l’avessi denunciato per concussione continuata offrendo le prove, l’Esattore mai più, che guadagnava cinque milioni all’anno per legge, i veterinari, che denunciavano l’afta epizootica quando avevano bisogno di soldi, i segretari comunali, il dottore delle prefetture, che, per un sopraluogo finito in un’ora, si faceva pagare tre giorni di trasferta e il segretario asseriva essere doveroso e solito da parte dei sindaci liquidare, il medico che non visitava il giovane, presunto omicida, ridotto con la carne nera in caserma per tre giorni fino alla scoperta del vero autore. E tanti, ma chi può nominarli? Degli Enti, dei Consorzi, degli Istituti, delle Banche. Se quelli commettono un reato, sono trasferiti di autorità con le spese di trasporto a carico del denaro pubblico: così girano anche l’Italia da una provincia all’altra. E se sono licenziati, prendono una liquidazione che li fa milionari. E se restano allo stesso posto, nella stessa città, prendono la tredicesima, la quattordicesima e la quindicesima mensilità perché l’anno lo allungano loro come vogliono. E, ripresi, sanno difendere la causa dei figli e della famiglia piangendo e furiosamente accusando le api regine, gl’intoccabili superiori d’ufficio. Quando quei signori sono colpiti, diventano tutt’al più comunisti per il tempo necessario a rimettere le cose a posto nella santità del lavoro, dello Stato, dello straordinario, della pubblica funzione. Ogni giorno, solo al paese mio, si dicono dieci messe nelle chiese nello stesso momento in cui la carovana dello Stato inizia la sua giornata di crimini e gli uomini forti calpestano le strade. “
Rocco Scotellaro, L' uva puttanella-Contadini del Sud, Laterza (collana Universale, n° 4; prefazione di Carlo Levi), 1977⁴, pp. 92-94.
[Prime Edizioni originali, postume: Laterza (collana Libri del tempo), 1956-1954]
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