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L’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Alessandria trionfa con il Lean Healthcare Award
Un premio prestigioso per l’eccellenza nell’innovazione sanitaria
Un premio prestigioso per l’eccellenza nell’innovazione sanitaria L’Azienda Ospedaliero-Universitaria (AOU) di Alessandria ha conquistato il Lean Healthcare Award, il più importante riconoscimento italiano per i progetti di riorganizzazione e miglioramento nel settore sanitario. Un traguardo significativo che porta, per la prima volta, il Piemonte sul podio di questa prestigiosa…
#: Pier Carlo Lava#Agenas#Alessandria today#AOU Alessandria#AOU premiata.#cure ospedaliere#dipartimento emergenze#efficienza organizzativa#efficienza sanitaria#emergenza-urgenza#Federsanità#Fiaso#gestione del tempo#gestione emergenze#gestione sanitaria#Google News#innovazione ospedaliera#innovazione sanitaria#italianewsmedia.com#Lean Healthcare Award#Massimo Corona#miglioramento continuo#miglioramento processi#organizzazione ospedaliera#Ospedale Alessandria#ottimizzazione ospedaliera#palazzo brancaccio#pazienti in attesa#Piemonte#premi sanità
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La punteggiatura
Usate la virgola essa si cura della nostra salute,
ci aiuta a respirar e non ci fa arrosir la cute.
Se siete stanchi e avete bisogno di un respiro più lungo,
potete utilizzare ancora la virgola ma quella con il punto.
I due punti come sono pazienti,
essi ci segnalano i chiarimenti.
Il punto fermo inamovibile e perentorio,
alla fine va messo non è un accessorio.
Il punto interrogativo o punto di domanda,
lo si usa quando la curiosità comanda.
I punti sospensivi sono emozione e attesa,
con loro la nostra lettura rimane sospesa.
Le virgolette ci fanno capire quando le cose sono dette,
così frasi e pensieri volano come se avessero le alette.
Il punto esclamativo lui si che è severo,
rende ogni pensiero molto austero.
Il punto misto indica una sorpresa,
lo si usa quando una frase è inattesa
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Nella struttura dove lavoro ci sono soltanto due operatori uomini, tutte le altre sono donne. Di questi due ragazzi, entrambi sulla trentina, uno è sposato e padre, mentre l' altro si frequentava con una ragazza che lavora anche lei lì, sempre sulla trentina e madre separata di due bambini. La relazione è sempre stata burrascosa, discussioni e litigi continui che spesso turbavano in modo pesante l'andamento del lavoro, creando anche situazioni imbarazzanti davanti ai pazienti. Quando all'inzio del turno di mattina si assegnavano i piani su cui lavorare ad ogni coppia di operatori, si creava sempre una gran confusione perché lei (ovviamente credendo che la cosa non sarebbe venuta fuori) gli aveva vietato di lavorare sullo stesso piano assieme alle operatrici più giovani e carine e nel caso disgraziato che ciò avvenisse lo controllava di continuo, andando a vedere cosa lui stesse facendo ogni due minuti e trascurando il proprio lavoro. Finché un giorno, fuori dal lavoro, all' ennesima lite e dopo - sembra - un attacco fisico da parte di lei, lui ha reagito lanciandole un oggetto e colpendola. Lui stesso l'accompagna in ospedale, dove lei viene visitata e parte una denuncia perché i medici capiscono che il trauma è frutto di una colluttazione. Lui disperato, i genitori di lei completamente furiosi avvertono la cooperativa che finché lui non verrà trasferito, lei non tornerà a lavorare. Lui va all' ufficio del personale della cooperativa insieme al padre e alla fine ottiene di essere trasferito in un altro posto di lavoro, molto ambito, per il quale più di un collega era in "lista di attesa" da tempo. Ora lui doppiamente fesso, perché ha continuato a frequentare una persona che lo stava facendo impazzire e che non perdeva occasione per sputargli addosso e perché ha finito per reagire in quel modo, cosa che non è mai e in nessun caso giustificata, tutti gli altri che aspettavano per quel posto di lavoro incazzati neri perché si sono visti soffiare in quel modo l'unico posto che si era liberato dopo tempo. E lei? Di lei non si hanno più notizie certe, se non che sembra che si stia facendo un cuore nuovo fiammante con un altro che può farle ottenere un posto di lavoro decisamente migliore... La gente è davvero scema col cuore 🤷🏻♀️
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Buongiorno Kon, un anno e mezzo fa ho rimosso una cisti sebacea di 1,5 cm circa che avevo da anni sulla nuca (costava tanto e trattandosi di un intervento estetico ho aspettato qualche anno e una stabilità economica maggiore). La cicatrice è venuta su male, e negli ultimi 3/4 mesi sta diventando una pallina dura grande come era la cisti prima.
Ieri ho fatto una visita in un centro dermatologico privato. Il medico mi dice, è chiaramente un cheloide, ma quando l'hanno tolta non ti hanno fatto l'istologico? Dico io no, tutti i medici mi han sempre detto che era una cisti sebacea, e così l'ho sempre considerata. Mi tiene 10/15 minuti a ragionare ad alta voce dicendomi che no, non lo è, ma se per caso fosse un tumore l'iniezione di cortisone che mi andrebbe a fare potrebbe fare un danno, e rimane in attesa/silenzio per sentire la mia. Gli spiego che io in campo medico faccio quello che mi dice il medico, che mica posso decidere da solo. Mi dice quindi che bisogna essere prudenti, e mi fa prendere l'appuntamento per la biopsia in cui mi viene indicato il costo in 500€ (oltre ai 150€ di visita, altrettanti di analisi del campione, e ai 200€ che costerà l'infiltrazione). Dico alla persona con cui sto prendendo l'appuntamento che non me lo posso permettere, lei parla col medico e mi dice che possiamo fare 300€. Io a quel punto rifiuto cortesemente, non tanto per la cifra in sé (che è impegnativa ma me la potrei permettere) ma perché non capisco come un'analisi possa servire anziché no (dopo aver espresso un dubbio che è abbastanza potente sulla psiche), e che può costare tanto o poco e possiamo anche trattare sul prezzo. Magari è il medico più bravo e prudente del mondo e ha avuto un intuizione geniale che mi salverà la vita, ma io magari mi sbaglio ma rimango con la sensazione di essere stato un pollo con la stagnola sull'osso.
Ora io andrò dal mio medico di base a chiedere consiglio, anche se ci vogliono 3 settimane per un appuntamento perché ha circa mezzo miliardo di pazienti, però è davvero molto bravo sia professionalmente che umanamente, e mi va bene così.
Questa storia, che è stupidina e non è un nessun modo un problema, si somma a molteplici storie meno stupidine che ho vissuto negli ultimi anni, per me e per i miei famigliari, e in cui penso tutti ci siamo imbattuti, con la sanità privata a cui ti rivolgi quando i tempi della pubblica sono incompatibili con la vita e i mille casini che ciascuno ha. Non so se è perché con l'età sto diventando paranoico o perché sono prevenuto e ho rabbia per come è stato demolito il ssn negli ultimi 30 anni, ma tante volte mi sembra di rimanere con il cerino in mano, e avere a che a fare con questa sanità a volte è davvero molto stancante.
(PS: so benissimo che c'è ben ben ben di peggio, è solo un piccolo sfogo estivo)
Con affetto
L'argomento è delicato sotto molteplici aspetti, quindi facciamo che io ti racconto la mirabolante storia della cisti sebacea di Giansturzio, l'allevatore di polli ossuti con stagnola sopra, e poi tu vedi cosa pensare di lui e come comportarti di conseguenza.
GIANSTURZIO E LA MIRABOLANTE CISTI SEBACEA
Giansturzio ha una fastidiosa cisti sebacea sul collo e dopo essere andato a cercare su pubmed e scoperto che si tratta di una manifestazione benigna da incarcerazione di sebo nel sottocute dovuta all'accumulo del secreto di una ghiandola sebacea pilifera il cui sbocco esterno si è occluso, riceve l'informazione - tecnicamente corretta ma non molto precisa - che la sua rimozione è un intervento estetico e quindi non a carico del SSN.
Vero in teoria, ma il medico invece gli dice che esistono dei rischi che la cisti sebacea vada incontro a infiammazione, suppurazione e infezione e che quindi il suo trattamento è un tipo di intervento che può essere fatto in convenzione, biopsia compresa (di solito la biopsia viene eseguita in modo standard quando si rimuove un tessuto displasico, anche se una cisti sebacea è abbastanza riconoscibile e non fraintendibile con altro).
Giansturzio, grazie al medico, prenota UNA VISITA DERMATOLOGICA con un quesito diagnostico di approfondimento e il dermatologo decide di rimuoverla lui (poteva anche farlo fare a un chirurgo se molto profonda e/o necessitante di ambienti/strumenti avanzati).
Il dermatologo sa che in una cisti sebacea,
attorno al sebo incarcerato l'organismo avviluppa una sacca di materiale fibroso opalescente vascolarizzato per isolare la sostanza estranea e che la cosa migliore sarebbe riuscire a estrarre la capsula senza tagliarla e fare uscire il contenuto solo in un secondo tempo; in caso contrario, dovrà fare un curettage accurato dei lembi capsulari, peduncolo compreso, pena il rischio che la ferita chirurgica non guarisca di prima intenzione, la ciste si riformi e la sutura vada incontro a cheloidizzazione ipertrofica su base infiammatoria.
Fortunato Giansturzio ad aver ricevuto un intervento risolutivo in convenzione col sistema sanitario nazionale!
Fine della storia.
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Gentilissimo dottor Filippo Anelli,
presidente della Federazione degli Ordini dei Medici, ho letto con molto interessa la sua intervista su tachipirina e vigile attesa. Oserei dire anche con tenerezza. Paracetamolo e non fare un accidente fino a quando non era troppo tardi, quindi, non era un protocollo, qualcosa di cui ci si assume la responsabilità, ma un fraterno consiglio da collega a collega. Mi scusi, ma perché avete dato un consiglio di cosi bestiale idiozia? Oltre che medico sono uno scrittore, anche piuttosto bravo, e ho una notevole capacità nell’uso delle parole. Per tachipirina e vigile attesa non ci sono altre parole che queste: bestiale idiozia. La gente è morta per questa bestiale idiozia. Dare in una malattia infiammatoria un farmaco non antiinfiammatorio che abbatte il glutatione, prima difesa dell’organismo, e abbatte la febbre, seconda difesa dell’organismo, è bestialmente stupido. Non dare immediatamente antiinfiammatori, vitamina D e C, idrossiclorochina e azitromicina che avrebbero risolto il problema insieme a eparina e cortisone ha causato migliaia di morti inutili, migliaia. Se era solo un fraterno consiglio, dato oltretutto da gente che deve aver superato patologia medica e farmacologia col 18 e ancora non sa come c’è riuscita, per quale incredibile motivo noi che abbiamo dato le cure corrette salvando i pazienti siamo stati ripresi e poi radiati? Do quindi per scontato che entro due giorni, massimo tre riceverò la comunicazione che la mia radiazione è stata annullata. Se questo non succede, vuol dire che lei parla, come dire, a vanvera. In allegato la fotografia che ho usato sui social per diffondere la terapia corretta. Grazie a me medici che non la conoscevano l’hanno applicata salvando le persone. Ho usato la foto perché tutte le volte che nominavo quei farmaci la mia pagina FB veniva chiusa, come il mio canale You tube, chiuso anche lui. Il vostro fraterno consiglio da collega a collega era quindi blindato come un carro armato. Un carro armato che ha schiacciato i pazienti, facendoli morire nel dolore.
(da Silvana De Mari channel)
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Conversazione con studente al V anno di Medicina in Sapienza: Storia della Medicina è un esame integrativo, che “non serve a niente”; nessun docente ha mai trattato la questione del metodo; nessuna cognizione epistemologica; nessun interesse per questi temi. La fine di un mondo.
via https://twitter.com/conservatore_il
Il medico a-etico a-morale quindi im-morale: quale interessante ossimoro moderno, sono quelli che vorrebbero "aggiustare" uomini come si fa con le macchine.
Di più, l'assenza di cognizioni epistemologiche ne fa infermieri che usano prodotti per come gli vien detto: posologia e poi vigile attesa, come loro ai pazienti.
Questo spiega un sacco di cose riguardo a questi PUSHER.
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Reblogo per ricordare.. perché molti fanno finta di non ricordare che i loro medici erano pecore caccasotto che ascoltavano il loro dio Bassetti e si lavavano la coscienza con la Tachipirina e vigile attesa. Molti di questi medici sono stati radiati e molti pazienti che gli devono la vita piano piano se ne vogliono dimenticare. Anche se vi piace essere gregge non vuol dire che non siete uomini esseri umani quindi siate riconoscenti a chi non è un eroe ma fa il suo dovere con passione e coscienza.
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Psoriasi: Pressing di Apiafco per l’Inclusione nel Piano Nazionale delle Cronicità
La presidente Valeria Corazza spinge per il riconoscimento della dignità della psoriasi e per una presa in carico multidisciplinare della patologia
La presidente Valeria Corazza spinge per il riconoscimento della dignità della psoriasi e per una presa in carico multidisciplinare della patologia. In Italia, la psoriasi colpisce circa 1,8 milioni di persone, di cui 250.000 soffrono di forme severe. La malattia, spesso considerata superficialmente come un disturbo dermatologico, è in realtà una patologia complessa che comporta un rischio…
#Adoi#Apiafco#artrite psoriasica#assistenza sanitaria#associazioni di pazienti#comorbidità psoriasi#Conferenza delle Regioni#conferenza stampa Senato#Diabete#diagnosi precoce#diritto alla cura#Diritto alla Salute#disagi psoriasi#gestione multidisciplinare#Giornata Mondiale della Psoriasi#impatto psicologico psoriasi#iniziative sanitarie#Intergruppo Parlamentare#liste d&039;attesa sanitarie#malattie autoimmuni#malattie croniche#malattie della pelle#malattie infiammatorie croniche#Ministero della Salute#Obesità#Patologie Cardiovascolari#patologie dermatologiche#Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali#Piano Nazionale Cronicità#prevenzione malattie croniche
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SABRAESHATILA.“Celodisserolemosche”
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17 set 2020
Fisk, Israele, libano, Palestina, Sabra, Sharon, shatila
by Redazione
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Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982

di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 17 settembre 2020 Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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Selvatica - 55. Ultime parole
Come era vuota la sua casa senza Corinna. E gli sembrava un luogo estraneo, come se non gli appartenesse più, come se in tutto quel tempo fosse stata un'altra persona a viverci, non lui.
Si alzò dal letto che troppe volte nell'ultimo periodo aveva condiviso con lei. Le lenzuola stropicciate durante l'ennesima nottata insonne giacevano in un angolo, a occupare il posto di Corinna ormai freddo.
Era trascorsa più di una settimana dal loro ultimo incontro e Ante continuava a svegliarsi nel cuore della notte con una morsa che gli stringeva il petto e le ultime parole che la ragazza gli aveva rivolto che premevano sulle tempie.
Ti odio.
Non ho mai voluto niente da te, volevo solo te.
Addio.
Un'altra giornata di allenamento, a lavorare, correre, sudare. Un'altra giornata trascorsa tra gli amici, ad attendere notizie da parte di Dolokov e inventare scuse con se stesso per non averla ancora chiamata. Lei e solo lei nella sua testa stanca. Lei e solo lei nel suo cuore triste.
Insieme avevano tutto, una complicità da fare invidia, tutta la felicità del mondo. Corinna con le sue menzogne aveva gettato su di loro una densa nube scura dalla quale Ante non riusciva a uscire. Non vedeva al di là di essa, non riusciva più a scorgere la luce.
Attraversò le stanze silenziose buttandovi uno sguardo vacuo. Quella maledetta casa lo rendeva malinconico, non voleva più starci. Avrebbe cambiato appartamento il prima possibile.
***
Un pomeriggio intero in giro per Milano alla ricerca di una casa nuova, con Rade e Mario che si erano dimostrati molto più pazienti di lui. La giornata era stata calda e nel venticello si avvertiva l'arrivo della sera, l'orario dell'aperitivo. Ante fece un sorso dal bicchiere che aveva in mano, osservando un tizio che sorrideva e si avvicinava nella loro direzione.
Rade sembrava conoscerlo, si alzò in piedi e lo salutò stringendogli la mano. Era italiano ma parlava benissimo la loro lingua, un uomo molto elegante, i capelli corti e gli occhiali da vista.
«Dai, siedi con noi. Prendi qualcosa.» Rade gli fece spazio sul divanetto.
Qualche tavolo più in là, delle ragazze stavano guardando nella loro direzione, ridacchiavano e parlavano a bassa voce. Ante si spostò, dando loro le spalle.
«Vi ringrazio, ma sono solo di passaggio», rispose l'uomo, sorridendo. «Salutami tanto Isotta e dille di non dimenticarsi della mostra.»
«Mostra?» chiese Ante, improvvisamente interessato alla conversazione.
«Ah sì, voi non vi conoscete» Rade indicò sia lui che Mario. «Loro sono i miei compagni di squadra Ante e Mario.»
Mario alzò una mano e sorrise, Ante continuò a fissare l'uomo in attesa di una risposta.
«Molto piacere, sono Massimo Lamantini.»
«È un gallerista» aggiunse Rade.
«Un gallerista?» Forse doveva sembrare ritardato perché il tizio lo fissò per un secondo prima di rispondere.
«Sì, sì. Ho una galleria qui vicino. Siete invitati anche voi alla mia prossima mostra, venite insieme a Rade e Isotta.»
Ante si alzò in piedi. «Massimo, la mia...» Frenò la lingua prima di pronunciare la parola "ragazza" solo perché cominciò a sentire delle fortissime fitte al petto. «Una mia amica sta studiando per diventare una gallerista. Posso mandarla da te? Le fai un colloquio e magari la prendi a lavorare con te. È molto preparata e soprattutto ha tanta passione.»
«Ma certo.» Massimo tirò fuori dalla tasca un bigliettino da visita che porse a Ante. «Può venire quando vuole.»
Ante annuì e sorrise, gli strinse la mano in segno di ringraziamento. Poi si sedette di nuovo, guardando Mario e Rade che lo fissavano. Tornò serio. «Che c'è?»
Massimo si congedò e Ante passò il bigliettino a Rade. «Dallo a Corinna.»
Rade strabuzzò gli occhi. «Io?»
«Puoi farglielo dare da Isotta.»
«Ante, hai rotto il cazzo con questa storia» sbottò Mario, fulminandolo con lo sguardo. «Perché l'hai lasciata se continui a pensare a lei, a fare le cose per lei, a preoccuparti per lei? Non potete stare insieme? Sareste sicuramente più felici.»
Ante buttò fuori l'aria dal naso. «Mario, per favore. Non capisci che...»
«Ma per favore, cosa? Le stronzate si fanno nella vita, ok? E lei ne ha fatta una bella grossa, ma chiaramente tu sei ancora innamorato di lei e quindi perché non la perdoni?»
Lo fissò con sguardo di ghiaccio. «Non la voglio vedere, ok?»
Mario allargò le braccia, facendo una smorfia con la bocca. «Ok. Ma questo non è affar nostro.» Tolse il bigliettino da visita dalle mani di Rade e lo piazzò davanti a Ante. «Se tanto ci tieni, glielo porti tu.»
Rade si alzò in piedi, cercando di stemperare la tensione. «Va bene, ragazzi, va bene. Andiamo a casa?»
Ante e Mario si osservarono per un altro paio di secondi. «Sì.»
Aveva ragione, Ante la amava ancora tanto e non era riuscito a trattenersi quando aveva sentito che quell'uomo era un gallerista. Era un sogno di Corinna. Ante voleva solo vederla felice. Afferrò il bigliettino e lo ripose in tasca.
«Ante?»
Una ragazza lo stava chiamando. Ante si mosse verso l'uscita, senza neanche guardare.
«Chi è quella, la conosci?» Mario si accostò la lui.
Scosse la testa, «No, non guardarla. Fai finta di non aver sentito.»
«Ante? Ehi, non mi riconosci?»
Merda, ma chi diavolo era? Sollevò lo sguardo al cielo.
«Ante, mi sa che questa ti conosce piuttosto bene.» Rade sorrise.
Ante si voltò a guardare. Capelli neri e lisci, sguardo provocante e intenso. Ma certo, la conosceva eccome, era la coinquilina di Corinna.
«Ciao.»
Lei si avvicinò. «Ciao! Sono l'amica di Corinna, ti ricordi?»
Ante annuì. «Come sta?» Di nuovo non era riuscito a trattenersi dal chiedere di lei.
La ragazza sorrise. «Bene. Ora ha iniziato a lavorare al museo del Novecento, hai presente? Quello in Piazza Duomo. Non è proprio un lavoro, sta facendo il tirocinio per l'università. È tutta presa e sempre piena di cose da fare. Però... le manchi.»
Ante fissava Monica ma immaginava Corinna e come potesse essere felice in quel momento. Sapeva quanto adorava essere circondata dall'arte, sapeva quanto potesse essere importante per lei. Avrebbe tanto voluto che lo chiamasse, per condividere con lui quel momento. Invece il telefono era sempre rimasto silenzioso.
«Dove andate, ragazzi? Perché non vi unite a noi?» La voce della ragazza lo riportò nel locale. Lei gli fece l'occhiolino. «Tranquillo, non c'è Corinna.» Le riservò un'occhiata gelida, credeva che così lo avrebbe convinto a restare?
Mario fece un passo verso Monica. «Perché no.»
Ante si voltò di scatto verso Mario, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Ce ne stavamo andando.»
Monica spostò lo sguardo tra i due, lasciandolo un po' di più su Mario. «Vabbè, se decidete di restare raggiungeteci.»
Ante aspettò che la ragazza si allontanasse, poi si rivolse a Mario. «Sei matto? Vuoi scoparti l'amica di Corinna?»
Rade ridacchiò e Mario alzò le spalle. «È attraente, no?»
Ante sorrise e scosse la testa. «Guarda che quella poi la devi pagare.»
Mario spalancò gli occhi e la bocca. «No... davvero?»
I tre risero insieme, Ante infilò le mani in tasca in cerca delle chiavi della macchina e le dita sfiorarono il cartoncino ruvido del bigliettino da visita. Tornò subito serio e sospirò.
«Io me ne vado, ci vediamo domani.»
Che doveva fare se non voleva vederla? Strinse il cartoncino nella mano mentre si dirigeva verso l'auto. Fu tentato di buttarlo, tanto sarebbe rimasto in quella tasca per sempre. Non sarebbe mai arrivato nelle mani di Corinna. Lei probabilmente stava ritrovando la sua felicità, non c'era bisogno di andare a disturbarla.
Non sarebbe andato da lei per sentirsi dire ancora quelle ultime parole che lo tormentavano.
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Funk Star
La campagna è una cosa che ti fa riflettere.
Ci sono dei lavori che devi fare da solo, non sono ripetitivi, ma il concetto è sempre lo stesso e questo regala la possibilità di pensare. A volte credo sia dovuto al profumo della terra, così vivido, ancestrale...PREGNANTE direbbe un'anima bella.
Quando lavoro la mia terra a volte mi succede di guardarmi da fuori, un po' come quella canzone dei Subsonica. Guardo le mie scarpe, poggiate sui pedali o imbrattate di erba e foglie. A volte mi sento uno sfigato sopra un trattore rosso o dentro un fuoristrada grigio. Così lontano dell'essere figo, interessante e intrigante, intento a prendermi cura di ciò che mi è crollato sulle spalle. Quando arrivo nella mia terra so cosa fare: scarico la macchina, dispongo gli attrezzi oppure abbasso la leva gialla e quella nera un po' più sotto, che attiva la presa di forza.
Da bambino mi affascinavano le leve delle pale meccaniche, dei trattori o degli escavatori. Avevano i pomelli di un giallo intenso, lucidi lucidi e mi piaceva l'idea di sapere che ognuna aveva il suo scopo e la sua funzione precisa, tutte erano al loro posto, a disposizione e pazienti in attesa che l'operatore le muovesse per fare il loro dovere.
Mi guardo da fuori, dicevo, come in quella canzone dei Subsonica e rifletto un po', penso a dove sei tu e mi piacerebbe ci fosse una cinepresa e tu dall'altra parte dello schermo che guardi e mi viene da dirti "guarda cosa so fare". Che poi è inutile ciò che so fare perché è fuori mercato, superato, poco appetibile, poco attraente. Non serve. I rovi e i rami secchi mi regalano nuove ferite sulla pelle, di quelle che mi fanno compagnia per una settimana ché chissà cosa penseranno quando mi vedranno in ufficio a fare il colletto bianco con le mani sbagliate.
Questi sono i momenti che mi manchi, che mi chiedo chissà dove sei, che guardando il cielo in pieno giorno e vedendo la luna mi viene spontaneo fartela notare. E intanto magari stai sorridendo tranquilla chissà dove e io sono un granellino di sabbia vicino al battiscopa che né l'aspirapolvere né la scopa sono ancora riusciti a raggiungere.
Questi sono i momenti che sono un po' giù, quelli dove devo stringere i denti e ricordarmi che "Ale is not enough" e che pazienza, spallucce, bavero sollevato, spalle larghe, sprone al mulo e via.
Mi manchi, Meraviglia. Ho voglia di te, dei tuoi guai, del tuo buio e della tua luce, delle cose per cui mi rendi orgoglioso, della tua testa sul mio petto in un pomeriggio qualsiasi...col temporale oltre i muri e noi due che non ce ne frega niente del mondo là fuori.
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Frosinone, Asl, contributi per malati oncologici e in lista d'attesa per trapianti
Scadrà il prossimo 31 luglio la domanda per ottenere dalla Asl di Frosinone un contributo economico in favore di malati oncologici e soggetti in attesa di trapianto. Possono presentare domanda pazienti affetti da patologie oncologiche che necessitano di trattamenti medici, clinici, di laboratorio, chirurgici e radioterapici presso strutture sanitarie regionali, le cui patologie sono certificate…
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I reni donati da persone di colore hanno più probabilità di essere buttati via. Un bioeticista spiega perché. La disparità nel trapianto di reni tra persone di colore La malattia renale è una sfida critica negli Stati Uniti, con i neri americani a rischio tre volte superiore rispetto ai bianchi. Un’analisi mostra che, nonostante rappresentino solo il 12% della popolazione, costituiscono il 35% dei pazienti con insufficienza renale. Un sistema iniquo Con quasi 100.000 persone in attesa di un trapianto di rene negli Stati Uniti, gli afroamericani sono più inclini alla necessità di questo intervento ma meno probabili di riceverlo. I reni donati da persone di colore tendono ad essere scartati a causa di presunti difetti nel sistema
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Lombardia, da giugno in farmacia holter pressorio, cardiaco ed ECG gratuiti per cardiopatici
Lombardia, da giugno in farmacia holter pressorio, cardiaco ed ECG gratuiti per cardiopatici. Dal prossimo mese di giugno, i cittadini residenti o domiciliati in Lombardia, con esenzione per patologie cardiovascolari, potranno accedere gratuitamente nelle farmacie lombarde ai servizi di telemedicina. Tra questi l'holter pressorio, l'holter cardiaco e l'ECG. Per poter usufruire di queste prestazioni bisognerà dotarsi di ricetta bianca firmata dal medico. Il servizio sarà successivamente esteso ai pazienti diabetici. È quanto prevede una delibera approvata dalla Giunta regionale su proposta dell'assessore al Welfare e che segna un passo significativo nella sperimentazione della 'farmacia dei servizi'. Con questo progetto del Ministero della Salute, che terminerà a dicembre 2024, Regione Lombardia mira a trasformare le farmacie in centri che offrono prestazioni e servizi sanitari. La nuova delibera approva la fase finale del progetto, introducendo due nuovi servizi: la riconciliazione della terapia farmacologica e i servizi di telemedicina. ASSESSORE AL WELFARE: FARMACIE UTILI E A DISPOSIZIONE DEI CITTADINI - "Il ruolo delle farmacie - ha commentato l'assessore al Welfare - è lo stesso di noi medici e di tutti quelli che si occupano di salute: essere utili ed essere a disposizione dei propri concittadini. Le farmacie già svolgono una funzione essenziale nel Welfare in Lombardia, al di là del compito di fornire i farmaci per le varie patologie (lo scorso anno sono stati erogati più di 80 milioni di medicinali), ormai possono essere considerate veri e propri presidi sanitari di prossimità. Come già sperimentato durante il periodo COVID-19 con tamponi e vaccinazioni, possono occuparsi con efficienza di screening, di verifica e di monitoraggio dello stato di salute dei cittadini. Regione Lombardia con questa iniziativa fa proprio un passo in più in questa direzione, dimostrando l'impegno nel migliorare l'accessibilità e l'efficacia delle prestazioni sanitarie. Holter pressorio, Holter cardiaco ed ECG in particolare sono esami che forniscono una serie di indicazioni necessarie per poter fare le giuste diagnosi e adottare le terapie corrette in ambito cardiovascolare, permettendoci di dare un ulteriore impulso alla riduzione delle liste di attesa". RICONCILIAZIONE DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA - Il servizio di riconciliazione della terapia farmacologica consiste nel confronto tra la lista dei farmaci assunti dal paziente, eventuali integratori o altri prodotti, e quelli che dovrebbero essere somministrati in specifiche circostanze. Questo processo consente al medico di formulare decisioni prescrittive più precise. Il farmacista avrà un ruolo cruciale nella somministrazione di un questionario all'assistito, facilitando così il medico nella sua attività prescrittiva e prevenendo eventi rischiosi, soprattutto in situazioni di politerapia. SERVIZI DI TELEMEDICINA - Le farmacie offriranno servizi di telemedicina per categorie di persone già classificate a rischio o affette da patologie, tra questi, Holter pressorio, Holter cardiaco ed ECG. Attualmente, circa 1.800 farmacie offrono questi servizi a carico del cittadino. Con la nuova delibera, le farmacie dovranno accreditarsi come fornitori per il Sistema Sanitario Regionale (SSR). Gli esiti delle prestazioni effettuate in farmacia saranno inseriti nel Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) del cittadino, permettendo al medico di visualizzarli e contribuendo a ridurre le liste d'attesa per queste prestazioni.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Innovazione e tecnologia: le Start-Up biomediche di successo al contest Start Pitch Durante la seconda giornata dell’evento... #biomedica #innovazione #intelligenzaartificiale #medicina #startup https://agrpress.it/innovazione-e-tecnologia-le-start-up-biomediche-di-successo-al-contest-start-pitch/?feed_id=5430&_unique_id=664f11fbc048f
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