#narrativa speculativa
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pier-carlo-universe · 9 days ago
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Clean - Tabula Rasa di Glenn Cooper: Una corsa contro il tempo per salvare l'umanità. Recensione di Alessandria today
Un thriller distopico che esplora la memoria e la fragilità della civiltà.
Un thriller distopico che esplora la memoria e la fragilità della civiltà. Recensione dettagliata.“Clean – Tabula Rasa”, scritto da Glenn Cooper e tradotto da Barbara Ronca, è un thriller distopico che immagina un mondo sconvolto da un’epidemia globale. Il dottor Steadman, vicino a sconfiggere l’Alzheimer, si ritrova responsabile involontario di un virus che cancella la memoria dell’intera…
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crazy-so-na-sega · 2 years ago
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Chi non ha messo le mani (o gli occhi) su una bella distopia ultimamente? La distopia negli ultimi dieci-quindici anni è diventato un genere accettato dalla cultura mainstream, e l’uso dell’aggettivo “distopico” non spaventa più chi scrive le fascette dei libri o le descrizioni dei film in streaming. Eppure, proprio questa diffusione sembra aver snaturato da una parte il senso della stessa parola “distopia”, rendendolo più vago e sbiadito, un non-genere capace di contenere storie che a ben guardare di distopico hanno poco o nulla. Proviamo a fare mente locale e stabilire cosa si intende per distopia e perché questo termine viene sempre più spesso usato a sproposito.
“Non è solo distopia”
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Con l’evolversi della narrativa commerciale e la codifica di confini tra i diversi generi, la distopia è stata tradizionalmente posizionata all’interno della fantascienza: trattando infatti delle possibili evoluzioni della società, si colloca a buon diritto all’interno di quella narrativa speculativa che cerca di indagare le possibili conseguenze di sviluppi scientifici e sociali. Non sono rari infatti i casi di distopie basate sull’introduzione di particolari tecnologie o sulle conseguenze di innovazioni nei rapporti sociali.
È successo però che alcuni grandi classici della distopia (e la menzione scontata è per 1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451) facessero presa su critica e cultura e finissero così per essere isolati dal più ampio contenitore della fantascienza a cui appartenevano. Per quello strano fenomeno per cui se un libro di fantascienza con qualità letterarie “non è solo fantascienza”, per molti la distopia vive come un genere a sé, forse per la sua più esplicita componente politica che la fa assimilare a letteratura più “impegnata”.
Il peggiore dei mondi possibili?
Ma indipendentemente dalla sua classificazione, quali sono i caratteri fondamentali della distopia? Per essere inquadrata come distopica, una storia deve essere ambientata in un qualche tipo di società distorta, in cui alcuni aspetti poco desiderabili che già si trovano nel mondo sono esasperati e costituiscono la base stessa del potere. Razzismo, sessismo, classismo, fondamentalismo religioso, consumismo, capitalismo, complottismo, scientismo: tutti questi -ismi sono materiale valido per l’impostazione di una società distopica, che di solito prevede l’imposizione di questi valori a tutta la popolazione e un severo controllo affinché nessuno si discosti dai precetti del regime.
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Un’altra caratteristica fondamentale ma spesso trascurata è riassunta dall’adagio “l’utopia di qualcuno è la distopia di qualcun altro”. Questo significa che la distopia deve essere in qualche modo seducente: perché un sistema politico si instauri c’è bisogno infatti che ottenga un certo grado di consenso, e quindi è naturale che una parte (maggioritaria) della popolazione creda nei valori del regime. Una storia in cui l’Impero Del Male, Inc. ha conquistato il potere con la repressione e la violenza e mette a morte chiunque sbadigli non può considerarsi una distopia, perché è evidente che un tale sistema non potrebbe mai avere nessuno dalla sua parte.
Si può obiettare che la storia ha dimostrato che regimi del genere sono stati davvero capaci di arrivare al potere e mantenerlo per anni, ma come sempre la realtà dei fatti è diversa dalla realtà narrativa. Lo scopo di una distopia non è lo stesso del giornalismo d’inchiesta che si occupa di indicare le malefatte dei potenti, ma piuttosto quello di suggerire in maniera più sottile come ciò che per certi versi ci può sembrare giusto e auspicabile potrebbe diventare il cardine di un regime capace di privarci della libertà, magari con il nostro pieno sostegno.
In questo senso, come l’utopia ci mostrava il migliore dei mondi per evidenziare le differenze con il nostro, la distopia ci mostra il peggiore dei mondi per mostrarci le affinità con il nostro.
La distopia è roba da ragazzi
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Le storie young adult sono in sostanza storie di formazione di adolescenti che prendono coscienza del loro ruolo nel mondo. E quindi quale migliore contesto per esplorare l’angst adolescenziale che quello di una società repressiva? La battaglia del giovane protagonista contro il potere costituito rappresenta quella più universale dell’individuo per affermare la propria individualità nei confronti della famiglia e delle pressioni sociali in generale. Non si può quindi condannare come inappropriato il collegamento tra questi due ambiti della narrativa.
Il problema semmai è stata proprio la massificazione di questo tipo di storie, che ha portato inevitabilmente a un ribasso costante nella qualità e nella densità delle opere. Se Hunger Games si può ancora considerare una buona storia distopica, molti dei suoi emuli si limitano a descrivere le avventure di un gruppo di protagonisti in lotta contro un Impero Del Male, Inc. che ha ben poco di accattivante e non si capisce come eserciti il suo potere visto che tiene in prigione metà della popolazione mondiale. In questo caso si assiste spesso a una reductio ad hitlerum, quel cliché narrativo per cui i cattivi sono cattivi sotto tutti i punti di vista, incarnano tutte le peggiori caratteristiche dell’umanità e si configurano come una rappresentazione nemmeno tanto velata del nazismo hollywoodiano. Gli eroi quindi non possono fare altro che combattere visto che è in gioco la loro stessa sopravvivenza, e di conseguenza manca quella componente di seduzione che la distopia dovrebbe esercitare sui suoi cittadini.
Un altro punto di confusione che si ritrova spesso nelle distopie young adult (ma che poi si è diffuso anche a quelle “per adulti”) è la sovrapposizione fra distopia e postapocalittico: se è vero che da una devastazione globale si può innescare un regime distopico, non basta parlare di un mondo in rovina per ottenere la qualifica di distopia. Infatti un asteroide o un’invasione aliena, un collasso climatico o un attacco zombie non si possono considerare come mezzi tradizionali di costruzione di un sistema politico. Possono esserne la causa scatenante, ma non rappresentano di per sé la condizione sufficiente per parlare di distopia, che invece deve essere una scelta cosciente operata da una parte della società.
Se tutto è distopia niente è distopia
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Il problema è che con questo criterio tutto diventa distopia. Poiché non esiste a memoria d’uomo una società perfettamente equilibrata, tant’è che per immaginarle ci siamo inventati appunto l’utopia, va a finire che una qualunque storia ambientata in un qualunque periodo storico o mondo immaginario diventa una distopia. E se tutto è distopia, niente è distopia. Con questa definizione, si potrebbe parlare di distopia anche per X-Files, in cui un governo corrotto nasconde le informazioni ai cittadini; potrebbe essere una distopia Star Wars, perché l’Imperatore ha conquistato il potere e usa la forza per mantenere il controllo; e che dire del Signore degli Anelli, in cui il Signore Oscuro controlla la Terra di Mezzo grazie al potere dell’Anello?
In tutte queste storie è chiaramente presente un livello di conflitto tra gli individui e il mondo di cui fanno parte, ma questo è un elemento di base di qualunque storia. Si potrebbe in alcuni casi dire che certe opere hanno elementi di distopia, così come si può dire che abbiano elementi del thriller o del romance, ma una distopia vera e propria è quella che costruisce la storia proprio intorno all’idea di società disequilibrata in cui il potere si basa su valori distorti.
La distopia del Covid
Negli ultimi mesi la distopia è diventata un trending topic per via delle misure previste per contenere l’epidemia di Covid19. La parola “distopia” così si è affacciata nei titoli dei giornali, nei talk show politici e nei tweet dei capipartito. L’associazione è diventata immediata nel momento in cui le esigenze sanitarie hanno reso necessaria una (discutibile quanto si vuole) limitazione delle libertà personali.
Questo ha portato la distopia nel dibattito pubblico e ne ha ulteriormente snaturato il senso, perché è diventato argomento di attualità e soprattutto di campagna elettorale.
La verità è che, quando mai ci troveremo a vivere all’interno di una distopia, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Anzi, probabilmente saremmo i primi a sostenere l’affermazione di questo Mondo Nuovo che non potrà che portare pace e prosperità.
Di  Andrea Viscusi -6 Agosto 2020
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Membrana di Chi Ta-wei
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«"Godersi la pesca" è un modo di dire cinese che viene da una storia molto antica. Indica un'amicizia speciale tra due persone, che soltanto loro possono capire. Dai, spartiamocela, metà ciascuna, come pegno d'amore!»
“Membrana” di Chi Ta-wei edito in italiano da Add Editore è una distopia taiwanese che è capitata tra le mie cose da leggere perché mi sono innamorata della copertina mentre la osservavo dalla vetrina della Libreria Bodoni di Torino. E devo dire che mi ha molto colpito, perché non me lo ero minimamente immaginato così.
Siamo nel 2100, nella città sommersa di T. L’umanità è migrata in fondo al mare per sfuggire ai devastanti cambiamenti climatici e il mondo, dominato da potenti conglomerati mediatici, si basa sullo sfruttamento del lavoro degli androidi. Momo, famosa estetista della pelle, conduce una vita introversa e nostalgica. Ha una ferita con cui fare i conti: la madre, da cui è separata da oltre vent’anni, si ripresenta nella sua vita innescando un percorso di esplorazione di sé che metterà in dubbio la sua stessa esistenza, la natura del proprio corpo e la sua identità di genere. Il processo di trasformazione, mutamento e reinvenzione che investe Momo pone questioni radicali, al punto da chiedersi se gli esseri umani siano ancora padroni della propria memoria e del proprio futuro. Pubblicato a Taiwan nel 1995, Membrana è un classico della narrativa speculativa in cinese. Chi Ta-wei, con talento predittivo, immagina la saturazione provocata dai social media e il monitoraggio corporeo, intrecciandoli a temi distopici come il dominio della tecnologia e dei regimi capitalisti.
Adoro leggere distopie fin da ragazzina quando mi è capitato per le mani per la prima volta “1984” un po’ perché mi piace immaginare il futuro e un po’ perché mi rendo conto che abbiamo bisogno di moniti, di esperienze che ci fanno riflettere, di possibilità. Restiamo a guardare inerti noi che ci complichiamo la vita ma non siamo capaci di riconoscere i segnali di pericolo. Chi Ta-wei immagina un mondo che si sviluppa sotto il mare perché l’atmosfera terreste è diventata irrespirabile e fa parlare Momo, una estetista famosissima che cura la pelle nel suo centro estetico esclusivo e conduce una vita ritirata ed esclusiva che indulge il suo essere timida ed introversa. Tutta la sua vita è una risposta incredula e brutale ai comportamenti della madre. Dai suoi primi ricordi alla sua vita adulta da venticinquenne, tutta la sua esistenza è una domanda, un dubbio, una esplorazione. Momo si interroga, ogni volta che ha un momento per riflettere. Che cosa è successo? Che cosa c’è dietro il suo lavoro? Dove è sua madre? I suoi successi sono solo i passi per liberarsi dall’interesse morboso della sua genitrice o un modo per attirare la sua attenzione. Momo è una ragazza che ha successo, che ha studiato con impegno, che ha superato una fase difficile della sua infanzia e ne è uscita più forte. Momo esplora la sua natura e la sua solitudine, rapportandosi anche a una delle sue clienti, una giornalista che le racconta che cosa succede nel mondo, che la interroga e le offre gli strumenti per darsi delle risposte. Ogni episodio che le torna in mente rappresenta un aspetto da studiare. Ricorda la madre e scopre sé stessa. Ha paura di essere abbandonata, ha paura di non riconoscersi, ma allo stesso tempo ha paura di mischiarsi con gli altri, ha paura di prendersi cura di qualcun altro che non sia se stessa. Momo è fragile ma allo stesso tempo capace, è inquieta, ma piena di sollievo. Non c’è solo il lavoro e il rapporto un po’ antagonista con la madre, ma questo libro è anche pieno di amore, quello della madre per la figlia, quello tra due innamorati, quello di amicizia, quello che devasta ogni prospettiva. E se di Momo veniamo a conoscenza di mille sfumature non sappiamo molto della città sommersa di T, non sappiamo molto di questo 2100 confezionato per noi. I dettagli non sono molto importanti, ma le domande si affastellano durante la lettura per essere tutte risolte nel finale. È come se mano a mano che la lettura procede, la spirale in cui cade Momo avvolga anche il lettore. I confini si fanno labili e le accuse rivolte allo spazio ristretto in cui si muove la ragazza si fanno anche di chi guarda impotente. È di fatto un racconto molto intimo, nutrito della realizzazione che non serve inventarsi che atmosfere per interrogarsi su se stessi. Ma le domande non bastano e le fasi di stallo vanno risolte e il confronto non sempre porta le risposte che vogliamo e ci immaginiamo.
Il particolare da non dimenticare? Un cagnolino…
Una membrana è un involucro e una protezione e la storia di Chi Ta-wei esplora entrambe le accezioni della parola, Momo è protezione e contenimento, è una forza dirompente e una serie di riflessioni ben calibrate, calate in una atmosfera incerta e oscura che rendono la lettura ancora più interessante e unica.
Buona lettura guys!
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queerographies · 2 years ago
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[Membrana][Chi Ta-wei]
Membrana di Chi Ta-wei è un romanzo visionario e sublime che si distingue per l’estetica cyberpunk e i temi queer e trans. Un classico della narrativa speculativa in cinese.
Siamo nel 2100, nella città sommersa di T. L’umanità è migrata in fondo al mare per sfuggire ai devastanti cambiamenti climatici e il mondo, dominato da potenti conglomerati mediatici, si basa sullo sfruttamento del lavoro degli androidi. Momo, famosa estetista della pelle, conduce una vita introversa e nostalgica. Ha una ferita con cui fare i conti: la madre, da cui è separata da oltre…
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frontedelblog · 3 years ago
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Chi era Jack lo Squartatore? Il mistero in un thriller - Un capitolo in esclusiva
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Chi era Jack lo Squartatore? Il giallista Rino Casazza ne romanza i delitti negli ultimi suoi due thriller apocrifi su Sherlock Holmes, in cui il grande investigatore viene affiancato da Auguste Dupin. Su Fronte del Blog un capitolo in esclusiva. E i video sulla ricostruzione storica dei fatti: un dialogo tra Rino Casazza e Gian Luca Margheriti, autore de "Lettere dall'inferno: la vera storia di Jack lo Squartatore"   Ancora per pochi giorni in edicola per I gialli di Crimen "Sherlock Holmes, Auguste Dupin e la fine dello Squartore", disponibile in cartaceo sul sito di Teaserlab , e in digitale per Algama. Per l'occasione, due video in cui, con il contributo di Gian Luca Margheriti, esperto della vicenda di "Jack lo Squartatore", cui ha dedicato il saggio "Lettere dall'inferno: la vera storia di Jack lo Squartatore", vengono sviscerate le soluzioni avanzate dal 1888 ad oggi ad uno degli enigmi più appassionanti, ancora irrisolto, della storia del crimine: l'identità serial killer che alla fine dell'800 seminò il panico nei quartieri popolari di Londra con i suoi delitti efferati. Di seguito un capitolo in esclusiva di "Sherlock Holmes, Auguste Dupin e la fine dello Squartatore", che propone una soluzione in chiave narrativa   https://www.youtube.com/watch?v=O-RxDnx9gMQ&t=2848s   https://www.youtube.com/watch?v=HQFhWjbX4xA&t=37s   DA; SHERLOCK HOLMES, AUGUSTE DUPIN E LA FINE DELLO SQUARTATORE   Le fatiche di Robinson: gli appostamenti non finiscono mai Londra, Berner Street, 22 ottobre 1888, ore 22. Albert Robinson stava sperimentando per la prima volta la fatica dell’investigatore. Fino ad allora era abituato troppo bene per aver partecipato solo alle indagini del Cavaliere di quarant’anni prima. Nei tre casi più famosi, il suo amico era giunto alla soluzione per via speculativa, senza doversi sporcare le mani. Nell’inchiesta sui delitti della Rue Morgue, si era limitato a interpretare interrogatori e sopralluoghi svolti dalla polizia. Per la sparizione e alla morte di Marie Roget, aveva ricostruito i fatti basandosi su resoconti giornalistici. Quanto all’indagine sulla lettera rubata, ne era venuto a capo grazie ad una sottile conoscenza della psicologia umana. Negli anni successivi, prima di laurearsi e tornare negli Stati Uniti,  Robinson aveva affiancato il suo amico in un’altra decina di indagini di minor risonanza. Tutti casi  in cui i committenti avevano preferito incaricare Dupin, oramai divenuto celebre, bypassando la polizia.  Lui  e il Cavaliere avevano dovuto lavorare su un terreno vergine, raccogliendo da soli le prove necessarie alla soluzione. Tuttavia questa parte operativa, senz’altro la più noiosa, non aveva richiesto  grande dispendio di energie. In prevalenza si era trattato di colloqui con le persone coinvolte. Più raramente, di osservazioni dirette. Il metodo investigativo del suo amico  era basato essenzialmente sulla riflessione. Spesso, gli aveva sentito dire che la logica era  “connaturata alle cose”. Non era necessario conoscere in dettaglio i fatti per capire come si erano svolti, bastava afferrarne il senso profondo. L’inchiesta sullo “squartatore” era la prima in cui avevano avuto bisogno di procurarsi, con impegnativi sforzi, tutta la materia su cui esercitare la parte intellettuale del lavoro di detective, quella che il suo amico chiamava “interpretazione analitica”. Non poteva essere diversamente, visto che l’indagine doveva svolgersi in totale incognito. Robinson  incominciava a mettere in dubbio quel proposito. Forse sarebbe stato meglio unire le forze con la polizia. In  difficoltà come essa era, avrebbe accolto con favore la loro collaborazione. Avrebbero così avuto accesso a molte informazioni utili ora precluse ma soprattutto avrebbero potuto valersi, per  il "lavoro sporco" finora destinato a lui e a Watson, di adeguati rinforzi. La replica di Dupin era stata secca:  «Assolutamente no, Albert.  La polizia è, e continuerà ad essere chissà per quanto tempo, d'intralcio ad una efficace investigazione» Robinson aveva preso atto di quel diniego, anche se, sapendolo condiviso da Holmes,  gli rimaneva il sospetto che i due detective non ne volessero sapere di uscire allo scoperto perché consideravano affar loro  quell'inchiesta. Dopo le laboriose  indagini retrospettive sui primi delitti, erano venuti i lunghi e monotoni appostamenti notturni, e poi la ricerca, altrettanto complicata, del  "poliziotto assassino" e del "falso testimone". Per la verità Robinson, convinto che gli fosse toccata la pista decisiva, confidava che questa fase dell'inchiesta  si concludesse presto con successo. La fatica nel rintracciare Alfred Long non lo aveva disturbato più di tanto. Stabilito che quest'ultimo non era il maniaco, il colpevole non poteva che essere l'altro poliziotto. Purtroppo, indagare sull' agente William Smith  si era rivelato tutt'altro che semplice. Watson si doleva delle difficoltà che incontrava a chiarire la posizione di Israel Schwartz, ma lui stava penando ancora di più. Eppure era partito col piede giusto. Prima di congedarsi  da Alfred Long aveva approfittato della familiarità creatasi tra di loro per chiedergli dove poteva rintracciare Smith. Non c'era nulla di strano se anche questi, primo membro della polizia richiamato sul luogo del delitto di Berner Street,  suscitasse l'interesse di uno straniero "cacciatore di autografi" di poliziotti in prima linea nella caccia allo squartatore. Long l'aveva accontentato di buon grado. Non conosceva Smith personalmente, ma sapeva che, dopo aver prestato servizio a Withechapel ovest, lo avevano assegnato a Spitafield. Un ottimo inizio. Il perimetro della ricerca era ristretto. La foto di Smith era nota, per cui contava di intercettarlo facilmente girando per Spitafield. Si illudeva. Questo quartiere, sede del più grande mercato dell'East End, era un vero porto di mare. Dopo tre giorni di inutile girovagare, il problema di accelerare la ricerca si era ripresentato. Il Cavaliere e Holmes continuavano a predicare pazienza, ma Robinson non condivideva il loro attendismo. Checché ne dicessero,  più i giorni passavano e più il rischio di un nuovo delitto aumentava.    Dovevano assolutamente evitare il sacrificio di un’altra poveretta. Era anche vero che che questa volta esporsi era più pericoloso che nel caso di Alfred Long. Avendo a che fare col vero "squartatore", il pericolo che si accorgesse di essere sotto osservazione era più grande. Poi, il caso lo aveva favorito. Mentre passeggiava per il mercato, gli era giunta all'orecchio  la voce squillante  di un giovane venditore che invitava il pubblico alla sua bancarella in modo inconfondibile: "qui per voi i fiori più belli dell'East End: piacciono anche a Jack!!” Costui corrispondeva inequivocabilmente alla descrizione che Watson aveva fatto del  figlio di Mattew Packer. Quel ragazzo così sveglio dopo aver aiutato il dottore poteva dare una mano anche a lui. Si era avvicinato alla bancarella e, seguendo l’esempio dell’aiutante Holmes, aveva attaccato discorso  chiedendo il perché di quel curioso richiamo. Sperava che il giovane Packer, frequentando il mercato di Spitafield, sapesse come rintracciare in quel quartiere il poliziotto, di certo a lui noto, che aveva, come il padre, visto lo “squartatore" a passeggio con Liz la lunga per Berner Street. Robinson aveva fatto centro. Il giovane Packer gli aveva rivelato di aver incontrato l'agente Smith nella zona tra Clavin Street e Quaker Street. Inoltre, sapeva, attraverso il genitore, che il poliziotto abitava in Bishopgate Street, era vedovo e aveva un figlio di una trentina d'anni, che lavorava al porto. Il luogo di residenza di Smith e la sua situazione famigliare ne facevano un candidato ideale come “squartatore”. Da Bishopsgate Street avrebbe potuto agevolmente raggiungere tutti i luoghi dei delitti, all’insaputa del figlio. Conducendo vita autonoma, i due dovevano essere abituati alle reciproche assenze da casa. Robinson pensava di aver fatto un grande passo avanti, ma ben presto si era accorto che non era così. Innanzitutto, con una certa sorpresa, sia Holmes che Dupin non avevano attribuito un’importanza decisiva alle sue scoperte su Smith. E dire che lui si aspettava addirittura di essere affiancato, per intensificare le indagini su costui, anche da Watson. Di fronte ad una svolta tanto significativa, era del tutto naturale concentrare le forze. «Hai lavorato molto bene, Albert» aveva detto il Cavaliere  «ma bisogna riconoscere che Israel Swartz continua ad avere tutte le carte in regola come “squartatore”. «Io andrei oltre.» aveva rincarato Holmes  «Swartz è molto più sospetto di Smith. » «Non direi proprio.» aveva obiettato Robinson «Swartz si espone fin troppo nella sua testimonianza. Tutti quei dettagli sul comportamento dell’omicida e della vittima… E poi riferire la presenza sul posto di un’altra misteriosa persona… Se l’assassino è lui, gli sarebbe convenuto mantenersi sul vago, come ha fatto Smith sostenendo di aver incontrato due persone che passeggiavano tranquillamente...» «Se per questo, il racconto di Swartz » aveva chiosato il Cavaliere «risulta più credibile proprio perché elaborato.» Insomma: Robinson aveva dovuto fare di nuovo  i conti con l'estrema e persino eccessiva cautela dei due capi della “squadra”, che non intendevano abbandonare nessuna delle due piste. Tutto sommato, poco male. Poiché rimaneva convinto che Smith fosse il giusto bersaglio,  si trattava solo di trovare la maniera migliore per incastrarlo. Adesso che sapeva la via dove abitava, la prima cosa da fare era scoprire l'indirizzo esatto, concentrandosi  nel raccogliere informazioni su di lui nei dintorni di casa. Qualcosa di sicuro sarebbe dovuto venir fuori. Impossibile che, mettendola sotto stretto controllo, l'apparenza normale del maniaco  non mostrasse crepe. Dupin e Holmes avevano approvato, raccomandandogli ancora una volta di muoversi coi piedi di piombo. Nessuno doveva accorgersi che lui si era messo alle calcagna dell'insospettabile poliziotto. Be', fino ad allora non li aveva delusi, e riteneva di poter continuare a dare buona prova di sé. Che né William Smith né la gente di Bishopgate Street avessero avuto modo di sospettare di lui, era  assolutamente certo. Solo che ciò non dipendeva dalla sua abilità. Non ce n'era stato il tempo. Dopo un paio di giorni inconcludenti in cui aveva dubitato che la fiducia in lui fosse mal riposta, era giunto un inatteso controordine. Quello per cui adesso era in tutt'altra parte di Londra a far la posta al  vero sospetto. Colui che secondo il Cavaliere era lo "squartatore". Rino Casazza Guarda gli ultimi libri di Rino Casazza – QUI Read the full article
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lordmax10 · 3 years ago
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I 17 generi più popolari in narrativa
Come cambiano di nome fra inglese e italiano
Romance -> Rosa Action-Adventure -> Avventura Science Fiction -> Fantascienza Fantasy -> Fantasy Speculative Fiction -> Fantascienza speculativa Suspense/Thriller -> Thriller Young Adult -> Young Adult New Adult -> New Adult Horror/Paranormal/Ghost -> Horror Mystery/Crime -> Giallo Police Procedurals -> Giallo Historical -> Storico Westerns -> Westerns Family Saga -> Soap opera Women’s Fiction -> Troppo recente, non c'è una codifica ufficiale Magic Realism -> Fantastico Literary Fiction -> Non di genere o mainstream
E ricordate che i generi sono categorie merceologiche, non esistono libri non di genere e non esistono libri con un solo e unico genere... tranne i mainstream che sono talmente noiosi e insulsi da non averne nemmeno uno
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The 17 Most Popular Genres In Fiction – And Why They Matter
We have put together a list of the 17 most popular genres in fiction to help you with your writing.
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levysoft · 4 years ago
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Il world building, cioè l’arte o la tecnica di costruire pianeti immaginari o virtuali, è una disciplina che ormai non appare più così bizzarra come in passato. Se il primo a formalizzarla è stato forse l’autore di Dune, Frank Herbert (il saggio “come si costruisce un mondo” appare nell’introduzione di Messia di Dune, secondo romanzo del suo famoso ciclo), la pratica di costruire mondi ha interessato nel corso degli anni sempre di più narratori di tutti i generi: dagli autori di serie e saghe tv, creatori di videogiochi e giochi di ruolo, curatori del look and feel di catene di negozi e così via, tanto che al giorno d’oggi esistono veri e propri corsi universitari su questa pratica.
I tempi quindi sono maturi perché Netflix estragga dal suo iperprolifico cilindro una docufiction che sembra in effetti un po’ un esercizio di stile sul world building. Così è successo.
L’arrivo di Mondi alieni
Con Mondi alieni, infatti, lo spettatore viene trasportato su alcuni pianeti immaginari ma nel complesso verosimili dove animali, vegetali e funghi extraterrestri di vario tipo mangiano, si mangiano, si riproducono e insomma fanno la loro vita. Per quanto sia ovviamente un esercizio di astrazione, Mondi alieni cerca di rimanere sempre nell’ambito della plausibilità o per lo meno della possibilità scientifica, tanto è vero che a metterci la faccia e a introdurre la serie è Didier Queloz, premio Nobel per la fisica nel 2019 e scopritore del primo esopianeta.
Per ognuno dei 4 pianeti esaminati (uno a puntata), viene messa in evidenza una differenza sostanziale con la nostra Terra. Una massa maggiore, la maggior vicinanza alla propria stella, la rotazione attorno a due stelle invece che a una e una diversa età del sistema stella-pianeta. Questa caratteristica di base porta inevitabilmente, dal punto di vista astronomico, a delle conseguenze notevoli e spesso inaspettate: ad esempio, il pianeta Janus è così vicino al suo sole da non potere ruotare su se stesso, motivo per cui avremo una faccia rovente e una faccia gelida (e la vita si svilupperà perciò, in condizioni proibitive, soprattutto nella zona intermedia, del crepuscolo, tra le due facce del pianeta).
Su Atlas la gravità è così forte invece da rendere l’aria più densa e più difficile da penetrare per i numerosi organismi volanti. Nella puntata riservata a Terra parlare di un pianeta molto vecchio diventa un espediente per parlare di civiltà estremamente sviluppate (che sembrano strizzare l’occhio al classico della hard science fiction Incontro con Rama).
L’operazione non è nuova, anzi sembrerebbe quasi uno standard della comunicazione scientifica speculativa: l’astronomo statunitense Neil Comins già nel 1993 aveva pubblicato una serie di saggi sulle conseguenze dell’alterazione di un parametro (il libro si chiamava significativamente What if the moon didn’t exist) e qualcosa del genere veniva fatto periodicamente, qualche anno fa, su pagine illustrate di Focus che proponevano una terra con una maggior forza di gravità, con più ossigeno e così via.
Basta un solo cambiamento
L’operazione è però, in Mondi alieni come nei saggi di Comins, interessante perché fa riflettere su quali radicali conseguenze si hanno anche con il cambiamento di un solo parametro. Inoltre, la docufiction di Netflix rinuncia a voler stupire a tutti i costi presentandoci miriadi di animali diversi: viceversa si concentra solo su un numero limitato di specie del pianeta (non è dato sapere se siano le uniche esistenti), evidenziandone più che le singole caratteristiche le interazioni preda predatore e/o i cicli vitali.
Per ogni pianeta quindi ci verrà presentata al massimo una manciata di creature a cui non vengono dati improbabili nomi esotici, ma che vengono definite dalla voce narrante in base alle loro caratteristiche (i pascolatori, i predatori, ecc.). La sfida più complessa di Mondi alieni è mantenere l’interesse dello spettatore verso animali che, in assenza di una vera e propria narrazione, devono sembrare abbastanza strani da essere interessanti ma al contempo abbastanza familiari da poter creare empatia.
Insomma, è interessante vedere una specie di granchio grande come un gatto ma con 5 piedi e 10 occhi mangiare altre bestioline in assenza di una storia, di una linea narrativa? E’ interessante seguire la routine di animali che non esistono senza che prima o poi succeda qualcosa che non sia un quotidiano inseguimento preda/predatore a rompere l’equilibrio? Difficile giudicare se questo avvenga effettivamente e forse anche la presenza di soli quattro mondi e quattro puntate serve a non rendere stucchevole e ripetitivo un prodotto che, sebbene ben confezionato, è nel complesso un esperimento.
Docufiction, è il tuo genere?
La docufiction non è per tutti, ma in molti casi è la presenza di una narrazione forte – come accade nei film fantasy o di fantascienza – a potenziare un senso di meraviglia nello spettatore che qui tutto sommato si prova un po’ di meno. Eppure ci si salva dalla noia o dall’effetto straniante di passare del tempo a guardare una serie di documentari su mondi che non esistono grazie a un espediente intelligente: tutte le puntate infatti presentano un continuo ping pong tra il nostro pianeta e il pianeta alieno esaminato.
Ecco allora che Mondi alieni diventa quasi una scusa per parlare anche di luoghi della Terra estremi e di estrema bellezza, talvolta poco conosciuti (e fotografati magnificamente) e per mostrarci animali estremofili o dai comportamenti particolari o da alcune caratteristiche assolutamente peculiari.
Il messaggio che passa allo spettatore è che la vita sembrerebbe attaccarsi ostinatamente un po’ dappertutto e che la vastità dell’universo potrebbe racchiudere sorprese al di là di ogni umana immaginazione, oltre che – tristemente – possibilità di analisi (allo stato delle conoscenze attuali appare difficile riuscire a conoscere molto di un eventuale mondo abitato, tanto meno comunicarci).
In conclusione una serie non per tutti ma che ha un certo fascino: se sia un esercizio di stile o l’inizio dello sdoganamento al grande pubblico del world building lo scopriremo probabilmente solo tra qualche tempo. Intanto i commenti di critica e pubblico globalmente sono positivi e molto spesso emerge la lamentela che i pianeti fossero solo quattro. Un po’ di curiosità di vederne qualcun altro, in effetti, ci è venuta.
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carmenvicinanza · 4 years ago
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Margaret Atwood e il femminismo distopico
Margaret Atwood è una poeta, scrittrice e ambientalista canadese. Critica letteraria e attivista femminista. È forse la scrittrice vivente di narrativa e fantascienza (meglio narrativa speculativa) più premiata. Estremamente prolifica, ha pubblicato oltre venticinque libri tra romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini/e e saggi. Ha scritto sceneggiature per la radio e la televisione canadese. Più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura. Il suo libro più famoso è Il Racconto dell'ancella da cui è stata tratta anche una serie tv. Il suo genere è la distopia femminista più che la fantascienza.
#unadonnalgiorno
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lafinestrarotta · 7 years ago
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Generazione 90210 (2/3)
Tuttavia, qualcosa cambia verso la fine del decennio, più o meno in concomitanza con l’attacco epilettico del Fenomeno prima della finale allo stadio Saint Denis di Parigi nel 1998. Al cinema esce Matrix e la gente inizia a chiedersi quale sia la realtà, anche perché nel frattempo il NASDAQ raggiunge nuovi massimi storici per poi iniziare a crollare nell’autunno del 2000. Come avrebbe cantato J-Ax qualche anno dopo in Meglio prima, Clinton suona il sax mentre aerei americani bombardano il Kosovo ed il trio Liga-Jova-Pelù denuncia gli orrori della guerra con Il mio nome è mai più. 
Con la bolla speculativa delle dot-com finisce un’epoca: persino Dominic Toretto, interpretato da Vin Diesel, scappa all’FBI, ma solo grazie al tradimento di Brian O’Conner (Paul Walker), New York viene ferita dall’attacco alle torri gemelle ed il nuovo Presidente George W. Bush lancia la campagna Enduring Freedom, più o meno in concomitanza con l’entrata della Cina nell’ Organizzazione Mondiale del Commercio e con il varo dell’euro. I nuovi nemici dell’occidente sono localizzati un po’ in Afghanistan, un po’ in Iraq: non c’è più un muro, una cortina di ferro, ci sono confini imprecisi che dividono il bene e il male; si inizia a parlare del pericolo delle armi chimiche, del terribile regime iracheno di Saddam Hussein, delle atrocità commesse dai talebani (gli stessi che per 10 anni avevano tenuto testa ai sovietici, anche grazie al supporto degli Stati Uniti). Schwarzenegger salva John Connor  (ma non l’umanità) per l’ultima volta per poi dedicarsi alla politica mentre Alan Greenspan riesce nell’impresa di creare una bolla ancora più grossa della dot-com, peraltro senza che alle sue spalle vi sia una qualche innovazione sul piano dell’offerta: “un’orgia di consumi”, così il premio Nobel Vernon Smith definirà qualche anno dopo la bolla dei mutui subprime.
Cambiano gli eroi, cambiano i punti di riferimento. Un Ronaldo rattoppato riesce a trascinare il Brasile al quinto titolo mondiale titolo, mentre Maurice Greene non riesce a migliorare il suo 9.79 nella finale dei Mondiali di Atletica ad Edmonton in Canada a causa di un infortunio che lo frena negli ultimi 10 metri, Marion Jones viene clamorosamente battuta dalla Pintusevyč per poi essere inghiottita dallo scandalo doping assieme a Tim Montgomery; persino Michael Jordan non convince con il suo ritorno sul parquet. Solo Lance Armstrong sembra in grado di portare avanti l’idea di invincibilità tipica degli anni ’90: (vincendo 7 tour de France consecutivi; poi revocati), mentre un giovane Michael Phelps fallisce alle Olimpiadi di Atene il primo assalto ai 7 ori di Mark Spitz. Al cinema le cose non vanno meglio: il generale diventato Gladiatore Massimo Decimo Meridio e Alonzo Harris (il quale alla fine di Training Day non si redime) muoiono, mentre Frankie Dunn è costretto dalla propria coscienza ad uccidere Margaret “Maggie�� Fitzgerald (Million Dollar Baby). Steven Seagal è ingrassato oltre misura, Rocky Balboa è inevitabilmente invecchiato anche se riesce a fare l’ultimo incontro della vita e ad uscirne come vincitore morale. Forse è proprio una battuta pronunciata da Sly a racchiudere l’essenza dell’era Bush: “Il mondo non è tutto sole e arcobaleni, è davvero un posto misero e sporco e per quanto tu possa essere forte, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante quanto duro colpisci, l’importante è come sai incassare ed andare avanti”.
Insomma, quando il 15 settembre 2008 il NASDAQ crolla, il mondo non ha più lo stesso mood di dieci anni prima. Servono nuove armi monetarie e fiscali sempre più potenti, in linea con il pensiero keynesiano la coppia Bernanke-Carney prima e Mario Draghi poi non si fanno pregare nell’inseguire il Giappone nella vana ricerca di un rilancio dell’economia per mezzo della stampa di denaro. Intanto al posto di Bush si è insediato alla Casa Bianca il primo presidente afroamericano: Barack Obama, simbolo di nuova potentissima narrativa, quella della “speranza”, dello “yes, we can” che trova terreno fertile in un occidente smarrito di fronte ad una crisi che molti paragonano a quella del 1929. Al cinema spopola il commovente The Wrestler con la magistrale interpretazione di Mickey Rourke, e l’altrettanto commovente colonna sonora firmata da Bruce Springsteen. Randy “The Ram” Robinson simboleggia gli sconfitti dalla crisi economica, coloro che vivono il presente pensando alla gloria vissuta in passato. Nel 2009 il mood è comunque meno cupo (anche perché nel frattempo, a partire da marzo, la borsa americana sta già recuperando): la colonna sonora dell’estate è I gotta feeling dei Black Eyed Peas mentre al cinema il trio Phil-Stu-Alan imperversa per le strade di Las Vegas in Una notte da leoni.
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pangeanews · 5 years ago
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“I libri di fantascienza sono solo un cono gelato”. William Gibson, quello di “Neuromante”, esce con un nuovo romanzo. Intervista
Guru del cyberpunk, William Gibson pubblica “Neuromante” nel 1984 – fu uno, tra i rari, di quei ‘romanzi-manifesto’ che spostano di un fiato la narrativa. “Johnny Mnemonic” era uscito tre anni prima. Gibson festeggia quasi 40 anni di attività letteraria con un nuovo romanzo, “Agency”, che uscirà nel mondo anglofono il prossimo 21 gennaio. La trama – che dipende in parte dal libro precedente, “The Peripheral”, passato in Italia, per Mondadori, come “Inverso” – è, come di norma in Gibson, piuttosto complicata. C’è una protagonista, Verity Jane, che crea app con chiaro talento; c’è una intelligenza artificiale, Eunice, “che disarma per la sua umanità”; c’è il mondo di oggi, lievemente distorto (negli Usa domina Hilary Clinton) e c’è la Londra del XXII secolo. In attesa della traduzione italiana, abbiamo shakerato due interviste, rilasciate da Gibson al “Guardian” e al “New York Times”, cogliendone gli highlights.
*
“Interfaccia”: una parola meravigliosa. “Quando ho scritto Neuromante non sapevo nulla di tecnologia. Letteralmente nulla. Quello che ho fatto è stato decostruire la poetica del linguaggio delle persone che già stavano lavorando in quel campo. Stavo nel bar di un hotel che ospitava una convention di programmatori di computer. Parlavano del loro lavoro. Non capivo assolutamente cosa stavano dicendo. A un certo punto qualcuno usò la parola interfaccia. Sono svenuto. Mi sono detto, ca*zo, questa è una parola! Davvero, poeticamente, è stato meraviglioso”.
La fantascienza è un cono gelato. “Ogni finzione che preveda il futuro è come un cono gelato: si scioglie mentre si avvicina a quel futuro preconizzato. Diventa archeologia ogni secondo che passa. Neuromante, infine, verrà letto per ciò che dice al futuro del passato. La fantascienza, infine, diventa vintage. Anche la mia. L’ho sempre saputo, e trovo delizioso sapere che sto lavorando ogni giorno a qualcosa che ha il destino di diventare arcaico”.
Il romanzo più bello: Meridiano di sangue. “L’esperienza di lettura ideale, per me, non prevede interruzioni. Da adulto, l’esperienza in questo senso più memorabile è stata la lettura di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Ho iniziato a leggerlo in taxi, a Vancouver, sulla via per l’aereoporto, era il 1991, andavo a Berlino. Non ricordo nulla del viaggio da Vancouver fino all’albergo di Berlino. Esistevo solo io e il Giudice Holden”.
Leggete Umberto Eco. E William Burroughs. “Se dovessi indicare un libro da leggere prima dei 21 anni… Ur-Fascismo di Umberto Eco, rilegato in formato tascabile. Resto sempre stupito quando qualcuno mi dice di aver letto Neuromante a 12 anni. Eppure, io ho letto Pasto nudo di William Burroughs a 13: l’ho scoperto insieme a Edgar Rice Burroughs, nello stesso anno”.
Riscoprite Kingslay Amis. “The Alteration di Kingslay Amis è un libro meraviglioso. La storia alternativa, a mio parere, è un gioco ben più impegnativo di ipotizzare un futuro. Amis gioca alto in questo libro, postulando un papa in grado di fare a Martin Lutero un’offerta irrinunciabile, che rende vana la Riforma. Un capolavoro”.
Quando scrivo, non leggo. “Quando scrivo, non leggo. Tutto ciò che non è meraviglioso sembra assai meno interessante di qualsiasi cosa stia scrivendo; tutto ciò che è meraviglioso rende ciò che sto scrivendo irrimediabilmente squallido”.
Nel gorgo del caos. “Come organizzo i miei libri. Ne modo migliore: come un autentico autore, preoccupato per la prossima pubblicazione. Di solito: nel gorgo del caos”.
Vorrei scrivere un romanzo storico. “Se non scrivessi fantascienza, mi concentrerei sul romanzo storico. Mi affascina la natura fondamentalmente speculativa di una immaginazione rivolta al passato. Reinventerei il passato”.
Il flusso continuo di notizie. Mi spaventa. “La cosa spaventosa, oggi, per me, è il flusso continuo di notizie. Una cosa che non avrei saputo immaginare. Se lo avessi detto a un produttore di Hollywood, dieci anni fa, mi avrebbe detto, ‘Vattene via, non farmi perdere tempo, è ridicolo!’”.
Oggi i politici sono ridicoli. “I politici oggi sono ridicoli, vanno al di là della parodia. Se nel 1984 qualcuno, prevedendo il futuro, mi avesse mostrato Boris Johnson gli avrei detto, fottiti e smetti di pensare al futuro”.
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lafinestrarotta · 7 years ago
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L’economia ve la spiego con la Pop Culture
Laureato, con lode, in Economia all’Università di Modena che porta il nome di “Marco Biagi” il giuslavorista assassinato da un commando di terroristi con una tesi dal titolo “Verso la lingua universale per lo studio delle scienze sociali: l’approccio narrative-based” che gli è valsa il prestigioso premio “Enrico Ferrari” per la migliore tesi di laurea specialistica in Economia e Sistemi Complessi. Carlo Taglini, classe 1986, oltre a vantare un curriculum già denso per la giovane età è appassionato di sport, tifoso del Milan e ammiratore di Clarence Seedorf di cui dice “…è l’unico che vorrei al mio fianco in qualsiasi sfida”, di pop culture e ovviamente di economia. Ha esordito sul nostro blog magazine con un articolo in tre puntate che anticipa il paper, primo progetto editoriale della Fondazione Ora!, che firmerà e che avrà come titolo “Generazione 90210”, titolo che ha scelto ascoltando, in una di quelle sere che non passano mai, I’m Always Here di Jim Jamison, la colonna sonora di Baywatch.
  “Taglini, cosa intende per “Generazione 90210”?”
“La Generazione 90210, come il prefisso postale di Beverly Hills e come il primo vero teen drama della tv italiana poiché Twin Peaks era qualcosa di ben più complesso, è la generazione che è cresciuta con aspettative straordinarie, perché il mondo negli anni ’90 era veramente straordinario, nel senso che una serie di coincidenze ha reso quel decennio straordinariamente ottimista. Con studi in Università perlopiù mediocri, forse appena migliori di quelle attuali, e incapaci di prepararla al mondo del lavoro; delimitata anagraficamente, i 30-40enni di oggi si trovano nemmeno a metà strada rispetto alla pensione, è la generazione che si trova in maggiore difficoltà nello scenario socio-economico attuale, a causa di aspettative irrealistiche. Non doveva andare così e poteva non andare così.”
“Nel suo articolo che anticipa il paper divide i decenni non in maniera cronologica ma secondo alcuni avvenimenti, ce lo può spiegare meglio?”
“Ovviamente i decenni sono per definizione periodi di 10 anni, tuttavia io guardo alla storia come ad una concatenazione di trend di medio-lungo periodo. Un trend si inverte in presenza di un qualche evento di straordinaria importanza; i primi che mi vengono in mente sono i seguenti: l’elezione di Ronald Reagan, la caduta del muro di Berlino, l’attacco alle Torri Gemelle, il crollo della Lehman, l’elezione di Donald Trump. Questi sono tutti eventi dopo i quali il mondo non è stato più come prima.”
“Quindi lei che è nato nel 1986 quanti trend ha già vissuto?”
“Stando alla carta d’identità sarei nel mio quarto decennio di vita, ma allo stesso tempo, stando a questa categorizzazione, che ovviamente non è un dogma, sono nel mezzo del quinto trend narrativo.”
“I primi quattro: l’era Reagan, la Great Moderation post-muro di Berlino, la guerra al terrorismo con la missione Enduring Freedom, iniziata simbolicamente con l’attacco al World Trade Center l’11 settembre del 2001, la grande crisi. Ce li analizzi meglio…”
“Del primo non ricordo pressoché nulla, il secondo è quello più lungo e fortunatamente anche il più bello, il terzo è la brutta copia di quello precedente, caratterizzato da una bolla speculativa, quella dei subprime, una bolla che non è altro che la brutta copia della Dot Com, che, a ragione, Vernon Smith avrebbe poi definito “un’orgia di consumi”; l’ultimo è invece il trend più cupo, soprattutto nella parte iniziale e può essere considerato come la fase terminale, la vera fine della narrativa ottimistica degli anni ’90″.
“Poi l’elezione, contro ogni pronostico, di Donald Trump.”
“Non è mai facile analizzare la storia mentre la stai vivendo ma a mio avviso l’era di Trump è qualcosa di nuovo, la reazione ad un mondo fatto di squilibri commerciali cronici in alcune nazioni, di tassi di cambio e di interesse manipolati, di vocaboli politically correct usati dalle élite, inadeguati alla risoluzione dei problemi quanto i cosiddetti proclami populistici di Matteo Salvini and Company.”
“Quindi non vede Trump come un fenomeno di passaggio, quasi di costume, qualcosa che poteva succedere solo nei “Simpson”?”
“Non so se Trump sia una semplice parentesi prima dell’inizio di un trend ancora più potente: è senz’altro uno dei fenomeni più interessanti di tutti i tempi; è il risultato di 15 anni, dal 2001 al 2016, ossia da quando la Cina è entrata nel WTO, l’organizzazione Mondiale del Commercio, di politiche commerciali sbagliate a livello globale, di tassi di cambio manipolati e conseguenti squilibri economici che hanno portato ad un livello socialmente insostenibile di de-industrializzazione nei Paesi più sviluppati.”
“Cosa sono stati gli anni 90, quelli che definisce il decennio dell’ottimismo?”
“Sono stati un cielo estivo senza nuvole e, incredibilmente, senza afa. Sono stati anni caratterizzati da una grande crescita della produttività, da bassa inflazione e quindi da bassi tassi d’interesse. Sono stati gli anni di Baywatch; David Hasselhoff in un’intervista disse che l’America è il bagnino del mondo, e che Baywatch rappresenta il sogno americano: impossibile contraddirlo. Beverly Hills 90210 e Baywatch sono stati due chiari esempi del soft power made in USA.
“Poi sono arrivate le bolle speculative. Esattamente cosa sono?”
“Questa è una domanda molto più complessa di quello che potrebbe sembrare di primo acchito. Vi sono due convinzioni in merito alle bolle speculative: la prima è che esse siano frutto dell’irrazionalità, la seconda è che siano un fenomeno meramente economico-finanziario. Bene, secondo me queste convinzioni sono entrambe errate. Prendiamo per esempio la quotazione della Lehman Brothers che il 15 settembre 2008 crollò circa dell’80% in un giorno; sintetizzando, il crollo fu innescato dal fatto che il mercato ebbe la certezza che la FED, la Banca Centrale degli Stati Uniti, non sarebbe intervenuta per salvare questa banca. È come se la variabile dummy “garanzia statale” fosse improvvisamente passata da 1 a 0: di conseguenza il valore delle azioni crollò da un momento all’altro. Tutto ciò è non-lineare ma perfettamente razionale dal punto di vista di un investitore. Tuttavia le bolle speculative sono un fenomeno non solo economico. Vi sono movimenti politici che sono delle autentiche bolle speculative.” 
“E la generazione Glee in cosa differisce da quella 90210?”
“Nelle aspettative. La generazione Glee è composta da una maggioranza che ha capito che Gordon Gekko nel suo discorso alla platea in Wall Street – Money Never Sleeps (2010) aveva ragione. Chi è cresciuto negli anni’90 è spiazzato dal contesto attuale, perché nessuno dei consigli dei genitori sembra veramente funzionare e perché il mondo in generale è diventato più incerto. Chi è cresciuto negli anni ’90 aveva certezze, questa generazione cresce in un contesto completamente diverso: di attentati, di tensioni commerciali, di elevato debito pubblico e privato. Non ci sono nemici ben definiti, chi è Al Qaeda? Non c’è unità nell’Occidente e fantasmi del passato stanno tornando alla carica seppur in forma diversa.” 
“Il salto dal West Beverly al liceo William McKinley è qualcosa di molto più profondo quindi?”
“Il salto tra Beverly Hills e l’Ohio, è enorme: passiamo da un gruppo di ragazzi stupendi, full-blooded WASP come dicono gli americani, ad una compagnia di canto corale che, soprattutto all’inizio, è un’armata brancaleone. Glee non avrebbe mai funzionato negli anni ’90 così come Baywatch non funzionerebbe oggi, tanto è vero che il film del 2017 con Zach Efron e Dwayne Johnson è sostanzialmente una parodia della serie televisiva ed era giusto così. Quei telefilm, quelle narrative, fanno sognare ma non sono più credibili.”
“Secondo la sua teoria come può una narrativa influenzare l’economia? Come l’attuale pop culture influenza l’economia e i consumi?”
“Tutti i comportamenti degli agenti sociali sono determinati dalle narrative di riferimento. L’economia altro non è che lo studio di come gli agenti sociali possono massimizzare il proprio benessere a fronte di risorse limitate; le cosiddette bolle speculative si verificano quando una narrativa è molto forte e porta ad un allineamento delle aspettative, ma le narrative sono sempre presenti, anche in condizioni di mercato “normali”.
Ora, un passo fondamentale è capire che le narrative si veicolano come virus, come malattie. Più una malattia è infettiva, più si diffonderà; più una storia è convincente e più condizionerà le scelte di investimento, di risparmio e di consumo. Inoltre, vi sono agenti più influenti di altri, con più connessioni, i quali una volta “infettati” possono far sì che una storia si diffonda più velocemente.
Lo studio dell’economia, ma più in generale delle dinamiche sociali non può prescindere dall’utilizzo di strumenti innovativi quali automi cellulari, reti neurali ma anche modelli ad agente e MMORPG. Non voglio insinuare che le scienze sociali abbiano senso solo se possono essere modellizzate, ma che studiando i contributi classici e cercando delle similitudini in modelli aventi un’origine del tutto differente, si possono imparare delle cose molto interessanti e soprattutto fare nuove ipotesi, che spesso trovano riscontro nella realtà.”
“La Juventus acquista Cristiano Ronaldo il calciatore più forte del pianeta. Si apre un nuovo trend?”
Credo che sia un affare incredibile un po’ per tutti. Per la Juventus che si garantisce le prestazioni di quello che è ancora nonostante i 33 anni l’attaccante più forte del mondo, per il Real Madrid che deve rifondare una squadra puntando su giocatori con nuovi stimoli e per Cristiano che ha capito che era meglio chiudere con uno score record (450 gol in 438 partite) la sua esperienza madridista ed essere ricordato come il più grande giocatore nella storia del più grande club del mondo. 
È quindi senz’altro una delle sfide più affascinanti di quest’epoca, ma vorrei anche sottolineare due aspetti che consentono al contempo una riflessione sullo studio delle scienze sociali. Il primo è l’importanza di avere una prospettiva di lungo periodo nel considerare pro e contro delle proprie scelte; il secondo è il fatto che dal 2012 ad oggi Ronaldo ha rimontato 3 Palloni d’Oro di svantaggio a Messi e che quest’anno rischia un sorpasso clamoroso.
Ora, penso che cercare di capire come sia possibile che un calciatore con meno talento e più anziano abbia compiuto una simile impresa sia doveroso e sarà oggetto di un mio prossimo articolo. Per ora posso solo dire che tra i modelli per la complessità ne esiste anche uno in grado di spiegare questo fenomeno.”
In conclusione, prima di salutarci, Taglini che snocciola teorie con la credibilità di uno stimato professore e con l’entusiasmo dei suoi 30 anni aggiunge qualcosa:
 “Deve essere però chiara una cosa: l’appartenenza ad una generazione piuttosto che all’altra è determinata dalle narrative che ognuno di noi ha come riferimento, non dalla data di nascita. Perché il darwinismo prevede anche un certo grado di adattamento al mutare dell’ambiente. Poi certo, la data di nascita approssima molto bene quella che può essere l’appartenenza generazionale, ma non vi è dubbio che i nati negli anni ’80, ossia i primi che sono stati fregati dalla bolla dei subprime, presentino, con gradazioni diverse, entrambe le caratteristiche di queste due generazioni, chi è nato negli anni ’70 molto meno e via dicendo. Ecco perché dico che sono le aspettative a determinare la distinzione: la riduzione delle aspettative è l’unico modo che può consentire a tutti noi la sopravvivenza perché quelle degli anni ’90 erano irrealistiche”.
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