#però Dio mi ha dato l’ansia
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Dioporco ogni anno che passa mi rendo conto che l’ego delusionale che potrei avere sarebbe indecente
#top 3 dell’intero paese puttane#teste di cazzo che mi detestano perché esisto possono succhiarmi il cazzo#il verde non sta bene a nessuno ma soprattutto a voi#.txt#indecente veramente#però Dio mi ha dato l’ansia
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Sto preparando le valigie/ la casa per le prossime due settimane, ebbene sì parto per la Sardegna. Primi biglietti fatti dopo la riapertura dei confini, i primi sospiri di sollievo dopo l’oppressione del lockdown durato mesi.
La Sardegna per me è sempre stata sinonimo di estate, di libertà, di cicale che cantano la sera, mentre finalmente si alza un lieve adito di vento dopo una giornata afosa (“ecco il Maestrale”, la frase preferita di mamma). Ho scritto “sempre”, ma intendo da quando ho superato l’angst adolescenziale in cui sentivo tutto ma volevo cancellare ogni cosa che mi circondasse.
Le sensazioni di cui sopra sono sempre state quelle più forti, ma in sottofondo c’è sempre stato un malessere nascosto, silenzioso che però era come un fastidio costante ed invisibile tra le volute del mio cervello. Estate significava andare al mare, e andare al mare significava costumi, pelle, ciccia e deformità in vista. Perché’ per me quello ero, deforme. Troppo seno, troppe cosce, sedere troppo piatto. Unisci questo al fatto che i costumi non stavano mai bene (ci sarebbe così tanto da scrivere sulla moda italiana, il sistema di taglie, la mancanza di scelte e la sensazione di essere sempre sbagliate dato il range di abbigliamento che va dal mignon al mignon più grande – e il conseguente riflesso di questo sistema nella mentalità delle persone) e il malessere cresceva a dismisura prima della partenza.
Voglio essere sincera.
Più di una volta sono arrivata agli estremi di voler cancellare le mie vacanze estive, solo per l’ansia del giudizio delle persone che avrei incontrato. Non so quale stupida serie americana mi abbia marchiato a fuoco l’idea romantica del brutto anatroccolo che dopo un periodo in cui sparisce dalla circolazione torna splendido e super attraente, facendo sparire ogni difetto che aveva (primo fra tutti: il grasso). La mia mente continuava a passare immagini di me che incontravo amici, parenti, conoscenti, gente in generale, e i loro pensieri erano vividi, presenti. Sempre la mia mente riproponeva costantemente le voci di queste persone che commentavano quanto fosse “cambiata” in un anno, quanto fossi ingrassata, invecchiata, mi fossi imbruttita. E sia chiaro: non so se queste persone abbiano mai fatto questi pensieri, ma nella mia mente tutto questo è molto più che reale. È un peso enorme che continua a schiacciarmi, ogni anno più pensante.
Quest’anno, più che l’anno scorso, sono aumentata molto di peso. Parlando chiaramente, quest’anno ho raggiunto il peso maggiore che io abbia mai avuto, la taglia più grande e il fatto che abbia 35 anni non aiuta per quanto riguarda la tonicità di tutto questo ben di Dio, ergo: Jabba the Hut scansete. Potrei parlare delle battaglie psicologiche che sto affrontando con me stessa dal 2014, potrei parlare di scompensi biologici e PCOS che comportano questi cambiamenti. O potrei semplicemente dire: durante questi anni mi sono sentita sola, sola come non mai e con un buco interiore che non faceva altro che crescere. Questo vuoto che allo stesso tempo scavava e opprimeva il mio Io, veniva costantemente bombardato da cibo, arma che ho adottato per cercare di elemosinare dei secondi di felicità (è scientificamente provato che il mangiare rilasci endorfine). Non sono qui per parlare di BED (Binge Eating Disorder) né per parlare dei miei disordini alimentari. Forse sto solo scrivendo queste cose per esorcizzare questo mostro che quest’anno sta tornando estremamente più potente e mi sta letteralmente togliendo il sonno.
Mentre io lotto con queste mie battaglie interiori, la mia razionalità torna all’Austria e alla normalizzazione della diversità dei corpi nudi (a Vienna per la prima volta ho trovato vestiti che mi stavano senza dover scegliere tra modelli decisamente troppo da persone anziane o taglie troppo piccole – e non parlo di numeri; a Innsbruck ho imparato a lottare contro l’imbarazzo delle saune in cui si entra senza nulla addosso e ho apprezzato la diversità del corpo umano, la meraviglia di altre forme e di come queste cambiano con l’età – il terrore dell’età che avanza è un altro terribile aspetto della nostra società, ma non sono qui per parlarne ora, torniamo alla nostra cara grassofobia). Ripenso a quanto abbia ripreso il controllo del mio corpo - correzione: dei vestiti che coprono il mio corpo qui nel Regno Unito – se non lo avete vissuto sulla vostra pelle, non potete capire il sollievo psicologico nel poter andare a fare compere cercando quello che veramente vorreste indossare e non accettando la prima cosa che “sta”, bene o no, non importa. Andare per negozi da piccola era sempre un trauma per me, e non dimenticherò mai quanto orribile mi sentissi per la mia cresima, solo perché’ io e mia mamma non siamo state in grado di trovare niente che mi stesse bene. Il mio cervello poi mi rimanda a influencer moderne e al movimento di bellezza reale che si sta evolvendo in quest’ultimo periodo, dove donne reali mostrano corpi reali, rotolini, seno morbido e tutto quello che comporta avere un corpo normale, in vista.
La mia razionalità c’è, come si dice, è sul pezzo. È il mio subconscio che ancora è ancorato al valore che do a me stessa in base al numero sulla bilancia o sui miei vestiti. Nessuno mi amerà mai perché’ sono grassa e chi vuole una persona accanto che non è al massimo della bellezza. I miei parenti non mi vedranno mai come una persona di valore perché sono grassa. Mia nonna penserà sempre prima a quanto io sia larga piuttosto che a quanto io sia avanzata nella mia carriera. Ogni volta che andrò dal medico tutti i miei problemi passeranno in secondo piano perché’ SEMPRE la prima frase che sentirò dirmi sarà: la prima cosa da fare è PENSARE a perdere peso. Mentre quando ero piccola abbassavo lo sguardo con vergogna a questa frase (ho iniziato ad andare dal dietologo a 10 anni e non ho praticamente mai smesso), adesso mi riempio di rabbia mista a dolore. Come se non stessi lottando con il mio corpo e con me stessa da sempre. Come se non avessi mai provato a fare nulla. Come se tutto questo fosse solo il risultato della mia pigrizia. La frustrazione di dover ripetere la stessa storia a tutti i medici con i quali vengo in contatto, e il loro sguardo di pietà è sempre un coltello che affonda nella mia schiena e che va a unirsi a tutti gli altri ormai quasi arrugginiti.
Sto tergiversando, probabilmente.
L’idea che le persone che non vedo da un anno mi vedano in queste condizioni mi terrorizza. La sensazione è quella di due mani stringano il cuore e tengano i miei polmoni schiacciati, tutta l’aria è stata espirata e boccheggio per un altro respiro che non arriva. L’idea dei loro sguardi, del loro squadrarmi dall’alto in basso, del loro giudizio (“vedi quest’anno ho vinto ancora io, non mi sono lasciata andare come lei!”), dei loro pensieri mi paralizza. Ho sempre avuto la fantasia da piccola che tutti avremmo dovuto essere tutti uguali, piccoli robot o parallelepipedi con le stesse caratteristiche, cosicché il pericolo di venire giudicati fosse ridotto ai minimi termini. Niente sensazioni, sentimenti o frivolezze. Numeri. Forse per questo mi ero appassionata così tanto a Orwell o Huxley verso i 18 – 19 anni.
Perché’ però il mio (sub)conscio deve collegare il mio valore al mio peso? Se una persona amica mi parlasse così, sarei la prima a prenderla per le spalle e a scuoterla, facendole vedere che il valore di una persona non ha niente a che vedere con l’aspetto fisico. La mia domanda però è: perché io ho connesso la fisicità, la bellezza, molecole di grasso o muscoli alla persona, alle idee, al valore che ognuno porta? Cos’è stato e cos’è tutt’ora che mi guida e mi spinge a rifiutare ogni altro modo di pensare? Le immagini che appaiono dietro agli occhi sono immediate, inconsce appunto, vengono dal passato più lontano – eppure mia mamma mi ha sempre educato al rispetto per le persone intese in senso più ampio; eppure sono sempre andata a catechismo e sono stata educata secondo i valori cristiani dell’“ama il tuo prossimo come te stesso”. Ora però mi chiedo: quando questo valore è cambiato in “Ama il tuo prossimo PIU’ di te stesso”?
Ma il quesito finale è – o deve essere: come faccio a sovvertire questo modus di pensiero, questo valore intrinseco che io do alla mia esteriorità prima che alla mia interiorità?
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Ecco come tutto è iniziato..
Sono un ragazzo che a prima vista sembra avere tutto ciò che più si può desiderare dalla vita. Mi chiudo in palestra ore ed ore, e quando non sono in palestra mi alleno a casa. Sono uno studente universitario, ho preso in prestito il sogno di qualcuno e studio per realizzarlo.. Sono il ragazzo che non noti perché sempre incappucciato dalla testa ai piedi, che vedi raramente in giro, mai in mezzo alla folla. Vengo notato in poche occasioni, quando talmente ubriaco inizio a mettere quella maledetta maschera..
Ho passato gran parte di questi anni a stare occasionalmente con ragazze per una sera. Il giorno dopo resettavo tutto. Ero arrivato al punto da ubriacarmi tutti i giorni, chiamare qualcuna a caso e andare. Per poi vestirmi, accompagnare la ragazza e scomparire.
Ho ricominciato a fumare.. solo per occupare le ore vuote della mia vita. Queste ore, così vuote perché mi sento così solo. Anche in mezzo agli altri, anche in mezzo agli amici. Nessuno riesce a capire il mio punto di vista, nessuno riesce a capire che questo mondo è così sbagliato, ed io non riesco a trovare le cose belle. Non riesco a cogliere le gioie, sono sempre così razionale.. vedo sempre tutto così “nero”.
Era un giorno di novembre, il 5.
Da un mese ho iniziato a scrivere un diario, ho bisogno di mettere giù i miei pensieri..
La mia testa viaggia.. lo fa velocemente.. troppo velocemente. A volte non riesco a focalizzarmi su quello che penso, perché già arrivano altri pensieri, come se soffocassero la mia mente.. e mi sale il panico, l’ansia.. Per questo ho ricominciato a fumare, ed ho iniziato a mettere giù due righe.
5/11
Ho fatto un sogno.. mi vien da piangere. Ero con una ragazza, la conosco solo di vista..
Lei è bellissima, mi luccicano gli occhi quando la vedo. È più grande di me.
Il sogno era “La Storia da sogno”, era tutto perfetto. Sono un paio di notti che sogno di stringerla in vita, la stringo forte a me.. ho paura. Mentre la stringevo, lei mi accarezzava ed io poggiavo il capo sul suo grembo. La fissavo dal basso della mia prospettiva in quel momento. Era così.. rilassante. Adoro sognare, sognare di poter trovare davvero qualcuna così..
Ho paura di conoscere questa ragazza.. ho paura di rimanere deluso. Poi non credo avrebbe occhi per me.
φῶς, una ragazza che veste un po’.. hard, per dirla così. Lei non fa nulla di sbagliato però.. per il resto non la conosco proprio. Pur vestendo hard, pur essendo la più bella, pur potendo avere il mondo sotto i piedi.. lei è bella, attenta a come si muove, per non mostrare troppo.. attenta a chi si avvicina, non è una ragazza facile. Questo è il bello di lei, per questo i miei occhi hanno un posto speciale riservato a lei.
Vorrei invitarla a prendere un caffè.. non voglio uscire a bere con lei, non voglio portarla in macchina ed arrivare solo ad una cosa.. ne ho abbastanza di questo. Ormai senza bere non farei nemmeno questo.
Voglio sedermi solo con lei, un pomeriggio, con una tazza di caffè davanti.. vorrei sentirla parlare, di lei, della sua vita, vorrei sentire cosa le passa per la testa. Vorrei vedere con i miei occhi.. per una volta vorrei che fosse come è nei miei sogni la notte.
È quasi amore, non per lei.. come potrei già. È amore per il mio sogno.
Mi sveglio e mi rattristo.. nel momento in cui mi sveglio sono felicissimo e tranquillo. Pian piano la mia espressione cambia, diventa.. triste. Realizzo che era tutto un caz*o di sogno.
Dovrei scriverle? Non vorrei.. non mi rapporto in questo modo. Di persona credo che sarei troppo intimorito da quanto è bella.. poi c’è sempre questa paura di rimanere deluso.
Alla fine.. è più bello un sogno, lì tutto è perfetto. La realtà è così triste.
Se dovessi averne l’occasione.. le racconterei di questi sogni. Non mi crederebbe mai. Ormai non esistono più queste cose.. verrei solo deriso.
Dai cazzo, cosa dovrei fare?
Ieri sera finalmente ho mangiato. Stamattina però.. ho una fitta allo stomaco. È come se la gola stesse cercando di allargarsi, per accingersi a vomitare. Che sensazione del cazzo.. mi tremano le mani. Sto provando a fumare per calmarmi, ma non passa. Dovrei tornare a dormire? Magari continuo quel sogno..
Se solo avessi.. un’occasione. Potrebbe essere solo un sogno che lei sia disposta a passare un pomeriggio così. Oramai le ragazze sono interessate solo ad uscire la sera, bere, girare in qualche macchinone. È morto il romanticismo.. ed un ragazzo come me è sbagliato tra queste generazioni. Chissà se anche lei ama leggere o scrivere.. o magari guarda serie.. o addirittura anime, impossibile.
Niente.. oggi non me la levo dalla testa.
Vorrei solo che una dannata volta.. io possa fare queste cose.. e quando sto per tirarmi indietro, qualcuno mi tirasse un calcio, giusto per non darmi modo di negarmi queste occasioni.
Posso prendere tutte le mazzate del mondo in palestra.. ormai dopo tanti anni sono abituato. Fin dal primo giorno però.. non mi sono mai tirato indietro ad affrontare qualcuno più forte, più esperto, qualcuno che mi facesse male. Non mi sono mai tirato indietro dal prendere un pugno in pieno volto.. o a prenderli nelle costole. Li ho sempre affrontati.. d’altronde tutto quel dolore fisico mi fa stare solo meglio.
Come posso però aver paura così tanto.. di rimanere deluso. Forse perché è l’unico bagliore di luce che ho?
Un’occasione di contattarla ci sarebbe.. quando mi sono svegliato, ho preso il telefono e mi è uscita una sua foto.. dopo un po’ ha pubblicato una storia. Guarda caso..
Le volevo dire che è molto più bella quando sorride.. dio se è bella.
Ho le palpitazioni.. il cuore in gola.. non riesco a scriverle.. cos’è questa sensazione? È come se la conoscessi da sempre..
Dannato sogno. Sono in uno stato pietoso, come potrebbe mai avere occhi per me? Mi tremano le mani.
Voglio scriverle.. lo voglio davvero.. voglio premere invia e non pensarci.. fallo.. fallo!
Che nervi.. Se mi prendesse anche in giro? Morirei dentro.. non ho la minima idea di che tipo sia.. che può mai succedere per un messaggio, male che vada non mi risponde..
Ma cosa diavolo mi prende? Cosa dovrei fare? Ho la testa un casino, ho ancora quel sogno vivido davanti agli occhi.. è come se fosse stato un sonno profondo.. lunghissimo e bellissimo.
Sono rimasto così traumatizzato in passato? Ho avuto molte ragazze.. forse troppe.. ma solo per una notte. C’è stata solo una volta.. in cui ho provato qualcosa di più.
Non ho mai avuto questi problemi, vado e mi prendo ciò che voglio. Perché mi sta succedendo questo?
Caz*o.. CAZ*O! Vorrei urlare.. urlare che sono un coglione. Ho preso il telefono alla prima e ho premuto invia. Voglio morire.
Forse mi ha risposto.. c’è una notifica sul telefono. Non riesco a guardare. E ora che faccio? Ecco.. lo sapevo, sono un coglione. Che caz*o mi hai fatto fare.. Ero sul divano a fumare per i fatti miei.. maledizione.
Ha risposto “Grazie”. Devo continuare a risponderle? Non lo so.. sinceramente forse è meglio se mi fermo qui.. magari se proprio voglio.. le parlo di persona. Credo sia meglio.
Vorrei continuare a parlare, ma voglio sentire la sua voce.. così sensuale e così rilassante allo stesso tempo.
Ah, non te l’ho detto? Una volta ci ho parlato.. era ad una festa in piscina.. non credo di essermi fatto notare in positivo però..
Sono arrivato molto tardi alla festa.. con un joint in una mano, e ho iniziato a berci del Gin vicino. Ho continuato a fare questo fin quando poi mi sono spogliato davanti a tutti e mi sono buttato in acqua.
Lei non fuma. In quel momento non beveva, comunque sembra una ragazza molto.. moderata ecco, per quanto si faccia notare per la sua bellezza.
Chi lo sa, forse i suoi occhi hanno un po’ di spazio per me.
Comunque non le ho risposto.. mi ha riscritto lei. Sta portando avanti il discorso.. caz*o, era davvero solo un sogno? Perché avrei sognato proprio lei poi.. sembra uno scherzo.
Continua a rispondere.. anzi fa proprio conversazione.. forse sono un po’ troppo esplicito, ma l’ho notata da almeno un anno.. vorrei dirlo.
La cosa va avanti da un po’ di ore.. mi fa piacere. Sei un coglio**, ma stamattina mi hai aiutato. Mi aiuta scrivere..
Vorrei passare proprio del tempo con lei.. Anche ora mi ha dato proprio.. non so come dirlo, alla fine non la conosco.. ma sembra fatta come dico io.
Però voglio vedere con i miei occhi.. che tipo è, cosa vuole dalla vita, i suoi sogni.. i suoi difetti.
Voglio vedere tutto di lei.
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I consigli di Sir Arthur Conan Doyle per scrivere un capolavoro: “Storia forte, scritta con vigore, ricca di interesse umano, con situazioni assolutamente originali”
Continuo a meravigliarmi. Ci sono autori come Arthur Conan Doyle che più li leggi e meno capisci su di loro. Come si coniuga la sua creatura tutta fatta di nervi, tutta tesa alla logica, con il suo ideatore che invece credeva allo spiritismo? Perché Sherlock Holmes, quando non era angosciato da casi impossibili, si distruggeva con la morfina? Davvero era solo per eccitarsi mentre non aveva nulla di serio in mano? O era Conan Doyle che cercava di eliminare il suo personaggio? E per poco ci riuscì con un finale in cui Holmes cade giù per la cascata in un abbraccio mortale col suo nemico numero uno. Salvo che poi Sir Arthur C. Doyle dovette continuare a scrivere storie dell’investigatore perché così voleva il pubblico…
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Dicevo, di C. Doyle letteralmente non mi stupisce nulla. Quando giravo come pellegrino neomaggiorenne & speranzoso a Edimburgo comprai un volumetto che spiegava cos’era l’occulto per C. Doyle. Mi sembrò di un’estrema linearità. La complessità che dà vigore e spessore all’autore, che lo rende scettico al punto giusto verso la sua creazione di cristallo.
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Una delle stranezze riguardo la vita di Sir Arthur C. Doyle è che voleva essere ricordato per i suoi libri di invenzione e non per il suo investigatore morfinomane che suona il violino. Ad esempio, lui teneva moltissimo a The lost world che, per inciso, è alla base di… Jurassic Park.
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The lost world è del 1912. Dal 1902, l’anno del Mastino dei Baskerville, Sir Arthur era nell’empireo delle belle lettere e perciò quando nel 1908 Londra ospitò le Olimpiadi il nostro fu spedito a fare la cronaca. La vicenda è qui. Quelle Olimpiadi, a dire il vero, passarono alla storia perché il nostro Dorando Petri pur arrivando primo fu squalificato essendo stato sostenuto negli ultimi duecento metri da un medico e dal direttore di gara. Sir Arthur era lì e sfacchinava per Daily Mail scrivendo la sua cronaca. Era di luglio…
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Che tempi felici (o è la consueta idealizzazione del passato?) quelli in cui un autore affermato può scrivere in libertà di giornalismo sportivo senza passare per sfigato: “Ma ora la grande corsa si avvicina alla conclusione. Noi ci siamo. Aspettiamo in ottocento che appaia il nostro uomo, aspettiamo con ansia insoddisfatta e caotica, l’ansia delle masse. Ma lui deve pur sbucare da qualche parte… E però com’è diverso da quello che ci aspettavamo! Dalla strada spunta un uomo piccolino stretto nella sua tenuta ginnica, una sorta di piccolo adolescente. (…) Dietro di lui non compare nessuno. E qui un grande sospiro di sollievo. Credo che nessuno nel pubblico desideri che la vittoria vada all’ultimo istante ad altri che a questo piccolo e coraggioso italiano. Ha vinto. Era nell’ordine delle cose che vincesse”.
Ed ecco il finale con la grancassa: “Grazie a Dio, si regge ancora in piedi, piccole gambe arrossate che tirano avanti senza coerenza, spinte da una suprema volontà interiore. (…) Questa lotta tra uno scopo determinato e un breve spazio esaurito ha qualcosa di orribile e, allo stesso modo, di affascinante. Di nuovo, per cento iarde, il nostro corre col suo stile furioso e tuttavia incerto. E di nuovo sta per collassare allorché delle mani generose lo proteggono da una caduta al suolo rovinosa. Era a poche iarde dalla mia postazione. Tra figure gesticolanti e mani allungate, riuscii a cogliere uno scatto, un’immagine dell’uomo distrutto, della sua faccia color giallo dagli occhi invetrati e inespressivi, coi suoi lunghi capelli mori e ben pettinati. Certamente non ha più energia. Non riesce a sollevarsi. Cadrà ancora? No, barcolla, si bilancia e taglia il traguardo tra braccia amiche. È arrivato alla soglia di sopportazione umana. Nessuno tra gli antichi Romani si è comportato meglio di Dorando ai Giochi olimpici del 1908. La vecchia stirpe non è ancora estinta”.
*
E ora un poco di letteratura che non guasta. Del resto, Sir Arthur voleva essere ricordato così. Eccolo che ci spiega, per la prima volta in italiano, chi era il miglior romanziere del suo tempo. (Andrea Bianchi)
***
Arthur Conan Doyle, Il metodo inventivo di Mr. Stevenson, da National Review 1890
Da qualche parte, credo nella prefazione a Il principe Otto, Mr. Stevenson incide alla sua maniera giocosa, semi-onesta, un motto: vuol lanciare, per un verso o per un altro, questo libro o il prossimo, un capolavoro. E molti leggendo il suo ultimo lavoro, Il Master di Ballantrae, diranno che ha tenuto parola. Cosa costituisce un capolavoro? Storia forte e scritta con vigore, ricca di interesse umano, fatta di situazioni assolutamente originali – allora Il Master avanza i suoi titoli. Ma per sfortuna “capolavoro” è una parola di quelle nebulose: non c’è standard di Greenwich col quale misurare e verificare il genio. I critici contemporanei possono solo dare un giudizio dai loro punti di vista più o meno fallaci. E sul lungo termine la corte di appello deve pur essere l’opinione pubblica – un tribunale dal passo lento e pesante che necessita di almeno una generazione perché gli si chieda una decisione finale. Sua è l’ultima parola. Sbaglia raramente. O mai.
(…) Tenendoci stretti all’estrema fallacia della critica contemporanea, soppesiamo attentamente le nostre parole prima di parlare di capolavori. Pure, se l’intensa certezza interiore di un lettore simpatetico vale qualcosa, Mr. Stevenson dicendo quelle parole ha già dato al mondo un’opera così completa, ottima per simmetrie, ed è davvero inconcepibile che possa sparire – un giorno lontano – dal decalogo inglese. Il padiglione sulle dune è l’apice del suo genio, vale abbastanza, senza aggiunger altro, a dargli un posto tra i grandi story-tellers di razza. Con uno stile sempre puro, e un’immaginazione al solito vivida, proprio in questa storia l’uso felicissimo delle parole si sposa all’interesse scattante, tutto concentrato. (…) Pure, se Il padiglione sulle dune vanta titoli per esser trattato come capolavoro, e può essere abbastanza sicuro di superare la prova impietosa del tempo, lo stesso va concesso al Dr Jekyll. Infatti, dei due, Dr Jekyll benché leggermente inferiore artisticamente ha la più grande certezza di longevità.
L’allegoria che vi è contenuta attraverserà i giorni, anche se dovessero nascere nuovi metodi e variazioni gusto che tolgano charm alla storia. Fintanto che l’uomo rimane un essere duplice ed è in pericolo di venir conquistato dalla sua parte peggiore e, subita la sconfitta, trova difficile restare in piedi, ebbene Dr Jekyll avrà un significato vitale e personale per ogni essere umano che soffre la sua povertà. Mutato nomine de te fabula narratur. Così sapientemente vi è lavorata la parabola che l’azione di questa splendida storia non blocca, non rallenta mai, agli occhi del lettore. Solo guardando indietro, chiuso il libro, ci si accorge di come stia vicina a noi l’analogia della parabola – quanto si applichi bene a noi. Nell’insieme è difficile dubitare che, a prescindere dai suoi libri più lunghi, Mr. Stevenson abbia raggiunto la sua aspirazione e abbia prodotto non uno, ma due opere che, prendetele come vi pare, ancora reclamano per sé il titolo di capolavori…
L’arte di scrivere un racconto breve di gran classe è del tutto diversa dalla produzione di un buon romanzo. La prova migliore di questa differenza è che i maestri dell’una non hanno mai avuto successo nell’altra. (…) Ora Mr.Stevenson è riuscito in ciò. Ha percorso tutto lo spettro dell’invenzione. Le sue storie brevi sono buone, quelle lunghe pure. E nell’insieme, comunque, quelle brevi sono più specifiche e più sicuramente manterranno una posizione nel decalogo inglese.
Quelle brevi si adattano meglio al suo genio. Con autori scelti, alcuni dei quali vintage, un sorso rende il sapore originale meglio che se li spillassimo. Così con Mr. Stevenson. I suoi romanzi hanno virtu’ notevoli ma hanno il solito sapore, una sorta di retrogusto che può indebolirne il valore duraturo. Nei racconti, almeno in quelli migliori, le virtu’ rimangono sempre in vista, ma i difetti scompaiono. I loro meriti sono facilmente riscontrabili perché ha pochi rivali. Poe, Nathaniel Hawthorne, Stevenson; sono tre, metteteli come volete in ordine, sono i grandi esponenti del racconto breve nella nostra lingua. (…) C’è un tocco alla Meredith nel modo dei suoi libri, ma lo scopo è diverso. Vi è un uso idoneo di parole arcaiche, all’occasione, descrizioni brevi e vigorose, metafore notevoli, una tendenza a usare il discorso staccato. Eppure al posto di questo sapore, mantengono un’individualità per far scuola a sé. I loro difetti, o piuttosto limiti, non stanno nell’esecuzione ma proprio nella concezione di partenza.
Ritraggono un solo lato della vita, quello strano ed eccezionale. Nessun interesse volto al femminile. Un’apoteosi della storia per ragazzi, come nei fumetti della nostra gioventù, sia loro gloria in excelsis. Ma tutto vi è buono, fresco, pittoresco e quindi anche se lo sguardo è limitato mantiene uno spazio definito e ben sicuro nella letteratura. Non c’è ragione perché L’isola del tesoro non possa essere per la generazione che si avvia al ventunesimo secolo quel che Robinson Crusoe è stato per la gente dell’Ottocento. Il bilanciamento delle probabilità va in questa direzione. Il moderno romanzo maschile che tratta quasi esclusivamente del lato rude e tempestoso della vita, con l’oggettivo invece che col soggettivo, segna la reazione contro l’abuso di amore nel romanzo.
Questa fase della vita nel suo aspetto regolare e che finisce col matrimonio è stata trita e ridotta a ombra, non ci meravigliamo che ci sia tendenza ora a passare all’altro estremo che ci presenta solo i problemi virili (e meno di quanto serva). Nel romanzo britannico nove libri su dieci hanno fissato amore e matrimonio come l’Essere e la Fine della vita. Quando invece sappiamo, nella pratica, che non va così. Nella carriera di un uomo, in media, il matrimonio è un incidente momentaneo, uno tra i tanti; affari, ambizioni, amicizie, lotta con pericoli ricorrenti e difficoltà: questo mette alla prova la saggezza e il coraggio di un uomo. L’amore giocherà spesso un ruolo subordinato nella sua vita.
Quanti poi vanno in giro per il mondo senza amare affatto? Siamo di nuovo in mare aperto: sempre con questo amore continuamente tenuto in alto come il fatto predominante di una vita, il più importante; e c’è una tendenza proprio corretta in una data scuola, di cui Stevenson è leader, che evita questa fonte di interesse, così tanto malusata e strafatta. (…)
Mr. Stevenson, come uno dei suoi personaggi, ha un dono eccellente: il silenzio. Invariabilmente si attacca alle sue storie, non si fa distrarre da discorsi sulla vita e teorie sull’universo. Il business degli story-teller è proprio quello di raccontare una storia. Se vogliono volare su argomenti precisi, possono instillarli dentro piccoli lavori indipendenti, cosa che Mr. Stevenson ha fatto. Dove un personaggio tira fuori opinioni che gettano luce sulla sua propria individualità, questa è altra cosa, ma sicuramente è intollerabile che un autore debba fermare l’azione della sua storia per darci le sue vedute private sulle cose in generale. Sfortunatamente, i nostri più grandi autori sono i peggiori a peccare sul punto. Che si dovrebbe pensare di un drammaturgo che portasse in scena la sua opera e poi se ne venisse fuori, lui in persona, sotto i riflettori, a discorrere di ineguaglianza sociale e altre ipotesi nebulose? Mr. Stevenson è un artista troppo vero per cadere in questo errore, col risultato che non perde mai il lettore, lo tiene con attenzione tra le mani. Ha mostrato che un uomo può essere terso e lineare, per liberarsi poi da ogni sospetto di essere un volgare superficiale. Nessuno ha un’individualità più marcata, e quindi nessuno si cela più completamente di lui quando si mette a raccontare una storia…
Anche le poesie di Stevenson potrebbero costituire argomento di indagine. Sono effettivamente buone, talvolta ottime. Ticonderoga, per dire, può vantare i suoi titoli per essere la seconda miglior ballata di narrazione – il capolavoro di Coleridge rimanendo al primo posto – in tutta la gamma letteraria. Dobbiamo passare sopra tutto questo. È stato detto e ridetto che chi esaurisce il proprio argomento riesce poi ad esaurire il suo lettore. È stato sufficiente dire, casomai ve ne fosse stato bisogno, che Mr. Stevenson ha tutti i titoli non solo per popolarità tra contemporanei (e se la gode) ma per una fama durevole che percorre tutta la sua opera. Per quanto lontano possa andare dall’Inghilterra, lui vive ancora ed è ospite ben accolto davanti ai focolai inglesi, e sono migliaia. Nessun vivente ha più diritto di lui a fruire del comfort della fama, quel comfort che l’uomo può prender per sé – perché lui che ci ha dato gioia, lui che ha ridotto il dolore.
Sir Arthur Conan Doyle
*traduzione di Andrea Bianchi
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28 maggio 2019
Siamo già al 28 maggio? Dio... Ieri in Accademia ho chiesto ad una ragazza se fosse il 24, e sono rimasta sconvolta nello scoprire che non era così.
Sono stanchissima, davvero stanchissima, e non so nemmeno bene spiegare perché. Sì okay, ho fatto cose, sono stata su e giù fra Lucca e Firenze... ma non credo di poter giustificare una stanchezza così. Forse tutto sommato è anche una stanchezza “emotiva”, dato che mi sento purtroppo anche molto vuota e con un senso di tristezza al quale non so attribuire un motivo specifico.
Depressione, la chiamano. Ed io penso che personificarla nella figura di un Dissennatore sia davvero un paragone perfetto. Non a caso c’è chi dice che la Rowling avesse immaginato i Dissennatori proprio come riflesso della sua, di depressione.
Stamattina sono stata dalla psicologa prima e dalla dietista poi. Dalla psicologa stavolta ho raccontato tanto, eventi passati che ancora non le avevo chiarito bene ma che già sapevo (dalle terapie effettuate in passato) che hanno grande impatto sul mio presente. Non è ce sia stato un incontro pesante, dato che sono fatti che già ho ripetuto molte volte... ma prevedo colloqui difficili nel prossimo futuro.
Dalla dietista è andata nì... nel senso che abbiamo preso il peso, stavolta accertandomi di essere nelle condizioni più “favorevoli” al prendere il mio peso più correttamente possibile... e non è che il riscontro sia stato così positivo. Da quando ho iniziato ad avere crolli emotivi maggiori il mio peso è sceso nuovamente un po’, in seguito ad un periodo di “stasi” pseudoconcordata (nel senso che la mia dietista vorrebbe che io ricominciassi a salire, ma ha accettato il fatto che in questo momento io non sia pronta). Il patto però era che io comunque non scendessi, ma sono sincera nel dire che non lo ho fatto apposta. Cercherò di stare più attenta, ma non è affatto facile...
Comunque forse qualcuno si starà chiedendo come sia andato lo scorso fine settimana, che tanto temevo, e come mai io ieri abbia scritto che non avrei pubblicato il diario perché stavo male.
(continua)
Questo fine settimana ci sono state finalmente le riprese del corto di cui già vi ho raccontato nei diari precedenti (li trovate anche con il tag “my journey”). Le abbiamo finite? No, perché uno degli altri due attori ci ha dato buca domenica perché lo hanno chiamato per altre riprese. C’è da dire che per quelle altre riprese lo pagavano mentre per noi era gratis, quindi posso colpevolizzarlo solo fino ad un certo punto. Il regista mi farà sapere poi se le inquadrature mancanti richiederanno anche la mia presenza o meno. Comunque stare là, sul set, come ogni volta è stato bellissimo. Sui set mi sento molto più a mio agio che nella vita reale, ed ormai ho capito che il mio posto nel mondo è lì.
Purtroppo, come avevo previsto, ci sono stati non pochi problemi con l’aspetto alimentare. Vi risparmio le acrobazie da “davanti a loro mangio mezza mela e poi mi nascondo per il resto del pasto” perché sarebbero davvero deprimenti e mi ci sono soffermata fin troppo nell’ultimo diario. Il vero problema, e non esagero, è stato sabato sera.
Firenze è ad un’ora e mezza di treno circa da dove sto io, quindi il regista (non sapendo a che ora avremmo finito, e dato che a causa sua già un’altra volta non ho disdetto l’ostello in tempo ed ho dovuto pagare una notte inutilmente) mi ha offerto il suo posto letto a casa dei suoi genitori, dato che lui ora convive da un’altra parte con la sua ragazza. I suoi erano a cena fuori, dunque per fortuna sarei stata per tutta la serata da sola. Ovviamente l’ultima cosa che avevo intenzione di fare era usare la loro cucina, dato che quella stanza era il Caos puro, quindi avevo programmato come già fatto altre volte di comprare qualcosa di pronto al supermercato. In genere, se è un qualcosa su cui sono scritti valori nutrizionali e tutto il resto, non ho particolari problemi.
Peccato che il supermercato fosse in chiusura, e l’unica cosa che sono riuscita a prendere è stato un pezzo di pizza. Certo, anch’esso imbustato con il peso e la tabella dei valori nutrizionali bella in vista... ma non è bastato.
Ci sono ancora alcuni alimenti, che qualcuno definisce “cibi fobici”, che mentalmente non riesco a sopportare. E la pizza è uno di questi. Nonostante dopo averla mangiata sapessi benissimo di non aver ecceduto di kcal rispetto al mio piano, nonostante sapessi che non aveva un senso logico... non sono riuscita a sopportare i sensi di colpa, ed ho vomitato anche l’anima. Sfinita, sono crollata a letto dopo essermi fatta una camomilla.
Questo. Questo è il disturbo alimentare. Il disturbo alimentare non è la ragazzina graziosa dalla taglia 36 che vedi mangiare un’albicocca e poi dire “sono sazia” mentre cammina per la strada con le sue gambe magrissime. Il disturbo alimentare è la stessa ragazza che piange, che si punisce, che vomita o che corre o che prende qualsiasi cosa le venga in mente “per compensare”, che sta male e vorrebbe solo che tutto finisse, lei compresa. O che tutto non fosse mai iniziato, lei compresa.
Sono le lacrime ed il sangue e l’insonnia ed il freddo e la sensazione di non avere più niente sotto controllo e la solitudine e la tristezza ed il veleno che sembra antidoto ma poi si rivela per quello che è. È lo sparire desiderando di apparire, è cercare la vita nella morte, è l’aggrapparti a qualcosa che credi ti salverà mentre è esso ad avvinghiarsi a te e ad impedirti di allontanarti.
È l’ansia che ti soffoca dal nulla durante una lezione, opprimendo il tuo petto ed irrigidendoti i muscoli. Facendoti sentire che nulla funzionerà mai, che sei solo una perdente ed un fallimento. E tu sai che quell’attacco d’ansia non ti ucciderà, ma quasi vorresti che lo facesse perché le sensazioni che ti rimanda sono fin troppo vere.
Sì. Questo mi è successo ieri in Accademia. Una crisi d’ansia fortissima mi ha presa all’improvviso, senza lasciarmi capire perché proprio in quel motivo. Nemmeno le gocce di ansiolitico che prendo al bisogno mi sono servite, e venti minuti dopo ero a piangere a dirotto sul terrazzo assieme ad una ragazza della segreteria che era riuscita a farmi respirare di nuovo.
Questo fine settimana sarò fuori per Vilegis, ma davvero non vorrei. Non ne ho voglia, non me la sento, non mi sento motivata. Magari mi divertirò tantissimo, ma in questo momento vedo solo quello che è andato storto lo scorso anno, quello che è andato storto in questi giorni, i soldi che ho speso, il tempo che potrei usare in altro modo. Vedo le persone che incontrerò, e so che a pochi importa davvero della mia presenza. E so che a Luca della mia presenza non importa quasi più, che anzi forse considera colei che un tempo voleva vicino a se come una scocciatura che lui stesso si è portato “in casa”.
E colei sarei io. Io, che la nostra amicizia la vorrei ancora ma che la ho vista da tempo svanire senza un perché.
Perdonatemi se anche stasera il tono del post è davvero basso. Spero non sia troppo noioso, spero che non sembri una ricerca di compatimento.
Sono le 22:20, sono sfinita, ma posso stare certa che ancora per ore non riuscirò a chiudere occhio.
Sweet dreams.
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Si scoppia o si improvvisa?
Qualche giorno fa sono stata a Ponte a Egola. Un bel posto con un nome che inevitabilmente ti fa pensare ad un signore degli anelli post industriale. Seguivo una band di amici che dovevano provare dei nuovi pezzi e avevano prenotato una sala in “un posto che ti piacerà sicuramente”. Effettivamente Ponte a Egola mi piace. In particolare il posto dove avrebbero dovuto fare quelle prove.
Cortile immenso di una fabbrica abbandonata da 10 anni e più, e nel mezzo un camioncino da rimorchio rosso Valentino con sopra ferraglie erbacce e altre cose che non riuscivo ad identificare. Secondo me quelle sono due bottiglie con del piscio. Lo vedi? È troppo giallo per essere fanta, spuma, olio. Secondo me è piscio, ed è bellissimo.
Fosse piscio o meno Giovanni (il bassista della band) era fermamente convinto ed entusiasta di mostrarmi quelle bottiglie, era felice di vedere quel posto che frequentava da mesi ormai, gli brillavano gli occhi perché “è molto post punk tutto questo abbandono”. E a noi che siamo un po’ out il post punk piace perché è sempre una forma di futuro fatta di una sottile nostalgia incazzata per quel fermento mai vissuto.
La sala prove è in cima ad una scala coperta da un black carpet polveroso. La luce è fuxia, il caldo assassino, il puzzo di fumo forte. Si ma dentro c’è l’aria condizionata dice Marco mentre io stavo facendo una mezza smorfia per l’afa sopportata e non richiesta. Ah menomale, esulta il mio cervello. La sala prove è un cubicolo elegante, con diversi poster di concerti appesi tra il 2003 e il 2016.
Locandine che ammiccano alla psichedelica di rick griffin e a scene di quella quotidianità semplice innalzata a ribellione un po’ stanca, serate punk a sfondo anti religioso (ai super vixen piaceva la blasfemia di sicuro), disegni che inneggiano alla fuga di cervelli, necessità di sradicare un ordine dentro un ordine che si rifiuta con l’estetica ma si accetta con l’auto promozione visuale, luci soffuse e divanetti etnici, roba da musici psichedelici, familiare e comoda.
Come quella volta che a Viareggio ho frequentato il Gob e mi sembrava di vivere in una particella pazza della Liverpool fine 70 descritta da Julian Cope tra hippies, consumatori di acidi, gente che ti dice di trovare te stesso e che scapoccia inconsapevole sotto un rombo di big muffs e mantra come “io influenzo te, tu influenzi me, e creiamo qualcosa capito?”, “con la musica non si vive io non so cosa fare nella vita ma sono felice”, “sto gruppo spacca, li ho sentiti al beaches brew”.
Mi siedo mentre i ragazzi montano la strumentazione. Spio Andrea. e la sua drum machine akai. Son gasata. Mi piace il genere che fanno e sono curiosa di assistere alla creazione dei pezzi nuovi, in italiano sta volta, dice Marco così si fanno i soldi come Calcutta con quel cazzo di paracetamolo. Lascio i ragazzi alle loro prove e mi metto a leggere delle riviste. Blow Up. L’ho visto anche a Pistoia una sera, in un pub in cui non te l’aspetteresti mai e che aveva in esposizione anche delle riviste di pesca sportiva, accanto a Blow Up ovviamente.
A volte mi perdo nei pensieri e mi sembra che ci sia una linea di unione musicale sotterranea che si estende orizzontalmente per tutta la Toscana, una specie di linea neo-gotica che riunisce la generazione di millennials sfigati come me a cavallo tra due mondi, e che inevitabilmente cercano di trovare nuovi linguaggi per capire e per capirsi. C’è chi parla con la grafica, chi con il noise, chi con l’hardcore, chi con la musica sperimentale chi col fumetto, chi con il free jazz, chi con la neopsichedelia. È un’urgenza, il ritorno di un’urgenza di una generazione sembra dire “perché a me? Ora?” Si parte da Pisa, Viareggio, Massa, si va a pontedera, si passa per ponte a Egola, si arriva a prato e a Pistoia, si tocca blandamente anche Empoli e poi si scoppia dentro Firenze che sembra ancora vivere di quel manierismo anni 80 pettinato alla fiumani, come afferma spesso un mio amico. Si scoppia tutti. Ma si combatte per un’identità che piange il passato e grida futuro. E mentre io scoppiavo dal mal di testa in sala prove perché non avevo l’acqua e Marco aveva iniziato a fare i droni con la chitarra a volumi improponibili, Andrea dice:” ma sei sicuro di quello che fai?” Fossi stato sempre sicuro, ribatte Marco, a quest ora mi sarei già ammazzato. Mentre riflettevo sulla genialità di tale risposta ho guardato l’ambiente intorno a me e mi sono detta che ogni cosa artistica (musicale in questo caso) che nasce nel presente ha una sua dignità perché volenti o nolenti è figlia del suo tempo. E siamo tutti figli del nostro tempo e l’arte più spontanea lo sa bene. Anche tutte le manifestazioni che possono puzzare di nostalgia canaglia, cattivo gusto, retorismo da cover band, sono degne di considerazione perché sono qui, ci sono. Tutto quello che vedi è contemporaneo (immaginatevelo con un tono alla “Simba un giorno tutto questo sarà tuo”, rende meglio, c’è una voice of authority). Tutto è contemporaneo o meglio, all art has been contemporary, come cita la scritta su un grande museo torinese. I gusti son gusti, l’innovazione anche e ha una sua riconoscibilità critica grazie a Dio, ma se si vuol capire dove si sta, guardiamoci intorno. Aveva ragione Reynolds quando parlava di Retromania, c’è ancora ma si sta cristallizzando, i Retromanici crescono e alcuni invecchiano. Il nuovo in musica avanza, c’è eccome, lontano dalle province ma c’è e le province lo sentono, lo vogliono. È dirompente grazie a Dio ed è lo specchio dicotomico di un mondo (italiano in particolare) che vive di contraddizioni estetiche, politiche, lavorative, economiche e comportamentali. Siamo in un epoca di microcosmi infiniti dove esiste l’individualismo e non l’individualità? Non so che risposta dare ma sicuramente la band mi ha dato lo strumento migliore: ragazzi si improvvisa, te vai alla batteria, tieni un groove, te non suonare sempre, io canto, vediamo cosa esce. E di roba bella ne è uscita eccome in quelle prove, se si mette da parte l’ansia di produzione immediata. Si prendono in prestito categorie di pensiero nuove per capire dove diavolo andare. Poi son cazzi comunque però può essere una soluzione fare ora, nel momento presente, con un po’ di mono no aware tra un drone e l’altro.
#music#punk#undergound#band#florence#live#scene#racconti#scene musicali#musica#storie#stories#postpunk#shoegaze
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- Ciao - Ciao! - Come stai? - Davvero ti interessa saperlo? - Se l’ho chiesto vuol dire si. - No perché di solito la gente lo chiede quasi fosse una forma di automatico perbenismo, senza ascoltare esattamente cosa rispondi ed in effetti alla fine si risponde sempre “tutto bene” anche quando bene non va. - Ma quindi stai bene o male? - Non lo so. - È una risposta che il mio finto perbenismo non riesce a decodificare quindi mi hai messo in difficoltà. - Scusa, non volevo. - Non ti preoccupare, potresti rettificare la risposta dicendo “molto bene grazie!”? - No, preferisco dire “va malissimo” se proprio devo scegliere. - Ok dai, è già qualcosa. - Molto bene. - Hai visto! Ti ho già tirato su, hai detto molto bene! - Era una forma di intercalare… - Ah. - Non è niente di irreparabile, c’è gente che sta molto peggio di me ed anzi neanche mi dovrei lamentare più di tanto. - Siamo qui da cinque minuti ed abbiamo trasformato la domanda più banale dello stereotipo di conversazione tra due conoscenti in un dialogo da piece teatrale. Non va bene, io devo andare a prendere il bimbo al nido quindi potresti per favore dimmi cosa non va così io posso dirti la frase “amico mio, non ci pensare, vedrai che presto le cose miglioreranno e si sistemerà tutto”? - Ok mi sembra giusto, non posso negarti questo cliché. - Quindi? - Ma niente a parte l’ansia per un viaggio che se diventa ansia non è più vacanza ma una quantità di stress aggiuntivo che non ti aiuta di certo, è un po’ questa cosa che ho con chi muove i fili del mio destino. Vorrei dirgliene quattro, anche otto, dodici o sedici se potessi. Credo che chiunque sia, trova particolare gusto a complicarmi la vita, a darmi piccoli ma ben assestati ganci destri e sinistri proprio alla bocca dello stomaco nel bel mezzo di un round che ho cominciato bene, in cui sono in vantaggio ed in cui ho la netta impressione di poter potare a casa l’incontro. E invece no. - Nello specifico? - Hai presente quando hai l’impressione che la tua vita prosegua alla metà della velocità di quella degli altri, quando va bene? Ah no tu non puoi capirlo essendo già aiuto primario e sposato con una bellissima ragazza che ti ha già dato due splendidi bimbi. Cercherò di fartelo capire. Hai presente Inter e Juventus si? Ebbene tu sei interista ed io juventino, ed io mi sento come quando tu interista vedi me contento ogni anno alla fine del campionato. Capisci ora? - Certo che capisco, ma adesso sono arrivati i cinesi e sono cavoli vostri quest’anno. - Campa cavallo… - Vedremo - Non è questo il punto, il punto è che mi sento bloccato in una dimensione non mia. Per esempio c’è questa cosa qui che mi sono preso una cottarella. - Ma davvero? WOW era ora, te la sei dimenticata alla buon ora la letterata. - Diciamo che sono rimasto in zona, più o meno. - Sei sempre scontato e banale. Lettere classiche o moderne? - Non diamo particolari ai nostri lettori che li porti ad errate e fantasiose conclusioni. - Abbiamo dei lettori? - Probabile. - Questo è un passaggio che mi sfugge ma sul quale non voglio indugiare. - Sarà bene. - Mi dicevi dunque di questa ragazza… - Poco più di un interesse, non ricambiato. Probabilmente per lei ho la stessa importanza di una virgola nello Ulysses di Joyce. - Dove sta il problema dunque? - Il problema sta che io ci metto mezzo secolo ad interessarmi a qualcuno, colui che muove i fili del mio destino si diverte a farmi provare qualcosa per ragazze eccessivamente belle o eccessivamente intelligenti o un misto delle due cose ed io finisco per convincermi che è quella giusta ma alla fine arriva la pazza miliardaria a metterla in fuga o semplicemente dopo avermi detto ti amo cambiano idea dopo poco, a volte dopo solo un mese. Un mese capisci, un mese? Come fai ad innamorarti e disinnamorarti in un mese? Santo cielo, non pensavo di essere così una brutta persona da meritarmi tanto. Non cito nemmeno poi chi professa di starti accanto, di sostenerti, di volerti bene, di aiutarti nelle difficoltà e poi ti liquida con pessime scuse che stanno a metà strada tra il rancore ed una macchina nuova. È come se in un’altra vita mi fossi comportato come Hitler ed adesso mi ritrovassi come pena da scontare l’essere un personaggio perennemente deluso come nei libri di Moccia; sperando che siano effettivamente così i libri di Moccia perché non ne ho mai letto uno ma mi serviva qualcosa di spregevole da porre come esempio. - Tutti soffriamo per amore, non sei l’unico e non lo sarai mai. - Eliminerei volentieri il tuo personaggio da questo dialogo, non mi sei d’aiuto ma mi servi come sparring partner quindi non posso fare a meno di te. - Abbiamo tutti bisogno di qualcuno. - Oh finalmente, hai detto qualcosa di intelligente. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno, chi dice di essere single e di stare bene semplicemente mente. - Semplicemente mente è una roba da twitter, me la segnerei per un eventuale uso futuro. - Sarà stato usato almeno cento miliardi di volte, aggiornati. - Ok scusa, sono un personaggio spalla veramente scadente. - Puoi dirlo forte. - SONO UN PERSONAGGIO SPALLA VERAMENTE SCADENTE. - Facciamo fast forward su questa indecenza? - Dicevamo della biondina. - Perché dovrebbe essere biondina? - A te piacciono solo biondine, castano chiare, occhi verdi o azzurri. In pratica sei innamorato dalla Germania in su. Sei nato nel paese sbagliato, nella regione sbagliata, nella città sbagliata. Sei sbagliato. - Mi pare che l’ultima non fosse così. - Hai avuto anche tu il tuo periodo di sbandamento. - Questa era carina, non te la cancello. - Che gentiluomo! - Altro punto: il gentleman. Lo sono troppo. Insomma sono troppo gentile, troppo formale, troppo empatico, troppo attento agli altri. Chiedo sempre come stanno e mi interessa davvero! Mi faccio spiegare malanni, finisco con fare piccole lezioni di fisiopatologia, ci aggiungo consigli letterari, li condisco con stupide massime quasi fossero pillole di buon vivere che sfioriscono nella banalità. Non va bene. Non sono diretto, non riesco a corteggiare facendo capire di stare corteggiando, faccio trasparire interesse e l’unica arma che ho è quella che lei - sfinita ma interessata - mi faccia capire senza ombra di dubbio di provare qualcosa, altrimenti finisce tutto lì e buona notte. - C’è di buono che non sarai mai uno stalker. - Io? Ma figurati, piuttosto la morte. Non riesco ad essere pedante, mi viene il vomito anche solo a pensare che qualcuno lo pensi di me. - Però insistere spesso è la chiave dei grandi amori. Non lo vedi mai C’è posta per te? - Maria de Filippi è uno dei motivi per cui il Berlusconismo ha portato in coma irreversibile questo paese, insieme alle leggi ad personam, il grande fratello e Bruno Vespa. - Allora non saprai che i grandi amori sono anche quelli del tipo: Io lo odiavo ma poi ha insistito insistito ed alla fine mi sono innamorata. - Ho letto Jane Austen, posso anche fare a meno di Maria de Filippi per sapere certe cose. - Il solito radical chic di sinistra con la puzza sotto il naso che si atteggia a superiore. Meriti di restare solo a vita. - Ho solo detto che certe cose accadono da sempre, non mi serve la tv spazzatura per capirlo. - Quello che trovi concentrato in una puntata di Temptation Island non lo trovi in tutta la letteratura russa del primo novecento. - Mi tengo stretto Bulgakov. Sapevi che era medico? Un sacco di scrittori famosi erano medici: Cechov, Crichton, persino il dio dei manga Osamu Tezuka. Un giorno anche io avrò una storia da raccontare e diventerò un medico-scrittore. - Vola basso - Si può andare più giù di rasoterra? - A volte. - Io volevo solo lamentarmi del destino. È come quando ti aspetti una reunion degli Oasis ed invece tornano sulla scena i cugini di campagna. Che vita di merda. - Hai un futuro come scrittore allora. Ma torniamo alla biondina o moretta o chissà magari è nipponica, con te non si sa mai. - Non c’è molto da dire, sarà piena di ammiratori molto più convincenti di me, che la chiamano molto più di me, che si sbattono per conquistarla e che non stanno lì a sperare che le cose cadano dal cielo per imposizione divina. - Almeno sai dove sbagli ma dubito riuscirai mai a cambiare, se uno nasce Rugani non può morire Cuadrado. - Questa battuta temo sia illegale in almeno 68 stati. Posso solo dire una cosa: vergogna. - Non cambia la sostanza delle cose. - Vero, resterò veramente solo tutta la vita. La cosa mi terrorizza. Alle volte sono convinto che le mie passioni colmino tutto, l’amore per i vestiti, la passione per la lettura, i miei vinili, i Beatles, gli Smiths, gli Oasis, i Radiohead, LE M&M’S! Invece no, poi metto la testa sul cuscino e vorrei che qualcuno pensi a me nello stesso modo in cui io sto pensando a lei e non succede da molto tempo. Per questo sono incazzato col burattinaio: mi stai già rovinando il presente, adesso ti stai prendendo anche quello che mi tiene ancora in rotta. I sogni sono la parte migliore della vita, si materializzano quando nessuno può vederti, mentre dormi. Burattinaio, se mi prendi anche i sogni mi fai un torto molto più grande di ogni mia possibile colpa. Riflettici bene, dedicati a qualcos’altro di più soddisfacente, che ne so’, coltiva bonsai, fai un corso di decoupage, datti all’uncinetto, partecipa alla maratona di New York, impara il thailandese, iscriviti ad un corso di cucina, SCOPA santo dio SCOPA. Ma non rompere i coglioni a me che sono impegnato in un lavoro molto più importante del tuo, essere felice. - Parole sante. - Scusa se ti ho annoiato, adesso devo scappare. Comunque ci risentiamo così magari prendiamo un caffè! - Ma certo, quando vuoi. - Oh che maleducato, non ti ho nemmeno chiesto come va: Maria, i bimbi? - Molto bene grazie.
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Nankurunaisa, ovvero la fissa dell’ansia
Forse avrei dovuto titolare la rubrica di questa settimana Nankurunaisa, ovvero dell’ansia fissa.
Non sapete che significa Nankurunaisa?
Non significa ansia, tutt’altro.
Mo’ ve lo racconto.
La parola è giapponese e significa ‘le cose andranno da sé’. Equivale al nostro ‘il tempo sistema tutto’.
Anche a miglia e miglia di distanza, il termine ha la stessa radice psico-filosofica del ‘panta rhei’ di eraclitiana memoria: tutto scorre, tutto diventa passato, con o senza il nostro apporto.
In qualsivoglia lingua, epoca o nazione, gli uomini hanno trovato sempre una sorta di consolazione filosofica per i problemi (ansiogeni) che non si possono risolvere. Tanto vale, dunque, lasciar correre. O scorrere, come insegnava Eraclito. Solo che noi ce ne dimentichiamo più che sovente e l’ansia diventa fissa. In tempi di pandemia, poi, la nostra ansia ha acquistato un’aura tragica, ingigantita dopo che l’OMS ha dichiarato che non ce ne libereremo prima di due anni.
(Certuni esorcizzano andando in discoteca, provando a sfidare la sorte e smentire i medici.)
Il rimedio generale alle afflizioni della vita, giapponese come ellenico, sarebbe di lasciare che le cose trovino da sole la loro strada, scegliendo di non scegliere o di non cercare soluzioni di qualunque sorta.
In effetti, anche se non alziamo un dito per risolvere un qualsiasi problema, una soluzione apparirà ugualmente. Forse non sarà la migliore, forse non sarà quella che speravamo, ma una soluzione, o meglio un qualunque esito (ovviamente, anche la morte) sopraggiungerà comunque.
Prendiamo a mo’ di esempio la necessità che il nostro Governo prepari, e per tempo, i progetti richiesti dall’Unione Europea affinché ci vengano consegnati tutti quei millanta miliardi (ben sillabati in epiche conferenze stampa del nostro Presidente del Consiglio), appostati dopo una maratona-monstre di riunioni a fine luglio.
Non prepararli, prepararli parzialmente, approntarli male o in ritardo comporterà tagli ai fondi e noi tutti siamo ben consci di quanto essi ci servano tutti, fino all’ultimo centesimo nominalmente concessoci.
Eppure, per come (non) si sta muovendo il Governo italiano, sembra che il nostro Esecutivo abbia dato l’appalto della progettazione delle riforme, che potrebbero addirittura cambiare l’Italia, al Tempo, piuttosto che a tecnici superspecializzati, comitati, commissioni, pool vari. (Va da sé che non basta collezionare le liste delle richieste dei vari Ministri: non è quello che ci hanno chiesto in Europa, né è ciò che accetteranno, per benevolenza.)
Pare, dunque, che il nostro Governo abbia sposato la filosofia del nankurunaisa, che è roba per umanità angosciata, non per Governi che devono aver cura di eliminare le angosce dei cittadini.
La stessa riflessione può essere fatta per sleepy John, ovverosia John Biden, lo sfidante di Trump. Lo chiamano da sempre sleepy (addormentato, sonnacchioso) perché il suo status inerziale abituale è l’inattività: tanto le cose troveranno la loro strada con la possibilità di farci pure miglior figura.
Vabbe’, torniamo nostra ansia fissa.
Effettivamente, amici miei lettori, ci sono sempre più momenti in cui, asfissiati da paure e problemi, stanchi ed impotenti nel trovare soluzioni soddisfacenti, non ci rimane altro che fermarci e lasciare che il Tempo (il Caso, il Destino, Giove, Odino, Manitù, Dio, Allah, la Trimurti, Jeovah) facciano per noi.
Personalmente, da cittadina nata, cresciuta e pasciuta in una civiltà occidentale, non riesco ad adottare completamente la quasi apatia delle filosofie orientali, così remissive. Comprendo il concetto di sentirsi nullità al cospetto dell’universo o di una qualsiasi Intelligenza che ci ha creato/progettato, pensiero che, tuttavia, mal si concilia con il principio di libero arbitrio, consegnatoci dalla tradizione cristiana.
Possiamo, comunque, provare ad assistere allo svolgersi degli eventi del e nel nostro contesto di riferimento come se assistessimo alla soap opera della nostra vita, in cui siamo interpreti e non sceneggiatori.
È un metodo che ho trovato molto utile per fermare l’ansia da impotenza, quando le circostanze sono complesse da comprendere e non riesco a scegliere il comportamento migliore per arrivare ad una buona soluzione. Mi guardo da lontano e immagino un’altra me a scegliere. Si attutiscono anche i problemi, perché annegano negli oceani dei problemi del prossimo.
Però a me, di solito, va di agitarmi, di ansieggiare, almeno per capire fino a dove e fino a quando posso spingere il mio agire per modificare (migliorare) un po’ il contesto in cui vivo e magari aiutare il Tempo (il Caso, il Destino, Giove, Odino, e tutta la compagnia divina).
Per tipi come me, vale quest’altro principio: ‘fa’ ciò che devi, accadrà ciò che può’. (Sarebbe molto più proficuo che anche Palazzo Chigi lo adottasse.)
Facciamo almeno il nostro piccolo (siamo scrupolosi nella raccolta differenziata, mettiamo la mascherina, siamo gentili con chiunque, raccogliamo le deiezioni dei nostri cani, non buttiamo roba per strada, dubitiamo dei sensazionalismi da social, ...) perché la somma di tutte questa cose - agite dalla (quasi) totalità dei cittadini - migliora il contesto di riferimento della nostra vita, permettendo al Tempo di essere più benevolo con queste scimmiette spaesate e spaventate che siamo noi uomini.
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Michel Houellebecq: genio assoluto o petulante bluff che fa le coccole a Winnie the Pooh? Matteo Fais e Davide Brullo litigano in attesa di “Serotonina”
È così difficile trovare un autore che ci rappresenti! In fondo, la solitudine ontologica dell’uomo si ripropone ogni volta anche tra gli scaffali delle librerie. Cerchiamo di completarci con cose e persone, fallendo nella maggior parte dei casi. Eppure, viviamo con questo intimo e inestinguibile bisogno di vederci riconosciuti. Se qualcuno ha pensato ed espresso quello che tra compiacimento e tortura non ci ha mai dato pace, un poco ci sentiamo sollevati – inutile negarlo. È un senso di vicinanza che scioglie il freddo in cuore, nel segno del mal comune mezzo gaudio.
Credo che il motivo per cui leggo e rileggo Houellebecq – e aspetto il suo romanzo in trepidante attesa – stia nel fatto che, dall’autore francese, io mi sento rappresentato. Non è mai stato così con nessun altro. Ho amato molti libri, passando e ripassando con bramosia inquieta tra le loro righe. Eppure, qualcosa mi è sempre mancato. Nessuno ha mai detto fino in fondo la verità di ciò che sento. Sartre mi è piaciuto. Il Camus di Lo Straniero mi ha fatto quasi paura perché vi ho scorto molto di me. Persino Giuseppe Culicchia, almeno in Tutti giù per terra, ha anticipato in buona misura molte delle tragedie che avrebbero segnato il mio ingresso nella traumatica età della ragione. Ma avvertivo un residuo di inespresso, qualcosa che era ancora lì e andava messo nero su bianco. Tant’è che allora decisi di dirlo io, senza attendere ulteriormente che fosse qualcun’altro a farlo in mia vece. Poi, a un certo punto, per puro caso un amico, durante una serata in comitiva, in cui eravamo i soli a pensarla in un certo modo, mi fece il nome del francese: “C’è uno scrittore che sostiene esattamente quello che stiamo dicendo noi”. Non potei resistere alla tentazione.
Seppi fin da subito che Houellebecq era quello giusto, come i pochi fortunati a cui capita di incontrare la donna della loro vita. Mi immersi in Le particelle elementari rimanendo folgorato. C’era tutto quello che avevo sempre pensato, solo espresso più chiaramente e sistematizzato. Mi colpì in particolare quella strana forma ibrida, e così ben equilibrata, tra il saggio e la narrazione. Non sono mai stato del resto un amante dei romanzi basati sull’intreccio, tra inutili complicazioni della trama e psicologismi talmente spinti da lasciarmi del tutto indifferente. “Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’ambizione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose lo lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i differenti stati d’animo, i tratti del carattere, ecc. […] Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata”, così sta scritto in Estensione del dominio della lotta. Sinceramente, non potrei essere più d’accordo. Odio i romanzi dove ci si perde nelle idiosincrasie dei personaggi, o nelle descrizioni iperrealistiche come avviene nei russi dell’Ottocento. Mi piace una narrativa di contenuti, come la si suol chiamare. Dei gusti personali dei singoli protagonisti me ne sbatto, mentre amo quando a essere descritto è un certo periodo storico di cui ogni figura letteraria è una rappresentazione plastica – del resto, ha ragione Houellebecq quando dice che oramai siamo tutti molto simili, in questo tempo omologante, e ci differenziamo solo per stupidaggini, come il fatto che io non sopporto gli slip e tu invece hai un serio problema con i boxer.
Daniel Pennac, in una recente intervista, ha sentenziato che “i lettori di Houellebecq sono consumatori che odiano consumare”. Non è del tutto falso. Per una volta, ho sfiorato la straniante sensazione di trovarmi in accordo con lui. In effetti mi sento consumato, acquistato e non acquistante. Mi capita addirittura di contemplare uno scaffale del supermercato, come al protagonista di Estensione, solo per scoprire dopo qualche minuto che non mi serve realmente niente degli articoli esposti alla “cupidigia del pubblico”. Ma non è tutto così semplice…
Potrei amare anche Bukowski, per la smodata presenza della sessualità nei suoi libri, proprio come in quelli dell’autore di Piattaforma. Però, no, qualcosa di Bukowski mi lascia insoddisfatto. Adoro la sua prosa, così secca e fluida da scorrere veloce come la birra di mezza mattina. Trovo però che l’americano sia oltremodo naïf. Sono interessanti le sue folli esperienze, da cui lui trae non poche intuizioni pungenti. Ma in Bukowski manca del tutto la sovrastruttura culturale. La sua è una saggezza da barfly (“mosca da bar”), quando la sbronza è tale che o cadi in coma etilico o sei improvvisamente vittima di una qualche illuminazione sulla vita. Houellebecq è più simile a me: un osservatore distaccato e analizzante, affetto da una punta costante di amarezza, capace di farti ridere proprio nel momento in cui più ti fa male. È uomo di cultura, ma che giustamente non si prende troppo sul serio. Per lui il sesso non è colore e contorno della narrazione, ma chiave interpretativa, nella sua declinazione, di un’epoca – proprio come l’economia.
Ammiro inoltre la sua capacità nel mantenere uno stile sempre valido alternando nella sua produzione romanzi postmoderni, come Estensione e Le particelle elementari, fino ad arrivare a quello che potremmo definire il neonaturalismo di Sottomissione.
Dite quello che vi pare, ma lui ha in ogni momento il polso della situazione, di quello che gli sta accadendo intorno. Da quando, disoccupato, scrisse in preda alla disperazione il suo primo romanzo, fino a diventare un miliardario chiuso in un grattacielo del quartiere cinese di Parigi, nulla è cambiato: Houellebecq vede sempre il mondo con spietata ed empatica lucidità.
Ho sentito che il suo nuovo libro, terminato mesi addietro, preconizza la rivolta dei gilet gialli. Ciò non mi sorprende, casomai rinnova la mia convinzione. Ho letto l’incipit: “Odiavo Parigi, quella città ammorbata da borghesi ecoresponsabili mi ripugnava, può darsi che fossi un borghese anch’io ma non ero ecoresponsabile, andavo in giro con un 4×4 diesel – forse non avevo combinato granché di buono nella vita ma almeno avrei contribuito a distruggere il pianeta – e sabotavo sistematicamente il programma di raccolta differenziata varato dall’amministratore del palazzo buttando l’umido nel recipiente per il vetro e le bottiglie vuote nel cassonetto riservato alla carta e agli imballaggi”. Inutile precisare che sono già “in solluchero”, come quel sentimentale del giovane Holden travolto sulla strada da un male di vivere inimmaginabile prima dell’affermazione letteraria di Houellebecq.
Matteo Fais
***
Non basta, non basta, non mi basta nulla. Non mi basta neanche il nulla, figuriamoci l’uomo, l’umano, il suo disagio, la sua disfatta, l’ansia cristica della dissipazione, il lasciarsi andare, il lasciarsi morire, la lascivia nichilista, la foga dell’annientamento. Questo è l’uomo da quando è uomo, nell’incarnazione di Abramo – disposto a sacrificare ciò che ha di reale, il figlio, per un filo di voce illusionista che ritiene Dio – nella follia di Edipo – che vince il mostro scoprendosi mostruoso – nella malia di Amleto – che sa che essere è non essere – e giù, deragliando e derapando nel dirupo umano, tra i russi che hanno a cuore non certo i dettagli narrativi – quelli piacciono sotto il cupolone di Albione – ma il deperimento dell’anima e il suo sfasciato ululato, e le ignominie di Beckett e le sconcezze di Genet e i bramiti di Camus… poi arriva lui, Michel Houellebecq, che con un talento miseramente ‘giornalistico’ ripete peggio degli altri le stesse cose, cambia la ‘quinta’, orienta la scrittura per i sottodotati attuali, per i dormienti, e giù applausi. Sinceramente, con tutta la mia pulviscolare ironia, Serotonina lo stronco prima ancora di leggerlo, MH scrive da vent’anni sempre le stesse cose.
La posa. Leggete la posa, please, prima ancora dei libri. Houellebecq sta in posa – fotografica – fotogenica. Fa la faccia del vituperio, un abietto virile, con la sigaretta digerita in bocca, fa il lurido, fa schifo, anche se è pieno di soldi e di applausi. Si mette in posa. Fa la parte. Lo scrittore, però, rifiuta i ruoli, vive per evadere le forme, per verificarne l’idiozia. Gli scrittori violenti hanno un viso limpido, che lampeggia crudeltà. Nelle raffigurazioni secentesca, il re Davide è un bambino, è l’icona dell’innocenza, ma brandisce la spada, è lordo di sangue, rotea il cranio di Golia.
Il petulante. Il talento di Houellebecq – se tale è – è ‘giornalistico’, dicevo. Intuisce un problema ‘sociale’, edifica una palafitta narrativa, ci s’infossa, il trucco riesce sempre. Houellebecq ha bisogno della polemica e della politica, non può fare a meno del fango, del pubblico, non si disincastra dal giudizio. Per questo le sue opere più che degradanti e degradate sono degradabili, svaniscono una volta lette, come un buon reportage giornalistico. Insomma, Houellebecq non è diverso da Trump, di cui apprezza il biondochiomato carisma.
L’egida dell’ovvio. Houellebecq funziona perché scrive ciò che vogliamo leggere, si finge antipatico – ma io lo immagino mentre fa le fusa abbracciato a Winnie the Pooh – ha il vezzo dello str**zo, annaspa nell’ovvio – che, ovviamente, vende – come il suo amico Emmanuel Carrère, due facce della stessa medaglia cariata. Poi, certo, in Italia ci vorrebbe un Houellebecq, ma l’Italia, letterariamente, è terra di tanti mozzi, di una manciata di corsari, mentre qualche squalo scodinzola in mare aperto.
Umano troppo umano. Houellebecq sosta nel sottobosco dell’umano, nel retroterra, con il retrogusto del già letto e già digerito: è un clamoroso bluff. La letteratura, piuttosto, si muove verso l’al di là, oltre l’uomo, in direzione del disumano – per questo, su questo, Massimiliano Parente vince Houellebecq, non c’è partita, lo scontro è impari – oppure nell’alveo dell’oltreumano. Il caro vecchio Cormac McCarthy riduce Houellebecq a un barboncino dei buoni sentimenti, Witold Gombrowicz ne dissezionerebbe la barbarie formale, perfino Rudolph Wurlitzer, con il visionario, lisergico, sonnambulo Zebulon ha scritto un libro che vale Le particelle elementari ed Estensione del dominio della lotta – i ‘best’ di MH – messi insieme.
Lo stile. E poi, basta, basta questo. MH scrive male – è sufficiente a evitarlo. Uno scrittore che non dona decenza formale alla propria creazione è un petulante provocatore. Meglio Moravia, allora. Meglio Pavese. Meglio Tempo di uccidere di Flaiano. Meglio i racconti di Verga. Lo ripeto per l’ennesima: prima di MH, lo scrittore facile per un tempo fatalmente semplice, il romanziere per i trinariciuti dell’abisso nella tazzina di caffè, leggete Montherlant, leggete Jouhandeau. Già. Troppo. Ma io voglio il troppo, anelo all’irredento, mi fa voglia lo scandalo del linguaggio non chi pensa di fare oscenità perché piscia, in faccia a tutti, la propria incurante incuria.
Davide Brullo
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“Sembrava venire dalla terra in cui hanno origine i sogni”: Ralph Waldo Emerson, il genio degli Stati Uniti d’America
Spesso, la morte è una traccia – l’avvio di una via, una visione. Pastore Unitario, il papà di Ralph Waldo Emerson morì nel 1811, qualche giorno prima del compleanno del figlio, avrebbe compiuto otto anni. Secondo il Buddhismo, è ottuplice il sentiero per ottenere la verità: per Emerson, d’improvviso, un corpo che muore fu la sola verità. Per conoscere la morte, forse – labirinti dell’inconscio – Emerson porta all’altare Ellen Louisa Tucker. Era giovanissima, era il 1827: la diciottenne aveva rivelato il male da subito, tubercolosi. Morì dopo neanche tre anni di matrimonio. Il giovane si accanì sulla sua salma, mostrando una attitudine doppia. Da un lato, adorava le cose fragili, evanescenti, di cui devi, con nostalgia, meditare la perdita; dall’altro, pensava che l’uomo, questo torso di carne che muore, può essere immortale, lo è. Molto più tardi scriverà, teorizzando la Superanima: “Che l’uomo impari dunque la rivelazione di tutta la natura e di tutto il pensiero al suo cuore, e cioè che l’Altissimo si trova in lui e che le sorgenti della natura sono nella sua propria mente”. Gli piaceva ricordare che Ellen morì in un mormorio, “Non dimentico la pace, la gioia”, prefigurando mondi ulteriori e la presenza di una energia divorante sotto la cute del reale. In quei giorni, tuttavia, la morte lo prese a morsi: nel 1832, dopo una visita al cimitero, scrive, “Sono stato sulla sua tomba, tutto il giorno & ho aperto la bara”. Probabilmente, Emerson compie il gesto con la mente, tombarola, eppure, il padre del trascendentalismo aveva una attrazione per i cadaveri – grigio sudario di ciò che diciamo anima. Dov’è dunque l’uomo, oltre questo macello di carne che si consuma, di ossa tinnanti?, si chiedeva. Trovò la risposta nella mistica, nella volontà, nella fiducia, nell’impero dei titani.
*
Con la seconda moglie fu diverso – non l’aveva scelta, come la prima, per la sua indomita debolezza. Le scrisse una lettera. Era il 24 gennaio del 1835, e Lidian Jackson, 32 anni, era intelligente, voleva l’abolizione della schiavitù, maggiori diritti per le donne e per i nativi americani. Le piacevano gli animali, la vita nei boschi. Era solida. Lui, forse, intuì i quattro figli che lei gli avrebbe dato; lei una mente anomala, tesa verso gli assoluti, astratta e concreta a un tempo. Gli rispose dopo due giorni, si sposarono in estate, misero casa a Concord, Massachusetts, un paese misero, invero – fa poco più di 17mila abitanti – eppure il cuore ideale e filosofico degli Stati Uniti d’America, una specie di Atene, dove passarono Louisa May Alcott e i più celebri discepoli di Emerson, Nathaniel Hawthorne – carattere più complicato, sognante, sbrigliato – e Henry David Thoreau, l’entusiasta. Prima di sposarsi, per nettare il lutto che atrofizzava la sua volontà, Emerson andò in Europa. Conobbe John Stuart Mill a Roma, Wordsworth e Coleridge in Inghilterra; divenne amico di Thomas Carlyle. Si può dire che dalla crisalide del lutto nacque un uomo risoluto: in quel 1835 Emerson, in seguito a una visita al Museo di Storia naturale di Parigi, abbozza il saggio più noto, Nature, pubblico l’anno dopo, con quell’incipit folgorante, “La nostra età è retrospettiva. Costruisce i sepolcri dei padri. Scrive biografie, storie, e critica. Le generazioni passate hanno contemplato Dio e la natura faccia a faccia; noi attraversiamo i loro occhi. Perché non dovremmo sperimentare anche noi un rapporto originale con l’universo?”. Qui c’è tutto: individualismo, rottura con la tradizione, Dio & natura, originalità, universo come esplicita appendice della mente.
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Mi sorprende quanto Emerson, amato da Nietzsche – non tanto per gli esiti filosofici ma per l’estro, l’estremismo linguistico, il gergo da autodidatta, da chi sfascia la cristalleria accademica – sia così poco tradotto in Italia. Qualcosa pubblica Donzelli, qualcosa La Vita Felice, Aragno, Diabasis, Moretti & Vitali, Piano B, da poco Rubbettino (Condotta di vita), cioè una legione di piccoli editori, esemplari; la grande editoria snobba Emerson, ritenendolo, forse, troppo ‘facile’, extra-canonico. Eppure, come ha detto ripetutamente Harold Bloom, “Il genio di Emerson continua a essere il genio dell’America: questo filosofo gettò le basi della nostra vera religione, che è postprotestante sebbene finga di non esserlo. La fiducia in se stessi non è una dottrina consolante, perché ci esorta a ricadere sul nostro genio oppure a cadere verso l’esterno e verso il basso”. Emerson è, in modo equidistante, democratico ed elitario: tutto è qui – “Ciò che importa è la vita, non l’aver vissuto” – ed è per tutti, tutti possiamo, raffinando la nostra anima, essere Shakespeare, ma la tensione è quella, miliare, verso Shakespeare (“Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente”), non un grammo di meno. Esiste la vetta, insomma, non la massa. Disintegrare i maestri non significa disonorarli: “non c’è autorità oltre il sé”, scrive Emerson, eppure, nel 1850, in uno dei suoi libri più grandi, Rapresentative Men, erige la piramide dei modelli: Platone, Swedenborg, Montaigne, Shakespeare, Napoleone, Goethe. Per edificare l’anima autenticamente americana, Emerson allinea – plotone di santi, d’esecuzione – i pilastri dell’Europa. Prende il concetto capitale del Romanticismo – il genio – lo annaffia con la lingua spezzata, sprezzante, spiazzante di Seneca, arma il megafono. Emerson fu il primo a fare della filosofia un mestiere: guadagnò tenendo convegni in lungo e in largo per gli States. Era un oratore commovente, che faceva presa sul pubblico – non scriveva per i posteri, non si dava in pasto ai morti – preferiva gli applausi (e consoni compensi). Per questo, alcuni concetti sono epigrammatici, memorabili (“Una insensata coerenza è l’orchetto delle piccole menti, adorato dai miseri statisti, dai filosofi, dai dottori in teologia”), e altri, perfino banali (“Ognuno dovrebbe imparare a scoprire e a tener d’occhio quel barlume di luce che gli guizza dentro la mente più che lo scintillio del firmamento dei bardi e dei sapienti”), sono utili (utili) a trascinarci nel pieno della vita, nella sua giungla, con l’ansia dell’avventuriero, sconfiggendo l’ozio petulante dello spettatore. Se gli europei ammirano le rovine della loro civiltà, tramutando la decrepitezza in tour, l’uomo novus americano sfida gli spazi incontaminati, non ha paura del barbarico, del selvaggio. Se poi nel ‘selvaggio’ di Emerson non troviamo giaguari ma concetti, non intralciamo il cobra ma la mistica di una elaborazione mentale e sentimentale, non stupiamoci: Las Vegas sta nel deserto come Venezia sopra le acque; ma qui si erge la basilica là la cattedrale dell’azzardo (non che il cristianesimo non lo sia, un azzardo, s’intenda…).
*
Emerson riconobbe fin da subito il genio ‘barbarico’ di Walt Whitman – il Song of Myself trascende ogni filosofia ma è trascendentalismo messo in versi –, affascinò Emily Dickinson, che lo vide, nel dicembre del 1857, “Sembrava venire dalla terra in cui hanno origine i sogni”, ricorda – ma lui come poteva vederla? –, informò l’opera di Thoreau, diede cardine di pensiero a quelle di Hawthorne e di Melville – che gli fu sottilmente ostile. Era pervasivo, come un sole, Emerson – ragion per cui alcuni preferirono l’ombra. Il suo ottimismo, però, non era commestibile, riguardava una disciplina, ferrea: non è facile avere fiducia in sé fino a esiliarsi dagli altri. “La classe di persone più attraente è composta di coloro che sono potenti indirettamente… la loro è la bellezza dell’uccello e della luce mattutina, e non dell’arte. Nel pensiero di genio c’è sempre la sorpresa”. Il discorso sulla “fiducia in se stessi”, pubblicato negli Essays, nel 1841, fu abbozzato più di dieci anni prima, come sermone sul corpo morto di Ellen: la filosofia vitale di Emerson è impregnata di lutto.
*
La furia filosofica di Emerson fu forgiata dal dolore. Nel gennaio del 1842 morì il suo primo figlio, Waldo, di scarlattina. Il filosofo gli dedicò un poema, straziante, Threnody; questa è la seconda stanza:
Vedo la casa vuota, Gli alberi serrano i rami, E lui, il bambino prediletto, Il cui grido d’argento selvaggio Supera ogni altro suono Nella spirale cerulea Il ragazzo di giacinto, per cui Il mattino potrebbe interrompersi e Aprile Sfiorire, il bimbo gentile che adornava Il mondo in cui è nato… La Natura che lo ha perso, non può ricrearlo; Il Fato lo ha fatto cadere; il Fato non può riacciuffarlo; Natura, Fato, uomini, lo cercate invano.
*
Ancora una volta, il tormento della morte, l’esigenza dell’immortalità. Morì nel 1882, in aprile, un mese prima di compiere 79 anni, Emerson. Da tre anni non appariva più in pubblico. Che beffa: quell’oratore micidiale, con le citazioni a fior di labbra, abile a sconfiggere ogni tradizione e ogni dogma, stava perdendo la memoria. Forse, aveva toccato il punto d’orizzonte dell’anima, che collima con l’oblio e pretende l’obolo del fallimento. Nel 1872 la casa di Concord aveva preso fuoco, si era letteralmente sbriciolata. Emerson prese quelle fiamme come un segno: dieci anni prima era morto, di tubercolosi, a 44 anni, l’unico che perpetuava a chiamare amico, Henry David Thoreau. Forse, nel fuoco, era l’anima di H.D. a fargli visita. Mentre ordinò di ricostruirgli la casa, fece l’ultimo viaggio in Europa e in Egitto – da tempo, aveva cominciato a studiare le filosofie d’Oriente. La sua tomba, nello Sleepy Hollow Cemetery di Concord, è un sasso, enorme e bianco, tra lapidi e alberi – pare uno spettro pietrificato, un lenzuolo. (d.b.)
In copertina: Franz Gerhard von Kügelgen, “Ritratto di Caspar David Friedrich”, 1820 circa
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“Sciabolata d’azzurro è lo sguardo”. Lode a Ezio Savino, il Prometeo del linguaggio
Da ragazzo, sono i vezzi della giovinezza, il vigore della stupidità, pensavo che le opere fossero superiori agli esseri umani. Per questo, mi rifiutavo, categoricamente, di incontrare scrittori & poeti. La carne, d’altronde, è la corruzione della forma; di solito, pensavo, una grande opera è inversamente proporzionale alla grandezza di chi l’ha foggiata. Minchiate. In ogni caso, per lui feci eccezione.
*
A chi mi chiedeva chi fosse lo scrittore italiano che preferivo rispondevo, con spregiudicato sprezzo, Ezio Savino! Non era il trionfo dello snobismo, ma il trono del vero. Quel giorno, appunto – Milano, molteplici anni fa, in un palazzo troppo elegante per non digerirmi nelle sue interiora punteggiate di luci – lo conobbi. Mi parve titanico, abbronzato, un colosso con gli occhiali. Balbettai qualcosa. Con lui c’era Nicola Crocetti, con cui collaborava – ricordo, almeno, le introduzioni ai libri di Ghiannis Ritsos, di Kavafis. Forse mi sorrise – era robusto, si dileguò.
*
Ezio Savino maneggiava il linguaggio come nessuno – leggerlo fu una delle sorprese della giovinezza, uno shock verbale. Savino, che se ne è andato nel 2014, era geniale, sapeva il valore della parola ‘servizio’: occorre farsi servi del desiderio del lettore, senza ostentare la propria accademica – e bulimica – sapienza. Ergo: era un abile divulgatore (le sue introduzioni sono schiette e affascinanti, ha scritto un ottimo libro per avviare i ragazzi alla conoscenza del mito, Il ragazzo con la cetra), ma quando traduceva lasciava tralucere l’enigma, la collisione, la corrosione. Non semplificava: sfidava. Le sue traduzioni di Sofocle e Tucidide, ma più di tutte quelle di Eschilo, con cui inaugura un corpo-a-corpo linguistico esaltante, sono alcune tra le opere in italiano più grandi e di vasta risonanza degli ultimi decenni. Savino non spiega, ma dilata l’eco del verbo; non trova risposte traduttive, al contrario, ci getta nel gorgo del labirinto, davanti al mostro.
*
Esempi. Quarant’anni fa, per Garzanti, Savino pubblica la sua versione del Prometeo incatenato. Esordio: “Ci siamo: qui, all’orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa di Scizia. Disumani, vuoti silenzi. Efesto, forza: fa’ tuo l’impegno che il Padre ti diede, piantare alle rocce, ai picchi d’abisso, quel disperato – guardalo – tra blocchi senza spiragli, di nodi d’acciaio”. Che fa Savino? Piaga i tiranti della lingua, estremizza: siamo nel cerchio del mito greco, del teatro del V secolo, è vero, ma potremmo essere dentro Star Wars, in una sconfinata cosmologia. Per capirci, questa è la traduzione di Monica Centanni – bravissima, per carità, ma qui non m’importa la coerenza filologica bensì l’insorgere dell’altro, dell’implacabile del linguaggio – nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna Le tragedie di Eschilo (2003): “Qui, ai confini del mondo siamo giunti, qui, nella Scizia lontana, in un inumano deserto. Su ora, Efesto, occupati tu di eseguire il mandato che il padre ti ha dato. Ecco l’uomo: alle rocce, sospese sull’abisso, questo temerario tu devi legare, con catene d’acciaio, in ceppi infrangibili”.
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Ammetto. Lo leggevo con l’ansia della iena, ne scorticavo i testi, fino all’osso verbale. Lo dico: non puoi scrivere senza aver letto l’Eschilo secondo Savino, arcaico, ma che ha ferrato le spalle al futuro. Va arso di sottolineature il suo tradurre. “Flettersi all’Inevitabile è equilibrio”; “Da ora per me l’universo è blocco d’angoscia. Ecco, mi si staglia negli occhi: dio è contro di noi! M’assorda il cervello un urlìo malato”; “Delitto strepitando attira Vendetta: lei, pronta – spira da quelli uccisi in passato – ammucchia a perdizione fresca perdizione”.
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Che emozione udire il sussurro metallico di Prometeo: “Io che ho ideato tanti congegni per l’uomo non trovo per me uno scaltro pensiero, sollievo al tormento che ora m’assale. È la mia sofferenza!”.
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Un brandello strappato all’Orestea, “Piegati al destino. Sperimenta il nuovo male, il giogo”, manda al libro più alto – e dei più comprensibili – di Emanuele Severino, Il giogo (1989). L’intento, lì, è quello di leggere Eschilo come “uno dei più grandi pensatori dell’Occidente”, l’uomo che “pensa per primo, in modo esplicito, il rapporto tra dolore e verità”. In particolare, continua Severino, “Eschilo pronuncia un ‘no’ inaudito al dolore – un ‘no’ non solo inaudito, ma completamente ignorato, nel suo significato autentico, da ogni riflessione sulle origini della civiltà occidentale”. La natura terribile del pensiero di Eschilo si capisce soltanto leggendo la traduzione di Savino, di plumbea bellezza.
*
Così, nei Persiani, il coro degli sconfitti canta la sua sventura:
Sciabolata d’azzurro è lo sguardo, di smalto lucente: una serpe cruenta! …Pure frode, malia di una mente celeste Chi vale – qui sulla terra – a schivarla? …Sgorga da Dio il millenario potere della Dispensiera fatale. Sui Persiani calcò impegno guerriero: sgretolare castelli, groviglio d’assalto gioiosi, al galoppo, città sradicate.
Ma seppero presto quel lungo scrutare il mistero dei flutti, l’abisso che spalanca i suoi varchi – luccicare perenne allo schiaffo del vento – affidati al cordame, fragili funi strumenti del passo oltremare. Così la mente – velo nero – si fa straccio all’angoscia.
*
In dieci anni, tra il 1978 e il 1989, Savino traduce Eschilo e Sofocle, dando ai ‘classici’, finalmente, lingua di fierezza. Dove conta l’abbandono più che la sicurezza metrica, il vespaio di suggestioni più che il merito filologico. Tutto inizia, però, con il Tucidide del 1974, sempre per Garzanti, cioè la catabasi – senza catarsi – nel retro di tenebra della Storia. I passi fatali della Guerra del Peloponneso – questo, ad esempio: “Poi i Peloponnesi, calati dall’argine si diedero a sgozzare tutti quelli che si agitavano nel fiume. in breve l’acqua s’intorbidò e si corruppe, ma non venne meno la frenesia di berne, e più d’uno impugnò le armi contro un compagno, per raggiungere un sorso di quell’acqua dal sapore di fango, ed insieme di sangue” – potremmo ascoltarli in Apocalypse Now, a vergare il delirio vietnamita, quello libico, d’ovunque, perché Tucidide estrapola l’orrore dalla cronaca, ma per farne sentire l’odore non puoi accontentarti di un cronachista del tradurre. Le pagine devastanti dei prigionieri nelle latomie – “Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile” – sono speculari al fatidico discorso di Pericle. Tucidide alterna l’elogio della democrazia – “le nostre direttive s’ispirano all’audacia più temeraria, temprata dalla più responsabile riflessione, dove per gli altri l’osare è incoscienza, il ponderare impaccio” – alla “distruzione radicale” della guerra, insinuata come una peste nel cuore dell’uomo. Intriga intendere la democrazia come un osare, più che un sostare sul noto.
*
L’intelligenza inquieta, inappagata di Savino l’ha reso creativo pure nell’arco giornalistico. Dei suoi pregi disse, in un pezzo commosso, Alessandro Gnocchi; io ricordo un pezzo, era la tarda estate del 2009, in cui sul Giornale Savino cantava il primato di Usain Bolt fingendosi Pindaro redivivo: “Guardate il cartellone. Parla la lingua delle cifre, che è quella degli dei: 9.58, primato mondiale per Usain Bolt, sulla distanza classica dei 100 metri piani. Chi mi segue dall’epoca dei miei commenti sportivi da Olimpia, da Delfi e da Corinto, sa che esoterismo e scienze occulte dei numeri sono una delle mie passioni. Nulla è caso. Fate la somma dei dati, e troverete 22, proprio l’età del vincitore, in anni di vita”. Audacia e gioco, vertigine e ironia, abisso che sa sfottersi. Tra le tante cose, per Mursia, nel 1979, Savino ha scritto il commento al Dersu Uzala di Arsen’ev, il libro da cui Kurosawa trae il film, indimenticabile. Ecco, Savino, come Dersu Uzala, conosce la tigre, sa saggiare e percorrere la foresta del linguaggio e questo, per lo più, è il gergo del mio grazie. (d.b.)
*In copertina: Dirck van Baburen, “Efesto incatena Prometeo”, 1623
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150 anni fa, il romanzo più grande di sempre: “Guerra e pace” (appendice sulla crisi devastante che colpì Lev Tolstoj)
150 anni fa nella vita di Lev Tolstoj accadono due cose opposte ed entrambe rivelative. Pubblica in volume Guerra e pace, dimostrando al mondo, così, ciò che è: il più grande – nella grandezza è intesa la consanguineità tra impero formale e impeto etico – romanziere di ogni tempo. Poi, la crisi, clamorosa. Appena diventato re, Tolstoj precipita.
*
Rewind. Se vi va, un dato dimostra che per Tolstoj arte & vita sono consustanziali, epica della stessa consegna. Nel 1862 il conte Tolstoj si sposa con l’avvenente diciottenne Sonja – ergo: Sof’ja Andrèevna –, l’anno dopo nasce Sergèj, il primo figlio. In quel nugolo di mesi, Tolstoj inizia a scrivere Guerra e pace. Il compimento del romanzo è festeggiato con la nascita di Lev, il quarto figlio, che – paradosso di cubica crudeltà – fu scrittore, fu contrario ai diktat morali del padre (“Ho conosciuto personalmente gli effetti degli errori del pensiero di mio padre”), emigrò dopo la Rivoluzione, morendo in Svezia.
*
Sul The New Criterion un’articolessa di Gary Saul Morson ci spiega perché Guerra e pace è The greatest of all novels, il romanzo più grande di tutti – e se lo dice un americano – ma soprattutto perché è l’antidoto a ogni ideologia concentrazionaria (scientista, comunista, papalina). “Leggere Guerra e pace è un’esperienza diversa dalla lettura di ogni altro libro, eccetto, suppongo, Anna Karenina. Passiamo dalla meraviglia dei piccoli sommovimenti della coscienza alla grandiosa visione della vita in tutta la sua infinita varietà… Eccola, la saggezza tolstoiana: la verità non è in un sistema astratto, che semplifica necessariamente la vita, ma in una fede aperta, pronta. La verità è difficile da discernere perché è nascosta allo sguardo”.
*
Una delle scene più grandi di Guerra e pace, come si sa, è quella in cui il principe Andrej Bolkonskij cade, ad Austerliz. Mentre gli uomini combattono, sul campo, egli s’immerge nel cielo, ha la schiena sul prato, il rumore della battaglia e della morte è attutito dal dolore, dall’illuminazione. “Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non limpido, tuttavia di un’altezza incommensurabile, con grigie nuvole che vi fluttuavano silenziose. ‘Che silenzio, che calma, che solennità!’, pensò il principe Andrej… ‘Come mai prima non lo vedevo questo cielo sublime? E come sono felice d’averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vano, tutto è inganno al di fuori di questo cielo infinito. Nulla, nulla esiste all’infuori di esso. Ma neppure esso esiste, non esiste nulla tranne il silenzio, tranne la quiete”.
*
Lo scrittore, qui, ha una rivelazione. La rivelazione della vanità di ogni atto umano, la percezione del nulla – e il nulla non getta nel disperato, inietta quiete. Il carisma di questa rivelazione viene esasperato poco dopo, quando il principe Andrej incontra Napoleone, “il suo eroe, ma in quel momento Napoleone gli sembrava un uomo meschino e insignificante in confronto a ciò che accadeva fra la sua anima e quell’alto cielo sconfinato sparso di nuvole fuggenti”. Tolstoj tiene fermo questo concetto, con briglie narrative esatte, e lo specifica – con il ritmo rollante di una ossessione di pace: “Guardando gli occhi di Napoleone, il principe Andrej pensò alla nullità della grandezza, alla nullità della vita, della quale nessuno può comprendere il significato, e all’ancor maggiore nullità della morte, il cui senso nessun vivente può comprendere e spiegare”. Nel cerchio romanzesco, questi concetti un poco vaghi – il nulla, la vanità della Storia – hanno forza icastica prodigiosa. Napoleone, letteralmente, si sbriciola davanti ad Andrej, davanti a noi. La teoria di gesti umani – guerre, città, progresso – non è più di una foglia che declina e cade, senza strascico d’urla.
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La grandezza ha rigurgiti di caos. Sonja, al quarto figlio, s’arrabbia. “Mi sa che sono ancora incinta. Ad ogni figlio che hai, rinunci sempre di più alla vita per te stessa e ti rassegni al giogo di tutte queste cose da fare, delle preoccupazioni, delle malattie, degli anni”. Tolstoj la ingraviderà per 13 volte. Il conte, inoltre, comincia a cedere. “Alla fine del 1866 rompe il contratto con il Russkij vestik, non vuole che l’ansia delle scadenze editoriali interferisca con l’ansia sua, già estrema, di venire a capo delle molteplici linee della trama. In primavera cominciano ad affacciarsi sintomi di sfinimento: un pomeriggio di maggio ha un accesso di semi-follia, improvvisamente si mette a urlare, getta a terra un vassoio, e rimane per qualche minuto con lo sguardo fisso, la bocca aperta” (Igor Sibaldi, nel necessario Album Tolstoj, Mondadori, 1994). La letteratura, in cambio, ti chiede tutto, l’ultimo respiro.
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150 anni: la grande vittoria di Lev Tolstoj, con la pubblicazione di Guerra e pace. E la grande caduta. Arzamas è una cittadina che oggi fa 108mila abitanti, dipende da Niznij Novgorod, pare il nome di un incantesimo. Piuttosto, è una parola che evoca l’incubo, l’incauto, l’incanto. Tolstoj passa di lì il 2 settembre di 150 anni fa. Deve andare a Penza, per trattare l’acquisto di una terra. Fa tappa, si ferma la notte a dormire. Durante la notte, accade l’incantesimo: Tolstoj è preda dell’angoscia. Una angoscia indicibile. L’angoscia della morte. Sente la morte addosso. “Erano le 2 di notte, ero terribilmente stanco, avevo sonno e non mi faceva male nulla. Ma a un tratto m’è venuta una tale angoscia, paura, orrore, come non ne avevo mai provati…”, scrive nel diario. Confuso, scosso, Tolstoj di primo impulso dimentica l’episodio. Che continua a roderlo. Dopo la seconda, grandiosa avventura romanzesca, Anna Karenina, Tolstoj dà una prima sistemazione razionale a quella notte. Scrive il pamphlet La confessione, pubblico, clandestinamente, nel 1882, in cui ripudia la letteratura, la scienza, le finzioni della morale ortodossa, tentato da una fede autentica, spoglia, frugale, popolare. Soltanto qualche anno dopo, però, la notte di Arzamas viene evocata nel racconto più estremo di Tolstoj, Le memorie di un pazzo, inaccettabile anche da parte dello scrittore, ormai evoluto in guru. Il racconto, redatto nel 1884, sarà pubblico postumo, nel 1912.
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Il racconto narra l’impulsiva lotta tra Tolstoj – o meglio: l’io che narra la vicenda accaduta a Tolstoj – e Dio. “Allora, a che serve la vita? Morire? Uccidermi adesso, subito?… Perché ci sono?, cosa sono io? E io rimanevo solo con me stesso. E mi davo io risposte, in luogo di Colui che non voleva rispondere… Perché questa confusione, qui, perché tutto questo tormento?… Se Tu esistessi, Tu lo diresti a me, agli uomini. Ma Tu non ci sei, c’è soltanto la disperazione”. Questa variazione dal libro di Giobbe è resa esteticamente coinvolgente dalla descrizione, espressionista, che Tolstoj dà del dolore. “Ancora una volta provai a dormire, ma c’era sempre quell’orrore rosso, bianco, quadrato”. Quel trio di aggettivi – rosso, bianco, quadrato – inaugura un nuovo modo di fare letteratura, una nuova realtà da raccontare.
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Concentrandosi sulle Memorie di un pazzo, Lev Sestov scrive il saggio più importante – perché paurosamente dispari, con veggenza ulteriore – su Tolstoj, In sede di giudizio finale. Tra l’altro, scrive: “Così, implacabilmente, Tolstoj si mette a nudo. Pochi scrittori ci rivelano questo tipo di verità. E, se si vuole afferrare questa verità, se se ne è capaci – infatti la verità messa a nudo non è neppure facile a vedersi – fatalmente nasce tutta una serie di problemi sproporzionati al nostro pensiero abituale. Come accogliere questi immotivati, subitanei terrori rossi, bianchi, a quadri? In un ‘universo comune a tutti’ non vi sono, non vi possono né debbono essere, fatti ‘improvvisi’, azioni ‘immotivate’. E i terrori non sono né rossi né bianchi né quadrati. Ciò che è capitato a Tolstoj è una minaccia per la coscienza umana normale. Oggi è Tolstoj la vittima improvvisa e immotivata dell’inquietudine; domani, parimenti senza ragione, sarà un altro, e un altro ancora, e un giorno il contagio si diffonderà su tutta la società, su tutti gli uomini. Se ammettiamo seriamente quanto si racconta nelle Memorie di un pazzo, non c’è che un’alternativa: o dobbiamo rinunciare a Tolstoj e metterlo al bando dalla società, come si faceva nel Medioevo con i lebbrosi e altri malati contagiosi, oppure, se consideriamo ‘legittima’ la sua esperienza, dobbiamo aspettarci che altri subiscano quello che è accaduto a lui e paventare che l’‘universo comune a tutti’ crolli, e gli uomini prendano a vivere ognuno nel proprio universo, non solamente in sogno, ma anche nella realtà”. La grande letteratura pone al cospetto del drastico.
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“Sono stupido come un cavallo. Lavoro, taglio, zappo, falcio e per mia fortuna non penso nemmeno più all’orrenda let-te-ra-tu-ra”. Così Tolstoj in una lettera del 1870 all’amico Afanasij Fet. Lo scrittore lotta con la letteratura, fino allo schifo, fino al vomito – la parola angoscia la vita. Senza questo rigetto, senza questa fuga, non c’è scrittura, ma didattico diletto.
Davide Brullo
L'articolo 150 anni fa, il romanzo più grande di sempre: “Guerra e pace” (appendice sulla crisi devastante che colpì Lev Tolstoj) proviene da Pangea.
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