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Il Narciso di Caravaggio: Genesi, Significato e Analisi dell’Opera
Scopri il capolavoro di Caravaggio che racconta la tragedia e la bellezza del mito di Narciso
Scopri il capolavoro di Caravaggio che racconta la tragedia e la bellezza del mito di Narciso Il Narciso di Caravaggio è una delle opere più iconiche del maestro lombardo, un dipinto che sintetizza in modo sublime la bellezza e la fragilità umana attraverso il mito greco. Realizzato intorno al 1597-1599, l’opera rappresenta il giovane Narciso, perso nell’ammirazione della propria immagine…
#analisi del Narciso#Arte Barocca#arte e psicologia#autocompiacimento#autoritratto simbolico#Autostima#bellezza e vanità#capolavori di Caravaggio#capolavori italiani#Caravaggio#Caravaggio e chiaroscuro#Chiaroscuro#critica alla società#dipinti di Caravaggio#dipinti simbolici#influenza artistica#introspezione#introspezione psicologica#isolamento#Metamorfosi#Michelangelo Merisi#mito di Narciso#narcisismo#Narciso di Caravaggio#Narciso e autostima#Narciso e riflesso#narrazione mitologica#ossessione per se stessi#Ovidio#pittura barocca
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Come la storia ha trattato male il dodo
Storia e arte di Mikel Angelo Francisco
Quando si tratta di specie che sono state denigrate e maltrattate dalla storia, poche, se non nessuna, possono essere paragonate al dodo (Raphus cucullatus). L'ultimo avvistamento confermato di questo uccello risale al 1662—meno di 100 anni dopo che i marinai olandesi invasori avevano notato per la prima volta la sua esistenza sull'isola africana di Mauritius. Col tempo, l'uccello incapace di volare è diventato il simbolo sfortunato del fallimento evolutivo. La sua reputazione di essere terribilmente inadatto alla sopravvivenza ha cementato il suo posto nella cultura popolare e nel lessico del mondo anglofono come simbolo di obsolescenza ("morto come un dodo") e pura stupidità ("stupido come un dodo").
Per secoli, la narrazione dominante sul dodo era che fosse comicamente goffo, grasso, e inadatto a sopravvivere in un mondo dominato dagli umani. Supponendo che fosse così, la sua incapacità di volare lo rendeva una preda facile per i coloni europei, che lo portarono rapidamente all'estinzione.
Ma recenti studi suggeriscono che fosse agile e capace, muovendosi abilmente tra alberi e rocce con forti gambe. Aveva un buon senso dell'olfatto e potrebbe essere stato intelligente quanto un piccione. La stupidità non ha condannato il dodo; gli umani sì. Fu la caccia, insieme all'introduzione di specie invasive come i ratti, i gatti e i maiali che rovinò il suo habitat e distrusse il suo cibo.
Questo solleva la domanda: come abbiamo fatto a sbagliare così tanto sul povero dodo?
Dopotutto, questa specie non è come i dinosauri non aviari, scomparsi milioni di anni fa, di cui non abbiamo mai visto uno dal vivo nel contesto geologico. Di fatto, il dodo è uno degli esempi più celebri di una specie la cui scomparsa si è svolta sotto i nostri occhi. Sicuramente, qualcuno con un pennino e un pezzo di carta avrebbe potuto registrare come apparisse e si comportasse un dodo vivo, giusto?
La risposta, ovviamente, è no. Sfortunatamente, l'accuratezza delle loro rappresentazioni lasciava molto a desiderare, per usare un eufemismo.
Curiosamente, Carl Linnaeus stesso propose un nome binomiale per il dodo: Didus ineptus ("dodo stupido"), che risultava terribilmente adatto.
Inoltre, vale la pena notare che quando il dodo scomparve, non avevamo ancora standardizzato come categorizzare gli esseri viventi. Ciò significava anche che nessuno aveva lavorato con un esemplare tipico —un "punto di riferimento" accettato per descrivere i tratti fisici del dodo.
In aggiunta, il dodo morì durante un periodo anomalo nella storia scientifica: non solo la tassonomia moderna non esisteva ancora, ma anche la nostra comprensione dell'estinzione—di come l'intera popolazione di una specie potesse cessare di esistere—era ancora un concetto nuovo.
A un certo punto, le persone dubitarono persino dell'esistenza reale del dodo, e questo divenne associato a creature mitologiche come il grifone e la fenice dell'antichità mitologica.
Con tutte queste considerazioni, un team di ricercatori britannici ha affrontato il compito (anche se inevitabile) di districare i nodi della nomenclatura del dodo. Questo processo ha comportato l'esame di circa 400 anni di letteratura, nonché di documenti sul dodo. Pubblicarono il loro studio nello Zoological Journal of the Linnean Society.
Nel loro articolo, confermarono che il dodo e il suo più stretto parente estinto, il solitario di Rodrigues (Pezophaps solitaria), appartenevano alla stessa famiglia dei piccioni e delle colombe (Columbidae).
Non è solo una questione di pedanteria scientifica: studiare la storia del dodo può chiarire il suo ruolo nell'ecosistema di Mauritius, il che fornisce informazioni utili per la conservazione degli habitat e delle specie.
Questo può salvare altre specie dall'estinguersi come il... tu sai. (Ancora deluso.)
(via Il Dodo non era così stupido come pensavamo)
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Teatro: le profezie di Cassandra della Angiulli a Magione e Perugia MTTM presenta il secondo appuntamento di Una stagione FUORI - racconto di Primavera con "Cassandra", un'opera teatrale che esplora la figura mitologic...
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Il Barong rimane ancora oggi tra le più popolari forme di spettacolo a Bali: questo dramma rituale rappresenta tradizionalmente la lotta tra la figura bestiale benigna del Barong contro Rangda, una strega dall’aspetto terrifico, temuta per i suoi poteri di distruzione. Il Barong è una delle forme di teatro/danza balinese più rinomate e apprezzate e la sua importanza si è costituita nel tempo grazie alla sua valenza esoterica e per l’efficacia scenografica. Sebbene la danza del Barong sia descritta come uno scontro tra le forze del bene e del male, identificate rispettivamente nei due personaggi principali, Barong e Rangda, sarebbe superficiale descrivere questa rappresentazione identificando le due figure come un eroe e una antagonista. L’intera vicenda è la celebrazione attraverso la danza, la musica e il teatro dell’intero universo mitologico e religioso di Bali.
Il teatro/danza balinese non rappresenta solo un puro intrattenimento, è un mezzo per mantenere viva la narrazione del patrimonio mitologico del passato, un momento di aggregazione sociale e di condivisione che avvicina le generazioni e i diversi strati sociali all’interno della comunità. L’attore/danzatore esprime la volontà degli dei e controlla la potenza dei demoni, indirizza attraverso l’estrema consapevolezza data dal training la volontà di una narrazione, che si attua nella gestualità codificata. Le maschere di Rangda e Barong sono il simbolo della trasformazione totale dell’individualità, che si fa tramite delle forze animalesche, naturali e persino divine. Il soprannaturale si manifesta sempre nel mondo della natura, permea ogni aspetto della vita quotidiana, e nella celebrazione diviene visibile: le componenti materiali della performance, gli strumenti musicali, i costumi, le maschere e le armi vengono consacrati dal sacerdote hindu, il pemangku, come simbolo e manifestazione del potere divino.
Rangda incarna nella sua funzione mitologica la potenza distruttiva delle forze demoniache, è collegata alla dimensione ctonia, e tutti i suoi attributi aggressivi e terrifici richiamano le sue grandi capacità magiche e la sua volontà divoratrice, che può essere canalizzata e controllata attraverso lo scontro rituale. Il suo legame con Durga, la dea hindu, è una chiave di lettura fondamentale per comprendere quanto l’aspetto del divino sia inevitabilmente soggetto ad esercitare in maniera ciclica il proprio influsso distruttivo sul mondo, oscillando alternativamente tra creazione e caos.
Le maschere e i costumi del Barong possono essere molteplici nella scelta della forma animale. Può somigliare al leone (barong ket), ad una tigre (barong macan), ad un cinghiale, ad un cervo o assumere una forma antropomorfa. Il termine barong sembra derivare dalla terminologia barwang, di provenienza sanscrita che letteralmente significa «orso», secondo l’origine in un antico poema giavanese. La sacralità della maschera del Barong non deriva dalla scena, è venerata come portatrice di una spiritualità propria. Il Barong è la forza divina che può contrastare con il suo potere la terrificante presenza di Rangda dagli occhi fiammeggianti, divoratrice di uomini e sacerdotessa di magia nera.
Secondo la visione balinese, non è possibile eliminare definitivamente il male dall’esistenza, confinandolo nella sua originaria sede lontano dagli uomini: le forze demoniache, portatrici di calamità, malattie e distruzione necessitano di essere debitamente considerate, riconoscendo la loro esistenza e potenza, in casi più estremi controllando attivamente il loro influsso. È fondamentale provvedere costantemente ad un bilanciamento tra le forze divine e quelle demoniache: esse esistono entrambe all’interno della dimensione umana ed esercitano il proprio potere sull’interiorità di ciascun individuo. Anche gli dei stessi, secondo la mitologia del retaggio induista, sono costantemente in bilico tra impulsi creativi e distruttivi, mostrano un volto benigno e uno terrifico e sono soggetti ad un equilibrio dinamico. Grazie alla danza, al teatro e alla musica è possibile esercitare un influsso per bilanciare il divino e il demoniaco.
"Le maschere di Barong e Rangda nel teatro balinese"
Articolo scritto da Giulia Sala e pubblicato sulla rivista online di antropologia culturale, etnografia e sociologia La Rivista Culturale, il 21 novembre 2021
#barong#rangda#bali#balinese#mythology#dance#myth#mask#ritual#mitologia#mito#rituale#maschere#danza#teatro#theatre#culture#cultura
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Sirgaus, un disco di epicità wagneriana
Epico. Solo così può essere descritto il disco L’Anguana e la gemma del mare ancestrale dei Sirgaus. Ma non epico nel senso ‘becero’ del termine. Siamo lontani anni luce dal genere inventato dai Manowar. In questo caso epico sta a significare grandioso, wagneriano, sinfonico. Tutto ottimamente legato al contesto narrativo dei testi, in italiano. Gli arrangiamenti sono complessi e sembrano derivare direttamente dalla musica classica alla quale è stato unito il metal. Molto altri ci hanno provato con alterne fortune. I nostri ci sono ben riusciti. Capacità compositive, tecnica, passione per l’argomento, capacità espressiva.
Tutto è racchiuso in questo concept dei Sirgaus. La base narrativa si fonda su una leggenda, quella de L’anguana, appunto. La storia narra che, fin dai tempi più antichi, nei boschi delle Dolomiti di tanto in tanto si possa udire il canto dell’Anguana: la mitologica Strega lacustre che risiede nei nostri monti nutrendosi dei sogni di coloro che abitano i vicini villaggi. Il racconto musicale è ambientato a Cibiana di Cadore nel 1661. Pur senza conoscere nei dettagli la vicenda, l’ascoltatore, come con una macchina del tempo, viene immediatamente catapultato in quell’epoca.
Le due voci, maschile e femminile, si alternano nella narrazione. Il cantato in italiano è fondamentale per visualizzare nell’immediato le immagini proposte dalla musica. La scelta di non utilizzare le voci in maniera ‘epica’, con vocalizzi acutissimi, posture da cantanti lirici, o arzigogoli vari, si dimostra vincente. Il focus resta sempre il racconto. Non si viene distratti da barocchismi inutili. Questo vale anche per la parte strumentale. Il concept pare essere stato concepito più come una colonna sonora che come un semplice disco. Le immagini emergono da sole durante l’ascolto.
E non potrebbe essere diversamente. L’epicità tiene banco anche in brani più lenti, quasi malinconici come La miniera oscura. Tutto è al servizio dei testi. Enfasi, accelerazioni, crescendo sono tutte tecniche che diventano umorali. Pongono i giusti accenti sugli stati d’animo dei protagonisti della vicenda. Il climax narrativo e musicale, sia come tensione che come complessità, viene raggiunto nel brano che presenta la protagonista, l’Anguana. Che segna anche l’ingresso della voce femminile. Qui i fiati, gli archi, le percussioni, dominano creando un’atmosfera giustamente pachidermica, ampollosa. Questa non si alleggerisce neanche nei passaggi più ‘aperti’. Pure in questo caso è l’orchestrazione a vincere.
Notevole e inatteso il passaggio del basso che segna un cambio di rotta che ingigantisce ancor di più l’andamento generale introducendo al solo. Un plauso a proposito dei solo. Tutti circostanziati, nessuna sbrodolatura inutile. Nessun virtuosismo non richiesto. Nessuna volontà di dimostrare la perizia tecnica della band. Cosa che, in ogni cao, si evince ascoltando il disco. Lodevole e notevole la produzione. Non deve essere stato semplice riuscire a coordinare tutti gli strumenti inseriti creando un insieme maestoso, pastoso senza mai essere caotico. Cadre nella confusione con così tanti timbri da gestire sarebbe stato molto facile. Il track by track è impossibile. Vorrebbe dire sminuire il disco che vale nel suo insieme.
In conclusione. Un’opera rock nel vero senso del termina questa dei Sirgaus. Complessa, vissuta, emozionante. Non di immediata assimilazione. Anzi. Servono davvero moltissimi ascolti per riuscire ad apprezzarne fino in fondo la maestosità, le trame. E, come spesso accade in questi casi, ogni ascolto farà emergere dettagli diversi. Non è un disco che si può ascoltare con leggerezza. Anche i fans del metal più sinfonico avranno bisogno di ‘sentirlo’, non solo ascoltarlo. Un lavoro indicato non per tutte le orecchie. Chi cerca leggerezza, solarità, brani orecchiabili che si ricordano dopo un ascolto, potrebbe trovarsi a disagio. In un certo senso si deve già essere predisposti ad un certo tipo non solo di suoni, ma di arrangiamenti. Sarebbe curioso sapere cosa ne pensano gli appassionati, gli esperti di musica classica.
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Sogni automobilistici
Stanotte ho fatto un sogno prettamente automobilistico. Nel senso che la protagonista assoluta è stata la seconda macchina che abbia mai guidato. La mitologica Uno bianca a tre porte. Acquistata in tempi non sospetti. Si è trattato di una narrazione travagliata assai. Non riconoscevo le strade della mia città. Ne ho percorse alcune contro mano. Avevo parcheggiato la macchina ma non riuscivo più a trovarla. Quando mi sono svegliato ho tirato un sospiro di sollievo. Anzi, più d’uno.
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Into the spiderverse
Dell’intuizione del multiverso, in pochissime parole l’ipotesi della co-esistenza di infiniti universi possibili e paralleli, se n’è parlato spesso, forse troppo. Oltre a essere un’attraente teoria scientifica si dimostra un validissimo dispositivo narrativo per affrontare variazioni sul tema, siano esse utopiche o distopiche e, molto spesso in ambito fumettistico, aggiornare le biografie di personaggi iconicamente cristallizzati e attualizzarne le origini, rendendo più influente la portata del loro mito. Quando all’alba del XXI secolo Marvel decide di fondare l’etichetta Ultimate Comics, lo fa per attuare questa strategia di update and restart dei suoi personaggi più rilevanti, partendo proprio da Spider-Man, X-Men, Fantastici quattro e Vendicatori. Nel 2011 Marvel si spinge oltre ogni forma di riscrittura (successivamente si muoverà su questa strada anche per altri personaggi come Thor, a cui cambierà genere, o Iron Man a cui modificherà genere e etnia) uccidendo il Peter Parker dell’universo ultimate e rimpiazzandolo, nel ruolo de l’Uomo Ragno, con Miles Morales, un ragazzino afro-ispanico. Una scelta che innanzitutto immortala il melting pot della società statunitense e, probabilmente, la spinta inclusiva verso le minoranze etniche data dal primo mandato presidenziale di Barack Obama. Possiamo immaginare, osservando la biografia dell’autore di questa rivoluzione, che Brian Micheal Bendis abbia trasposto nella sua opera l’esperienza di genitore adottivo di due ragazzi di origine africana, trasformando il suo Spider-Man, forse il personaggio più importante di tutta la Marvel, in un racconto in cui essi possano sentirsi pienamente rappresentati. Visto il successo riscontrato dal Miles Morales a fumetti, non ci sorprende che Sony Pictures, detentrice dei diritti per ogni trasposizione cinematografica dell’arrampicamuri, gli abbia assegnato il ruolo da protagonista in un film dedicato al multiverso dell’uomo ragno, che negli anni ha visto affiancare a Peter e Miles numerose versioni: alcune particolarmente riuscite come quella femminile Spider-Gwen, altre ironiche come Spider-Ham (alter ego di Peter Porker, un maiale), o Peni Parker, versione mecha/anime del supereroe americano.
Svolgere la trama di Spider-Man: Un nuovo universo è un esercizio complicato, visto il ritmo forsennato e la pletora di meta-riferimenti presenti al suo interno. Come nel fumetto Ultimate, Peter Parker muore eroicamente, sacrificandosi per salvare la sua amata New York. È proprio in questo momento di smarrimento per l’intera comunità newyorkese che emerge la figura di Miles, punto da un ragno modificato geneticamente (e non più radioattivo, come nei post-atomici anni sessanta). Quando il villain Kingping mette a punto un dispositivo per eliminare definitivamente qualunque iterazione di Spider-Man esistente (e recuperare i suoi affetti, ancora vivi, in una delle realtà alternative) in ogni possibile universo, alcuni di questi si ritrovano a formare un bizzarro gruppo di super-eroi, nati e cresciuti in universi paralleli e separati. È difficile individuare un singolo punto di forza in questo film così ricco di spunti innovativi. Possiamo partire dalla qualità delle animazioni che, innanzitutto, si distacca dalla comfort zone dello stile 3D a cui ci hanno abituati Pixar o Illumination per avvicinarsi a uno stile classico ma allo stesso tempo divergente, ispirato fortemente dal disegno a fumetti, con tanto di balloon, didascalie ed effetti visivi “disegnati” (come “il senso di ragno”). Per giunta ogni Spider-Man porta con sé un peculiare stile di animazione, con un pizzico di glitch art, che tanto va di moda nell’arte visuale contemporanea, a fare da collante grafico.
Spider-Man: Un nuovo universo riesce in maniera straordinariamente efficace ad allestire una narrazione che non debba sobbarcarsi il peso delle origini dei personaggi. La storia di Peter Parker, lo Spider-Man canonico, è affidata a un veloce montaggio in apertura che richiama più volte, in chiave ironica, il primo uomo ragno di Sam Raimi (2002). La sua morte serve anche a lasciarsi indietro la pesante eredità cinematografica delle iterazioni che l’hanno preceduto (parliamo di sette film a ridosso di un decennio), in modo da poter istituire una narrazione rinnovata, con Miles Morales protagonista. Questo Spider-Man non è più incentrato sulle responsabilità che derivano “dai grandi poteri”, ma sulle aspettative che derivano dall’adolescenza. Miles Morales è insofferente verso quello che gli altri, in particolare il padre, si aspettano da lui. Il film è soprattutto un bildungsroman ambientato nelle strade di Brooklyn e Manhattan; un film che ci mostra un universo, anzi più d’uno, dove i supereroi cercano il loro posto nel mondo, grazie all’aiuto delle loro stesse versioni alternative.
Nelle mani dei suoi tre registi, Spider-Man: Un nuovo universo mette in scena Spider-Man come una grande figura mitologica della narrazione americana. È ancora un ragazzino timido come quello ideato da Lee e Ditko, con i quali i giovani lettori possono empatizzare, con la responsabilità etica di dover aiutare il prossimo una volta a conoscenza del proprio potenziale. Non importa che sia la versione un po’ appesantita interpretata da Jake Johnson, quella drammatica e ironicamente noir interpretata da Nicholas Cage, o quella assurda ma spassosa in cui è un maiale. Concludendo, Spider-Man: Un nuovo universo risulta entusiasmante perché innovativo, irriverente e dinamico. Esilarante senza sfruttare esclusivamente il registro parodistico, come per esempio Thor: Ragnarok (2017), con un personaggio principale in cui si finisce facilmente per immedesimarsi. Un viaggio cinematico riuscito che probabilmente darà seguito ad altre iterazioni, anche solo per assecondare la curiosità spettatoriale sull’evoluzione di Miles: da ragazzino “dotato di poteri straordinari” in Uomo Ragno. Ma soprattutto, uomo.
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Francesca Maria Fiorella, Enea; il primo profugo.
Questo progetto nasce per mettere in relazione la narrazione mitologica a quella contemporanea e si sviluppa attraverso la storia del viaggio di Enea e quella di S. che, come l’eroe virgiliano, ha lasciato il suo paese e attraversato il mare dalla Turchia per arrivare sulle coste salentine.
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QUANDO VISSERO GLI ULTIMI DINOSAURI?
QUANDO VISSERO GLI ULTIMI DINOSAURI?
Parlare di una estinzione di massa avvenuta 66 milioni di anni fa è molto insidioso. Inevitabilmente, riguardo gli ultimi dinosauri finiamo con il parlare delle nostre personali concezioni e suggestioni, e il risultato è una narrazione più mitologica che storica. Il problema ha molteplici forme, ma quello fondamentale è la scala. Quale fu la vera scala dell’estinzione della fine del…
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Come si potrà intuire già dal titolo, l’argomento non è dei più seri. E nemmeno di quelli governati dal rigore scientifico. Sta di fatto che da qualche giorno a questa parte, dopo l’ondata di attenzione mediatica che ha investito il movimento della Terra piatta, sui social e online rimbalzano un po’ più spesso del solito le argomentazioni di un’altra delle teorie sulla forma del nostro pianeta, quella della Terra cava.
Raccontato in estrema sintesi, il terracavismo è un guazzabuglio di teorie leggermente differenti – e formulate in secoli diversi – che hanno in comune l’idea che il globo su cui viviamo presenti dei buchi all’interno. La Terra sarebbe dunque simile a una sfera, e consisterebbe di una serie di superfici concentricheseparate da spazi vuoti, oppure avrebbe un’unica grande cavità vicina al centro. Queste zone interstiziali, a prescindere dalla loro forma e dimensione, avrebbero la caratteristica di essere abitate, o perlomeno potenzialmente abitabili da creature umane e non.
Dal punto di vista storico, per chi volesse conoscere in dettaglio l’argomento, esiste un bell’approfondimento mitologico-letterario scritto da Umberto Eco nel 2014 e pubblicato sul sito del Cicap. In epoca recente, in particolare, il terracavismo è stato utilizzato più che altro come espediente narrativo per racconti e romanzi di fantascienza.
Che dire, invece, dal punto di vista scientifico? In passato qualche tentativo di formulazione rigorosa della teoria c’è stato, a partire dal Diciassettesimo secolo, ma oggi ovviamente non avrebbe alcun senso aprirne (o meglio, ri-aprirne) un dibattito serio.
Per farla breve, sostenere che la Terra abbia uno o più buchi all’interno significa negare una serie di teorie scientifiche che vanno dalla gravità alla tettonica delle placche, passando anche per svariati elementi base di geofisica e astrofisica, incluse le informazioni che abbiamo raccolto dallo Spazio. Se la Terra fosse un guscio vuoto, ad esempio, la legge di gravitazione ci dice che vivremmo sostanzialmente in assenza di peso, e inoltre il guscio terrestre rischierebbe di collassare verso il centro o di spezzarsi.
Ammettere che il nostro Pianeta abbia più semplicemente delle piccole cavità, invece, significherebbe salvare in calcio d’angolo la gravità e la struttura del pianeta, ma rinnegare molte delle cose che sappiamo (scientificamente) a proposito di composizione interna, struttura e temperatura della Terra. Altre varianti della teoria, come l’idea di un accesso alle cavità attraverso i poli o la forma della Terra concava (che ci collocherebbe sulla parte interna del guscio sferico, anziché all’esterno), sono ancora più immediate da confutare.
Riportando il tema all’attualità di questo decennio, ci sono almeno un paio di spunti interessanti. Il primo, tratto comune a molte pseudoscienze, è che qualcuno ne approfitta per farne dei piccoli business. Per esempio, in vendita si trovano alcuni libri divulgativi in diverse lingue, italiano incluso, che pretendono di affrontare il tema con “significato scientifico”, pur risultando una via di mezzo tra una narrazione mitologica e un romanzo di fantascienza. Non è un caso che spesso in questi testi ci si dichiari contrari “alla scienza ufficiale”, che gli autori si definiscano “liberi ricercatori” e che dicano di aver utilizzato “una ricca documentazione storica e scientifica”.
E facilmente dal mito si sconfina nel complottismo. Se la zona cava acquisisce una precisa collocazione geografica (1250 chilometri di profondità) e una propria struttura cosmica (sarebbe “riscaldata da un piccolo Sole e strutturata in tre continenti”), curiosa è anche la scelta di come popolare quel mondo. Nei tre continenti – Eldorado, Agartha e Shamballah – non ci sarebbero solo i soliti nazisti, vichinghi, alieni, strane creature e i regni di Agartha e di Śambhala, ma anche lo scienziato italiano Ettore Majorana e l’economista Federico Caffè, su cui circolano le più varie leggende.
L’altra questione degna di nota è il raffronto tra terrapiattismo e terracavismo. Paragonabili nel numero di credenti (si può stimare dell’ordine delle migliaia in Italia), sono due movimenti tra loro incompatibili nelle teorie ma tremendamente simili nei modi. Negazione di un’infinità di conoscenze scientifiche acquisite in ambito fisico-astronomico, affidamento a presunti esperimenti privi di valore o a ciò che si intuisce essere vero, argomentazioni basate sul sospetto e sul mistero (per non dire sulla fuffa), e metodi che possono essere tutto tranne che scientifici, chiariscono che Terra piatta e cava sono due manifestazioni di una tendenza unica. Su cui forse vale la pena, nel rispetto della vera ricerca scientifica, di limitarsi a farsi due risate.
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Invito al pensiero di Ricoeur, Ermeneutica biblica
Fino a questo punto ho considerato il modo in cui l'identità narrazione è costruita in un contesto culturale. Ho spiegato come l'identità narrativa sia la conseguenza di un'interpretazione. Passiamo ora a considerare il carattere di identità narrativa plasmato da testi biblici. Dobbiamo chiederci, con Ricoeur: se Dio si rivela nei testi, come il lettore del testo può interpretare la rivelazione, e come forma se stesso grazie alla lettura del testo rivelato? Ricoeur assume che i testi biblici vadano affrontati allo stesso modo di altre opere letterarie: le scritture sono soggette alle stesse pratiche ermeneutiche. Per Ricoeur, il kerygma si trova nei testi nella forma in cui essi esistono: quella relativa a Dio non è una verità che possa essere scoperta una volta che la narrazione mitologica sia stata rimossa. Per Ricoeur l'aspetto unico dei testi biblici non è la loro origine, ma il loro essere riferiti a Dio. Non un Dio rivelato in forma di verità proposizionale, ma rivelato nella testimonianza di coloro la cui identità narrativa è stata modellata dall'incontro con i testi biblici. Ricoeur non offre un unico metodo ermeneutico per l'interpretazione delle Scritture, ma applica diversi strumenti interpretativi a seconda della varietà di generi biblici. Il significato viene trovato tramite la critica storica, le letture strutturaliste e narrative, e la critica letteraria. Inoltre l'autore sostiene che siano possibili letture differenti in diverse circostanze. Egli insiste sul fatto che il suo approccio ai testi biblici è dettato dalla loro natura di raccolta di scritti di diversi generi, con una dinamica interna che comprende l'interpretazione intertestuale. In Essays on Biblical Interpretation Ricoeur elenca cinque forme di discorso, ovvero cinque generi, presenti nella Bibbia: narrativa, prescrittivo, sapienziale, innico e profetico. Egli sostiene che ognuno deve essere considerato olisticamente: il significato non può essere estratto dal testo separandolo dalla sua forma linguistica: i generi letterari della Bibbia non costituiscono una facciata retorica che sarebbe possibile abbattere in modo da rivelare il significato. Al contrario, per Ricoeur sono veicolo irrinunciabile della rivelazione. Ciascuno dei testi biblici deve essere interpretato nei suoi termini e compreso come rivelatore di un aspetto di Dio. Insieme, essi incarnano una forma di rivelazione che è pluralistica, polisemica e che rappresenta un rapporto complesso tra umano e divino. In sintesi, i testi narrativi descrivono eventi che "fanno la storia" e hanno plasmato la comunità. La lettura di Ricoeur dei testi narrativi è stato fortemente influenzata dal lavoro di Gerhart von Rad sulla storia della salvezza, che ha individuato la liberazione degli Israeliti dalla schiavitù come la narrazione fondamentale del popolo di Dio. Ricoeur ha sostenuto che la narrazione fornisce la correzione di altri testi in cui la presentazione di Dio può sembrare monolitica, come nei testi prescrittivi. I brani prescrittivi, espressi in codici legali, chiamano all'obbedienza; mentre, nel contesto narrativo, un nuovo patto funge da dimostrazione che il rapporto tra divino e umano è in evoluzione. I testi sapienziali sono testi della memoria, espressione di una rielaborazione del proprio passato in funzione del proprio futuro. I testi profetici fungono da contrappunto alla narrazione, offrendo una promessa data alla comunità che ha costituito se stessa attorno alla narrazione biblica e che è chiamata a rispondere alla rivelazione attraverso un'azione sociale. Infine gli inni esprimono la risposta degli individui e della comunità a Dio, il Dio che benedice e invita espressioni di gratitudine. Tutti questi generi costituiscono un insieme che Ricoeur identifica come un testo poetico, che rivela una nuova realtà in cui tutti sono invitati a partecipare. Vivere nel mondo narrato dalla Bibbia significa avere fede, significa entrare in un patto con Dio e essere parte di una nuova creazione.
https://www.religion-online.org/book/essays-on-biblical-interpretation/
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Stadio - Grande figlio di puttana - 1982
Pensate che sono un personaggio Leggendario … Mitologico … Straordinari … Eccezionale … Eroico e tanto altro ancora …
Leggendario .. la mia storia è leggendaria come quella di Noe o tanti racconti biblici …
Mitologico .. Appartengo alla narrazione mitologica come quella dei gicanti o delle divinità Greche …
Straordinario .. Sia per la storia che sono un disegno di Dio … Re Messianico … sia per la resistenza a tante avversità …
Eccezionale ... sia perche sono un eccezione sia per lo sforzo che faccio da anni …
Eroico .. Chi segue da più di trenta anni mi ha visto in questa forma come oggi che affronto l’idea pauperistica …
Gianni Perna
Re
Principato di Monaco
Dotto … Sapiente … intelligente …
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#RECENSIONE #VirginSteele (( Through Blood And Fire - singolo ))
Rientrati dall'imponente tour del biennio 1996-1997, i Virgin Steele ai mettono all'opera per realizzare un nuovo album. Le idee sono tante e la voglia di creare qualcosa di fresco e sorprendente è tanta. DeFeis è proiettato con la mente al teatro, facendo tesoro delle sue esperienze di vita, così aggiunge nuove sfumature alla sua musica, che si fa più drammatica e teatrale. La band si getta nella narrazione mitologica, esasperando i contenuti già espressi nei due "The Marriage Of Heaven And Hell", concludendo la trilogia con il capolavoro "Invictus", anticipato dal singolo "Through Blood And Fire", contenente due gemme epiche non indifferenti, nella quali si intravedono le caratteristiche inedite abbracciate dai Virgin Steele. Il singolo, che anticipa di un mese l'uscita dell'album, battezza la seconda parte di carriera della formazione americana, votata alla sinfonia e agli articolati concept mitologici che inaugureranno una dimensione avanzata del concetto di heavy metal. (Andrea Cerasi)
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Il 59° frammento del Mitra Tauroctonos ritorna al Museo Nazionale Romano
ROMA: IL COMANDO CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCE AL MUSEO NAZIONALE ROMANO IL 59° FRAMMENTO DEL GRANDE RILIEVO IN MARMO DEL MITRA TAUROCTONOS Oggi, presso le Terme di Diocleziano, il Generale di Brigata Fabrizio Parrulli, Comandante Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC), ha restituito alla Dottoressa Daniela Porro, Direttore del Museo Nazionale Romano, il 59° tassello del grande rilievo in marmo lunense del Mitra tauroctonos, raffigurante la testa del toro e la mano sinistra del dio. l recupero del brano lapideo ha consentito la ricomposizione definitiva dell’importantissimo rilievo marmoreo (opera databile al II-III sec. d. C.), uno dei più significativi e preziosi fra quelli conservati nella sede delle Terme di Diocleziano del Museo Nazionale Romano, nuovo istituto reso autonomo dalla riforma del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT). L’intervento testimonia, ancora una volta, l’eccellenza dell’operato del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e dei tecnici del MiBACT. L’importante recupero, reso possibile grazie all’azione che il TPC svolge, quotidianamente, nella lotta alla dispersione del patrimonio culturale italiano, è stato recentemente effettuato dai militari del Nucleo TPC di Cagliari, sotto il coordinamento della Procura della Repubblica presso il Tribunale del Capoluogo sardo, nell’ambito di una più ampia attività d’indagine che ha visto il sequestro anche di altri beni culturali. L’attività è scaturita, nel mese di febbraio di quest’anno, da un controllo amministrativo ad un esercizio antiquariale del cagliaritano, durante il quale i militari del locale Nucleo Tutela Patrimonio Culturale hanno notato esposti due frammenti in marmo di verosimile interesse archeologico. I reperti, di cui non sono stati forniti legittimanti dati di provenienza, sono stati quindi sequestrati e posti a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. La Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari, dopo accurato esame, ha giudicato i beni autentici, di sicuro interesse archeologico e riconducibili a maestranze altamente qualificate del II-III secolo d.C.. Considerato il pregio dei reperti, i Carabinieri hanno proseguito le indagini effettuando ricerche sul web e nella Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, gestita dal TPC, con mirate verifiche delle opere riferibili alla rappresentazione del culto del dio Mitra nel mondo antico romano. Durante tali ricerche, l’attenzione di un militare si è concentrata sull’immagine del grande rilievo esposto alle Terme di Diocleziano in cui appariva, in piena evidenza, l’assenza della parte raffigurante la testa del toro e la mano del dio. Una prima sovrapposizione fotografica di uno dei due reperti sequestrati, che rappresentava lo stesso soggetto del tassello mancante al rilievo delle Terme di Diocleziano, con l’immagine acquisita dal web del bene esposto, ha permesso ai Carabinieri di rilevare numerose e significative attinenze formali e stilistiche tali da far considerare plausibile l’appartenenza del frammento al rilievo. I Carabinieri TPC, quindi, si sono messi in contatto con la direzione del Museo Nazionale Romano e con i Laboratori di Restauro ivi presenti al fine di effettuare gli accertamenti comparativi e di pertinenza. A seguito della consegna del brano marmoreo ai suddetti Laboratori, sono stati compiuti alcuni preventivi riscontri ma, soprattutto, si è potuta compiere la cosiddetta “prova provata”, ovverosia la verifica dell’effettiva pertinenza del frammento con testa di toro al grande rilievo con raffigurazione di Mitra. I risultati hanno comprovato – senza ombra di dubbio – che le parti risultavano compatibili, anzi, perfettamente combacianti. Al termine della pulitura e a seguito dell’assemblaggio e successivo incollaggio del brano recuperato dal TPC con il grande rilievo delle Terme di Diocleziano, si è potuto tecnicamente ricollocare il frammento attinente al fregio con raffigurazione del dio Mitra che uccide il toro esposto nelle sale museali delle Terme. Si tratta del 59° frammento di un manufatto straordinario, sia per la qualità dell’esecuzione sia per le vicende che ne hanno consentito la ricomposizione. L’opera acquisisce così non solo un’ulteriore, intrinseca parte, ma anche un importante elemento di rilevante valore nella raffigurazione poiché, proprio in questo frammento, viene a focalizzarsi l’azione saliente della narrazione mitologica. Oggi, quindi, è con viva soddisfazione che il frammento raffigurante la testa del toro e la mano del dio è tornato a far parte del grande rilievo scoperto oltre cinquant’anni fa, a disposizione del grande pubblico e degli esperti che visitano gli splendidi spazi del Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano. Mentre sono tuttora in corso le indagini finalizzate ad accertare la provenienza dell’altro elemento frammentario sequestrato, la posizione giudiziaria di una persona è al vaglio dell’Autorità Giudiziaria per il reato di ricettazione. Il reperto ricomposto ha un valore di mercato stimato in due milioni di euro. CRONACA DEL RECUPERO PRECEDENTE Nel 1964, a Roma, in località Tor Cervara (sulla Via Tiburtina) – durante un’operazione di bonifica da residuati bellici – furono portati alla luce 57 frammenti di marmo lunense che andavano a comporre un grande rilievo. Una volta ricostituito, questo presentava la raffigurazione del dio Mitra che uccide il toro. Purtroppo risultavano mancanti le spalle e la testa del dio e altre parti fra cui il muso dell’animale. Nel 1965, il rilievo fu acquisito nelle raccolte del Museo Nazionale Romano dove fu collocato nelle ‘Grandi Aule’ delle Terme di Diocleziano. Accordi culturali istituiti fra la Direzione Generale per le Antichità e la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, nonché il Badisches Landesmuseum di Karlsruhe (Germania), hanno consentito di comprovare l’ipotesi – avanzata da uno studioso già alla fine degli anni ’80 del secolo scorso – secondo cui un frammento lapideo con volto di Mitra, acquisito per donazione dal Museo di Karlsruhe, fosse pertinente al rilievo da Tor Cervara conservato nel Museo delle Terme di Diocleziano. In occasione della mostra sui culti orientali nell’Impero Romano – allestita nel 2013 a Karlsruhe – è stato materialmente possibile ricongiungere le varie parti poiché tutte presenti contemporaneamente nella cittadina tedesca. L’ipotesi di pertinenza era stata verificata da preliminari studi dimensionali e da prove con calchi, nonché definitivamente comprovata con il posizionamento del frammento di Karlsruhe nel contesto del rilievo del Museo delle Terme. Queste complesse operazioni sono state portate felicemente a compimento grazie ad una proficua collaborazione instauratasi fra gli archeologi ed i restauratori della Soprintendenza con i colleghi del Badisches Landesmuseum di Karlsruhe, i quali tutti hanno congiuntamente collaborato con efficace sinergia. Al termine della mostra – a seguito di accordi culturali stipulati fra il Museo di Karlsruhe e la Direzione e la Direzione Generale di Antichità del MiBACT – il grande rilievo, munito di testa di Mitra, ha fatto ritorno nella sede delle Terme di Diocleziano ove è stato esposto permanentemente al pubblico. Foto: roma.corriere.it Click to Post
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“Faccio di tutto perché il lettore non si annoi. Fin da piccolo ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio di Jack London…”: Ippolita Luzzo cerca di ipnotizzare l’inafferrabile Gianluca Barbera (ergo: Marco Polo)
Marco Polo intorta meglio. Intervista del Regno della Litweb con Gianluca Barbera
Intortare: coinvolgere, compromettere. Imbrogliare, abbindolare, far opera di persuasione per convincere, sembra oggidì di grande attualità. Tutti intortati da fake news, tutti intortati e convinti a urlare, ad essere rabbiosi. Per fortuna esiste un altro modo di intortare ed è quello della letteratura sui viaggi immaginari nei libri, nel fantastico mondo della storia, e quel coinvolgimento ci porta non a urlare ma a vagare felici. Già con Magellano, tra i finalisti del Premio Acqui Storia, e poi con Marco Polo (Castelvecchi, 2019), Gianluca Barbera ci intorta felicemente. La prima domanda è proprio questa. Come e con che lievito si prepara una torta letteraria?
Partirò dal terrore che ho di annoiarmi, nove romanzi su dieci mi tediano terribilmente e siccome voglio bene ai lettori faccio di tutto perché non si annoino, imparino qualcosa (ammesso che si possa insegnare qualcosa agli altri, visto come siamo difettosi noi stessi) e si pongano delle domande. Cerco dunque di creare mondi nei quali farli entrare quasi in uno stato di sogno, di dimenticanza: una dimensione mitica che ci rimanda alle narrazione primigenie, da Omero in poi: perché se la realtà diventa qualcosa di solido contro cui sbattiamo la testa nel presente, nel futuro ciò che resteranno sono le storie, i miti, le narrazioni, perciò io prendo Marco Polo, e alla maniera di Salgari lo faccio incontrare con il leggendario Vecchio della Montagna, capo della setta degli assassini, e vedo che succede; oppure lo trasporto al cospetto della mitologica Arca di Noè, sul monte Ararat, e scateno l’inferno.
Nel Regno Della Litweb Marco Polo è giunto il 30 maggio 2019 raccontandomi tutto con sincerità “A giorni ero atteso in una delle corti più blasonate d’Italia, dove sarei stato accolto come un re d’Oriente, altro che ortaggi! Da lì ripartirò, signori miei, poiché non c’è sviluppo che non sia già in potenza…”. Nel mio regno e da regina ho subito apprezzato il racconto dell’illustre ospite e d’altronde chi ero io a poter dubitare di un racconto? Se una cosa si racconta diventa vera, crediamo ciò in letteratura, e sono diventati veri tanti topos, da L’isola del tesoro al Regno Della Litweb, così veri da interagire e dialogare con personaggi storici veri o presunti tali. Nella delizia del racconto quali sono i topos che amiamo in un racconto? Quali quelli amati da Marco Polo?
Nel romanzo accadono centinaia di cose, almeno un paio ogni pagina, in un vorticoso susseguirsi che sfida la resistenza del lettore: miti pagani, racconti biblici, credenze sufi, teogonie, cosmogonie: e dunque pilastri che reggono templi senza poggiare sul pavimento, brocche di vino che si sollevano dal tavolo e come guidate da un filo invisibile giungono in volo nelle mani degli ospiti a banchetto, montagne che si spostano da sole, laghi nei quali non si va mai a fondo e sulle cui sponde una volta l’anno i pesci si ammassano per lasciarsi pescare, cascate poderose il cui frastuono rende sordi e ciechi, fate morgane ingannevoli, donne dalla pelle dura e dolce le cui carezze non si potranno mai più dimenticare, serpenti rivelatori, fulminee apparizioni come quella dell’araba fenice, ma anche storie legate a Gesù, a Maometto, a Buddha: perché in Oriente (così credevano gli uomini dell’epoca) tutto è possibile e la logica comune non vale più.
Sto leggendo Jonathan Gottschall L’istinto di narrare e lui ci dice a pagina 174 “La narrativa di una vita è un mito personale. Ogni resoconto è una narrativa accuratamente modellata, colma di dimenticanze strategiche e significati abilmente elaborati”. Una storia di vita è una finzione narrativa estremamente utile. Non a tutti riesce però. Ecco perché solo alcuni avranno il privilegio di andare lontano come Marco Polo o Magellano, come Gianluca Barbera o me da regina di un regno che non esiste, senza sfiorare il ridicolo ma convincendo gli altri, certi della costruzione letteraria. È un privilegio, vero? di sicuro un’abilità, costruire storia anche e soprattutto su noi stessi? Pochi riescono vero?
Ciascuno di noi possiede un dono, un talento: si tratta di avere la fortuna di scoprire qual è. Fin da piccolo io ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio del Vagabondo delle stelle di Jack London. Da grande ho cercato di sfruttare questa mia abilità, questo mio dono. Scrivo di ciò che mi riesce bene; e se qualcuno mi chiede di occuparmi di temi che non mi sono congeniali dico di no. Ma lo ripeto: tutti abbiamo un qualche talento, coltiviamo quello senza intestardirci in cose che non ci appartengono
Nel mio blog, nato nel 2012, in modo fortuito e giocando sul nome dal mito la regina delle Amazzoni, sono diventata la regina della Litweb ed è un personaggio che ha vita propria, quel giardino ben coltivato di cui parlava Tabucchi in Dietro l’arazzo. Qui, nel mio blog, Marco Polo è stato letto raggiungendo migliaia di visualizzazioni benché e forse proprio perché anche lui si trova a suo agio in un regno che non c’è. Vero? Così scrivo di lui nel blog “Sembrano Le mille e una notte, sembra Sherazade, sembra mia nonna narrare ogni sera storie lunghissime e che non finivano mai. Chi racconta ha già il potere di tenere incatenati tutti alla storia e questa è la bravura di Gianluca Barbera, del quale voglio leggere anche Magellano, suo precedente libro e atto teatrale interpretato in questi giorni da Cochi Ponzoni, a Milano, con successo. Poco importa se è un Marco Polo in crisi di identità, infatti a furia di narrare la sua storia lui perde i confini fra il vero e il falso e come succede spesso non sa più chi lui sia”. A dir la verità chi potrebbe dire con sicurezza chi lui sia?
Sì, tu hai creato un tuo mondo dotato di solida realtà, così come io ogni volta che scrivo un romanzo invento da capo un nuovo mondo: si tratta di fare in modo che quel mondo immaginario diventi particolareggiato, vivo, reale come quello in cui viviamo quotidianamente. Io cerco di creare mondi nei quali vorrei vivere, mettendo in scena personaggi che vorrei incontrare e situazioni nelle quali vorrei trovarmi: per lo più situazioni da sempre sognate, fin dai tempi della mia infanzia. Anche Stevenson era di questo avviso, anche lui andava in cerca di una tale reinvenzione del mondo: in questo e in molto altro sento di somigliargli. Così come quasi ogni libro che scrivo è un omaggio a Salgàri (anche se Marco Polo è prima di tutto dedicato a mia moglie).
Nel Regno Della Litweb applaudiamo ai bravi per davvero, nel segno di Boezio, nella consolazione della filosofia, nel vero che sarà vero anche in un racconto di dove tutto è possibile e come dici tu “la logica comune non vale più”. Sarà questo fuggire via con Marco Polo, sarà il bellissimo uso del nostro pensiero, come compagno, a non farci diventare monotematici, a non farci diventare sciocche macchine di comportamenti ripetitivi. Evviva dunque lo spazio che tu, Gianluca, abiti ed evviva il nostro regno della fantasia, il regno dove si trova la nostra più bella letteratura. Una letteratura amica. La meraviglia negli occhi di Aristotele e la meraviglia nei nostri occhi. Forti di tutto ciò questi tempi sguaiati non ci avranno. Evviva Salgàri, anche da me amatissimo e riscatteremo Salgàri. Hai letto Demetrio Paolin Non fate troppi pettegolezzi? Ecco noi non facciamo troppi pettegolezzi ma vogliamo di nuovo che i racconti di fantasia, come Marco Polo, siano il balsamo per questi tempi feroci.
Grazie per le belle parole, e ora se mi permetti io scompaio per lasciare il posto a Marco Polo (mio alter ego), che vi verrà incontro, vi prenderà per mano e vi porterà via con lui, in un altro mondo, ad anni luce di distanza. Buona lettura.
E dal Regno della Litweb è tutto. Vado via con Marco Polo
Ippolita Luzzo
*In copertina: una delle rarissime fotografie recenti di Gianluca Barbera, estorta a tradimento
L'articolo “Faccio di tutto perché il lettore non si annoi. Fin da piccolo ho viaggiato nello spazio e nel tempo con la mente, come il personaggio di Jack London…”: Ippolita Luzzo cerca di ipnotizzare l’inafferrabile Gianluca Barbera (ergo: Marco Polo) proviene da Pangea.
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“Faceva acrobazie con il linguaggio, finché fu torturato e ucciso”. La tragica storia di Haroldo Conti, lo scrittore preferito da García Márquez
Fu un simbolo. Poi divenne un totem. Fu Gabriel García Márquez a raccontare al mondo la storia di Haroldo Conti. L’articolo, pubblicato in inglese su El Pais, nel 1981, s’intitolava The last and bad news of Haroldo Conti. García Márquez aveva conosciuto Haroldo Conti diversi anni prima, aveva premiato un suo romanzo, En vida (1971), insieme a Mario Vargas Llosa. A quell’epoca, Haroldo Conti era un simbolo. “Era uno scrittore argentino tra i più grandi della sua generazione”, come scrive García Márquez. Guadagnava con i libri, scriveva sceneggiature. Il 5 maggio del 1976, dopo aver visto al cinema Il padrino. Parte II, con sua moglie Marta, Conti viene arrestato, torturato e più tardi ucciso. La giunta militare guidata da Videla si era insediata con la forza da poco. Haroldo Conti diventa un totem: l’emblema di un’epoca che tragicamente continua a uccidere gli scrittori ‘dissidenti’. Diventa – ce lo ha raccontato Sylvia Iparraguirre su questo foglio telematico – il totem degli scrittori che continuano a resistere alla tracotanza delle falangi militari, che urlavano il nome ‘Haroldo Conti’ come un monito. “Una quindicina di giorni dopo il rapimento”, racconta García Márquez, “quattro scrittori argentini – tra cui i due più grandi – accettarono un invito a pranzo da parte del Generale Jorge Videla. Erano Jorge Luis Borges, Ernesto Sabato, Ernesto Ratti e il prete Leopoldo Castellani. Tutti e quattro chiesero a Videla di risolvere il dramma di Haroldo Conti… Castellani, che aveva circa ottant’anni ed era stato l’insegnante di Conti, chiese a Videla di essere condotto dallo scrittore. La notizia non fu mai resa pubblica, ma pare che Castellani vide Haroldo Conti l’8 luglio 1976, nel carcere di Villa Devoto, in uno stato di tale prostrazione che era impossibile parlargli”. Così spira uno scrittore sotto il calcagno del potere. Ma la sua opera è imperitura e invitta. Il romanzo più grande di Conti, Sudeste (1962), che racconta la storia di un tagliatore di giunchi, il Boga, lungo la foce del Paranà, “questo fiume” che “sembra diabolicamente astuto e torvo, e perfino crudele”, atterra in Italia, troppo tempo dopo. Il libro, che prolunga il genio selvatico di Horacio Quiroga e pare preludere al più contorto dei romanzi di Cormac McCarthy, Suttree, ha una nitidezza epica, una necessità atavica. “La gente di questo fiume somiglia in tutto e per tutto all’uomo che sta osservando le acque con i suoi occhi da pesce moribondo, sospesi sulle acque come due lenti sospese nell’aria. Per questo gli uomini del fiume ancora sopravvivono. Per questo sembrano tanto vecchi, distanti, e solitari. Non è che amino il fiume, ma non possono vivere senza. Soprattutto, sono indifferenti come il fiume. Sembra che capiscano di appartenere a un tutto inesorabile che avanza sotto l’impulso di una determinata fatalità. E non si ribellano affatto. Neanche quando il fiume distrugge le loro capanne, le loro barche, e perfino loro stessi. Anche per questo sembrano cattivi”. Basta questo brano per capire la natura, mitologica, epigrafica, del libro, la sua scrittura cangiante, che si snoda con la stessa paziente furia del fiume. A rendere grazia linguistica a Sudeste, pubblicato, per la prima volta in Italia – l’unico libro di Conti capitato su queste sponde, Mascarò, il cacciatore americano, del 1975, è stato pubblicato da Bompiani nel 1983, con prefazione di García Márquez, ora introvabile – dall’editore Exòrma (pp.218, euro 14,90; sia lode ora ai tenaci, piccoli editori), lo scrittore Marino Magliani (autore, tra l’altro, di libri fuori dal tempo come L’estate dopo Marengo, Quella notte a Dolcedo, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), insieme a Riccardo Ferrazzi. Li abbiamo contattati, per entrare nel carisma linguistico di Conti, il totem.
Haroldo Conti. Pressoché sconosciuto da noi, in realtà un piccolo genio della narrativa sudamericana e argentina in particolare. Ci riassumi per sommi capi la sua biografia.
Haroldo Conti nasce a Chacabuco, nella profonda pampa, nel 1925, docente e innamorato del delta del Paranà, che conosce bene, per averlo navigato a lungo. Autore di romanzi e raccolte di racconti, molto apprezzato da García Márquez e Vargas Llosa, nel 1962 scrive Sudeste e nel 1976, poco tempo dopo il colpo di stato argentino che porta al potere la junta fascista presieduta da Jorge Rafael Videla, viene sequestrato e torturato, ad oggi risulta desaparecido.
1981: Gabriel García Márquez racconta al mondo la tragica fine di Haroldo Conti
“Sudeste”. Cos’è questo libro torbido, amazzonico, mirabile? Con quale lingua l’hai affrontato? Ti sei lanciato nel suo vortice, hai usato una lingua ‘tua’, in qualche modo? Dimmi.
La principale difficoltà che abbiamo incontrato è la grande varietà di registri che Conti usa nell’affrontare la narrazione. Crediamo che sia impossibile rendere fino in fondo certe atmosfere sospese, per esempio nelle descrizioni del fiume, nel primo dialogo con i pescatori o nell’incontro con il Cabecita. Per questo abbiamo dovuto rinunciare a rendere tutte le sfumature, i polisensi, le acrobazie dell’autore: abbiamo lasciato che fosse la parola, il suo significato, a ricreare la magia dell’originale. Ovviamente non è mai possibile restituire con una traduzione tutta la ricchezza del testo, ma crediamo di aver fatto un buon lavoro e di aver reso un servizio all’autore.
Ami di più gli scrittori, per così dire, ‘selvatici’ e che narrano la provincia ‘barbarica’ o gli scrittori che fanno della città il centro della loro osservazione?
Riccardo Ferrazzi: Personalmente sono più attratto dall’esotico. Il mio romanzo preferito è Le avventure di Huckleberry Finn! Ma questo non vuol dire che nella grande città non sia possibile organizzare una storia interessante. Per esempio, la città è il luogo ideale per il giallo. E spero che non mi diate del barbaro se vi dico che, a mio parere, i romanzi di Rex Stout formano una comédie humaine come quella di Balzac.
Marino Magliani: Amo la provincia calma, abbandonata, i mondi narrativi a ridosso. Gli esercizi dell’occhio di Sebald, i solchi delle frontiere biamontiane, la prosa e le passeggiate di Walser, l’ironia di Adrian Bravi.
Gli scrittori che abiti nella traduzione non finiscono per influenzarti? Dimmi il libro più bello che hai tradotto e quello che vorresti tradurre.
Riccardo Ferrazzi: Tutto quel che leggiamo ci influenza. Personalmente credo che, più si nota l’influenza di un autore letto o tradotto, più si tratta di un’influenza superficiale che riguarda lo stile o un paio di argomenti. La vera influenza che esercitano i libri è più profonda e riguarda il senso della vita. Ma questa non traspare, se non a livello filosofico. Il libro più bello è sempre il prossimo. Per me tradurre significa scoprire, e i classici non si finisce mai di scoprirli. Mi piacerebbe tradurre Amleto. Ma anche Il capitan Fracassa.
Marino Magliani: Sono romanziere e naturalmente, in qualche modo, ogni mio libro finisce per farsi trasportare lungo le rive dei libri tradotti. Solo l’acqua non è mai la stessa, melmosa o limpida, certo, potrebbe assomigliare ad altre acque incontrate ma così non è, anche se vista dalla riva inganna, sembra acqua già vista, mentre poi penetrandola, o forse guardando la riva dal centro dell’acqua, tutto appare unico, un mondo mai visto prima, mai narrato. Una grande soddisfazione è di aver tradotto con Riccardo Ferrazzi Sudeste, ma anche Letti da un soldo di Enrique González Tuñon e Ultima rumba all’Avana, di Fernando Velázquez Medina, e mi fermo qui.
Cosa stai leggendo, ora? A che libro stai lavorando?
Riccardo Ferrazzi: Ho letto, e mi è piaciuto molto, L’esercizio del distacco di Mary Barbara Tolusso. In questi giorni, per dovere, sto ricuperando Il lamento di Portnoy. L’avevo tralasciato perché, contrariamente a quanto dichiarano in coro tutti i critici, avevo letto Pastorale americana e non mi era piaciuto. In autunno dovrebbe uscire il mio ultimo romanzo: N.B. un teppista di successo, una biografia romanzata dei primi successi e insuccessi del giovane Napoleone, travolto ed esaltato dalla rivoluzione francese.
Marino Magliani: Sto leggendo le poesie di Giuseppe Cassinelli e correggendo le bozze di un romanzo che si intitola Prima che te lo dicano altri, al quale lavoro da anni. Uscirà a fine agosto.
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