#letteratura sul dopoguerra
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Il treno dei bambini di Viola Ardone: Un viaggio di speranza e crescita nella Napoli del dopoguerra. Recensione di Alessandria today
La commovente storia di un bambino e di un’Italia che si rialza dopo la guerra
La commovente storia di un bambino e di un’Italia che si rialza dopo la guerra Il romanzo Il treno dei bambini di Viola Ardone, pubblicato da Einaudi nel 2019, racconta la storia di Amerigo, un bambino di sette anni che lascia la sua Napoli nel 1946 per affrontare un lungo viaggio verso il Nord Italia. Insieme a migliaia di altri bambini del Sud, Amerigo partecipa a un’iniziativa del Partito…
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cinquecolonnemagazine · 1 year ago
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Romanzi italiani del 900: racconti di un secolo di cambiamenti
I romanzi italiani del 900 hanno saputo catturare le sfumature della società, la politica, la cultura e le emozioni di un Paese che ha vissuto due guerre mondiali, profonde trasformazioni sociali e una rapida modernizzazione. Per questo motivo la letteratura italiana nel Novecento è un affascinante mosaico di stili, voci e storie che riflettono il tumultuoso periodo storico attraversato dall'Italia durante quel secolo. I primi anni del 900: il Futurismo Gli inizi del Novecento italiano hanno visto emergere il movimento futurista, che ha cercato di abbracciare il cambiamento e l'innovazione nella letteratura, nell'arte e nella società. Un esempio notevole di romanzi futuristi è "Zang Tumb Tumb" di Filippo Tommaso Marinetti, un'opera che sperimenta con la forma e il suono delle parole per esprimere l'entusiasmo per la modernità e la tecnologia. Questo movimento ha contribuito a gettare le basi per il modernismo letterario in Italia. I romanzi italiani del 900 e la Seconda Guerra Mondiale La Seconda Guerra Mondiale è stata un'incredibile fonte di ispirazione per gli scrittori italiani dell'epoca. - "Il giardino dei Finzi-Contini" (1962) di Giorgio Bassani narra la triste pagina della persecuzione degli ebrei. - "La casa in collina (1948) di Cesare Pavese analizza la guerra in quanto impegno storico e civile. - "Il sentiero dei nidi di ragno" (1947) è uno dei più bei romanzi sulla Resistenza. - "La ciociara" (1957) di Alberto Moravia rappresenta un'altra tragica pagina del conflitto: lo sbarco degli alleati Il dopoguerra, con tutte le difficoltà della ripresa economica, ha ispirato, invece, la nascita di una vera e propria corrente letteraria che ha coinvolto la letteratura e il cinema: il neorealismo. I romanzi neorealisti più emblematici sono: - "Ragazzi di vita" (1955) di Pier Paolo Pasolini; - "Una questione privata" (1963) di Beppe Fenoglio; - "Se questo è un uomo" (1947) di Primo Levi; - "La romana" (1947) di Alberto Moravia. I romanzi postmoderni Gli anni '60 hanno portato una nuova onda di romanzi italiani che riflettevano i cambiamenti sociali e culturali in corso. "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, ha catturato l'atmosfera di una società aristocratica in declino. Altro autore esemplare di questo periodo fu Leonardo Sciascia che con i suoi romanzi accese un faro sulla Sicilia e sul fenomeno della mafia. Ricordiamo "Il giorno della civetta", "A ciascuno il suo", "Il caso Majorana". Negli anni '70 e '80, l'Italia ha assistito a una rinascita letteraria con l'emergere di autori postmoderni come Umberto Eco, che ha scritto "Il nome della rosa" (1980), un romanzo che mescola storia, mistero e teologia. I romanzi che in una certa misura hanno segnato gli anni Novanta del Novecento sono "Castelli di rabbia" (1991), "Oceano mare" (1993), "Seta" (1996) di Alessandro Baricco. In copertina foto di Priscilla Du Preez 🇨🇦 su Unsplash Read the full article
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oltrearcobaleno · 12 hours ago
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Darreire l’Ourisount: Oltre l’Orizzonte della Cultura Alpina
Darreire l’Ourisount” (Oltre l’orizzonte) è un’opera cinematografica di Sandro Gastinelli che celebra la straordinaria avventura della Escolo del Magistre Sergio Arneodo, una scuola che ha rappresentato il cuore pulsante di un riscatto culturale e sociale per le comunità delle valli di Cuneo. Il film, un tributo alla cultura alpina, cattura l’anima di un’esperienza educativa unica nel suo genere, che ha trasformato una piccola scuola di montagna in un laboratorio didattico e letterario riconosciuto a livello europeo.
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La Scuola di Coumboscuro: un Faro di Cultura
Nel dopoguerra, sulle Alpi occidentali, la scuola di Coumboscuro divenne un simbolo di rinascita. Qui, un gruppo di ragazzi guidati dal loro maestro, Sergio Arneodo, riscoprirono la lingua e l’identità provenzale alpina, dando vita a un movimento culturale che ha coinvolto intere comunità. “Darreire l’Ourisount” racconta questa avventura condensandola in un solo anno scolastico, da settembre a giugno, durante il quale le vite di una ventina di ragazzi si intrecciano con quella del loro “Magistre”. È un viaggio che va oltre il tempo, esplorando la memoria, la lingua, la poesia e, soprattutto, la cultura delle Alpi.
La Regia di Sandro Gastinelli: Una Narrazione Poetica
Sandro Gastinelli, regista e uomo di montagna, ha dedicato la sua vita alla documentazione e valorizzazione della cultura alpina. Attraverso immagini toccanti e una narrazione lirica, Gastinelli porta lo spettatore “oltre l’orizzonte”. La sceneggiatura è arricchita dalle voci di grandi personalità della cultura italiana, come Paolo Conte, Toni Servillo, Lella Costa e Giovanni Lindo Ferretti, che recitano poesie nel patois provenzale delle valli. Questi contributi artistici, uniti alla colonna sonora della formazione musicale Milladoiro, creano un’esperienza immersiva e coinvolgente.
Un Tributo alla Cultura delle Valli di Cuneo
Le valli di Cuneo, con la loro storia, lingua e cultura, sono le vere protagoniste di questo film. “Darreire l’Ourisount” è stato girato nel 2009, ma è stato presentato al pubblico solo nel 2023, in occasione del decennale della scomparsa di Sergio Arneodo. Le proiezioni si sono svolte nei luoghi simbolo delle Alpi occidentali, come Vinadio, Bellino ed Elva, coinvolgendo comunità che condividono lo stesso entusiasmo identitario.
Letteratura, Teatro e Poesia: il Cuore della Cultura Alpina
La narrazione di “Darreire l’Ourisount” si basa sulla letteratura pura e limpida, che rappresenta la cultura delle Alpi. I dialoghi, curati con attenzione, e le scene evocative creano un legame tra passato e presente, rendendo omaggio alla creatività dei ragazzi dell’Escolo. Il film si presenta come un mosaico di poesia, teatro e vita quotidiana, che celebra la dignità di una cultura spesso trascurata.
Un’Opera Senza Tempo per la Cultura delle Alpi
“Darreire l’Ourisount” non è solo un film, ma un manifesto per la cultura alpina. Esso restituisce dignità e valore a una civiltà ricca di tradizioni, mostrando come la lingua e l’identità possano essere strumenti di riscatto sociale. La scuola di Coumboscuro, con la sua visione innovativa, ha dimostrato che anche una piccola comunità può avere un impatto globale, se guidata da passione e determinazione.
La Cultura Come Ponte tra Generazioni
L’opera cinematografica di Sandro Gastinelli è un invito a riflettere sul ruolo della cultura nella società moderna. Attraverso la riscoperta della lingua provenzale e delle tradizioni alpine, il film dimostra che la cultura non è solo memoria, ma anche un ponte verso il futuro. Questo messaggio universale ha trovato risonanza in Italia e all’estero, coinvolgendo spettatori di tutte le età.
Conclusione: Oltre l’Orizzonte della Cultura
“Darreire l’Ourisount” è un viaggio che porta lo spettatore oltre l’orizzonte, alla scoperta di una cultura autentica e resiliente. È un omaggio alla scuola di Coumboscuro, ai suoi ragazzi e al loro maestro, che hanno trasformato un’esperienza locale in una storia universale. Grazie a questa opera, la cultura alpina continua a vivere e a ispirare nuove generazioni, ricordandoci che il futuro si costruisce partendo dalle nostre radici.
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personal-reporter · 1 year ago
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Elio Vittorini, tra letteratura ed editoria
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Una vita che attraversò parte del Novecento… Elio Vittorini nacque il 23 luglio 1908 a Siracusa, in Sicilia e il padre, ferroviere, si spostava  speso  per lavoro lungo la regione, portando con sé la famiglia. Elio, adolescente irrequieto, divenne desideroso di scoprire un mondo più ampio degli orizzonti provinciali, così scappava frequentemente da casa per esplorare luoghi nuovi e sconosciuti. A sedici anni, stanco della scuola di ragioneria cui era stato iscritto dalla famiglia, abbandonò per sempre la Sicilia nel 1924 e, dopo aver trovato un impiego a Gorizia,  cominciò  la sua formazione culturale, modellata sui grandi scrittori europei del tempo in reazione al provincialismo della cultura del regime. Sempre di questo periodo fu l'avvicinamento alle posizioni di Curzio Malaparte e della rivista Strapaese, che Vittorini espresse in un articolo apparso nel 1926 su La conquista dello stato. L’anno successivo, grazie all’intervento di  Malaparte, Elio divenne collaboratore della Stampa, e, dopo aver spedito a La fiera letteraria il  suo primo racconto,   Ritratto di re Gianpiero, lo vide pubblicato sulle pagine della rivista. Nel 1927 Vittorini sposò la sorella del poeta Salvatore Quasimodo, Rosa, che gli diede l’anno successivo il primo figlio, Curzio, nome scelto per il legame con Malaparte. Poco dopo, nel 1929, lo scrittore ritornò sul carattere provinciale della letteratura italiana pubblicando alcuni interventi sulle pagine della rivista fiorentina Solaria, che era la principale voce per dare un respiro europeo alla cultura italiana soffocata dal regime e dalle sua pretese autarchiche. Nel 1931 fu pubblicato, sempre dalla rivista fiorentina, Piccola borghesia, prima raccolta di racconti di Vittorini che, trasferitosi a Firenze, divenne  segretario di redazione di Solaria e correttore di bozze per il quotidiano La Nazione. All'identità di Solariano, Vittorini unì la frequentazione della Firenze intellettuale ed ermetica, riunita all’epoca nel caffè delle Giubbe Rosse, dove iniziò ad interessarsi alla cultura e la lingua anglosassone. Studiato l'inglese, Elio cominciò la carriera di traduttore, che gli permise di lavorare a stretto contatto con il mondo editoriale, sia come collaboratore che come direttore di importanti collane. Nel 1933 pubblicò a puntate sulle pagine di Solaria Il garofano rosso, suo primo romanzo  e nell’anno successivo divenne padre per la seconda volta, questa volta di Demetrio. Elio nel 1936 iniziò a lavorare su Conversazione in Sicilia, una delle sue opere principali sia sul piano contenutistico che su quello stilistico, che fu pubblicato a puntate su Letteratura, poi ripubblicato in volume prima da Parenti nel 1941 e da Bompiani nel 1942. Nel 1938 lo scrittore si trasferì  a Milano per lavorare da��Bompiani, e li ci fu il riavvicinamento di Vittorini con un vecchio amore milanese, Ginetta Varisco. L’opera di censura perpetrata dal regime fascista colpì anche l’antologia Americana, una raccolta dei principali narratori statunitensi del tempo e di cui Vittorini aveva redatto le note critiche. Il secondo conflitto mondiale e la guerra di Resistenza videro lo scrittore attivamente impegnato nella stampa clandestina e coi partigiani. Questa esperienza diede vita nell'immediato dopoguerra a Uomini e no, romanzo che è il punto di maggiore vicinanza tra l'autore e il Neorealismo. Lasciata la famiglia per vivere con Ginetta Varisco a Milano, Vittorini nel 1945 divenne direttore dell’Unità  e fondò Il Politecnico, rivista che mirava a smuovere il dibattito sulla cultura e la società italiana, ma che durò solo fino al dicembre del 1947. Nel 1951 Einaudi affidò allo scrittore la collana di narrativa I gettoni, grazie alla quale debuttarono scrittori di successo, come Carlo Cassola, Beppe Fenoglio, Mario Rigoni Stern e Leonardo Sciascia. Inoltre Vittorini collaborò con Mondadori, per cui rifiutò di pubblicare Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, grande best-seller del 1957 per Feltrinelli. Malato da tempo, Elio Vittorini morì il 12 febbraio 1966 a Milano. Read the full article
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La Douleur di Marguerite Duras: ecco lo spettacolo che chiude la stagione al Teatro Cucinelli È giunta al termine la Stagione 22/23 de...
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likarotarublogger · 4 years ago
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“Principessa  per una notte”– con APEVCO il desiderio di arrivare una ‘’Star’’  nel mondo di Stresa.
Vi scrivo qualche riga sulla storia di  due  innamorati che è anche una metafora su come le avversità si trasformano in amore , come nella  storia di Anderson, raccontata da
Oleg Dal , il soldato , che si rivolge così a Marina Neyolova , la principessa:
‘’ E’  meglio che ti abitui , perché  ho deciso che  sarai la mia moglie ed io non cambio mai idea” ..’ Ah si’’? controbatte la principessa  “ Si” risponde Oleg Dal.
Voglio parlarvi di un sogno romantico e principesco, che ha fatto emozionare le  donne di tutto il mondo e che si realizza nella splendida produzione cinematografica “Principessa per una notte” della Russa Nadezhda Kosheverova . Un film carico di charme, con un tocco decisamente sovietico, una storia che coinvolge gli  adulti , ma che affascina anche i giovani.
Questo è  al Ballo delle debuttanti, un evento che abbiamo sentito nominare tante volte e che adesso è più vicino a noi di quanto si possa immaginare.  
Si tratta di una serata di gala completamente “Made in Italy”, che si svolge nell’esclusiva location del Regina Palace Hotel di Stresa, dimora storica adagiata sulle rive del Lago Maggiore e culla del concorso di Miss Italia 
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Regina Palace Hotel  di Stresa – Credits: APEVCO 
BREVE STORIA Regina Palace Hotel, un secolo di storia italiana e internazionaleNel primo dopoguerra il Regina Palace Hotel vive una stagione da sogno, trasformandosi nella dimora più amata da alcuni dei più grandi personaggi dell’epoca. Nelle sue suites di lusso alloggiano ospiti illustri come la regina Sofia di Grecia e il compositore Pietro Mascagni. Una tendenza che proseguirà negli anni trenta con l’allora Principe di Piemonte e futuro re d’Italia Umberto II, accompagnato da Maria Josè delBelgio.E ancora: la principessa Jolanda di Savoia, la principessa Margareth d’Inghilterra, Re Hussein di Giordania, Re Faruk d’Egitto e il premio Nobel per la letteratura George Bernard Shaw.La storia del Regina Palace Hotel è intrinsecamente legata al luogo in cui sorge: Stresa, un gioiello che si affaccia sul Lago Maggiore. Qui è nato, il 27 giugno del 1908, su progetto dell’architetto Giuseppe Pagani. La struttura, in tipico stile liberty, si presenta come una residenza esclusiva di altissimo livello, anche per i suoi preziosissimi arredi: mobili di lusso, lampadari di cristallo, tessuti pregiati e affreschi. Il 1995 è l’anno in cui approda per la prima volta a Stresa il Gran Ballo delle Debuttanti, del quale APEVCO – Associazione No Profit Promozione Eventi Verbano Cusio Ossola – ha raccolto l’eredità e che gestisce dal 2010 con grande successo , tanto da varcare nel 2015 i    confini piemontesi ed  estendere questa idea alla Calabria.Alla  manifestazione possono partecipare  tutte le ragazze di età compresa tra i 15 e i 35 anni e, da quest’anno, è prevista una performance anche per gli uomini e le donne over 35. Infine i bambini, dai 3 ai 14 anni possono partecipare ai Casting in tutta Italia per accedere alla finalissima per la selezione dei paggetti e delle damigelle che accompagneranno le debuttanti al Gran Galà.
Rispetto all’edizione precedente ci sono interessanti novità che tengo a conto le recenti regole dettate dall’emergenza sanitaria COVID -19.
“Quella di Stresa del 2021 sarà un’edizione speciale” assicura Giovanna Pratesi, Presidente in carica di APEVCO e anima della manifestazione, che rivela alcuni particolari  sulla prossima edizione:
“ con l’iniziativa For Lady and Gentleman abbiamo voluto dare la possibilità anche ai signori e alle signore ultra trentacinquenni di vivere un momento particolare poiché potranno esprimersi in una performance di gruppo coordinata dalla nostra coreografa; nulla a che vedere, però, con il concorso delle debuttanti, essendo piuttosto un contributo aggiuntivo. Poi il contest Official  Fashion Blogger, inaugurato per la prima volta lo scorso anno, è stato non solo rinnovato, ma anche migliorato e ampliato. E i bambini, che rispetto alle edizioni precedenti sono aumentati tantissimo grazie ai casting di Bambini in Passerella  attuati in diverse città tra cui Verbania, Biella, Vigevano, Brescia, Vercelli, Angera, Peschiera Borromeo e Sud Italia. Saranno infatti 24 i bambini selezionati, 12  paggetti e 12 damigelle, che anticiperanno la discesa delle debuttanti dalla storica scala del Regina Palace, accompagnate dagli Ex-Allievi dell’Associazione Nazionale Scuola Militare Teuliè di Milano.
È confermata anche la presenza di due ONLUS: la delegazione di Varese della Fondazione sulla ricerca sulla fibrosi cistica FFC e la Sezione del Verbano Cusio Ossola per la lotta contro i tumori LILT, a riprova di un sodalizio significativo e duraturo che nasce rispettivamente nel 2012 e nel 2017. Entrambe le organizzazioni saranno accompagnate e rappresentate da due ragazze, Federica Mauri (LILT) e Veronica Bassani (FFC), che condivideranno con le debuttanti la propria storia, prendendo parte alla serata nella veste di testimonial ufficiali.
E’ prevista una raccolta  fondi
tramite un’apposita sottoscrizione a premi cui ricavato sarà devoluto a sostegno di LILT e FFC. 
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  Locandina Ballo delle debuttanti di Stresa – Credits: APEVCO
Per chi volesse partecipare o saperne di più, c’è la possibilità di vedere i momenti salienti dell’evento dietro le quinte , una settimana preparatoria al ricevimento con  le riprese video del reality Princess a loro dedicato.  Potete trovare le dieci puntate  sul sito ufficiale di APEVCO https://www.associazioneapevco.com oppure su www.ballodebuttantistresa.it, dove sono anche disponibili i link, i recapiti e tutte le informazioni necessarie per l’iscrizione. Affrettatevi, però, perché il Ballo delle Debuttanti 2021 si terrà il 30 ottobre. Una data assolutamente non casuale nella quale, dopo le danze, i momenti di aggregazione e di intrattenimento, saranno  distribuiti i vari premi.
“Siamo tutte strette a semicerchio con i nostri cadetti. Poi iniziano a fare le premiazioni “dolcezza”, “fotogenia”, “glamour”, due damigelle e infine la vincitrice! Quando mi hanno nominata non riuscivo a crederci, non me l’aspettavo.” Racconta la sua “avventura” stresiana Alice Brida, vincitrice nel 2019, con voce ancora carica di emozione. Ascoltando le sue parole si capisce che in quest’evento c’è molto di più dello charme dell’hotel, dell’abito da sogno, dell’acconciatura, dei gioielli o dell’orchestra con i suoi valzer e le atmosfere incantate.
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La premiazione di Alice Brida vince il Ballo Debuttanti –Credtis APEVCO
“Sofisticato e intelligente“
Sono gli aggettivi che vengono in mente ad Alice per descrivere il Ballo delle Debuttanti: sofisticato per l’eleganza e intelligente per l’idea stessa dalla quale muove il progetto dell’Associazione.
“Questa esperienza mi ha aiutato a superare la timidezza e ad essere più sicura di me stessa. Torni a casa un po’ diversa, ma in senso positivo, ti senti molto più piena. Ho imparato tanto, ad avere portamento e tutto quello che abbiamo fatto durante le lezioni, nella settimana di formazione.”
Tutte le debuttanti , infatti, devono partecipare ad un percorso formativo che  comprende 12 lezioni tenute  nei giorni precedenti il Gran Galà. Per far comprendere meglio l’impegno richiesto alle iscritte, ecco qui di seguito  le materie affrontate… Aspiranti partecipanti tenetevi pronte!
FORMAZIONI CULTURALI  e VALORIZZAZION/ PROMOZIONE DEL TERRITORIO  .
Dodici tipologie di lezioni impartite nel corso della settimana preparatoria.
•   ‘’dizione;
•   ‘’psicologia;
•   ‘’comunicazione;
•   ‘’nutrizione;
•   ‘’scrittura creativa;
•   ‘’la donna nella storia;
•   ‘’gestione della propria immagine;
•   ‘’gestione del proprio outfit;
•   ‘’posa fotografica;
•   ‘’ballo, portamento;
•   ‘’galateo e bon ton;
•   ‘’cucina;
•   ‘’cucito;
-Escursioni Turistico-Culturale grazie all’ospitalità delle amministrazione comunali saranno nuovamente effettuate.
-Rilascio di un Attestato utile ai fini curriculari che documenta il percorso formativo effettuato.
- Strage Universitari effettuate in accordo con I’ Università degli Studi di Milano  e del Piemonte Orientale.
- Romanzo ‘’ Il mio primo ballo ’’ scritto da MARIAGELA COMOCARDI  e dedicato al Ballo Debuttanti di Stresa da quale è stato trattato un pièce teatrale rappresentata
al teatro ‘’ Il Maggiore ‘’ di Verbania nel 2018 nel contesto del Premio  Letterario Verbania for Women organizzata da Apevco No Profit in collaborazione con il comune di Verbania 
ASPETTO MEDIATICO
Il crescente successo ottenuto dal Ballo Debuttanti Stresa è confermato dall’attenzione da parte di testate giornalistiche (Elle, Gioia) emittenti locali e nazionali che hanno dato rilievo e mostrato interesse verso la manifestazione che è ormai di livello nazionale (l’evento è andato in onda su RAI2 con tre collegamenti in diretta dalla trasmissione “Quelli che il calcio”, su “Costume e società”, “Detto fatto” e su RAI 3). Ogni anno viene inoltre realizzato un video della manifestazione in onda per un anno intero nella rubrica Laghi & Monti dell’emittente Televco Azzurra TV, su Videonovara e tutte le emittenti correlate oltre a n. 10 puntate del Reality “Princess” in onda sulle emittenti del Piemonte e della Lombardia. 
Solidarietà
L’edizione 2019 del Ballo sostiene nuovamente la LILT (Lega Italiana per la Lotta ai Tumori) del Verbano Cusio Ossola. Come è ormai consuetudine APEVCO NO PROFIT, alla debutto  testimonial LILT, offre la partecipazione gratuita all’evento.
Sono stati raccolti fondi destinati alla lotta contro i tumori (LILT) attraverso una sottoscrizione a premi. Negli anni precedenti sono state instaurate le collaborazioni con: Gli Amici dell’Oncologia di Verbania, Fondazione della ricerca sulla Fibrosi Cistica delegazione di Varese, A.I.R.C. sezione Piemonte e Val d’Aosta, Veronlus Verbania, Associazione Nazionale Lotta contro il Neuroblastoma.
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APEVCO- ASSOCIAZIONE NO PROFIT / CULTURALE/ EVENTI DI GIOVANNA PRATESI
L’idea è quella di dare alle debuttanti l’opportunità di accrescere il proprio bagaglio conoscitivo-culturaleattraverso materie che difficilmente avrebbero affrontato,  anche  nel periodo che viviamo con la emergenza sanitaria una difficile  pandemia
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Giovanna Pratesi Presidente APEVCO – Credits: Giovanna Pratesi
Ma come si vince il ballo delle debuttanti?
“Non ci sono prove vere e proprie – aggiunge la Brida – i premi vengono assegnati in base al giudizio unanime degli insegnanti, fotografi, coreografi e di Giovanna Pratesi che ci hanno seguito e valutato nel corso delle varie attività che abbiamo svolto. Io ho fatto conoscere me stessa.”
Stefania Liberati, vincitrice del contest Official Fashion Blogger 2019 di Stresa e che ha all’attivo il blog di moda “Chic Therapy”, ci racconta :
“ Ero incinta della mia piccola ma mi sono detta: perché no?! I limiti sono quelli che ci poniamo da soli. Questa esperienza mi è servita per mettere a fuoco ancora di più i miei obiettivi ed è stata molto gratificante. Mi ha inoltre dato l’opportunità di conoscere e vedere all’opera Giovanna (Presidente APEVCO, ndr), una persona veramente speciale e dalla quale c’è molto da imparare. La mia influencer preferita? È Chiara Ferragni perché siamo del Toro tutte e due, quindi concrete e forti. Mi piace il suo essere un’imprenditrice intraprendente ed internazionale che non scade nella mera esibizione del proprio corpo anche se ora sono incinta del  secondo figlio .
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Chiara Ferragni- Fashion Blogger 
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È soddisfatta anche Marzia Bortolotti, vincitrice del contest 2019 della Calabria e giornalista per lavoro e per passione.“Ho deciso di partecipare perché sogno il mondo delle debuttanti da quando ero bambina e la cosa mi ha stuzzicato ancora di più non appena mi sono resa conto che non era il solito concorso ma che c’era qualcosa di molto più profondo, il sostegno alla LILT. Mi sono divertita, sono stati tutti molto carini nei miei confronti e ho anche stretto amicizia con una concorrente, che sento ancora. L’abito che ho indossato? Sembrava fatto apposta per me, era il più semplice e di color rosa cipria: quando l’ho visto mi sono emozionata e  mi sono venute le lacrime agli occhi, era bellissimo.
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LUCIA BARBONI-FASHION BLOGGER DI LATINA.
EVIDENTEMENTE IL FASHION E' CIO' CHE CARATTERIZZA CIO' CHE DI BELLO HAI DENTRO, EVIDENZIARLO E' CIO' CHE CONTRADDISTINGUE IL TUO VERO ESSERE, E L'ESSERE UNA DONNA CHE CONOSCE LA VERA MAGIA DEL SUO ESSERE E' CIO' CHE PIU' EVIDENZIA LA TUA FEMMIN.
Vince  anche lei  ‘’Contest  Officiale Fashion Blogger della Calabria’’
Un dietro le quinte fatto anche di nuovi incontri e amicizie, un aspetto al quale  APEVCO dedica molta attenzione sottolineandone l’importanza, tanto da svelarci un’ultima sorpresa:
Essendo il decimo anniversario abbiamo convocato le ragazze “titolate”, le testimonial delle precedenti edizioni oltre a tutte le partecipanti alle precedenti edizioni che saranno al centro di un momento a loro dedicato. Vorremmo far capire che queste ragazze sono ancora qui con noi
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La famosa scalinata dell’hotel Regina Palace – Credits: APEVCO
COLLABORAZIONE
Molte le collaborazioni che partecipano alla realizzazione di questo evento accrescendone il livello e fornendo prodotti e/o servizi. In particolare lo staff trucco e parrucco , lo staff docenti, lo staff collaborazioni.
CONCLLUSIONI
Un evento all’insegna della formazione culturale e la valorizzazione del territorio nel rispetto della trazione: un fiore all’occhiello per il territorio del VCO e non solo, considerati i risultati ottenuti a livello nazionale. L’armonia che si crea ogni anno tra le deb, i cavalieri e lo staff organizzativo dimostra come APEVCO sia riuscita a realizzare un evento non fine a se stesso bensì ricco di contenuti che lasciano una traccia indelebile in ogni debuttante oltre a promuovere il territorio del VCO, fare solidarietà e accrescere il livello culturale delle partecipazione.
Dedica molta attenzione sottolineandone l’importanza, tanto da svelarci un’ultima sorpresa:
Essendo il decimo anniversario abbiamo convocato le ragazze “titolate”, le testimonial delle precedenti edizioni oltre a tutte le partecipanti alle precedenti edizioni che saranno al centro di un momento a loro dedicato. Vorremmo far capire che queste ragazze sono ancora qui con noi.
L’ Appuntamento al evento il 30 ottobre 2021( speriamo nel  nuovo dpcm -covid- 19  ), per vivere  insieme ad APEVCO, a Giovanna Pratesi e a tutte le debuttanti in carica e non, il sogno della ‘’Principessa per una notte “
Una donna sogna da fin piccola di arrivare
Una ‘’STAR’’ o ‘’ PRINCIPESSA PER UNA NOTTE ‘’ ci vuole tanto lavoro,sacrifici,passione e l’amore per tutto quello che circonda ….
Oggi quella che sono Grazie a Dio e alla mia forza posso definire ‘’ STRONG WOMAN’’
Di ELENA RODICA ROTARU.
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@ ELENARODICAROTARU
Blog @elenarodicarotaru-blog
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scrizioni aperte sul sito www.associazioneapevco.com oppure su www.ballodebuttantistresa.it
Per info: [email protected] 0323-287755 349-5602949 #apevco,#ballodebuttantistresa,#ballo#favola, #principessaperunanotte  #principesseregine, #damecavalieri #glamour, #eleganza,@elenarodicarotaru #damigelledonore, #stresa #reginapalace, #lilt, #fibrosicistica, #ricerca, #solidarietà, #fashion, #ballo #romantico, #emozione #elenarodicarotaru #articolo #contestofficialefashionbogger @elenarodicarotaru-blog​ #principessaperunanotte #chiaraferragni #luciabarboni  #fashionblogger 
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corallorosso · 5 years ago
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Il dopovirus non sarà migliore di Enrico Fierro E ora, come se non bastassero virus e pandemia, ci tocca sorbirci anche la retorica del dopo. Che, ovviamente, sarà bello e lucente. Qualcuno azzarda paragoni col dopoguerra italiano. Cambieremo, tutto cambierà, giurano gli ottimisti. Non è così, perché cosa e come saremo dopo lo stiamo decidendo già oggi, nei giorni terribili della pandemia e del fermo quasi totale del Paese. In ogni guerra, e in ogni grande emergenza nazionale c’è chi muore e chi sopravvive, chi si arricchisce e chi vede precipitare la propria condizione sociale. Ci sono i generosi e i pavidi, gli altruisti e gli egoisti. Chi pensa che l’importante sia salvarsi da soli e chi invece lavora per la salvezza di tutti. E’ già così. Siamo già divisi. Le catastrofi non cambiano gli uomini. Li peggiorano. Lo state vedendo, scorrete i social, ascoltate la pessima tv di questi giorni (ovviamente ho ben presenti le poche eccezioni), seguite la politica: ognuno si sta mostrando per quello che è. Ognuno, dal cittadino comune proprietario solo del suo voto, a quei personaggi che per mestiere e funzione orientano la società. Politici e non solo, intellettuali dei clic, opinionisti, artisti. Insomma, l’insieme della classe dirigente del Paese. Il quadro è desolante, basta guardare la tv, leggere editoriali, analizzare atteggiamenti, assistere alla pochezza (anche qui con qualche rarissima eccezione) del pensiero proposto. Politici e starlette che recitano rosari in prima serata, gente che da comodi attici soffia sul fuoco del disagio sociale, virologi del sabato sera, antieuropeisti un tanto al chilo e europeisti a tutti i costi. Il risultato è sconfortante e ci porta a dire che il paragone con un altro dopo, gli anni che seguirono la tragedia della Seconda guerra mondiale, è totalmente fuori luogo. Prendiamo l’imprenditoria italiana, dopo la guerra avevamo Enrico Mattei e Adriano Olivetti, oggi Briatore, e Urbano Cairo, padrone de La7 e del Corriere, che balla sulle macerie pensando ai soldi che sta facendo e che farà. Il dopoguerra e il boom vengono descritti come l’età dell’oro. (...) Il Miracolo (italiano) fu anche repressione violenta. Ai braccianti di Melissa che chiedevano pane e lavoro, rispose la Celere di Scelba lasciando sul terreno Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni, e 15 feriti colpiti alle spalle. La polizia uccise anche diversi animali, come forma di ritorsione nei confronti dei manifestanti. Il boom economico fu rosso di sangue popolare. Furono anni terribili ma anche anni di risveglio civile e culturale. Il cinema, la letteratura, la musica, anche quella leggera, accompagnarono e agevolarono i cambiamenti. E oggi vi sembra che all’orizzonte appaia qualcuno, un Vittorio De Sica, dei Pavese, Vittorini, Fenoglio, in grado di indicarci la strada, o, almeno, di raccontarci? Non c’è. Non se ne vede l’ombra. E allora il destino è nelle mani nostre. Dobbiamo cambiare noi. Imparare a distinguere. Ragionare e buttare nel cesso i cialtroni (in politica, nella cultura, nel mondo dell’informazione). Usare il telecomando come un bastone smettendola di arricchire con i nostri “mi piace” e anche con la nostra indignazione, chi vive di clic, di indici di ascolto, di consensi raccattati puntando sempre al ribasso.
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pangeanews · 4 years ago
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“Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”. Fitzgerald e Hemingway: un’amicizia tormentata
Due dei più grandi romanzi americani di tutti i tempi – Il Grande Gatsby e Fiesta – vennero scritti da due amici strettissimi, come Fitzgerald e Hemingway, alle prese con una vita da espatriati nella Parigi del dopoguerra e pubblicati nel biennio 1925/26. Entrambi sono stati scrittori emblematici della letteratura americana, entrambi intenzionati a rappresentare il destino infelice di chi rincorre una donna. Gatsby ucciso a causa della sua infatuazione per Daisy da una parte e Jake Barnes ridotto alla catatonia dalla voluttuosa Lady Brett Ashley.
Se letti insieme, i due romanzi svelano vicendevolmente la tragica visione del mondo che avevano i rispettivi autori. Nonostante le differenze personali e artistiche, i due libri mostrano la raccapricciante proiezione che Fitzgerald e Hemingway avevano di sé stessi. Il primo, un romantico arso dalla passione, il secondo, altrettanto romantico ma incapace di amare liberamente, entrambi ispirati dalla ricerca dell’amore vero. Anche se l’amicizia fra i due si interruppe dopo poco, rimase comunque un rapporto importate che continuò a influenzarli profondamente.
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Francis Scott Fitzgerald aveva frequentato Princeton; a quei tempi si concentrava sulla scrittura di musical senza successo. Abbandonato il college, salì alle luci della ribalta con Di qua dal Paradiso (1920) e poi con Belli e Dannati (1922), ma come lui stesso sapeva, questi e altri testi scritti per il Staurday Evening Post erano superficiali. Nel 1925 a Parigi, incontrò per la prima volta Hemingway. Di tre anni più giovane e ancora in rampa di lancio, Ernest invidiava il successo, la fama e la vita (anche sessuale) di Fitzgerald. Tuttavia, quello sicuro di sé fra i due era senz’altro Hemingway, mentre Fitzgerald era costantemente tormentato dai dubbi.
Fitzgerald presentò Hemingway alla Scribner’s aiutandolo ad affermarsi e mentre Hemingway stava diventando il suo principale rivale artistico, Fitzgerald lo elevava a eroe ideale. Hemingway era virile e atletico, reggeva l’alcol e aveva combattuto. Era di una spanna più alto e venti chili più pesante. Hemingway era la versione letterata dei giocatori di football che Fitzgerald ammirava al college. Gli altri della sua cricca, come lui, avevano frequentato università altisonanti: Harvard, Yale, etc. Hemingway invece – come Conrad, Kipling e Orwell – si era formato destreggiandosi nella violenza del mondo reale. Se Hemingway era ammirato per la sua forza, Fitzgerald era amato nonostante la sua debolezza.
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Parallele ma al contempo incidenti, le biografie dei due autori si incontrano partendo dai capi opposti dello stesso gomitolo. Fitzgerald: di famiglia irlandese e cattolica, figlio di un padre inetto e di una madre dispotica; femminile nei tratti del volto e gracile di corporatura; trascurabile sottotenente all’interno dell’amministrazione durante il periodo di leva. Si sposò nel 1920 dopo il primo successo letterario e con la moglie, Zelda Sayre, si trasferì a Parigi. Il suo stile era lirico e accattivante. Era prono all’alcolismo tanto da umiliare sé stesso in pubblico. Adorava l’amico Gerald Murphy, pittore a tempo perso e figura ispiratrice di Dick Diver, protagonista di Tenera è la notte.
Hemingway, dal canto suo, nacque nella periferia di Chicago da famiglia protestante. Il padre era dottore e amante della vita all’aperto. Hemingway accusava la madre di aver portato al suicidio il padre, totalmente sottomesso. Dopo le scuole superiori iniziò a lavorare come giornalista a Kansas City e qui ebbe il suo imprinting con la fiction. Era un ragazzo bello e forte; eccelleva nello sci, sapeva tirare di boxe e praticava con successo la caccia e la pesca. Non ancora ventenne, diventò volontario per la Croce Rossa sul fronte italiano, qui, sebbene gravemente ferito alle gambe da un proiettile, riuscì a soccorrere e salvare un compagno caduto. Tre anni più tardi sposò Hadley Richardson, una donna nettamente in contrasto con la bellissima Zelda. I due si trasferirono a Parigi nel ’22, ed Ernest iniziò a lavorare come corrispondente estero per il Toronto Star. Parallelamente iniziò a scrivere anche per riviste intellettuali e per la stampa indipendente. Lo stile di Fiesta è asciutto e brusco. Sapeva darsi un contegno anche in preda ai fumi dell’alcol e riteneva Geral Murphy un fannullone e un superficiale.
Altruista e sognatore, cauto e avverso al rischio, Fitzgerald conduceva una vita da celebrità. Aveva in odio i francesi e non studiò mai una lingua straniera. La moglie Zelda aveva una distruttiva ossessione per il balletto e soffrì di varie nevrosi. Il successo di Fitzgerald si esaurì in fretta, quando la critica accolse malamente il suo romanzo più ambizioso: Tenera è la notte. Negli anni ’30 si diede alla sceneggiatura, ma si rivelò un’esperienza infruttuosa. Concluse la sua vita in povertà e, colto da un attacco di cuore all’età di 44 anni, morì dopo una vita dissoluta.
Contrariamente, Hemingway era competitivo, egoista, un realista convinto. Era irascibile e amava le situazioni violente, lo sport e la guerra. Alla ricerca costante del proprio limite fisico e morale, ebbe una vita piena di rischi e di infortuni. Si esaltava per la corrida. Imparò l’italiano, il francese lo spagnolo e il tedesco; visse a Cuba, in Africa e in Asia. Partecipò alla Guerra Civile Spagnola e rifuggiva le luci di Hollywood.  Dopo il successo nel 1929 con Addio alle Armi e nel 1940 con Per chi suona la campana, iniziò la sua parabola discendente, tuttavia vinse il Nobel nel ’54. Dilaniato dalla depressione, morì suicida nella ricchezza all’età di 61 anni. Festa Mobile è il suo capolavoro postumo: un’aspra critica a Fitzgerald e gli altri artisti espatriati degli anni ’20.
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Hemingway e Fitzgerald si conoscevano nell’intimo e riconoscevano reciprocamente virtù e difetti dell’uno e dell’altro. Fitzgerald pensava che Hemingway fosse oppresso dal rapporto con la madre e che ancora si stesse “ribellando al fatto di essere stato costretto a prendere lezioni di violoncello quando era bambino”. Lo aiutò a entrare nell’editoria che contava; come una sofisticata guida lo condusse verso la terra promessa. “Se lo senti parlare, penserai che la Liveright gli abbia svaligiato casa, ma è solo perché non sa niente di editoria,” disse di Hemingway al suo editore Max Perkins, “ma vedrai che non potrai resistergli: è una delle persone migliori che abbia mai incontrato”. Ernest invece, nonostante non esprimesse mai un giudizio positivo sulle opere dei suoi colleghi avversari, definì Il Grande Gatsby “un libro di prim’ordine”. Il romanzo di Fitzgerald è infatti una miscela letteraria perfetto: trama complessa fatta di adulterio, crimini e assassinii, conflitti di classe, satira sociale; un’ambientazione opulenta e un’atmosfera romantica; sogni infranti e uno stile tanto fresco da sembrare attuale dopo quasi un secolo. Gatsby esce dal suo eremo di ricchezza e si concede alla plebe per attrarre Daisy, un’irraggiungibile femme fatale intenta a plasmare la figlia nei suoi stessi difetti. “Spero sia anche stupida” – diceva – “È la cosa migliore per una ragazza in questo mondo: essere una bella oca giuliva.” Gatsby, annebbiato dal sentimento, è incapace di cogliere l’ironia del suo status, che gli permette di ottenere tutto ciò che vuole tranne Daisy, tenuta al guinzaglio dal vile, meschino e adultero marito.
Il senso di perdita sviscerato ne Il Grande Gatsby influenzò profondamente Addio alle armi, tanto da spingere Hemingway a chiudere il suo libro con una frase di Nick Carraway, il narratore inventato da Fitzgerald: “poi me ne uscii dalla stanza e scesi per la scala di marmo, sotto la pioggia, lasciandoli insieme”. In molti si fecero ispirare dal capolavoro di Fitzgerald: l’immagine del cadavere di Gatsby rivolto nella piscina è stata ripresa nel film Viale del tramonto di Billy Wilder; mentre Myrtle Wilson ha ispirato Charlotte Haze, personaggio chiave di Lolita, l’iconico libro di Nabokov. E se Gatsby influenzò tanti, Fitzgerald si fece influenzare proprio da Hemingway ancor prima di incontrarlo: lo stesso Nick Carraway in fin dei conti è la fusione fra Hemingway e il suo stesso idolo, Nick Adams. Ma l’intricato gioco di echi fra i due autori continua con Fitzgerald che ripone i valori morali del Midwest in Carraway e lo contrappone a Tom Buchanan, antagonista virile di Gatsby; mentre in Fiesta Hemingway crea contrasto fra l’instabile morale degli statunitensi fuori sede espressi da Jake Barnes e il suo rivale virile, il torero Pedro Romero.
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I temi de Il Grande Gatsby riecheggiano continuamente in Fiesta. Inizialmente rifiutato da Daisy per la sua condizione economica sconveniente, Gatsby passa la maggior parte della sua vita a conquistarla. “Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può!” si chiede e si risponde da solo mentre parla con Nick. Specularmente, Barnes e Brett vorrebbero scappare dal proprio passato piuttosto che ripeterlo. Entrambi i romanzi fanno satira sociale. All’incoraggiamento a Gatsby da parte di Carraway “Loro sono marci… Tu da solo vali più di tutti loro messi insieme,” fa eco la condanna di Bill Gorton contro gli espatriati in Fiesta: “Ti stai ammazzando col bere. Ti fai ossessionare dal sesso. Passi il tuo tempo parlando, invece di lavorare”.
Negli anni ’20 Hemingway ammirava Fitzgerald, ma più lo conosceva e più diventava critico nei suoi confronti. I problemi cominciarono prima della pubblicazione di Fiesta: Fitzgerald consigliò a Hemingway di tagliare i primi due capitoli, riducendo drasticamente le informazioni di contesto sui personaggi. Anche se Perkins, l’editor, si oppose a questa scelta, Hemingway decise comunque di toglierli, salvo poi mostrarsi seccato nei confronti del giudizio del collega-amico. Un secondo screzio fra i due ci fu quando, nel giugno del ’29, Fitzgerald si scordò di chiamare la fine di un round nell’incontro di pugilato fra lo scrittore canadese Morley Callaghan e lo stesso Hemingway. Quando il primo mandò l’americano al tappeto, Fitzgerald si svegliò di soprassalto giustificandosi “Santo cielo! Dovevo suonare la campanella un minuto fa”. “Allora, Scott,” si infuriò Hemingway “se vuoi vedermi gonfio di botte, dillo e basta. Non dire però che ti sei sbagliato”.
Mentre Fitzgerald rimase fedele alla sua Zelda anche durante le nevrosi, Hemingway ripudiò tre mogli e complicò la vita alla quarta. Con acume, Fitzgerald profetizzò in tempi non sospetti che Hemingway necessitasse del tormento di un divorzio e dell’eccitazione di un nuovo matrimonio per foraggiare il suo genio creativo. Disse a Callaghan che, secondo lui, Ernest aveva bisogno di una nuova donna per ogni successo letterario. Una per Fiesta e Pauline per Addio alle armi. “Se scriverà un altro libro, penso che lo vedremo con un’altra moglie”. E fu proprio così con la sua terza moglie, Martha Gellhorn, che sposò mentre scriveva Per chi suona la campana.
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Indirettamente, Fitzgerald fa riferimento a Hemingway ne Il Crollo, un saggio autobiografico pubblicato in tre parti su Esquire. Fitzgerald conferma le critiche ricevute da Hemingway e le approfondisce; come lui, anche Fitzgerald crede che la vita debba essere dominata per poter combinare qualcosa di buono, mentre lui si sentiva dominato dalla vita e per questo era crollato. Nelle sue insicurezze, Fitzgerald elenca quattro uomini che hanno incarnato le sue coscienze esterne: lo scrittore Edmund Wilson e l’amico di gioventù Charles “Sap” Donahoe rappresentavano la sua coscienza morale; Gerald Murphy, che aveva vissuto una vita all’insegna dell’edonismo in Costa Azzurra, era la sua coscienza sociale; e Hemingway – che pur da adulto aveva definito un missile teleguidato, ma senza una guida – nella sua versione più acerba, rappresentava la sua coscienza artistica.
Hemingway ha sempre avuto dei grandi maestri che gli hanno insegnato tutto. Dal padre e da Philip Percival apprese la caccia e la pesca; da “Chink” Dorman-Smith, eroe della Prima Guerra Mondiale, le strategie belliche; da Lincoln Steffens il giornalismo; imparò la politica osservando Georges Clemenceau e Lloyd George; mentre la scrittura leggendo Tolstoj, Kipling e Stephen Crane; il gusto per l’arte lo prese da Picasso e Mirò.
In una lettera a Perkins, Fitzgerald paragonò il proprio processo creativo a quello di Hemingway: “ogni risultato che ho ottenuto mi è costato fatica, mentre Ernest ha un tocco di genio che gli permette di tirar fuori cose incredibili senza il minimo sforzo”. Confessò all’editore che avrebbe voluto coltivare un’amicizia con Hemingway, avrebbe voluto “assorbire un po’ di quelle qualità che rendevano Ernest così attraente, e appoggiarsi a lui, come su di un solido bastone, nei momenti psicologicamente difficili”. Tuttavia, questo suo ultimo desiderio non venne mai esaudito e dal velenoso amico ricevette sempre più critiche che premure. Nel 1936, Fitzgerald ammise di non poter più incontrare Hemingway dopo che il loro rapporto si era disastrosamente capovolto. Tuttavia, con l’ennesima tragica profezia, avvicinò ancora una volta la propria figura a quella di Hemingway, come le due facce della stessa personalità bipolare: “Non è meno nevrotico di me, ma lo manifesta diversamente. Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”.
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In diverse occasioni Fitzgerald aveva deriso Hemingway per via della sua fallimentare esperienza da studente di violoncello, così questi lo attaccò per la sua discendenza irlandese, comunemente associata alla servitù. “Era un uomo che sembrava un ragazzo con un viso tra il bello e il grazioso. […] Aveva una delicata bocca irlandese con labbra allungate che in una ragazza sarebbe stata la bocca di una bellezza. […] La bocca ti inquietava fino a che non arrivavi a conoscerlo e dopo ti inquietava ancora di più,” poiché faceva presagire una decadenza androgina. Per criticare gli ambienti sociali frequentati da Fitzgerald e per segnalarne la superficialità, l’opulenza, la superbia e la propensione al vizio, Hemingway descrisse ciò che pensava fosse il paradiso per Fitzgerald: “un bellissimo vuoto riempito da monogami abbienti, potenti e provenienti dalle famiglie migliori, tutti che si ubriacano fino ad ammazzarsi”. Hemingway disprezzava il culto della giovinezza, l’ingenuità sessuale, l’autocommiserazione, la venalità e la mancanza di determinazione di Fitzgerald. “È saltato dall’infanzia alla senilità senza passare dalla maturità”. Senza troppi giri di parole, gli disse che non era più in grado di produrre qualcosa di valido perché si era chiuso nel suo narcisismo: “Hai smesso di ascoltare molto tempo fa. Ascolti solo le risposte alle tue domande… è da lì che viene tutto. Vedere, ascoltare. Tu vedi bene, ma hai smesso di ascoltare”.
Nessun amico fece per Hemingway quanto Fitzgerald. Oltre a presentarlo a Scribner’s, gli prestò denaro quando era in difficoltà, lo ospitò nella casa al mare quando il figlio John era malato e si precipitò dal Delaware a Philadelphia per dargli i soldi necessari per raggiungere Chicago dopo il suicidio del padre. Ma Hemingway, che era fiero della sua indipendenza e odiava i vincoli, litigava spesso con chi gli stava vicino. In soli due anni, passò dal dichiarargli il profondo apprezzamento per il loro rapporto al risentimento a causa del suo etilismo fuori controllo. “L’ultima volta in cui eravamo a Parigi, ci ha fatto cacciare da un appartamento e si caccia sempre nei guai. (Insultava il padrone di casa, ha pisciato nel porticato e ha tentato di buttare giù il portone d’ingresso dalle 3 alle 5 del mattino)… voglio molto bene a Scott, ma lo dovrò picchiare prima di farci cacciare un’altra volta; ho paura di ammazzarlo”.
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“Sembra che per lui sia motivo di orgoglio accettare senza vergogna la sconfitta… Aveva un talento straordinario, ma l’obiettivo è metterlo a frutto e non piagnucolare in pubblico,” scrisse Hemingway sempre a Perkins condannando il patetico autoritratto presentato da Fitzgerald ne Il Crollo. Si sentì in diritto di criticarlo pubblicamente visto che Fitzgerald si era già esposto da solo. E così fece ne Le nevi del Kilimangiaro, pubblicato su Esquire appena tre mesi dopo Il Crollo. Infatti, Harry – scrittore fallito – amaramente si dice “Ripensò al povero Scott Fitzgerald e alla sua romantica soggezione verso di loro… Pensava che fossero una razza speciale, seducente, e quando scoprì che non lo erano questo fu, fra gli avvenimenti che lo frantumarono, in nulla inferiore agli altri”. Hemingway sapeva che l’autodistruttivo Fitzgerald non era caduto in disgrazia a causa dei ricchi che aveva criticato ne Il Grande Gatsby.
Quando Zelda entrò nel suo calvario psichiatrico, Scott divenne sempre più vulnerabile, ma questo atto della querelle con l’amico Hemingway lo fece precipitare ancora di più, tanto che tentò il suicidio per overdose di morfina. Un episodio che non solo rivelò tutta la sua fragilità, ma anche il potere di ferirlo che Hemingway aveva. Nonostante nella versione per l’editoria dello stesso racconto, Ernest decise di cambiare il nome di Fitzgerald in “Julian”, ormai il danno era fatto. È difficile vederci del buono in questa storia, ma l’episodio permise a Fitzgerald di assorbire un po’ del senso di colpa che Hemingway provava per essersi venduto al mercato mainstream e nonostante l’umiliante trattamento riservatogli, Fitzgerald continuò ad ammirare colui che comunque percepiva come un amico che cercava di aiutarlo.
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Nell’opera postuma di Hemingway, Festa mobile, l’americano descrive Fitzgerald come una persona avversa agli stranieri, infantile, inopportuna, prodiga e irresponsabile, litigiosa e irritante, una puttana artistica distruttrice del suo talento. La descrizione è poi suffragata da alcuni aneddoti, come quello sulla macchina abbandonata a Lione per cui chiese a Hemingway di accompagnarlo in treno, salvo poi perdere la corsa. Nel libro, Hemingway rincara la dose, questa volta dipingendolo come un ipocondriaco autocompiacente ai limiti del grottesco, che interferiva persino con il suo di lavoro fino ad umiliarsi chiedendogli di giudicare la prestanza del suo pene, dato che Zelda aveva espresso una certa frustrazione sessuale nei suoi confronti. La voluttuosa Zelda era l’arcinemica di Hemingway; lui la incolpava di aver distrutto Fitzgerald. “Credo che il 90 per cento dei suoi problemi siano colpa di Zelda,” scrisse sempre a Perkins. In Festa mobile “Zelda era molto gelosa del lavoro di Scott […] Cominciava a lavorare e non appena si metteva a lavorare bene Zelda cominciava a lamentarsi che si annoiava e lo tirava fuori per andare a qualche party di avvinazzati”. In modo ancor più serio, Hemingway condannava l’ex amico per aver permesso alla moglie di tradirlo con l’avvenente aviatore francese Edouard Jozan. All’opposto, le compagne di Hemingway lo avevano adorato e servito durante le rispettive relazioni; solamente Martha ad un certo punto decise di concentrarsi sui suoi interessi personali.
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Ne La breve vita felice di Francis Macomber, Hemingway si ispirò a Zelda per il personaggio di Margot. Come lei, era bellissima e aveva un carattere orrendo. Margot è descritta come una donna crudele, predatoria e molto seducente, in grado di annichilire o spezzare i propri uomini. Come Zelda, anche Margot tradisce il marito con Robert Wilson, la guida safari che hanno contrattato. Zelda provò a distruggere Fitzgerald; Margot uccide il marito che da poco era riuscito a trovare un po’ di autostima. Ne La breve vita felice di Francis Macomber, Hemingway prende in prestito un altro momento topico de Il Grande Gatsby. Infatti, entrambi i protagonisti vivono un picco emozionale e un momento di euforia totale. Gatsby quando Daisy si confessa durante la sua prima visita alla sua villa. Macomber quando riesce ad uccidere il Bufalo che lo stava caricando, redimendosi dall’aver provato paura di fronte al leone.
Alla fine, Hemingway ha avverato le profezie di Fitzgerald finendo per assomigliare sempre più tragicamente al suo vecchio amico. Accecato dalla ricchezza e convertitosi in una celebrità, anche Hemingway ha costruito attorno a sé un personaggio leggendario ben più noto della sua opera. Anche lui è rimasto bloccato come scrittore, anche lui ha fallito nel matrimonio e si è rifugiato nell’alcolismo; anche lui ha avuto il suo “crollo”. Malato, depresso, alla fine si è sparato in bocca con un fucile. Fitzgerald, apparentemente più debole, è sopravvissuto alla povertà e all’abbandono negli anni ’30, ma riuscì a pubblicare il suo miglior libro nel 1934: Tenera è la notte.
Jeffrey Meyers
*L’articolo è pubblicato originariamente su “The Article”; la traduzione è di Giacomo Zamagni
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paoloxl · 5 years ago
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Il 27 aprile 1937 muore, nella clinica di Quisisana a Roma, Antonio Gramsci, dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste. Da anni soffriva di diverse gravi malattie, ma le richieste per la sua liberazione vennero accolte da Mussolini soltanto sei giorni prima della sua morte, quando ormai non era più in grado di muoversi da mesi. Arrestato (nonostante fosse protetto dall'immunità parlamentare) l'8 novembre 1926 durante l'ondata repressiva che seguì un attentato a Bologna contro il duce, fu accusato di attività cospirativa, incitamento all'odio di classe, apologia di reato e istigazione alla guerra civile: tutte accuse piuttosto fondate, data la sua decennale militanza sul fronte internazionale del comunismo rivoluzionario, ma che soltanto nel mondo capovolto del dominio capitalistico possono essere fonte di persecuzione, anziché di credito e onore.
Il 27 aprile 1975, in un mondo radicalmente mutato in soli 37 anni, moriva invece Danilo Montaldi, anch'egli, come Gramsci, militante comunista, intellettuale e scrittore. Apparentemente una distanza abissale separa i due personaggi: autore di fama mondiale, inserito ufficialmente nel canone della letteratura e della storiografia italiane, il primo, sconosciuto ai più il secondo; protagonista della stagione classica del movimento comunista (dal 1917 agli anni precedenti la seconda guerra) l'uno, partecipe della crisi storica del progetto marxista-leninista tradizionale (dopo il 1945) l'altro. Gramsci visse la fase ascendente della dittatura del proletariato nell'URSS, sposando anche una rivoluzionaria bolscevica, Julia Schucht, da cui ebbe due figli; Montaldi maturò la scelta di abbandonare il PCI nel 1946, proprio a causa della consapevolezza della degenerazione burocratica che aveva interessato successivamente il socialismo sovietico, nella sua fase discendente. Nonostante queste e altre differenze biografiche, culturali e politiche, molti aspetti permettono di accostare le due figure nel segno della caratteristica più importante e tipica dell'intellettuale militante/comunista tra primo e secondo novecento: il tentativo di precisare una strategia per la distruzione della società capitalista, regolarmente in contrasto con le stesse organizzazioni ufficiali della politica socialista e comunista.
Gramsci era nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, e si era trasferito a Torino per motivi di studio, in estrema povertà, nel 1911. Arrivò nella città sabauda con 45 lire in tasca, avendo speso 55 lire per il viaggio delle 100 dategli dalla famiglia; negli anni successivi sarebbe sopravvissuto grazie a una delle 19 borse di studio da 70 lire mensili messe a disposizione dall'università di Torino per gli studenti poveri del Regno. Negli anni dell'università supera le posizioni sardiste, immettendole nella più ampia e globale idea socialista; presso il numero 12 dell'odierno corso Galileo Ferraris frequenta la federazione giovanile socialista e la sede dell'Avanti, dove inizierà la sua carriera di scrittore grafomane, furioso e tenace, producendo in dieci anni migliaia di pagine di riflessione politica, filosofica e di costume. In quegli anni è anche molto impegnato come critico teatrale (anche se ignorato dal mondo ufficiale dell'arte), risultando il primo critico ad aver scoperto e valorizzato il teatro di Luigi Pirandello (ben prima del più noto critico Adriano Tilgher, come lo stesso Gramsci rivendicava con orgoglio).
Nel 1917 segue gli eventi russi e diviene fervente sostenitore della rivoluzione bolscevica; nel 1919 fonda il giornale Ordine Nuovo; tra il 1919 e il 1920 definisce la linea dei giovani militanti socialisti che, a differenza del ceto politico del partito, appoggiano e promuovono le lotte operaie del biennio rosso che, con particolare forza a Torino, Milano e Genova procedono all'occupazione armata delle fabbriche e in molti casi alla loro autogestione e direzione produttiva. Dopo che l'assalto operaio al potere di fabbrica fallisce a causa dell'immobilismo/tradimento della dirigenza socialista, nel 1921 è parte del gruppo di militanti che, a Livorno, accoglie le indicazioni dell'Internazionale Comunista, proclamando la necessità di formare un'organizzazione rivoluzionaria costituita da avanguardie dedite alla promozione del conflitto operaio, per una presa del potere di tipo sovietico, fondando il Partito Comunista d'Italia e, successivamente, il giornale l'Unità. Dopo aver compiuto diversi viaggi in Unione Sovietica come rappresentante della sezione italiana dell'Internazionale, e dopo aver trascorso periodi come esule, soprattutto a Vienna, a causa delle prime repressioni fasciste dopo il 1922, torna in Italia con l'immunità parlamentare, essendo stato eletto deputato il 6 aprile 1924.
Poche settimane dopo, il 10 giugno, una banda di fascisti uccide un deputato socialista, Giacomo Matteotti, e gran parte dell'opinione pubblica è turbata e scandalizzata dall'accaduto. Per protesta tutti i gruppi d'opposizione abbandonano i lavori parlamentari, ma tra essi è solo quello comunista, capitanato da Gramsci, che chiede di fare l'unica cosa sensata, ossia proclamare lo sciopero generale. I socialisti temono che il ricorso allo sciopero favorisca il desiderio diffuso di una rivoluzione di tipo bolscevico, i liberali e i cattolici temono socialisti e comunisti molto più dei fascisti, e si appellano sterilmente al Re come supposto garante di una legalità che il delitto Matteotti avrebbe infranto. Tutto questo produce uno stallo durante il quale aumenta la tensione reale nel paese, finché, il 12 settembre, il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram, per vendicare Matteotti, il deputato fascista Armando Casalini, e si scatenano le ondate della repressione più dura, con lo scioglimento di tutti i partiti d'opposizione e l'arresto di militanti e dissidenti. Lo stesso Gramsci sarà arrestato dopo due anni di sforzi nell'opposizione politica al fascismo, e si dedicherà in prigione alla scrittura della sua opera più famosa e internazionalmente conosciuta, i Quaderni del carcere.
Una delle tesi contenute nei Quaderni, quella della necessità di conquistare la direzione politica della società attraverso un'egemonia culturale antagonista, verrà riletta in modo moderato dal PCI del dopoguerra, passato nelle mani di Togliatti, interessato a bloccare, su ordine di Stalin, ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Una tesi ben più complessa e articolata viene banalizzata come grimaldello ideologico volto all'annacquamento della pratica rivoluzionaria (occorre conquistare l'egemonia culturale in primo luogo, quindi la presa del potere politico è rimandata...) a tutto vantaggio della coesistenza pacifica tra due superpotenze capitaliste, l'URSS (capitalismo di stato) e gli USA (capitalismo di mercato). È in questi anni che Danilo Montaldi, nato nel 1929 a Cremona, esce dal PCI di cui era militante e si dedica ad un'attività organizzativa continua e inusuale, attraverso la frequentazione attiva di gruppi cui non aderisce formalmente (Partito Comunista Internazionalista, Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) o la fondazione di gruppi che talvolta successivamente abbandona (Gruppo di Unità Proletaria, 1957, e Gruppo Karl Marx, 1966).
Se Gramsci concepì il suo compito come quello della fondazione del comunismo in Italia, inteso come prospettiva specifica nel panorama socialista (consistente, in base all'insegnamento di Lenin, nel rifiuto totale della guerra e nella direzione politica del conflitto sociale allo scopo di provocare una presa diretta del potere), Montaldi si mosse in un quadro dove la stessa soggettività comunista organizzata era divenuta compatibile con la società capitalista, trasformandosi in conservazione sociale burocratica dove era al potere e in involucro retorico di una sostanziale socialdemocrazia dove era all'opposizione. In particolare il compito del militante del dopoguerra è non solo costruire organizzazioni alternative (di qui le critiche di Montaldi ai trotzkisti, che a questo si limitavano), ma anzitutto indagare direttamente le condizioni di lavoro e di lotta della classe operaia. Negli anni della ricostruzione postbellica l'operaio è chiamato a vendere la sua forza lavoro al capitale in nome di uno sforzo presentato come trasversale alle classi, ma l'interesse alla ricostruzione è l'interesse del capitale, poiché l'operaio non può che trarre giovamento dalla distruzione del sistema esistente.
L'antagonismo operaio non va però, per Montaldi, imposto intellettualmente e astrattamente dall'avanguardia ai lavoratori; l'operaio non è oggetto di studio e di intervento dei comunisti, semmai soggetto, esattamente come loro. Egli si dedica quindi a una ricerca sul campo circa le reali condizioni e aspirazioni operaie e contadine, impegnandosi affinché fossero essi stessi a raccontarsi e ad esprimere la loro realtà, negli anni in cui la sinistra ufficiale maturava invece quel distacco reale dalla classe di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. Ne saranno risultato opere come Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati (1960, con Franco Alasia), Autobiografie alla leggera (1961) e Militanti politici di base (1971). Questo attivismo in cui l'agitazione politica e l'inchiesta diventano una cosa sola costituirà il nocciolo della pratica che verrà battezzata "con-ricerca" da Romano Alquati e, assieme alle analisi fortemente anticonformiste della soggettività operaia di Raniero Panzieri, apriranno la strada alla grande stagione dell'operaismo italiano che, mettendo al centro la classe e il suo conflitto reale contro l'accumulazione capitalistica (anche e soprattutto al di fuori dagli orizzonti del partito e del sindacato), imporrà all'attenzione delle nuove generazione il problema della conquista dell'autonomia operaia.
È qui, a ben vedere, che Gramsci e Montaldi si incontrano: entrambi hanno dovuto non soltanto vivere la contrapposizione del comunismo alle forze riformiste o democratiche – o fasciste – ma anche quella tra classe oppressa e organizzazioni esistenti della sinistra: in riferimento al tradimento del PSI durante il biennio rosso il primo, e in relazione al tradimento del PCI con la politica della coesistenza democratica il secondo. I germi dei loro scritti, come spesso accade, non hanno ancora prodotto tutta la potenza dei loro frutti (anche a causa di una loro banalizzazione scolastica, come nel caso di Gramsci, o della loro espulsione dai circuiti editoriali ed educativi, come nel caso di Montaldi) nonostante abbiano già influenzato molte generazioni; lette in prospettiva storica, restano un esempio irrinunciabile di abnegazione militante e di intelligenza rivoluzionaria. L'anticonformismo politico e l'autonomia di pensiero di entrambi è caratterizzata da ciò che il vero comunista sa di dover sempre far propria, ossia l'attitudine all'eresia, anche rispetto alla propria stessa tradizione di pensiero.
Per questo tra le righe più potenti di Gramsci resteranno sempre quelle, splendide, da lui dedicate all'Ottobre Rosso: "La rivoluzione dei bolscevichi è [...] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili".
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love-nessuno · 5 years ago
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Bella Ciao - ORIGINALE
di Luigi Morrone
Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto». La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti? In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso. Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella. Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”. E così via. Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa. Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome. Andiamo con ordine. Già sulla melodia, se ne sentono di tutti i colori.È una melodia genovese, no, anzi, una villanella del 500, anzi no, una nenia veneta, anzi no, una canzone popolare dalmata … Tanto che Carlo Pestelli sostiene: «Bella ciao è una canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore» Sul punto, l’unica certezza è che la traccia più antica di una incisione della melodia in questione è del 1919, in un 78 giri del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff, intitolato “Klezmer-Yiddish swing music”. Il Kezmer è un genere musicale Yiddish in cui confluiscono vari elementi, tra cui la musica popolare slava, perciò l’ipotesi più probabile sull’origine della melodia sia proprio quella della canzone popolare dalmata, come pensa Bocca. Vediamo, invece, il testo “partigiano”. Quando comparve la prima volta? Qui s’innestano i racconti “orali” che richiamano alla mente la trota di Jerome. Ognuno la racconta a modo suo. La voce “Bella ciao” su Wikipedia contiene una lunga interlocuzione in cui si racconta di una “scoperta” documentale nell’archivio storico del Canzoniere della Lame che proverebbe la circolazione della canzone tra i partigiani fra l’Appennino Bolognese e l’Appennino Modenese, ma i supervisori dell’enciclopedia online sono stati costretti a sottolineare il passo perché privo di fonte. Non è privo di fonte, è semplicemente falso: nell’archivio citato da Wikipedia non vi è alcuna traccia documentale di “Bella ciao” quale canto partigiano. Al fine di colmare la lacuna dell’assenza di prove documentali, per retrodatare l’apparizione della canzone partigiana, molti richiamano la “tradizione orale”, che – però – specie se di anni posteriore ai fatti, è la più fallace che possa esistere. Se si va sul Loch Ness, c’è ancora qualcuno che giura di aver visto il “mostro” passeggiare sul lago …Viceversa, non vi è alcuna fonte documentale che attesti che “Bella ciao” sia stata mai cantata dai partigiani durante la guerra. Anzi, vi sono indizi gravi, precisi e concordanti che portano ad escludere tale ipotesi. Tra i partigiani circolavano fogli con i testi delle canzoni da cantare, ed in nessuno di questi fogli è contenuto il testo di Bella ciao. Si è sostenuto che il canto fosse stato adottato da alcune brigate e che fosse addirittura l’inno della Brigata Maiella. Sta di fatto che nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come “inno”. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: “Inno della lince”. Mancano – dunque – documenti coevi, ma neanche negli anni dell’immediato dopoguerra si ha traccia di questo canto “partigiano”. Non vi è traccia di Bella ciao in Canta Partigiano edito dalla Panfilo nel 1945. Né conosce Bella ciao la rivista Folklore che nel 1946 dedica ai canti partigiani due numeri, curati da Giulio Mele. Non c’è Bella ciao nelle varie edizioni del Canzoniere Italiano di Pasolini, che pure contiene una sezione dedicata ai canti partigiani. Nella agiografia della guerra partigiana di Roberto Battaglia, edita nel 1953, vi è ampio spazio al canto partigiano. Non vi è traccia di “Bella ciao”. Neanche nella successiva edizione del 1964, Battaglia, pur ampliando lo spazio dedicato al canto partigiano ed introducendo una corposa bibliografia in merito, fa alcuna menzione di “Bella ciao”. Eppure, il canto era stato già pubblicato. È infatti del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla Rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma. Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”. Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani. Sulla presentazione di Bella ciao nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace” non vi sono elementi concreti a sostegno. Carlo Pestelli racconta: «A Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, un gruppo di ex combattenti provenienti dall’Emilia diffuse con successo Bella ciao. In quell’occasione, migliaia di delegati provenienti da settanta Paesi si riunirono nella capitale ceca e alcuni testimoni hanno raccontato che, grazie al battimani corale, Bella ciao s’impose al centro dell’attenzione», omettendo – però – di citare la fonte, onde non si sa da dove tragga la notizia. Sta di fatto, che nei resoconti dell’epoca non si rinviene nulla di tutto ciò: L’Unità dedica alla rassegna l’apertura del 26 luglio 1947, con il titolo “La Capitale della gioventù”. Nessun accenno alla presentazione del canto. Come si è detto, sul piano documentale, non si ha “traccia” di Bella ciao prima del 1953, momento in cui risulta comunque piuttosto diffusa, visto che da un servizio di Riccardo Longone apparso nella terza pagina dell’Unità del 29 aprile 1953, apprendiamo che all’epoca la canzone è conosciuta in Cina ed in Corea. La incide anche Yves Montand, ma la fortuna arriderà più tardi a questa canzone oggi conosciuta come inno partigiano per antonomasia. Come dice Bocca, sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di “Bella ciao” che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo. La Daffini aveva presentato la versione “mondina” di Bella ciao nel 1962 a Gianni Bosio e Roberto Leydi, dichiarando di averla sentita dalle mondine emiliane che andavano a lavorare nel vercellese, ed il Nuovo Canzoniere Italiano aveva dato credito a questa versione dei fatti. Sennonché, nel maggio 1965, un tale Vasco Scansiani scrive una lettera all’Unità in cui rivendica la paternità delle parole cantate dalla Daffini, sostenendo di avere scritto lui la versione “mondina” del canto e di averlo consegnato alla Daffini (sua concittadina di Gualtieri) nel 1951. L’Unità, pressata da Gianni Bosio, non pubblica quella lettera, ma si hanno notizie di un “confronto” tra la Daffini e Scansiani in cui la ex mondina avrebbe ammesso di aver ricevuto i versi dal concittadino. Da questo intreccio, parrebbe che la versione “partigiana” avrebbe preceduto quella “mondina”. Nel 1974, salta fuori un altro presunto autore del canto, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvatori, che in una lettera alle edizioni del Gallo, racconta di averla scritta per una mondina negli anni 30, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché diffidato dalla censura fascista. La contraddittorietà delle testimonianze, l’assenza di fonti documentali prima del 1953, rendono davvero improbabile che il canto fosse intonato durante la guerra civile.Cesare Bermani sostiene che il canto fosse “poco diffuso” durante la Resistenza, onde, rifacendosi ad Hosmawm, assume che nell’immaginario collettivo “Bella ciao” sia diventata l’inno della Resistenza mediante l’invenzione di una tradizione. Sta di fatto che lo stesso Bermani, oltre ad avvalorare l’inattendibile ipotesi che fosse l’inno della Brigata Maiella, da un lato, riconosce che, prima del successo dello spettacolo al Festival di Spoleto «si riteneva, non avendo avuto questo canto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, che fosse sorto nell’immediato dopoguerra», dall’altro, però, raccoglie svariate testimonianze che attesterebbero una sua larga diffusione durante la guerra civile, smentendo di fatto sé stesso. Il problema è che le testimonianze a cui fa riferimento Bermani per avvalorare l’ipotesi di una diffusione, sia pur “scarsa”, di “Bella ciao” durante la guerra civile, sono contraddittorie e raccolte a distanza di svariati anni dalla fine di essa (la prima è del 1964 …), con una conseguente scarsa attendibilità. Dunque, se di invenzione di una tradizione si tratta, è inventata la sua origine in tempo di guerra. Ritornando al punto di partenza, come sostengono Bocca e Panza, “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma il mito di “Bella ciao” come “canto partigiano” è così radicato, da far accompagnare il funerale di Giorgio Bocca proprio con quel canto che egli stesso diceva di non aver mai cantato né sentito cantare durante la lotta partigiana. Perché “Bella ciao”, nonostante tutto, è diventata il simbolo della Resistenza, superando sin da subito i confini nazionali? Perché ha attecchito questa “invenzione della tradizione”? Qualcuno ha sostenuto che il successo di “Bella ciao” deriverebbe dal fatto che non è “targata”, come potrebbe essere “Fischia il vento”, il cui rosso “Sol dell’Avvenir” rende il canto di chiara marca comunista. “Bella ciao”, invece, abbraccerebbe tutte le “facce” della Resistenza (Guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; guerra civile contro la dittatura fascista; guerra di classe per l’emancipazione sociale), come individuate da Claudio Pavone. Ma, probabilmente, ha ragione Gianpaolo Pansa: «(Bella ciao) viene esibita di continuo ogni 25 aprile. Anche a me piace, con quel motivo musicale agile e allegro, che invita a cantarla». Il successo di “Bella ciao” come “inno” di una guerra durante la quale non fu mai cantata, plausibilmente, deriva dalla orecchiabilità del motivo, dalla facilità di memorizzazione del testo, dalla “trovata” del Nuovo Canzoniere di introdurre il battimani. Insomma, dalla sua immediata fruibilità.
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Una casa di ferro e di vento di Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi – Un intreccio di vite e destini nella storia italiana del Novecento. Recensione di Alessandria today
Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi ci conducono attraverso le vicende di una famiglia e della loro dimora, simbolo di cambiamenti e trasformazioni lungo il secolo.
Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi ci conducono attraverso le vicende di una famiglia e della loro dimora, simbolo di cambiamenti e trasformazioni lungo il secolo. Recensione:“Una casa di ferro e di vento” di Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi è un romanzo storico che esplora le vicende di una famiglia italiana attraverso il Novecento, con al centro una casa che diventa il simbolo dei mutamenti…
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laciviltacattolica · 4 years ago
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La luce in uno sputo | Nicolò Mazza S.I.
La Storia di Elsa Morante è ambientata a Roma tra la Seconda Guerra Mondiale e l’immediato dopoguerra. La grande Storia di quegli anni è rivista attraverso la piccola storia di Ida Raimundo, che mette al mondo una delle creature più belle e luminose della letteratura di tutti i tempi, il piccolo Useppe.
Ancora bambino, Useppe si lancia in un viaggio appassionato dentro se stesso. Prima tra le mura di casa, dove è costretto a passare intere giornate mentre la madre è a scuola per lavoro e dove la sua immaginazione si dilata «nelle sterminate esplorazioni che faceva, camminando a quattro zampe, intorno agli Urali, e alle Amazonie, e agli Arcipelaghi Australiani, che erano per lui i mobili di casa»; poi dentro un rifugio, in una convivenza malsana con numerosi altri poveracci in cerca di salvezza; e infine in una misteriosa radura sul Tevere, dove farà incontri inaspettati e vivrà esperienze sulla soglia tra l’immaginazione e l’estasi.
Per questo bambino, il divario tra sacro e profano si dissolve e l’intero universo sembra farsi trasparenza del Divino. Come la «tenda d’alberi in riva all’acqua», dove si reca ogni giorno con il suo cane, oppure quando lo si sorprende a giocare con i resti di sputo sulle pareti del cortile o con la corazza degli scarafaggi, convinto di rincorrere, in questi rimasugli d’esistenza, una stella: una stella dentro una lampadina rotta, dentro una mosca sulla finestra, un’altra dentro un mazzo di cipolle sospese al soffitto o un vaso di fiori appassiti sulla tavola.
Quali occhi possono trasfigurare così la realtà, se non gli occhi di un poeta? La grande Storia, vissuta da un bambino come “possibilità” fra le pareti anguste di un paese in guerra o dentro un minuscolo appartamento suburbano, diventa così un’opportunità per affinare lo sguardo, allenato a riconoscere il cuore della realtà anche nei suoi risvolti sfigurati, in una rinnovata comunione con gli altri e con la natura.
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Esplorate  con noi i tesori digitali delle biblioteche italiane che aderiscono al progetto: “Internet Culturale”
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Correva l’anno…2005, precisamente il 22 di marzo, quando veniva inaugurato Internet Culturale, il portale che doveva essere  il perno di un ideale  “sistema informativo delle biblioteche italiane“, risultato principe del progetto intergovernativo BDI&NTC (Biblioteca Digitale Italiana e Network Turistico culturale) e punto di accesso unico e integrato al patrimonio informativo nazionale, dai cataloghi alle collezioni digitali. 
Come spesso capita nel mondo concreto, le cose si muovono a una velocità inferiore di quella prevista dal mondo ideale, ma lentamente anno dopo anno, raccolta dopo raccolta, versione dopo versione il progetto ha preso una forma stabile, generando un sito accogliente e ricco di informazioni.
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Internet Culturale consente di esaminare un patrimonio di notevoli dimensioni. In particolare nella sezione dedicata ai contenuti digitali è possibile visualizzare oltre dodici milioni di “oggetti" provenienti da biblioteche, archivi e dalle istituzioni culturali italiane che progressivamente hanno aderito al  programma di condivisione delle risorse, ma non pensiate che questo si traduca in un’eccessiva complessità di utilizzo. Il motore “di ricerca semplice” è ben progettato per rispondere ai quesiti per “parola significativa” e nella ricerca avanzata (si accede dal simbolo + sotto il tasto “Esplora”) una serie di funzioni e campi guidano la nostra analisi fino a produrre risultati molto puntuali.
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Risultati che possono essere ulteriormente migliorati se si utilizza l’opzione “raffina la ricerca”, che consente di applicare una serie di filtri come: autore, tipo di documento, dati di pubblicazione, soggetto e molti altri.
Per aiutarci a impostare una ricerca corretta è stato prodotto un filmato, riferito alla versione precedente del sito, ma valido in quasi tutte le sue parti anche con l’ultima release.
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Per incominciare a prendere confidenza con i materiali messi a disposizione vi consigliamo di provare ad entrare direttamente nelle collezioni cliccando su: “Le collezioni della biblioteca digitale”. Da qui potrete facilmente filtrare la vostra ricerca per disciplina e/o tipologia di materiale.
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Per stimolare la vostra curiosità vogliamo suggerirvi  qualche raccolta particolarmente allettante. Partiamo da: “Manifesti Cinematografici Dal Secondo Dopoguerra Agli Anni Settanta Del Novecento”, che  comprende  oltre diecimila manifesti di film  italiani e stranieri, capolavori come Casablanca, Via col vento, Fronte del porto, illustrati dai nomi più importanti della cartellonistica cinematografica italiana dell’epoca, Anselmo Ballestrer, Alfredo Capitani, Gigi Martinati, Cesselon, Olivetti, Ciriello, Brini, Nistri, Longi, De Seta.
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Gli amanti della musica classica e operistica non possono farsi sfuggire “Archivio Dei Periodici Musicali Italiani”, due secoli di  riviste d’informazione di argomento musicale e musicale/teatrale tra le più significative della nostra nazione  come  “Rivista musicale italiana”, “Rivista teatrale melodrammatica”, “Scena Illustrata “ e “Teatri, arti e letteratura”.
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Chi può rimanere indifferente alla semplice perfezione  dei “Manoscritti del Hortus Pisanus”, un piccolo gioiello formato da sette codici, provenienti dalla Biblioteca del  Giardino de Semplici della citta di Pisa, che in gran parte conservano ancora la legatura originaria in pergamena con impresso sul piatto anteriore, a ferri e oro, lo stemma granducale dei Medici e all’interno l’antico numero di inventario; tutti contengono preziose tavole acquerellate con disegni di piante, fiori, animali e prospetti di giardini.
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E che dire di quasi seicentomila immagini che documentano un importante spaccato della storia del cinema e del costume. L’archivio “Angelo Frontoni” ci accompagna direttamente sui luoghi delle riprese con immagini in bianco e nero e a colori : fotografie di grande bellezza e interesse che documentano il lavoro del set e dei suoi protagonisti; la macchina fotografica si sofferma su attori, registi, tecnici, seguendoli durante le riprese e nei momenti di relax.
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Per finire concediamoci di sfogliare  uno dei 233 esemplari rimasti al mondo, conservato nella biblioteca Universitaria di Padova, delle prima raccolta “First Folio” delle opere di William Shakespeare, Comedies, histories, & tragedies, pubblicata a Londra in formato in folio da Edward Blount e Isaac Jaggard nel 1623, sette anni dopo la morte del drammaturgo.
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Che dire oltre? Buona ricerca e buona lettura.
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retegenova · 5 years ago
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VENERDÌ 6 SETTEMBRE 2019 A SESTRI LEVANTE LA PRESENTAZIONE DI “LE FAVOLE DI NONNA NANDA”
Il libro raccoglie i pluripremiati racconti per bambini scritti da Fernanda Durante Gallini, scrittrice genovese prematuramente scomparsa nel 1978. Alla presentazione all’Hotel Vis a Vis (ore 18.30) presenti anche il Sindaco Valentina Ghio e i figli Antonella, Martina e Stefano
Sestri Levante (GE) – Venerdì 6 settembre (ore 18.30) all’Hotel Vis a Vis di Sestri Levante (via della Chiusa 28) sarà presentato “Le favole di Nonna Nanda” (Edizioni DuPress), libro che raccoglie le favole scritte da Fernanda Durante Gallini, scrittrice genovese scomparsa prematuramente nel 1978. I suoi racconti per bambini sono stati premiati più volte negli anni Settanta, ricevendo riconoscimenti come il Premio Andersen nel 1975, la Scarpina D’Oro, Il Premio Letterario di Paestum, il Leone d’Oro e La Scure D’Oro.
Le favole di Fernanda Durante Gallini sono state conservate dai figli e raccolte in “Le favole di Nonna Nanda”, dove sono affiancate da illustrazioni originali realizzate dalla figlia Martina. «Rileggere le sue favole per bambini è un modo stupendo di ricordare una donna brillante come nostra madre – afferma la figlia Martina Gallini, illustratrice delle favole contenute nel libro e promotrice della raccolta e della pubblicazione – che, nonostante la sua breve esistenza, ha lasciato un segno profondo per molte persone». Figlia dell’armatore Renato Durante e nipote dell’imprenditore e Cavaliere del Lavoro Mario Cagnoni, Fernanda Durante era una persona sensibile e pragmatica, appassionata di letteratura, teatro e cinema. «Era una donna unica ed eccentrica, di eccezionale intelligenza e grande spiritualità – aggiungono i figli Antonella e Stefano – che già negli anni Sessanta aveva capito l’importanza di preservare l’ambiente. La sua vita si interruppe proprio mentre la sua carriera letteraria stava decollando: nostra sorella Martina ha avuto l’idea di riunire in un’opera le sue favole più premiate ed è questo il modo migliore per rendere onore alla sua straordinarietà. Siamo molto felici di riuscire in questo anche grazie a una persona come Piero Rocchi, fondatore di Edizioni DuPress di Bologna ed editore lungimirante e attento».
Fernanda Durante Gallini, nata a Genova il 9 marzo 1930, ha trascorso la gioventù e l’adolescenza a Novi Ligure, dove ha vissuto tutto il periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra. “Nanda” si è sposata nel 1956 con l’industriale Mario Gallini e ha avuto tre figli: Antonella, Stefano e Martina, che ha amato alla follia. Mamma meravigliosa, è stata una donna unica ed entusiasta della vita. Amava sciare, amava il mare, la natura, gli animali e, soprattutto, scrivere. Ha vinto diversi premi per le sue poesie e per le sue favole: “La Scarpina d’Oro” e “La Scure d’oro” nel 1977, il “Leone d’Oro” nel 1976, il “Premio Andersen” nel 1975 e, sempre negli anni Settanta, il “Premio letterario di Paestum”. A pochi giorni dalla sua scomparsa del 1978 le è stata dedicata una commovente pagina sul Secolo XIX. Dotata di una personalità carismatica, Nanda si entusiasmava anche per le piccole cose. Trasmetteva amore a tutte le persone che hanno avuto il privilegio di conoscerla. Tutti ricordano il suo entusiasmo e il forte attaccamento alla vita: era una donna molto raffinata nello stile personale e nel pensiero.
A presentare di “Le favole di Nonna Nanda”,  venerdì 6 settembre alle 18.30 all’Hotel Vis a Vis, sarà l’editore Piero Rocchi. Partecipano anche il Sindaco di Sestri Levante  Valentina Ghio e i  figli  Martina, Antonella e Stefano, quest’ultimo presidente e fondatore del Riviera International Film Festival. “Le favole di Nonna Nanda” di Fernanda Durante Gallini è edito dalla  Edizioni DuPress di Bologna di Piero Rocchi ( www.dupress.it) e si può trovare su  www.Amazon.it,  www.lafeltrinelli.it e  www.IBS.it
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VENERDÌ 6 SETTEMBRE 2019 A SESTRI LEVANTE LA PRESENTAZIONE DI “LE FAVOLE DI NONNA NANDA” VENERDÌ 6 SETTEMBRE 2019 A SESTRI LEVANTE LA PRESENTAZIONE DI “LE FAVOLE DI NONNA NANDA” Il libro raccoglie i pluripremiati racconti per bambini scritti da Fernanda Durante Gallini, scrittrice genovese prematuramente scomparsa nel 1978.
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kon-igi · 6 years ago
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VI ABBRACCIO TUTTI
soprattutto lo sventurato @uds, che è stato l’involontaria rampa di lancio del mio missile di merda del post precedente contro la scuola italiana.
Vi abbraccio perché mi avete scritto decine di ask, di messaggi in chat, mi avete contattato su whatsapp e pure telefonato per sapere come stiamo... però, come sempre, essendo stato un rant sintetico di sfogo su una situazione che magari molti ignoravano, è venuta fuori una roba più tragimelodrammatica di quello che meritava ma, come essere umano, avevo bisogno di inveire e di potere stare un po’ meglio (sì, il fatto che ne abbia parlato è perché va decisamente meglio).
Sono ancora molto arrabbiato ma mi rendo conto di poter essere apparso ingiusto nei confronti di quei tanti insegnanti che ogni mattina si siedono alla cattedra non dico con il fuoco della passione didattica ma se non altro con un minimo di affetto e di amore verso questi giovani adulti.
Qualcuno ne abbiamo incontrato ma non è stato abbastanza.
La scuola è la prima arena di confronto della vita, è un luogo di apprendimento, di crescita, di paragone e di sviluppo della contrapposizione e della sintesi tra il ‘me’ e il resto del mondo e trovo avvilente e demotivamente che la maggior parte delle persone considerino forgiante per il carattere che questi ragazzi debbano ingaggiare una sorta di death match last man standing contro il blocco di cemento di un’istruzione granitica, intoccabile e immutabile nei decenni.
Se voglio vedere Battle Royale allora vorrà dire che mi affitterò il VHS da Blockbuster.
Puoi dire di aver fatto il tuo buon lavoro di insegnante di storia se nel primo quadrimestre sussurri frase lette da un libro, senza alzare lo sguardo sulle persone che hai davanti, salvo poi accelerare a tavoletta e fermarti al dopoguerra perché non hai più tempo per sputare due parole sugli ultimi quarant’anni di storia mondiale? Non dico che debbano essere tutti come il mio Prof di Storia e Filosofia del Liceo, non vedente, che comprava il giornale ogni mattina e poi diceva ‘Voi casinisti degli ultimi banchi, leggetemi i titoli e cominciate a dire cosa ne pensate!’, però un pensierino sfuggente meriterebbe farlo.
Questo per ciò che riguarda la didattica, eh!, perché se affrontiamo il discorso ‘classe piena di ragazzine in menarca, sovrappeso, bruttine, anoressiche, molestate, ignorate, derise e di ragazzini omosessuali, gracili, fragili, non amanti dell sport e bullizzati’ allora capirete che il programma di storia, di letteratura o di matematica comincia a rotolare giù dalla scale delle priorità vitali.
E mettere un’ora alla settimana di sportello di ascolto mi sembra utile come il tipo che sgottava l’acqua con una tazzina da tè mentre la barca affondava.
Per concludere, io davvero non ho la soluzione del problema perché mi occupo di rattoppare gente rotta e non di istruzione, però, ecco, uso volentieri la formula del ‘sto pagando un professionista per fare un qualcosa che io non so fare’ e mi piacerebbe vedere applicate formule meno roboanti e viscerali (nel senso 'pancia delle persone’) e un po’ più umane, di inclusione e coesione. Preferibilmente che non includano telecamere o metal detector.
*rumore di due centesimi buttati sul tavolo*
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...Cesare Pavese è stato e continua ad essere presso le nuove generazioni, uno degli scrittori più amati della letteratura italiana contemporanea: per la lucidità con cui tradusse nella poesia e nella prosa la sua avventura esistenziale; per la coincidenza diretta, tragica, tra i motivi letterari della sua opera e le conseguenze che ne trasse sul piano umano e personale con il suicidio; per l'atteggiamento riservato ma schietto fino alla durezza con cui visse uno dei periodi politici piu densi di avvenimenti della storia dell'Italia contemporanea: dal fascismo, all'antifascismo vissuto nel gruppo degli intellettuali torinesi (da Norberto Bobbio a Massimo Mila), alla rinascita culturale del dopoguerra, cui Pavese contribuì non solo come autore ma anche con la collaborazione editoriale alla casa Einaudi. Davide Lajolo, che raccolse direttamente, da amico e da intellettuale, le confidenze dello scrittore, ripropone qui la sua biografia umana e letteraria di Pavese, Il vizio assurdo; sotto un'angolazione nuova che integra la narrazione puntuale delle vicende della sua vita con una valutazione critica che il tempo ha reso più pacata e ragionata, arricchendola con i risultati di un dibattito letterario che ha continuato a svilupparsi e a scoprire nell'opera di Pavese nuovi motivi e nuove implicazioni...#ravenna #booklovers #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #poesia #alekospanagulis #cesarepavese (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/Cgvp_GlI2Qd/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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