#ironia e tenerezza
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"Un Amore di Zitella" di Andrea Vitali: Una Storia di Amore, Solitudine e Intrighi di Paese. Recensione di Alessandria today
Un romanzo delicato e ironico che racconta le vite segrete e i piccoli drammi di un paese sulle rive del lago di Como.
Un romanzo delicato e ironico che racconta le vite segrete e i piccoli drammi di un paese sulle rive del lago di Como. Recensione Nel romanzo “Un Amore di Zitella”, Andrea Vitali ci trasporta, con il suo stile inconfondibile, in un piccolo borgo sulle rive del lago di Como. Come in molte delle sue opere, Vitali dipinge un affresco di vita di paese, con personaggi bizzarri e situazioni…
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All’inizio, quando ho cominciato a capire meglio me stesso ho cominciato a starmi antipatico. Poi ho iniziato a prendermi in giro, a sdrammatizzare con ironia i drammi della sorte e finalmente a prendermi per mano, ad accarezzarmi, a volere bene alla mia dura scorza ma anche alla mia tenerezza. Oggi non lo so se sempre mi amo, probabilmente no, ancora no. Ma so che quando mi perdono con più facilità perdono gli altri. Questo per ora mi sembra abbastanza.
Massimo Bisotti
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Tenerezza e timidezza di bambina e allo Stesso Tempo audacia e provocante sensualità di donna matura.
Fragilità e dolcezza ma al contempo forza, risolutezza e resistenza.
Ironia e simpatia, ma freddezza quando serve e serietà. Tutto questo, sai, sei tu e ancora molto, molto di più
E. D'Agata
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Mi basta solo sapere che continui a seguirmi, da lontano e in silenzio, è vero, ma con simpatia, ammirazione, dolcezza, tenerezza, intelligenza, umorismo, ironia, amore e sensualità.
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LE PAROLE SONO TENERE COSE grazie ❤ Ci metto un po' a scriverne. Se qualcosa possono restituire queste foto, il debutto de "La luna e i falò" è stato così. Appena una settimana fa. Lo terrò nel cuore a lungo. E lo rifarei anche domani. Il teatro pieno. Adulti, anziani, ragazzi insieme. Pubblico venuto per vedere una prima e riascoltare le parole di Pavese. Altro che titolo difficile. Le persone vogliono le cose alte, mettiamocelo in testa (parlo di Pavese, no di me). Amici, operatori che seguono il mio lavoro da anni, addetti ai lavori e non, venuti da ovunque, fino dalla Svizzera. Persone hanno fatto 300 km e preso la camera d’albergo. Non ho parole. Istituzioni mai così vicine e commosse per il mio lavoro. È la mia opera prima questo testo. 75 minuti di drammaturgia in solitaria tra parole mie e parole di Pavese diventate, spero, carne. Alla fine mi raggiunge Gerardo Guccini commosso per la scrittura, mi dice. Sono onorato. Paolo Ponzio, nuovo Presidente del Teatro Pubblico Pugliese, emozionato a parlarne dopo. Sono io che ringrazio te. Patrizia Ghedini, Presidente di ATER Fondazione, e ora cosa possiamo dire. Roberta Gandolfi, Università di Parma, che riporta a tutti che questo testo taglia e fa male. Molto. Pierluigi Vaccaneo, Direttore della Fondazione Cesare Pavese, che mi dice e mi commuove “sei nel gesto”. E so quanto vale questa citazione tra quelle di Pavese. A tutti faccio un dono. E' la cosa più decente che possa fare da qui. Non sono parole mie ma di Pavese ancora. Vengono da un articolo che si intitola "Gli uomini e le parole". È del 1946. E' a sua volta un dono che ho ricevuto. Lo ha ritrovato Cira Santoro, amica cara e forte di questo debutto e da ora custode con me di quanto è accaduto, nella sua copia del romanzo. Era stato ripubblicato, guarda caso, uno dei tanti “casi”, il 25 febbraio 1995, stesso giorno del debutto. Se siete arrivati a leggere fin qui leggete ancora questa parte che vi riporto in basso. È commovente. Siamo noi. A tutti quelli che hanno sostenuto con gli studi intermedi dell’estate 2022, con la co-produzione, con le parole distillate in radio, a loro e a chi non c’era fisicamente, ecco l’articolo. Con tenerezza e amicizia. Grazie. A prestissimo. “(…) Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra (…)” Cesare Pavese, 20 maggio 1945 𝗟𝗔 𝗟𝗨𝗡𝗔 𝗘 𝗜 𝗙𝗔𝗟𝗢' 𝗧𝗶𝗺𝗲 𝗻𝗲𝘃𝗲𝗿 𝗱𝗶𝗲𝘀 𝘥𝘪 𝘦 𝘤𝘰𝘯 Luigi D’Elia 𝘭𝘪𝘣𝘦𝘳𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘪𝘴𝘱𝘪𝘳𝘢𝘵𝘰 𝘢 𝘓𝘈 𝘓𝘜𝘕𝘈 𝘌 𝘐 𝘍𝘈𝘓𝘖’ 𝘥𝘪 𝘊𝘦𝘴𝘢𝘳𝘦 𝘗𝘢𝘷𝘦𝘴𝘦 𝘳𝘦𝘨𝘪𝘢 Roberto Aldorasi 𝘴𝘤𝘦𝘯𝘢 𝘙𝘰𝘣𝘦𝘳𝘵𝘰 𝘈𝘭𝘥𝘰𝘳𝘢𝘴𝘪 𝘦 Francesco Esposito 𝘳𝘦𝘢𝘭𝘪𝘻𝘻𝘢𝘵𝘢 𝘥𝘢 𝘊𝘰𝘴𝘪𝘧𝘪𝘤𝘪𝘰 – 𝘊𝘳𝘦𝘢𝘵𝘶𝘳𝘦 𝘚𝘱𝘦𝘵𝘵𝘢𝘤𝘰𝘭𝘢𝘳𝘪 𝘭𝘶𝘤𝘪 Davide Scognamiglio 𝘧𝘰𝘵𝘰 𝘦 𝘤𝘶𝘳𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘥𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 Michela Cerini 𝘥𝘢𝘵𝘰𝘳𝘦 𝘭𝘶𝘤𝘪 Francesco Dignitoso 𝘰𝘳𝘨𝘢𝘯𝘪𝘻𝘻𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦 𝘥𝘪𝘴𝘵𝘳𝘪𝘣𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 Francesca Vetrano e Archètipo 𝘶𝘧𝘧𝘪𝘤𝘪𝘰 𝘴𝘵𝘢𝘮𝘱𝘢 Michele Pascarella una produzione Compagnia INTI di Luigi D’Elia e Archetipo con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese nell’ambito del progetto “𝘏𝘦𝘳𝘮𝘦𝘴” 𝘧𝘪𝘯𝘢𝘯𝘻𝘪𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘢𝘭 𝘗𝘳𝘰𝘨𝘳𝘢𝘮𝘮𝘢 𝘐𝘯𝘵𝘦𝘳𝘳𝘦𝘨 𝘝-𝘈 𝘎𝘳𝘦𝘦𝘤𝘦-𝘐𝘵𝘢𝘭𝘺 2014-2020 Festival Parthenium calling e la collaborazione della Fondazione Cesare Pavese
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Matthew Perry, nel ruolo di Chandler Bing.
Te ne sei andato troppo presto, e sei stato una persona forte nelle tue battaglie e nelle tue rivincite, grazie per avermi fatto sorridere, ridere, sognare perfino e in un certo senso. Grazie per essere stato quel riflesso di me, che prende tutto con ironia per restare a galla, il tuo personaggio trasmette tenerezza, e chissà nella vita reale, che amico avresti potuto essere(?), forse proprio quello di cui avrei avuto tanto bisogno. Sei stato interiorizzato, a qualche livello in me, come un pezzetto dolcissimo della mia infanzia/adolescenza.
RIP Matthew Perry
No one else could’ve played Chandler Bing🩵
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Roma cara, non so spiegare facilmente quanto amore e quanta passione provo per te. Forse non potrei provare altrettanto, se fossi nata tra le tue braccia; ma io ti ho conosciuta tardi e, per il primo periodo, ti detestavo perfino: eri troppo vasta e popolosa e confusa per me, bambina cresciuta in piccole città buie e pensose del Nord. Tu, così antica ed eterna, sei probabilmente indifferente al mio trasporto, o forse lo ricambi, ma come accade alle persone un po' burbere e poco espansive, con una specie di silenziosa ironia che ben dissimula la tenerezza di cui sei capace. Io sento che tu hai un tuo spirito ed una tua intelligenza: so ormai che si dischiude solo nei rari momenti di pace - la notte, nelle prime ore del giorno, quando passeggio per le tue vie e ti scopro bellissima, sporca, scompigliata, malinconica. Tu sei il fiume rinseccolito, più verde di nuove isole stagnate che biondo di sabbia; tu prendi il volto d'un barbone seduto sulla scalea di una chiesa barocca; tu mi guardi attraverso di me, specchiata in una vetrina impolverata; tu mi sorridi nei begli occhi neri d'un brutto giovane brusco, e il desiderio che io vedo in quegli occhi è forse il desiderio di te per me, e mio per te, o eterna.
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LA CASA DEL SORDO
Assistere al capricco teatrale “La casa del sordo”, dell’Odin Teatret di Eugenio Barba è un po’ come trovare una istantanea di cinquant’anni fa in un cassetto: la si guarda con tanta nostalgia di quegli anni, ma anche con grande tenerezza. La fotografia però è sbiadita dal passare del tempo e non ha più nulla della sua originaria brillantezza. Ecco, se mi è concesso usare una metafora, sceglierei questa per descrivere cosa ho provato assistendo sabato scorso al Teatro Menotti di Milano alla rappresentazione dell’Odin su testo di Else Marie Laukvik ed Eugenio Barba. Con la rappresentazione di sabato si è chiusa una intera settimana dedicata all’Odin Teatret con presentazioni di libri, film, laboratori e conferenze dedicati ai “60 anni dell’Odin Teatret” fondato nel 1964 da Eugenio Barba a Oslo e poi trasferitosi a
Holstebro in Danimarca. Mostro sacro dell’avanguardia teatrale, si devono a Eugenio Barba, e al suo Odin, molte delle invenzioni, delle teorie, delle provocazioni del teatro di ricerca che venne poi definito “Terzo Teatro”. L’Odin fu il luogo, fisico ed ideale, dove un attore poteva “imparare ad imparare” (secondo un celebre motto del teatro); forse più che “spettacoli” l’Odin ha sempre prodotto esperienze, performance, “training”. Oggi le potremmo chiamare “residenze”, cioè un gruppo di artisti che permangono in un dato luogo e che lavorano congiuntamente su loro stessi, cimentandosi su un tema dato. L’Odin è più che altro questo, una perenne residenza artistica che ha saputo coniugare tutte le specificità della culture locali rituali, etniche, musicali dei luoghi in cui si è svolta. Lo sfondamento della “quarta parete”, a vantaggio di una circolarità dialettica tra performer e “spettatori”, l’abolizione del sipario, gli attori sempre in scena, l’utilizzo di materiali poveri o poverissimi (le “carabattole” di cui parlava in una intervista a “Scena” un giovane Eugenio Barba), sono queste le caratteristiche fortemente innovative dell’Odin, una specie di “agit-prop” declinato su grandi temi antropologici. E dopo questo “pippone” sull’avanguardia teatrale cosa resta da dire de “La casa del sordo”? Si tratta di un “pasticcio” teatrale ovvero “una specie di fantasia improvvisata che passa da un tema all’altro” come lo definì il compositore tedesco Michael Prætorius. Soggetto del “pastiche” è il pittore Francisco Goya, sordo totale dall’età di 46 anni, che si trova nella sua casa di Bordeaux dopo essere fuggito dalla Spagna, secondo il racconto che ne fa Leocadia Zorilla, dinnanzi allo stesso Goya nell’ultima notte della sua vita. Il racconto tocca gli eventi politici e culturali che hanno influenzato la vita di Goya, come l’Età della Ragione, il Romanticismo, l’Inquisizione e la Rivoluzione Francese. Un’ora abbondante di spettacolo, non riesce a convincere appieno lo spettatore che non sia passato attraverso quella indispensabile iniziazione alle avanguardie artistiche teatrali degli anni Sessanta e Settanta. Un testo, ma sopratutto una mise-en-scène, per adepti votati al sacrificio teatrale (e uso questo termine senza nessuna ironia). Il teatro come rito di evocazione non sembra più poter far parte della normale programmazione teatrale per un pubblico vasto. Occorre dire che al Teatro Menotti, Emilio Russo, direttore artistico, ha intrattenuto brevemente il pubblico su cosa stava per vedere, anzi su a cosa stava per assistere, e occorre altresì dire, che il pubblico non sembrava proprio essere capitato lì per caso e, pur tuttavia, è mancata quella ovazione finale che ci si poteva attendere, anche per la presenza in sala dello stesso Eugenio Barba.
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Da "I Lunatici" - Rai Radio2
Rocco Papaleo: "Volevo fare il professore ma ero uno studente fallito. Sono un padre troppo apprensivo, mio figlio è il termometro del mio umore. Vivo con la paura che possa succedergli qualcosa. Gli esordi? Cantavo a una festa, mi vide Veronesi che mi consigliò a Pieraccioni...".
Rocco Papaleo è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalle 23 alle 3.
Papaleo ha parlato della sua carriera: "I miei inizi? Un mix tra il caso e la mia passione per la musica. Ho iniziato a suonare la chitarra da ragazzino, mi sono trovato a studiare recitazione e da lì in poi è nata anche una passione di cui non avevo conoscenza in gioventù. Attorno ai 30 anni ero a una festa, su un terrazzo, e cantavo una mia canzone.
Mi vide Veronesi, gli rimasi impresso e suggerì a Pieraccioni il mio nome quando Leonardo fece 'I Laureati'. Fu un film molto fortunato, un grande successo, ha dato una bella spinta alla mia carriera".
Ancora Papaleo: "A scuola ero brillante ma ero anche molto distratto, avevo voglia di scherzare, di suscitare sorrisi. All'università ho iniziato facendo ingegneria, poi ho cambiato facoltà e ho scelto matematica. Puntavo a diventare insegnante, a fare il professore. Ero uno studente fallito, lì è venuta la voglia di studiare recitazione, e ho scoperto questa passione.
Come l'hanno presa in famiglia? I miei genitori non ci sono più, ma sono stati meravigliosi, non mi hanno ostacolato, mi dissero semplicemente che mi avrebbero sostenuto. Mi considero un cantattore. I miei esempi? Giorgio Gaber, Gigi Proietti. La mia vita privata? Io mi farei fotografare volentieri con una bella donna, evidentemente sono un personaggio che non ha quel tipo di appeal e quindi non faccio fatica a proteggere la mia vita privata. In realtà forse non è così interessante da essere spiattellata in prima pagina.
Sono un padre troppo apprensivo, la relazione con mio figlio è la mia relazione principale ed è il termometro del mio umore. Se sta bene lui per me è tutto ok. Vivo con la paura che possa succedergli qualcosa, forse non sono stato capace di dirgli i no che gli andavano detti. Nei suoi confronti ho un carattere ansioso".
Sul politicamente corretto: "La mia narrazione non urta particolarmente, è impregnata di ironia, tenerezza, dolce. Non c'è molta polemica in quello che propongo io. Non ho avuto mai un problema col politicamente corretto".
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Beppe Sebaste vince il premio Wondy per la letteratura resiliente nella sua VI edizione col romanzo "Una vita dolce" (Neri Pozza)
Beppe Sebaste vince il premio Wondy per la letteratura resiliente nella sua VI edizione col romanzo "Una vita dolce" (Neri Pozza). È Beppe Sebaste con il romanzo “Una vita dolce” (Neri Pozza), il vincitore della sesta edizione del Premio Wondy di letteratura resiliente, annunciato ieri sera al Teatro Manzoni di Milano nel corso della tradizionale serata di festa tra parole e musica che accompagna la premiazione, presentata da Drusilla Foer e Alessandra Tedesco, con la partecipazione di numerosi ospiti illustri tra i quali: Levante, la pianista Giuseppina Torre, Valerio Aprea, Francesca Cavallin, Fiammetta Cicogna, Vinicio Marchioni, Vittoria Puccini e Alessandro Roia. Paola Cereda con il libro "La figlia del ferro" (Giulio Perrone Editore) è invece la vincitrice decretata dalla giuria popolare. È stata inoltre assegnata una menzione speciale alla fumettista italiana Icaro Tuttle per il graphic novel “La cura – Storia di tutti i miei tagli” (BeccoGiallo). La Giuria Tecnica, presieduta da Umberto Ambrosoli e composta da Stefania Auci, Federica Bertoni, Alessandra Casella, Fabio Genovesi, Luca Dini, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Emanuele Nenna e Gianni Turchetta, si è così espressa nella motivazione: “Fin dal titolo del libro, la “dolcezza” è una dichiarazione programmatica di resilienza: la “vita dolce” è infatti proprio una vita che si scontra ogni giorno con la realtà dolorosa di una malattia terribile. Eppure, è una vita che a ogni istante viene vissuta con incrollabile tenerezza, e persino con ironia. Una vita dolce racconta l’Alzheimer di S., la compagna del narratore: “Io e S. ridiamo e piangiamo molto”, scrive Sebaste; ma “ridere è una sfaccettatura della perdita”. Ridono, ma anche cantano e ballano, creando una sorprendente “Zona Temporaneamente Liberata”. La privatissima esperienza raccontata riguarda in realtà tutti, e dà luogo a una serie inesauribile di rivelazioni, in un confronto permanente con il sacro e la verità: perché è la stessa malattia a dare rilievo all’assolutezza del “qui e ora”, a quell’“adesso che è sempre” e che illumina “l’eternità come simultaneità”. "Ricchissimo sul piano intellettuale, il libro è anche sempre carico di poesia: a cominciare dal quotidiano scambio di haiku fra il narratore e S., nella lotta contro il progressivo disintegrarsi della memoria. Alla storia principale si intrecciano poi altre storie: come quella della relazione con l’altra compagna di vita del narratore, la geniale artista Cathy Josefowitz. Dentro la cornice narrativa, Una vita dolce accoglie materiali diversissimi: ricordi; citazioni; meditazioni; aforismi. Questo densissimo Zibaldone è anche una riflessione sul senso della scrittura: “Tutta la letteratura è un esercizio di resistenza e liberazione dalle illusioni”. Grazie a Sebaste, ora lo sappiamo meglio: l’atto stesso di scrivere è una forma di resilienza.” Le altre opere finaliste erano: “La bambina sputafuoco” di Giulia Binando Melis (Garzanti), “La figlia del ferro” di Paola Cereda (Giulio Perrone Editore), “Tuamore” di Crocifisso Dentello (La Nave di Teseo), “Sarà solo la fine del mondo” di Liv Ferrachiati (Marsilio), e “Trema la notte” di Nadia Terranova (Einaudi). Al vincitore va un premio di 5000 euro e un'opera su tela dell'artista Luca Tridente, le cui opere donate nelle scorse edizioni sono state inserite nel Catalogo dell'arte moderna (Editoriale Giorgio Mondadori), considerato un punto di riferimento per l'arte moderna e contemporanea. Un premio di 2000 euro è stato invece assegnato alla vincitrice della giuria popolare. Prima della serata è stato organizzato un momento dedicato a giurati e finalisti in collaborazione con PizzaAut, il primo locale in Italia gestito da ragazzi con autismo, fondato da Nico Acampora. Il progetto nasce come laboratorio di inclusione sociale e, grazie anche all’amicizia del fondatore cresciuta negli anni col presidente dell’Associazione Wondy Sono io Alessandro Milan, ha portato al Teatro Manzoni le Gourmaut, pizze realizzate sul momento e servite dai ragazzi di PizzaAut. La sesta edizione del Premio Wondy è organizzata dall’associazione “Wondy Sono Io”, quest’anno in collaborazione con il settimanale F, con i Main Sponsor Banco BPM, Cassa Depositi e Prestiti (CDP), Community, Mindful Capital Partners (MCP), Tendercapital e gli Sponsor Tecnici Collistar, Lions Club International, MASI, PHYTO-L’energia della natura, PizzaAut, Planetaria Hotels e Yamaha.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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[ Tu lo sai come sono certe volte ]
Ho pregato e pregato la mia saggia
ironia di salvarmi
di ridere alquanto di me.
E invece sto in ascolto tutto il tempo
del raffio che mi scarna
d'una mano di ferro che si aggrappa.
Ti dirò: sono troppo civile
per urlare, per dire le cose
abbandonatamente. Nessuna
catarsi, tu lo vedi,
per una condizionata
a decenza di belle maniere.
Sono uscita alla pioggia. Ti ricordi:
m'è sempre piaciuto girare
col vento sotto l'acqua che vola
attaccare discorso coi randagi
lungo i viali scarlatti.
Un bimbo camminava
a guinzaglio di un'altra: mi ha toccato
sussurrando dolcissimi nonsensi.
Ho guardato alla sua tenerezza, a quel libro
bianco e intonso di lui.
Questo confronto, questo
sentirsi quaggiù per imprestito,
l'uscire tra le stelle di Natale
non è la gran soluzione.
Così sono tornata a casa a scriverti
una lettera.
Daria Menicanti, Lettera in presente e passato prossimo
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Una volta mi dicesti di non preoccuparmi, che quelli come me arrivano sempre dove vogliono e io, cieco, illuso nella mia convinzione, ti risposi che senza di te non sarei andato da nessuna parte. Ho percorso migliaia di strade e mi sono condannato alla sofferenza per miopia, per volontà, ma chiaramente avevi ragione fin dal principio. Tu che mi hai scoperto, tu che mi hai dato vita, tu che mi hai creato. Mi dispiace vedere come ti sia accontentata col tuo nuovo ragazzo, lo sappiamo entrambi che ti sei accontentata, non serve neanche che ce lo diciamo, basterebbe uno sguardo mentre siamo in giro tra la folla. Tutti quei libri che volevi divorare, quel bisogno d’apprendimento, non saranno in alcun modo colmati da lui. Avrei sperato di meglio per te.
Quando iniziai a parlarti delle mie passioni lo feci con un senso di vergogna talmente evidente che tu scoppiasti a ridere e mi dicesti che ne parlavo come fosse una confessione di un crimine, una vergogna di qualcosa di cui non potevo farne a meno. Allo stesso tempo apprezzavi la mia ironia, grazie alla quale capivi che mi prendevo in giro come se dessi per scontato d’essere incompreso. Io ti confessai che da dove vengo sarebbe stato molto meno vergognoso commettere un crimine che pubblicare un libro. Tu continui a dipingere, tuo fratello pubblica poesie. Io non scrivevo già più.
Un giorno mi raccontasti che tua madre diceva sempre che quand’eri piccola scappavi dagli abbracci, odiavi qualunque tipo di effusione e non sopportavi di essere trattenuta fisicamente. Hai imparato a camminare da sola, dapprima strisciavi, poi gattonavi, ogni tanto ti alzavi e così via finché imparasti a correre. Quando tuo padre volle insegnarti ad andare in bicicletta gli desti a malapena il tempo di darti la spinta iniziale, ti concentrasti immediatamente sul tuo equilibrio e provasti a pedalare da sola. Girasti l’angolo e cadesti. Non glielo dicesti. Ti rialzasti e tornasti da lui solo dopo aver imparato da sola a ripartire. Io non c’ero, ma era come se l’avessi sentito quel “puoi tornare a casa, sono capace”. Ti sanguinavano mani e ginocchia, lui capì che doveva fare finta di niente. Col tempo la sua condotta ti aiutò a scrollarti di dosso qualche senso di colpa che questo essere schiva e orgogliosa inevitabilmente ti procurava. Lui si allontanò da casa, tu ti rifiutasti di soffrire. Una mattina ti svegliasti improvvisamente e ti sanguinavano mani e ginocchia, lui non era lì per far finta di niente e tu piangesti. Non glielo perdonasti mai. Quando volevi spazio mi dicevi sempre “puoi tornare a casa, sono capace”, era il nostro modo di comunicare. L’ultima volta che ci siamo visti non me lo dicesti. Capii subito.
Non nutro rancore ma spesso mi chiedo come tu abbia potuto allontanarti in un tal modo e se mantieni fede alla promessa, fatta proprio quando te ne stavi andando, che ti sarebbe sempre importato di me e mi avresti portato sempre dentro. Viene più facile non pensarci quando hai finalmente trovato l’amore, ma io pur non avendo provato quel che provavi tu non riesco a dimenticarti e conservo ancora tutte le foto di te da piccola. Forse non è del tutto vero come diceva Palahniuk che se uno ti salva la vita poi ti ama per sempre, però è sicuramente vero che se uno ti salva la vita poi di te non si scorda. Mi consola credere che se ascoltiamo Frank Ocean ci pensiamo ancora: tu mi facevi compagnia in una sala medica mentre di lì a poco io ti avrei tenuto la mano durante tutta la tua caduta nell’abisso. Vorrei dirti che quella tenerezza non l’ho perduta, che non sono cambiato e mi chiedo: sono ancora per te un dono?
Era autunno e stavamo tornando a casa da Garibaldi e per ingannare il tempo inventasti un gioco in cui bisognava scegliere un regista e buttarne giù un altro e ti stupivi delle mie decisioni, di come io riuscissi a preferire Herzog o Tarr a Kurosawa. Poi te ne uscisti a chiedermi se mi sarebbe piaciuto fare una cosa a tre insieme a un’altra ragazza e io ti risposi che se tu fossi stata d’accordo non avrei avuto problemi, e tu mi dicesti che per me avresti fatto di tutto. Come tu abbia potuto passare da una generosità pressoché totale a un egoismo brutale rimane per me il mistero più grande. Il mistero della tua sofferenza.
A me dispiace solo aver dimenticato, in quei momenti mi sentivo una persona migliore.
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7/11
La sindrome di James Dean Sono stato in analisi per un anno, benché poco convinto. L’ho fatto accogliendo le insistenze di una persona a cui volevo bene. Riteneva avessi bisogno di aiuto per il controllo della rabbia. Dopo aver tentato di aggredire quattro hezbollah che mi avevano tagliato la strada in auto a Baalbek, nel Nordest del Libano, per la mia incolumità mi arresi. Lo feci anche perché vivevo a Beirut e potevo cercare uno psicoterapeuta all’università americana e parlargli in inglese. Usare un’altra lingua allontanava ogni storia da me. Non era più mia, diventava un racconto il cui protagonista era un’altra persona, qualcuno che avevo conosciuto in un altro luogo, parlando un’altra lingua. La giusta, benché immaginaria, distanza. Vedevo l’analista, un quieto professore cinquantenne, molto interessato a quel che gli narravo. Prendeva appunti su appunti e questo mi fece fantasticare di poter finire in uno di quei libri che i terapisti fortunati danno alle stampe. Il capitolo: Lo strano caso di GR, l’italiano con la sindrome di James Dean. È un’espressione che avevo inventato io, “la sindrome di James Dean”, e che lo aveva colpito. Stavolta però davvero non riguardava me, ma un amico. Anche se in questi casi è inutile insistere e prendere ulteriori distanze: nessuno ti crede. Eppure. Questo caro amico era sposato da cinque anni. In apparenza felicemente, di sicuro tenacemente. Condivideva con la moglie un passato inquieto e la promessa di non riprodurlo in futuro. Alla cerimonia, officiata tra montagne innevate da un celebrante inesperto quanto entusiasta, dopo aver pronunciato il sì lui era scoppiato in un pianto incontrollato, che lo aveva indotto a riparare dietro una colonna mentre lei lo guardava impassibile. “Devo andare a riprenderlo?” aveva sussurrato al celebrante. “Meglio se aspettiamo,” aveva risposto quello, improvvisamente saggio. Dopo un po’ lo sposo era tornato. Più che un adulto, sembrava un bambino deciso a farcela. I bambini, si sa, sono volubili. Incontrò un’altra donna, che gli riaccese la fantasia. Puoi aver deciso di fare la cosa giusta, ma è difficile scansare la cosa bella. Si videro una, due, tre volte, sempre in città diverse. Come accade in questi casi, la precarietà del momento e l’improbabilità dello scenario resero tutto favoloso. Ogni cosa accadeva fuori contesto, era una fuga delle più inebrianti perché in apparenza destinate a finire contro un muro chiamato realtà. L’amico mi venne a trovare con una valigia piena di dubbi. Provai a farglieli sparire con uno choc. Alle quattro del mattino mi avvicinai al letto in cui dormiva, gli rovesciai in testa un secchio d’acqua gelida, lo afferrai per i capelli e chiesi: “Quale delle due?”. Mi guardò spaventato e disse con un filo di voce: “Aiuto!”. Lo lasciai andare, gli gettai un asciugamano e provai con le buone. Presi una sedia e gli spiegai: “Hai la sindrome di James Dean”. Adesso era completamente sveglio. Continuava a guardare la porta alle mie spalle, ma mi ascoltò. James Dean, tutti lo conoscono, era un attore americano. Di lui, quel che ognuno sa è che è morto giovane. Dopo aver recitato in tre film. Uno si intitolava profeticamente Gioventù bruciata. Gli altri due, Il gigante e La valle dell’Eden. A mio avviso soltanto il primo di buon livello. L’ultimo naufragava nel tentativo di ridurre la complessità del capolavoro di John Steinbeck. Tre film, e addio. La fiammata che lo portò via fece di James Dean un mito. Era il falò delle promesse, l’eternità in cambio dell’effimero: un baratto conveniente se hai un disprezzo per la vita pari a quello di un fondamentalista islamico. E se James Dean non fosse morto giovane? A quel punto ci sarebbero state due possibilità. O la sua stella sarebbe implosa film dopo film e lui diventato qualcosa di simile a Matt Damon, un genio ribelle che finisce su Marte facendo perdere le sue tracce, oppure avrebbe brillato di folle luce sino a fare di lui un Marlon Brando di fine millennio. Non lo sapremo mai, resterà James Dean, l’incompiuta, lo scrigno chiuso. In definitiva: il rimpianto senza verifica. La stessa cosa sarebbe potuta diventare l’altra donna se il mio amico, per amore più che della moglie della propria stabilità, avesse interrotto la relazione sul nascere. Se avesse bruciato le cartoline di stanze impolverate a Venezia, pulviscoli di luce da una pesante tenda di velluto verde; terrazze al tramonto a Tangeri, l’Europa un disponibile miraggio; una sala d’attesa dell’aeroporto di Orly, dove uno dei due non aveva aerei da prendere o perdere, niente. Niente oltre questo, fine. Tornare alla vita di prima, ai film dalla prevedibile trama. Soffrire per non far soffrire. O soffrire per non scoprire di essersi sbagliati e poi soffrire ancora di più. Fuggire dalla rivelazione che indossa l’abito scuro della verità. Avere un tris e non andare a vedere la carta coperta. Poi fare della partita non finita la grande occasione perduta, la svolta mancata, le tre notti che rappresentano il vero matrimonio di una vita: James Dean. È così che ci si arrende al penultimo amore, rendendolo mestamente definitivo. Lo si fa per mancanza di fiducia nel futuro o in se stessi. Perché si è capito tutto ma si fa finta di no, come chi è entrato in una setta, ha visto il guru preparare i suoi trucchi, ma ormai è troppo lontano da casa per tornare indietro. Perché si vuole dimostrare agli altri di non aver sbagliato. O a se stessi. L’Everyman di Philip Roth sposa la giovanissima amante per dare un senso al fatto che a causa sua ha mandato “ogni cosa in frantumi” e gli sembra “logico” cercare di rimettere insieme i pezzi in una diversa apparenza, e a questa aggrapparsi. Invano. È la terza moglie, ma non può essere definitiva, solo penultima. La seconda moglie poteva essere l’ultima, ma non ha resistito alla spallata del desiderio. Inutile lottare, considerare la lussuria un’esca, è soltanto un segnale, indica un ponte verso la prossima relazione. Lì la strada può finire o ricominciare. Ai Ponti di Madison County la donna che ci vive si consegna alla sindrome di James Dean (anche se lui è Clint Eastwood). I quattro giorni vissuti con il fotografo di passaggio e da lui immortalati nell’album (“Quattro giorni da ricordare”) che sfoglierà postumo sono stati la più intensa esperienza amorosa della sua vita, ma ha scelto di non disgregare per questo la famiglia, di non lasciare il marito che l’ama senza saperla rendere felice e i figli a cui consegna la più preziosa delle eredità: la propria confessione. È così facendo che li salva dalla trappola del penultimo amore. E adesso tu sei lì, in una camera d’albergo anonima, che ti sembra il posto più speciale al mondo. Fuori potrebbe esserci Parigi o Pescasseroli, non farebbe differenza. Però c’è Parigi e questo rende la trama ineludibile. Le lampade mandano una luce dorata, le lenzuola sono morbide, lo specchio ti riflette radiosa. Niente di tutto questo è come ti appare, ma non fa differenza, la realtà non entra in questa bolla che vi siete costruiti con la scusa di un viaggio di lavoro. Lui è di là, sotto la doccia che scroscia. Lo immagini sovrapponendo alla fantasia il fresco ricordo. Accarezzi lo spazio accanto a te cercando l’impronta della sua testa. Guardi con tenerezza perfino il vassoio del room service dove giacciono i resti di un pasto consumato nell’intervallo. I calici sono orizzontali, soldati abbattuti. Non era una guerra, non sai se sia amore. È un paradosso soltanto apparente: a spaventarti davvero è l’ipotesi che lo sia. Questo è il vostro terzo incontro e vorresti fosse facile rinunciare al quarto, al quinto. Finirà al decimo, ti dici. Non oltre. Vorresti aver soddisfatto la smania con uno sconosciuto, un incrocio in ascensore la notte e un’ombra che fruscia via all’alba. Basterebbe un bagno caldo e torneresti a casa dopodomani, dal tuo distratto marito, dalle tue bambine innocenti, la più piccola un po’ spaventata, sul terrazzo che guarda le colline, un sorriso fuggevole sul bordo di un aperitivo non basterebbe a tradirti. Qui il rischio è che tradirsi diventi un desiderio inconsapevole. Per obbligarsi a scegliere. Oppure troncare adesso, appena tornerà nella stanza. Guardi la foto di famiglia sul display del cellulare, mandi un messaggio pieno di cuori e altri simboli sulla vostra chat, spegni. Perché sai che quando tornerà lo farete ancora una volta: “Era tardi, dopo la cena e tutte quelle chiacchiere sono crollata”. Deciderai domani, vorresti fosse lui a farlo, ma poi ti dispiacerebbe, vorresti sentirti appagata, capace di riprendere la tua strada. E ora ascolta: “Quand’era giovanissimo, pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore”. A parlare così è William Stoner, protagonista del romanzo di John Williams che porta il suo nome. Professore universitario, sposato, ha da poco incontrato la giovane Katherine, sua ex studentessa, che ha illuminato la sua esistenza sottraendolo a un matrimonio e a una carriera ugualmente opachi: “non aveva mai conosciuto nessuno con tanta intimità e fiducia, con il calore umano di chi si dona completamente a un altro [...]. Passavano dalla passione alla lussuria, fino a una profonda sensualità”. Lei è il suo James Dean. Arrivano a trascorrere insieme una meravigliosa vacanza sulla neve al cui termine lei dice: “Se non avremo nient’altro, avremo avuto questa settimana”. E abbandona una fede in una fessura tra il muro e il camino “per lasciare una traccia della nostra presenza, qualcosa che resti qui finché esisterà questo posto”. Al ritorno sono travolti dallo scandalo: la relazione diventa di dominio pubblico, le conseguenze si annunciano devastanti. Che fare? Fuggire insieme o separarsi? Accettare le conseguenze dell’amore o rinnegarle? È lui a decidere (o a credere di farlo). Non per la moglie, non per la figlia, non per la paura dello scandalo, ma per quella di “distruggere noi stessi”. Dopodiché: “Si abbracciarono per non doversi guardare in viso e fecero l’amore per non parlare. Si accoppiarono con la tenerezza e la sensualità di sempre, e con una nuova, intensa passione, legata alla consapevolezza della perdita”. Poi, lei si addormenta e lui esce dalla stanza senza svegliarla. Non si rivedranno mai più. Eccolo che torna, un asciugamano di foggia orientale legato intorno alla vita. Sorride come un attore di successo, ma tu non sai dire se sia Matt Damon o Marlon Brando: è soltanto James Dean, sospeso tra due precipizi. Così entriamo nel futuro: precipitando, a occhi chiusi e denti stretti, come prigionieri di un’accelerazione che non sappiamo controllare. Possiamo solo sperare di arrivare sull’altra sponda, che chiamiamo domani, per raccontarlo. Lo abbracci per non doverlo guardare, fai l’amore per non parlare. Poi deciderai, adesso ti aggrappi al momento, non c’è altro che ora e qui: la tua scarpa di vernice rovesciata che riflette un raggio di luce, il lenzuolo che si fa onda, i suoi capelli bagnati. È tutto facile e, più ancor che necessario, dovuto. Scegliere, scegliere, scegliere, il coraggio che serve per sbagliare, in qualunque modo. Ascoltami: dovunque precipiterai domani, la salvezza dipenderà in gran parte da te. Il distratto marito, le figlie innocenti, l’aperitivo in terrazza o l’ignoto dietro questa terza notte, a renderti felice sarà quello dei due a cui saprai dedicare momento per momento, e giorno dopo giorno, la tua volontà, la tua intelligenza e il tuo cuore. Gli indizi per la scelta migliore li saprai riconoscere soltanto più avanti, quando ti volterai indietro. Puoi sbagliare comunque, che ti butti di testa o di pancia. Ma puoi comunque azzeccarla. Avrai avuto queste tre notti, quattro giorni a Madison County, tutta la vita con il rimpianto o con l’ultimo amore. “La principale ragione di vita è la scoperta.” Chi l’ha detto? James Dean. Mica Barigazzi.
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Hotel del Luna Episodi 10, 11, 12
Ammetto che con l'episodio che ho visto oggi mi è arrivata addosso una cascata d'angoscia bella tosta. A questo punto mi chiedo come possa esserci un lieto fine, perché a meno che non inventino una qualche cagata sul finale credo che dovrò salutare Jang Man-wol e vederla partire. Già soffro.
Amo questa donna.
Amo il suo stile, il suo carattere, la sua bastardaggine, la sua bellezza, la sua gelosia, la sua schiettezza, la sua frivolezza. Insomma, lei per me è l'anima della serie.
Mi hanno fatto molto sorridere i suoi sguardi assassini quando il barista vuole accasare Ku Chan-seong con la figlia di uno dei loro ospiti. Anche se non lo dice, è palese quanto ormai sia importante il protagonista per lei. E la cosa si nota sopratutto quando va completamente in ansia nel momento in cui Chan-seong non si fa sentire per alcune ore, e lei si accorge di provare paura per lui.
Le sue emozioni si riflettono sull'albero: se l'abbraccio tra i due fa fiorire decine di fiori, la paura li fa appassire e cadere, e questo segna l'inizio della fine.
Jang Man-wol è l'ultima ospite di Chan-seong. Lui deve starle vicino, deve accompagnarla fino alla fine, finché non dovrà dirle addio e vederla partire. Questo rende il loro amore bello e triste allo stesso tempo.
Questi tre episodi sono stati pieni di dolore e angoscia: la protagonista che "rivede" suo fratello, la madre di Chan-seong, Sanchez e Veronica, la storia dell'assassino e la presunta morte del protagonista (mortacci tua), i genitori e il bambino.
In questa serie c'è un continuo crossover tra passato e presente. I personaggi si reincarnano in corpi nuovi che è un piacere. Dopo la principessa bastarda, Jang Man-wol rivede suo fratello in un bravo poliziotto (ironia della sorte, nella vita precedente era un ladro). La scena in cui si guardano e dove anche lui sembra riconoscerla, è molto intensa e dolorosa, perché ci fanno vedere il dolore di lei e quanto lui fosse importante. Ho apprezzato la scena successiva in cui Man-wol racconta a Chan-seong la sua storia. Così come mi ha fatto piacere scoprire che il capitano del passato non l'ha tradita o ingannata, ma ha agito come ha agito per salvarle la vita, perché davvero innamorato di lei.
La questione della madre di Chan-seong non mi ha convinta. Non mi è piaciuto molto come è stato gestito il tutto: l'ho trovato frettoloso e spiegato male. Vedere il protagonista trovarsi faccia a faccia con la madre per la prima volta e dieci minuti dopo accompagnarla alla morte con un "addio madre", mi è risultato poco soddisfacente. Non ci è stato spiegato perché la donna non è stata presente nella vita del figlio, se lo ha abbandonato o se c'è stato altro, e non c'è stato un vero confronto tra i due. Perché no, dire "sono tanto dispiaciuta" prima di partire, non è un confronto. In tutto ciò la cosa che ho apprezzato è stata la "tenerezza" che dimostra Jang Man-wol per Chan-seong.
Sanchez e Veronica. Oh mamma mia, povero Sanchez, quanto ci sono rimasta male. Sanchez è un personaggio di contorno, è quell'amico del protagonista che si trova spesso nei drama, ma devo dire che apprezzo come non l'abbiano reso il buffone di turno o un tizio completamente random che compare ogni tanto. Mi è piaciuto questo spazio che gli è stato riservato, e temevo tantissimo che non avrebbe fatto in tempo a dire addio a Veronica. Anche se ci sono rimasta male, almeno ha potuto dirle addio in una commovente scena al chiaro di luna. Mi è piaciuto moltissimo Chan-seong, ho sentito tutta la sua difficoltà, il dispiacere e la frustrazione come amico.
La storia dell'assassino mi ha dato i nervi. Questo perché i tipi come lui mi inquietano e non vedo l'ora che sparisca dalla circolazione. Ammetto che è stato intelligente a suicidarsi per poi tornare come spirito vendicativo (ma avrai comunque quello che ti meriti, bastardo). Sono rimasta col fiato sospeso per tutta la scena in cui non sapevo se Chan seong fosse tornato all'Hotel come umano o come fantasma. Anche se mi sembrava strano, per un attimo ho temuto. Significativa e realistica la reazione della protagonista: lo shock, il dolore, le lacrime, la mano sul cuore, la rabbia verso il ragazzo che rincorre con la scarpa in mano. Mi è piaciuta molto.
I genitori e il bambino. Da quando ho iniziato la serie, questa è di certo la questione che mi ha messo più angoscia in assoluto. È stato straziante vedere questi due genitori sacrificare pezzi della loro vita per tenere in vita il figlio malato, per poi essere costretti a vederlo morto davanti agli occhi e non poter far altro che piangere disperati. Ho pianto tanto anch'io, ma era giusto così. Quella situazione non era bella o giusta per nessuno: né per i genitori, sempre più vecchi velocemente, né per il bambino, relegato in un letto di ospedale. Il bambino tirava avanti a vivere e i genitori avevano ancora il loro figlioletto, ma era una vita che non rendeva felici nessuno dei tre. È stato anche brutto vedere il bambino dover decidere di morire perché è la cosa giusta da fare.
"Se lo faccio mia mamma e mio papà vivranno momenti molto più difficili."
"Questo è il peso che devono portare quelli che rimangono." Risponde Man Wol, ed è una risposta molto vera e molto dolorosa, che mi ha spezzato il cuore.
Nessun bambino dovrebbe dover decidere una cosa del genere, e nessun genitore dovrebbe vedere il proprio figlio morire lentamente in una stanza d'ospedale. Vedendo questo episodio mi sono ricordata di quanto possa essere bastarda la vita, e io spero davvero di non dover mai finire in un letto di ospedale, per non soffrire io stessa e non vedere gli altri soffrire, e sopratutto prego di non avere mai un figlio in quelle condizioni e non poter fare nulla per salvarlo. Dover stare a guardare mentre tuo figlio muore deve essere straziante.
Mi è piaciuto quello che considero il primo vero bacio a fine puntata, quando i due protagonisti si confrontano sull'imminente futuro angosciante che li aspetta, e Chan seong la rassicura:
"Non aver paura quando mi lascerai. Questo, per il debole umano che sono e che ora sta facendo del suo meglio con tutta la sua forza, è amore."
"Essere lasciato solo come un petalo che svanirà... è troppo triste."
È infatti un sorriso pieno di tristezza quello che si disegna per un attimo sulle sue labbra, ma poi si avvicina comunque per dargli un bacio, e a quel punto lui non riesce più a lasciarla andare.
Un bacio bello, triste, amaro, coraggioso, romantico, contornato dai petali che cadono per terra segnando l'inevitabile fine di lei.
Sono contenta di questa forte emotività perché significa che la serie sta facendo un buon lavoro da questo punto di vista. Mi piace anche il fatto che non sia un'angoscia continua, ma che ci siano anche momenti più leggeri e simpatici, che aiutano a riprendere fiato.
Molto utili in questo la studentessa e il ragazzo della reception (da notare come non abbia ancora imparato i loro nomi), molto carini e spensierati. Ormai fanno coppia fissa anche sul posto di lavoro XD.
Simpatici anche tutti quei momenti di piena frivolezza di Jang Man-wol, che si lamenta di non avere nulla da mettere o che deve cambiarsi d'abito per intonarsi alla torta di riso che andrà a mangiare, o quando vuole curare le ferite del protagonista e svaligia la farmacia perché non sa quali sono le medicine adatte, e alla fine gli applica sulla faccia una pomata per le emorroidi (ho riso tantissimo).
Un'altra nota di merito della serie è il ritmo: per quanto mi riguarda, è ottimo. Le puntate durano tantissimo, sono quasi dei piccoli film (almeno un'ora e 10), ma devo ammettere che non sento nessuna noia o pesantezza. Anzi il tempo scorre piuttosto velocemente, e questo è di certo un bene.
Mi mancano quattro episodi. Se riesco, tra due giorni finisco la serie.
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Il vero 007 è lui! Storia di Peter Fleming, il fratello dell’inventore di James Bond, uno scrittore di genio
Countdown nel mondo inglese per l’uscita di 007 No Time to Die. Uscirà a fine anno. BBC infioretta raccontando che Billie Eilish (sì, la tenerella di Everything I wanted) ha lanciato la canzone che sarà la sigla dell’ultimo 007. Il testo tradotto qui e là dice: Avrei dovuto sapere che me ne sarei andata. Sono caduta davanti a una bugia. Sei morte o paradiso? Ora non mi vedrai piangere. È che non c’è tempo di morire.
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Complimenti, clap clap. Siamo riusciti a far passare Bond dalla parte degli emo: Il sangue che versi è il sangue che mi devi. Sono stato stupida ad amarti? Non avevo pensato alle conseguenze? Per BBC si tratta di romantic betrayal. Tradimento romantico. Sarà. A me pare il solito modo di sguinzagliare il marketing dietro alla società pop dei giovani per portare più gente in sala. Gli inglesi sanno farlo con garbo e senza scrupoli.
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Eppure. Nel 2006, quando Craig esordiva con Casino Royale, la voce della canzone in sigla era Chris Cornell (You know my name): Se prendi una vita devi sapere cosa darai, sono occasioni che vanno e vengono, ecco. Quando scoppia la tempesta sarai con me, dalla parte di quelli senza pietà che ho tradito. Ho visto angeli cadere da altezze accecanti, e tu non sei nulla di così divino. Sei solo qui accanto. Armati perché nessuno ti salverà. Le occasioni ti tradiranno. E io ti rimpiazzerò… Il sangue più freddo scorre nelle mie vene. Sai il mio nome. Prova a nascondere la tua mano. Dimentica come si sentono le emozioni. Ben altro rispetto a Billie Eilish…
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Anche nel 2008, con Quantum of Solace, la voce femminile di Alicia Keys (Another way to die) spaccava così all’inizio: Un’altra chiamata dalla regina, il dito scorre liscio sul grilletto. Un’altra chiamata da una lingua d’oro che ti avvelena la fantasia. Un altro conto da un killer ti ha fatto passare dal thriller alla tragedia… Sentire la musica in luoghi fuori contesto aiuta. Credo si chiami straniamento: che ne so, provate a sentire le canzoni di Bond in un’altra prospettiva.
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Comunque, qui da noi c’è sempre un po’ il rischio che essere fan di 007 sia roba da ispettore della guardia di finanza, un tocco da sfigati. Nel Regno Unito invece è il solito movimento di massa. Se guardi 007 capisci le loro tendenze, o almeno ne catturi un’istantanea. Lo spiega benissimo il solito Anthony Burgess in un articolo di Life del febbraio 1987. Titolo – Giubileo di Bond. A venticinque anni dal Dottor No, che era il cattivone del primo film uscito nel 1962.
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Col consueto intuito da sciacallo onnivoro, Burgess annota che il personaggio dell’agente 007 “apparve sulla scena al momento giusto, quando CIA umiliava MI5… Bond invece era patriottico, duro, coraggioso e non veniva da un’ascesi da doccia fredda. Ricordava al lettore britannico le qualità che sembravano andate perdute. Fleming sognò uno spionaggio più ingegnoso, osò di più rispetto alla realtà e diede infine al suo uomo la licenza di uccidere”.
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Peter Fleming nel Mato Grosso, 1932
Non si fa mancare il sale: “l’eterosessualità di Bond è vigorosa e viaggia in un’altra classifica. Il suo sangue scozzese gli garantisce un integro patriottismo”. E neanche il pepe: “I professori di francese non sapranno dirci a cosa si deve il nome Bond. Non sembra un richiamo al bondage per quanto bond suggerisca che il nostro uomo sia legato a qualcosa – onore, patria, una qualche virtù astratta. Fleming scelse questo nome perché era abbastanza blando e per niente aggressivo”.
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In realtà Burgess sa come stanno le cose, gioca a carte col lettore. Ecco da dove viene il nome in codice, l’unico che vale: “Il nome 007 si deve al carro postale notturno di una piccola ma celebre storia di Kipling, e a sua volta Kipling lo aveva preso dal codice che l’astrologo John Dee usava per i suoi dispacci spionistici alla regina Elisabetta quando era infiltrato alla corte spagnola. Mentre osa il tutto per tutto al servizio di Sua Maestà la regina, James Bond evoca nell’era di Elisabetta II il glamour e il pericolo del regno di Elisabetta I”. Se volete leggere qualcosa su John Dee, c’è L’angelo della finestra d’Occidente, di Gustav Meyrink. Stampa nientepopodimeno che Adelphi.
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Burgess aveva lavorato alla sceneggiatura di La spia che mi amava, l’unico libro di Fleming scritto dal punto di vista femminile. Quindi sa cosa sta dicendo quando scrive che “nei libri di 007 il sesso è tenerezza, nei film è mero titillare… I libri sono deboli per psicologia umana, un poco impacciati nel dialogo, assurdi per trama e non hanno humour ma sono ben scritti e francamente affidabili per la loro informazione di background. L’agenzia di controspionaggio sovietica Smersh esiste, Spectre no”.
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Traduco il finale del pezzo di Burgess, la chiave affilata del discorso che stavo cercando di fare all’inizio: “Vorrei porre l’accento su questo: le stravaganze di Bond rappresentano un genere speciale di intrattenimento dove la fantasia del produttore di film ha il permesso di varcare il limite e tutto è racchiuso in una macchina perfetta, in una lezione di morale. Sono film a tutto tondo allo stesso modo di quelli Disney ma, diversamente da questi, sono sofisticati e non possono esser presi senza accettare al contempo il mondo delle alte sfere con la sua genuina malevolenza e quel che si dice ‘stato dell’arte tecnologica’. Le ragazze sono sexy e Bond parte con loro con lo sguardo lascivo da giocatore di football americano. Ma non ci sono orgasmi: sono riservati alle fughe da pericoli impossibili. C’è anche qualcosa che chiamerei urbanità, buone maniere e ironia (Prenda con sé Mr Bond e lo metta in condizioni di farsi del male). C’è il senso di una civiltà ben oliata, i nemici restano fuori, in un mondo a parte maniaco e malvagio. È probabile che in futuro gli storici troveranno nei film di Bond i sogni dei suoi contemporanei, uomini e probabilmente anche donne. L’intrattenimento a volte può servire uno scopo più profondo di quel che i suoi sostenitori sono in grado di dirci”.
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A questo punto, domanda sensata. Chi era il creatore di Bond, Ian Fleming? Era un fratello minore, tanto per cominciare. Il più grande era Peter, classe 1907, che a 29 anni affronta un viaggio in Tibet e Cina per conto dei Servizi esteri insieme a una fotografa svizzera. Da capogiro. Insomma Peter è il sostegno del fratellino, anche se poi Ian farà gavetta in guerra nel controspionaggio e si inventerà un agente fighissimo, da romanzo, per darsi un tono.
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Ian ha solo un anno in meno del fratellone. Per Burgess “era uno scozzese godereccio toccato da un puritanesimo ancestrale, beveva martini vodka agitato non mescolato, fumava sempre le sigarette più pesanti sul mercato e, prima del suo ultimo matrimonio, faceva l’amore in modo freddo e promiscuo”. Sarà… comunque campa fino al 1964. Il fratellone, più sano e robusto, se ne va nel 1971 e fa scrivere al giornalista del NY Times “ebbe una carriera poco convenzionale nella Seconda guerra servendo nella Guardia Granatieri dopo il ritiro dalla Norvegia nel 1940, organizzando una linea di resistenza a Hitler in Inghilterra con armi ed esplosivi nel caso i tedeschi fossero sbarcati. Lo stesso in Grecia dopo l’occupazione tedesca. Poi andò in Asia per far sgomberare le truppe dalla Birmania in India e trasmise ai giapponesi dei piani di guerra. Chiaramente, erano falsificati. Sulla sua resistenza a Hitler scrisse il romanzo Invasione 1940”. In effetti anche gli altri titoli sono fantastici: Sconfitta a Pechino, Baionette fino a Ihasa, Il destino dell’ammiraglio Kolchak.
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A breve potremo gustare qualcosa di questo scrittore. Nutrimenti aveva già dato la sua Avventura brasiliana e tra poco sarà rieditata. È la storia autoironica di Peter che va nella foresta amazzonica a 26 anni in cerca di un esploratore scomparso e torna a mani vuote. Fine dei tempi eroici dell’imperialismo: anche se erano entrambi, Peter e il suo compagno di viaggio, il bischero Percy Fawcett, figli di college e di Impero.
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Per i fratelli Fleming, invece, qualche brivido dickensiano & massonico, ma poco di più. Quindi anche lo sguardo è a suo modo limitato, specie negli scritti-reportage di Peter sulla Rivolta del Boxer, di cui parlano ampiamente, con sapidi racconti, anche le memorie dei diplomatici italiani in loco. Il tutto passando per il Tibet. Forse c’era nei Fleming qualche interesse verso le tradizioni esoteriche che titillavano la poca cervice tedesca: vedere per credere l’introduzione di Peter a I sette anni in Tibet di Heinrich Harrer.
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Comunque sia, va detto che la pappa verbale inglese non si presta a raccontare la geopolitica. L’inglese funziona bene però come lingua avventurosa e Peter resta scrittore migliore del fratellino Ian. Ecco ad esempio come incomincia il testo che lesse dopo il viaggio in Asia a 27 anni, nel 1936 (ora su The Geographical Journal, vol. 88 agosto 1936): “In questi giorni immagino sia piuttosto inconsueto che le forze militari adottino una procedura che le porti a impegnare il loro potere di guerra in un territorio che appartenga a un altro potere senza che un governo dica nulla all’altro prima dell’evento. Eppure i russi sono molto abili a gestirla così, principalmente soffiando tutt’intorno storie falsissime e lasciandole depositare nelle varie province, senza consentire ad altre versioni dei fatti di entrare nelle province manipolate”. Non male, dai…
Andrea Bianchi
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(via Wendy Cope - Definendo il problema)
Wendy Cope è una poetessa inglese vivente (credo abbia una decina di anni più di me) ed un personaggio interessante. Ha scritto diverse raccolte di poesie d'amore, ma credo che in Italia sia soprattutto conosciuta per le cosiddette "poesie brevi" che ci lasciano vedere il lato umoristico della sua poesia. Questa nella tag è una ed anche quella che scrivo qui sotto ne fa parte. "𝒟𝓊ℯ 𝒸𝓊𝓇ℯ 𝓅ℯ𝓇 𝓁'𝒶𝓂ℴ𝓇ℯ 𝒫𝓇𝒾𝓂𝒶: 𝒩ℴ𝓃 𝓋ℯ𝒹ℯ𝓇𝓁ℴ. 𝒩ℴ𝓃 𝒸𝒽𝒾𝒶𝓂𝒶𝓇𝓁ℴ, 𝓃ℴ𝓃 𝓈𝒸𝓇𝒾𝓋ℯ𝓇ℊ𝓁𝒾. 𝒮ℯ𝒸ℴ𝓃𝒹𝒶: 𝒫𝒾𝓊̀ 𝓈ℯ𝓂𝓅𝓁𝒾𝒸ℯ. ℐ𝓂𝓅𝒶𝓇𝒶 𝒶 𝒸ℴ𝓃ℴ𝓈𝒸ℯ𝓇𝓁ℴ 𝓂ℯℊ𝓁𝒾ℴ." Appare chiara la sua semplicità di pensiero, non ci sono mai voli pindarici o espressioni altisonanti, parla con le parole di ogni giorno, con un velo di ironia che rende la tenerezza che comunque si intravede più leggera e piacevole. Almeno questo è quanto provo io leggendo le sue poesie che comunque mi portano a riflettere su quello che dice trovandoci sempre delle verità :) Buona serata :)
Dimenticavo che questa tag la potete trovare alla pagina 11 di Sic et Simpliciter
Fonte LioSite
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