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pier-carlo-universe · 25 days ago
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L’enigma della camera 622 di Joël Dicker: Un mistero tra le nevi svizzere. Recensione di Alessandria today
Un thriller avvincente tra finanza, omicidio e segreti sepolti nel tempo.
Un thriller avvincente tra finanza, omicidio e segreti sepolti nel tempo. La trama. In “L’enigma della camera 622”, Joël Dicker ci trasporta nell’elegante e misterioso Palace de Verbier, un lussuoso hotel alpino che diventa teatro di un delitto enigmatico. Durante un weekend di dicembre, in concomitanza con l’annuale festa di una potente banca ginevrina, un omicidio scuote il mondo finanziario…
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carmenvicinanza · 10 months ago
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Laura Betti
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«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».
Laura Betti è stata un’attrice talentuosa, vivace e intensa. La cattiva per antonomasia delle grandi dive del cinema italiano.
Ha recitato in circa settanta film, diretta dai più grandi registi e registe del Novecento come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, i fratelli Taviani, in capolavori come La dolce vita, Teorema, Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Il grande cocomero e molti altri ancora.
Tra le interpretazioni più memorabili c’è sicuramente quella in Novecento di Bertolucci (1976) in cui ha interpretato Regina, personaggio dall’aria sinistra, quasi stregonesca, amante del fascista Attila, interpretato da Donald Sutherland.
Sul suo modo di esprimersi con le parole, il linguaggio, la voce roca e impastata, la fisicità, ci sono stati anche diversi studi accademici.
Artista a tutto tondo, ha recitato a teatro, cinema, televisione e lavorato a lungo come doppiatrice.
Soprannominata giaguara per la sua vitalità aggressiva e incontenibile associata a un passo felpato, quello con cui entrava in un film con un ruolo non da protagonista, per poi rubare la scena a tutti gli altri.
Nata col nome di Laura Trombetti a Casalecchio di Reno, Bologna, il 1º maggio 1927, ha esordito come cantante jazz, per poi passare al cabaret con Walter Chiari ne I saltimbachi. 
Nel 1955 ha debuttato in teatro ne Il crogiuolo di Arthur Miller, con la regia di Luchino Visconti, seguito poi da spettacoli storici come il Cid di Corneille, in coppia con Enrico Maria Salerno e I sette peccati capitali di Brecht e Weill.
Il recital Giro a vuoto, del 1960, realizzato in collaborazione dei più grandi talenti letterari dell’epoca che amavano riunirsi nella sua casa romana, a Parigi venne recensito positivamente dal fondatore del movimento del surrealismo, André Breton.
Al cinema ha esordito nel 1956, in Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico. Le prime parti importanti sono state in Labbra rosse di Giuseppe Bennati, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, e soprattutto ne La dolce vita di Federico Fellini, dove interpretava una giovane saccente che nella scena finale della festa si vede rovesciare un bicchiere d’acqua in faccia da Marcello Mastroianni.
Fondamentale è stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini, che l’ha diretta in diverse opere teatrali e cinematografiche, tra cui svetta Teorema, che le è valso la Coppa Volpi come miglior attrice al Festival del Cinema di Venezia. 
È stata la sua musa, definita da lui “una tragica Marlene Dietrich, una vera Greta Garbo che si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda”. Meglio di chiunque, è riuscito a sfruttare la sua capacità di caratterizzare i personaggi con la sua fisicità intensa, il forte segno caratteriale, spesso aspro, e la sua voce dal timbro pastoso.
A partire dagli anni ’70 ha cominciato a interpretare soprattutto ruoli da cattiva, scomodi e sgradevoli che, seppur secondari, restavano impressi nella memoria del pubblico.
Dopo la morte di Pasolini, nel 1975, ha tentato in tutti i modi di fare giustizia all’amico, sporse anche denuncia contro la magistratura per come erano state svolte le indagini sull’omicidio, le cui cause ancora oggi, restano oscure.
Ha continuato a farlo vivere, ricordandolo, scrivendone, dirigendo documentari su di lui.
Con Giovanni Raboni, ha pubblicato, nel 1977 Pasolini cronaca giudiziaria, persecuzione, morte seguito, due anni dopo, dal romanzo Teta Veleta il cui titolo è un riferimento a uno scritto giovanile del grande intellettuale.
Nel 1983 ha ideato e diretto il Fondo Pier Paolo Pasolini che per oltre vent’anni ha avuto la sede a Roma, poi spostato a Bologna, quando, nel 2003, ha creato il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, con oltre mille volumi e altro materiale relativo alle opere dello scrittore e regista.
Nel 2001, con Paolo Costella, ha diretto il documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
È stata anche la protagonista del libro di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto, che evidenzia come lei sia stata la vera erede spirituale di Pasolini e incontrarla è come incontrare lo scrittore, perché rimasta plasmata e posseduta dalla sua vivida presenza.
In Francia, paese che l’ha adorata e riverita molto più dell’Italia, nel 1984 è stata nominata Commandeur des Arts et Lettres.
Laura Betti si è spenta a Roma il 31 luglio 2004.
Dopo la sua morte, il fratello, ha donato al Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini anche tutti i documenti personali della carriera della sorella, raccolti sotto il nome Fondo Laura Betti, inoltre la sua città di origine, Casalecchio di Reno, nel 2015, le ha intitolato il Teatro Comunale.
Del 2011 è il documentario La passione di Laura, diretto da Paolo Petrucci, in cui viene ripercorsa la carriera dell’attrice raccogliendo anche le testimonianze di registi e intellettuali come Bernardo Bertolucci, Francesca Archibugi, Giacomo Marramao e Jack Lang. Il film è stato candidato ai Nastri d’Argento del 2012 tra i migliori documentari.
Laura Betti ha concentrato la sua esistenza nella ricerca della verità. Nell’arte, nella vita, tra la poesia che ha frequentato, nella sua recitazione.
Aveva carisma e fascino, sapeva sperimentare e aveva uno straordinario dinamismo dell’intelletto. 
Ha avuto ruoli fuori dai canoni e per questo è stata difficilmente inquadrabile.
Ha saputo intrecciare linguaggi differenti come il cabaret, la canzone, il teatro, il cinema, la rivista.
Dipinta con tratti alterni, di sicuro ha saputo lasciare la sua impronta decisa e precisa nella storia della cultura italiana.
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diceriadelluntore · 2 years ago
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Juice Sanguinis
Francesco Paolo de Ceglia è stato già protagonista di uno dei miei post bibliofili, qualche anno fa, quando scrisse un libro eccezionale sulla Storia del Miracolo di San Gennaro, che fu una lettura entusiasmante. È con lo stesso spirito di curiosità che ho comprato il suo ultimo, lavoro, dal titolo, non si può dire altro, gotico:
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Anche in questo caso si tratta di una Storia Naturale, intesa come studio e descrizione dei componenti della natura, che stavolta riguarda i vampiri. Dico subito una cosa: non esiste una traduzione precisa del concetto di “vampiro” e persino la sua etimologia è oscura e misteriosa (va da sé, visto l’argomento, si potrebbe pensare), ma è chiaro che la nostra idea di “Vampiro” un succhiasangue spesso ben vestito che abita un castello terrificante sta al termine come Babbo Natale sta alla Coca-Cola. E lo spiega, con la sua scrittura precisa e barocca, il professore de Ceglia, che insegna Storia della Scienza presso l’Università di Bari, intraprendendo un percorso affascinante che parte da un dato storico: a metà del 1700, un po’ per pruderie editoriali un po’ per motivi politici, alcuni resoconti di ufficiali dell’Impero Austro-Ungarico, mandati da Vienna in sperduti angoli orientali dell’Impero, scoprirono che le popolazioni locali avevano “problemi” riguardanti dei “ritornati”, persone cioè morte ma che continuavano a disturbare la popolazione, soprattutto i familiari. Si fecero indagini, autopsie, e tra il preoccupato e lo scettico quei documenti arrivarono a Vienna, e segretamente poi pubblicati e ripresi da numerose Riviste Scientifiche e letterarie che accesero la miccia sui morti viventi dell’Europa orientale. Da qui, con un lavoro filologico e storico impressionante (oltre 1000 note, più di 400 tra Autori e Testi citati) de Ceglia indaga a ritroso sulle tradizioni legate a queste presenze, al ruolo che la Chiesa ha giocato sulla loro diffusione o sul loro confinamento, sulle problematiche teologiche, storiche e persino economiche. E si scopre che sotto la definizione vampiro si annidano figure che adesso definiamo con altri nomi, come gli zombie, ma che a seconda del contesto avevano caratteristiche specifiche, e molte altre comuni, che attraversano per centinaia di anni alcune zone dell’Europa. La storia è, il più delle volte, sempre la stessa: dopo il suo decesso, un membro marginale della comunità, spesso segnato da caratteristiche fisiche peculiari, ritorna col proprio corpo (e non semplicemente come spettro evanescente) a tormentare la popolazione del proprio villaggio, del tutto indifferente alla ratio che vorrebbe un corpo sepolto, e riesumato solo per accertarne l’assenza di decomposizione o eventualmente arderlo, inamovibile e del tutto incapace di vagare quando cassa e terra lo abbracciano. Ma non fu sempre così, e la categorizzazione delle varie differenze è meravigliosa, come lo scoprire perchè, e nel libro è prontamente spiegato, ci sono intere fasce di territorio europeo dove questo fenomeno non si riscontra. 
Ma Dracula? Beh, questo lo posso svelare: fu un bellissimo ma cagionevole di salute scrittore irlandese, che nel 1890 stava scrivendo un libro, dal titolo provvisorio di Conte Wampyr lo inventò. Si imbattè in un libello nascosto in una biblioteca, Resoconto sui principati di Valacchia e Moldavia, nel quale aveva letto: “Dracula in lingua valacca significa Diavolo. I Valacchi avevano l’abitudine all’epoca, e ce l’hanno ancora oggi, di dare questo soprannome a tutte le persone che si distinguono per coraggio,. azioni crudeli o abilità”. Persino il riferimento a Vlad III Dracula, detto l’Impalatore (Tepes,  nomignolo che si sarebbe affermato dopo la sua morte) è piuttosto occasionale. Quando uscì il suo romanzo, nel 1897, il clamoroso successo e l’imperitura trasfigurazione in opere teatrali e soprattutto cinema e televisione (potere dell’immagine, punto dell’era contemporanea) Dracula si trasformò in un elegante mordicollo, che odia la luce, che preferisce le tenebre e che trasforma chi morde in vampiro (che leggendo il libro sono caratteristiche che non si riscontrano, se non in minima parte, nelle storie dei vampiri “naturali” e sono tutta farina del sacco di Stoker).
Soprattutto, e qui sta la bellezza secondaria, è un grande affresco sul ruolo storico, culturale, politico e simbolico del rapporto con l’altro, con il diverso e, en passant, con la morte. E ci sono delle osservazioni che davvero entusiasmano (per chi leggerà il libro, raccomando particolare attenzione all’introduzione dell’idea del Purgatorio o come, per evitare pericolose contaminazioni, i segnali di santità sui corpi cambino repentinamente per non confondersi con quelli dei “non morti”).
È una lettura impegnativa, sia per l’argomento, per il tono da pubblicazione accademica (ma molto ironica e in alcuni passaggi esilarante) e anche per il prezzo del volume (34€) ma che scandaglia la storia dai miti greci fino a Buffy L’ammazzavampiri e True Blood o Twilight, nuovi fenomeni che cambiano ancora radicalmente la figura del vampiri, regalandole nuove e inaspettati rappresentazioni. D’altronde il possesso della conoscenza non uccide il senso di meraviglia e mistero. C’è sempre più mistero (Anaïs Nin).
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Libri per l’estate
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Non potevamo certo lasciarvi accaldati per l’afa estiva e assetati di libri da gustare in vacanza! Ecco dunque una puntata fresca fresca di questa ormai consolidata rubrica di consigli letterari.
Iniziamo con due classici.
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Processi verbali di Federico De Roberto: estremamente interessante l’esperimento di realismo verista di queste novelline (come le chiama l’autore nella sua concisa e lucidissima prefazione), che ricordano il Verga del ciclo dei vinti (folgorante in questo senso Il rosario), con il ricorso ai proverbi popolari (tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe; carcere, malattia, necessità, si conosce l’amistà), con squarci di storia (il ’48 a Napoli e la rivolta di Bronte ne I vecchi), ma anche Pirandello e Guy de Maupassant, per non parlare di Lupetto, che sembra addirittura anticipare Raymond Carver. Esilarante e boccaccesco, un autentico gioiellino, il racconto di chiusura Il viaggio a San Vito.
Il denaro di Émile Zola: un’analisi acuta e quanto mai attuale del mondo degli affari e della Borsa. Imperi economici acquisiti e persi in un sol giorno, i re della finanza ossequiati e riveriti, i falliti derisi e respinti. In una sorta di eterno ritorno le azioni umane si riproducono ciclicamente senza lasciare l’insegnamento necessario a evitare il ripetersi degli errori. Così questo affresco della Borsa francese durante il Secondo impero ricorda le recenti bolle finanziarie che hanno causato la rovina di migliaia di piccoli risparmiatori e il crollo dei mutui fondiari. A manovrare i movimenti di una banca fantasma nata grazie alla complicità di diversi prestanome è il visionario Saccard, a cui il lettore (e con lui diverse figure femminili e un’infinita serie di dipendenti del gioco) si affeziona nonostante tutto e di cui segue le mosse con apprensione e ininterrotta curiosità per quasi 600 pagine che scorrono veloci come un fiume in piena, il fiume del denaro (l’argent del titolo) che passa per le mani di affaristi e speculatori, ma spesso solo in forma virtuale. La cosa più sorprendente è che lo spunto per la trama è tratto da un episodio realmente accaduto: la parabola del banchiere Paul Eugène Bontoux e della banca Union Générale fallita nel 1882. Se il denaro è il tema principale, questo romanzo appartiene pur sempre al ciclo dei Rougon-Macquart ed esplora le tare genetiche che, nella visione deterministica del naturalismo francese, minano la famiglia e ne spiegano i comportamenti. Victor, il figlio perverso e deforme del protagonista, ricorda ‘Coniglio mannaro’, uno degli ultimi discententi dell’indimenticabile famiglia Scacerni de Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli. E non poteva mancare neppure il tema dell’antisemimitismo, caro all’autore del J’accuse. Insomma un piatto completo, per gli amanti della buona letteratura.
Non possiamo tralasciare l’ultimo Simenon pubblicato da Adelphi, Il dottor Bergelon: “Qualcosa si era guastato, senza che lui riuscisse a capire cosa”. La verità è che un fatto increscioso, una malaugurata deviazione dalla consueta routine ha avvelenato la pace interiore del protagonista al punto da fargli mettere in discussione l’intera sua esistenza. Affrontare Simenon è sempre come scendere negli abissi più profondi dell’animo umano.
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Per chi avesse la fortuna di non aver mai letto Manuel Vázquez Montalbán, sono stati appena ristampati Le terme e Il labirinto greco in cui l’investigatore Pepe Carvalho esprime al meglio le sue doti culinarie e il suo fiuto per le indagini, il tutto in uno stile degno del grande Chandler.
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Uno degli autori prediletti di Andrea G. Pinketts, Stuart Kaminsky, professore di storia e critica cinematografica alla Northwestern University di Evanstone, Illinois, farcisce con le proprie competenze letterarie e cinematografiche i suoi gialli hard boiled, per cui Bela Lugosi e William Faulkner diventano clienti del detective privato Toby Peters (“affettuosa parodia dell’investigatore della scuola dei duri”, da Hardboiled blues di Gian Franco Orsi) in due casi che si intrecciano in Never cross a Vampire. Gli amanti del noir potranno cogliere in queste pagine spunti per rivedere vecchi film o scoprirne di nuovi e introvabili. Così anche per Una pallottola per Errol Flynn, Il caso Howard Hughes e Follie di Hollywood, ma nei suoi gialli troviamo molte altre star, come Mae West, Gary Cooper, Clark Gable, Buster Keaton, Judy Garland e Raymond Chandler: pare proprio che il mondo del cinema sia una inesauribile fonte di ispirazione.
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Fedele all’idea che uno scrittore dovrebbe trattare di ciò che conosce, nel creare i personaggi Kaminsky non esita a inserire cenni autobiografici, come le radici russe per l’ispettore Rostnikov (Morte di un dissidente: “Le sue armi: una falce, un martello e una bottiglia di vodka”), e la fede ebraica per il poliziotto Abe Lieberman, che opera in una Chicago quanto mai violenta e movimentata (La follia di Lieberman), città d’origine dello scrittore. Infine il detective Lew Fonesca, trasferitosi da Chicago (Midnight Pass) nell’atmosfera assolata e apparentemente pacifica della Florida, specializzato nella ricerca di persone scomparse (Cattive intenzioni, Parole al vento). Notevoli le collaborazioni con il regista Don Siegel per Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo, e con Sergio Leone per i dialoghi di C’era una volta in America. Insomma uno scrittore prolifico (possiamo contare una sessantina di titoli) per amanti del cinema, della letteratura e di uno stile ironico e versatile.
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Un altro libro ambientato nella Hollywood degli anni d’oro: Perché corre Sammy?, di Budd Schulberg, Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Fronte del porto, sceneggiatore di Il paradiso dei barbari con un esordiente Peter Falk  e soggettista di Un volto nella folla di Elia Kazan e di Il colosso d’argilla con Humphrey Bogart.
“Quello che mi faceva infuriare era che Sammy era la persona più scaltra e più ottusa che avessi mai conosciuto. Era dotato di un’intelligenza che era in grado di impiegare unicamente a vantaggio di Sammy Glick. È un tipo di intelligenza che comporta una certa ottusità: una specie di sterminata zona d’ombra con un solo raggio di luce diritto davanti a se stessi”.
Ma chi è Sammy? Un arrivista, un arrampicatore sociale, con meno scrupoli che talento, di un cinismo disarmante, egoista e avido, anche le sue apparenti qualità sono solo difetti astutamente mascherati: “un piccolo fattorino ebreo sempre di corsa che diventa un potente produttore, sacrificando ogni cosa d’umano alla sua assetata ambizione”. Consigliato da Kurt Vonnegut (a sua volta scrittore ammirato da Umberto Eco), che addirittura lo paragona a Francis Scott Fitzgerald, è una lettura scorrevole e moderna che ci lascia agganciati al mistero di questo personaggio odioso e intraprendente fino all’ultima pagina. C’è, naturalmente, molto di autobiografico nelle opere di Schulberg: “Figlio del tycoon della Paramount, e lui stesso, per un certo tempo, prediletto di Hollywood... ma anche comunista inciampato nelle reti del Mccarthismo, spesso e volentieri elesse il mondo di Hollywood quale osservatorio ideale... I disincantati si concentra su come muore, in America, una leggenda. Uno scrittore grande e dimenticato, che ha avuto tutto, ed è stato travolto assieme a un mondo lussureggiante dalla crisi del ’29, si lascia umiliare e consumare nel corpo e nella dignità in un ultimo infimo lavoro da sceneggiatore di filmetti”. In questo caso l’episodio autobiografico si riferisce all’incontro di Schulberg con Scott Fitzgerald, chiamato dagli studios a collaborare alla revisione di una sua sceneggiatura.
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Il 22 giugno 2022 potrete assistere alla presentazione del romanzo di Manuela Cattaneo della Volta e Livio Sposito, Un cuore al buio: Kafka, che si terrà presso la biblioteca Valvassori Peroni. Il libro racconta la “storia e la vita delle cinque donne che hanno amato Franz Kafka”.
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Buone vacanze da tutto lo staff delle biblioteche di Milano!
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ryanadham · 4 years ago
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Dal momento che qui c'è qualcuno che giudica tutto senza capire i generi del GDR (non faccio nome) prima di tutto mostro i generi che possono esistere come potete vedere nello schema ma ora passiamo ai generi che ha il GDR il terzo tempio:
-Thriller: Il thriller è un genere di fiction che utilizza la suspense, la tensione e l'eccitazione come elementi principali della trama.
Accorgimenti tipicamente letterari quali falsi indizi, colpi di scena e complotti sono ampiamente utilizzati.
-Dramma: Un dramma (dal greco δρᾶμα, "drama" = azione, storia[1]) è una forma letteraria che include parti scritte per essere interpretate da attori.
In senso lato è un intreccio narrativo compiuto e destinato alla rappresentazione teatrale. Può essere in forma verbale scritta (ogni opera letteraria che preveda parti recitate o cantate) oppure improvvisata da un attore, o ancora in forma di narrazione non verbale, tramite la gestualità o la danza. Il termine dramma, se inteso in senso restrittivo, si applica esclusivamente alle opere teatrali scritte. Nell'opera lirica, si ricorre in genere al termine libretto.
Action fiction: L'action fiction è il genere letterario che include romanzi di spionaggio, storie di avventura, racconti di terrore e intrighi ("mantello e pugnale") e misteri. Questo tipo di storia utilizza la suspense, la tensione che si crea quando il lettore desidera sapere come verrà risolto il conflitto tra il protagonista e l'antagonista o quale sia la soluzione al puzzle di un thriller.
Mistero: Un film misterioso è un genere di film che ruota attorno alla soluzione di un problema o di un crimine. Si concentra sugli sforzi del detective, investigatore privato o detective dilettante per risolvere le misteriose circostanze di un problema per mezzo di indizi, indagini e deduzioni intelligenti.
Apocalittico-fantasy: La fantascienza apocalittica e post apocalittica sono due sottogeneri della fantascienza, strettamente connessi, generalmente analisi su alcuni elementi comuni come il verificarsi di un evento distruttivo che possa portare all'estinzione dell'umanità o comunque della società tecnologica (f. Apocalittica), o che abbia portato alla nascita di società distopiche (f. post apocalittica); queste eventi possono essere dall'uomo, come ad esempio una guerra nucleare, o naturali, con conseguenze su scala planetaria con danni all'intera umanità.
Rosa: Il romanzo rosa (detto anche romance) è un genere letterario che narra di storie d'amore e del loro intreccio che si dipanano in genere in avventure e intrighi e terminano sempre con un lieto fine. I romance (in inglese significa romanticismo) o romanzi rosa presentano una struttura formale molto simile alla fiaba, infatti in ogni romanzo i personaggi svolgono ruoli che seguono uno schema ben preciso simile a quello presentato da Propp: l'eroina protagonista (la tipica fanciulla giovane e bella che va incontro al pericolo), l'eroe (protagonista maschile e figura molto importante nel romanzo rosa in quanto "cavaliere" nonché "uomo amato" dalla protagonista che la salva sempre dal pericolo), l'antagonista (solitamente anche quella di sesso femminile, come per esempio la matrigna cattiva, ma non così frequente come la figura della protagonista, può anche capitare che l'antagonista sia un maschio che rapisce la fanciulla per poi sposarla contro il suo volere), l'amico/a aiutante dei protagonisti (la figura che nelle fiabe riveste il ruolo di fata madrina) e tanti altri personaggi secondari che si intrecciano sullo sfondo di intrighi politici, complotti, duelli, guerre, ecc...
Ora la persona che non nomino dice: i tuoi pg sono brutti, non possono ruolare con i miei.
Peccato che dal mio punto di vista che la sua soap opera non mi attira completamente. Motivo? non ci sono colpi di scena particolari, è solo sesso e niente storie d'amore che partono dai sentimenti che si provano.
Conclusione? la persona in questione non sa che vuol dire amore e non sa nemmeno cosa vuol dire creare colpi di scena che complicano molto la situazione di personaggi protagonisti.
Si sente offeso e deluso? questa è la verità che gli fa male e non accetta.
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levysoft · 5 years ago
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Artemis Fowl è una serie di romanzi Fantasy per ragazzi pubblicata per la prima volta nel 2001 dalla Mondadori. Il suo autore, l’irlandese Eoin Colfer, è un genio della narrativa per ragazzi, tanto apprezzato per la sua arguzia da essersi guadagnato l’onore di scrivere E un’altra cosa…, il sesto volume della trilogia Guida Galattica per Autostoppisti, sugli appunti di Douglas Adams.
La saga attualmente conta otto libri, ed è composta dai seguenti titoli:
Artemis Fowl
Artemis Fowl – L’incidente artico
Artemis Fowl – Il Codice Eternity
Artemis Fowl – L’inganno di Opal
Artemis Fowl – La colonia perduta
Artemis Fowl – La trappola del tempo
Artemis Fowl – Il morbo di Atlantide
Artemis Fowl – L’ultimo guardiano
Potete guardare il film di Artemis Fowl accedendo a DISNEY+ sia con un abbonamento annuale (con 2 mesi in omaggio) sia mensile!
Il caso Artemis Fowl
All’uscita di Artemis Fowl, nel 2001, il pubblico target dei romanzi era formato da quei dodicenni che stavano divorando le avventure di Harry Potter. Tra gli 11 e i 13 anni, erano prontissimi a scoprire che la magia poteva nascondersi sotto le radici di qualsiasi albero, e lo strampalato piano del ragazzino protagonista non stupiva nessuno: rubare l’oro dei Leprecauni sembrava proprio un’ottima idea (il Piccolo Popolo della serie, infatti, è dichiaratamente quello della tradizione Irlandese). Quello che affascinava della saga era principalmente il protagonista. Non un ragazzino stupito che guarda il mondo nascosto dietro i suoi occhiali, ma un piccolo genio del crimine che è disposto a fare le ore piccole per decifrare la lingua del Piccolo Popolo e usare le leggi magiche contro di loro. Il dodicenne Artemis Fowl II è miliardario, più intelligente della maggior parte dei suoi avversari: se vogliamo il primo tra i ragazzini Nerd. Come si fa a non amarlo? Le pubblicazioni ad oggi uscite dedicate alla famiglia Fowl sono suddivise fra i primi due libri – che delineano personaggi e trame principali – ed i sei successivi romanzi di approfondimento che portano sempre maggiori dettagli all’attenzione dei lettori.
Artemis Fowl
La saga di Artemis Fowl ha inizio quando il papà di Artemis (Artemis Fowl I, detto Artemis Senior) scompare lasciando il figlio ad occuparsi della tenuta di famiglia e della mamma malata, con l’unica protezione della guardia del corpo Leale, l’omone che lo ha praticamente cresciuto. Per rimettere ordine nelle finanze di famiglia, Artemis ha la splendida idea di derubare il Piccolo Popolo: ma come farlo? Semplice: recuperare un libro chiamato La Bibbia del Popolo per scovarli e poi tendere una trappola, rapire un ostaggio e chiedere un riscatto.
Peccato che l’ostaggio scelto, capitato lì per una serie di sfortunati eventi, non sia la persona più docile del Piccolo Popolo. Il Capitano Spinella Tappo, infatti, è l’elfo agguerrito che si è fatto strada nei ranghi fino a diventare il primo Capitano femmina della Libera Eroica Polizia (LEP) di Cantuccio, la capitale sotterranea e tecnomagica del Piccolo Popolo. Insieme al Comandante Julius Tubero e al centauro Polledro, Spinella Tappo è uno dei personaggi principali della saga.
L’Incidente Artico
Nel secondo libro e capitolo della storia la scena si capovolge. Stavolta sono Spinella, Tubero e Polledro a rapire e interrogare Artemis, sospettato di aver contrabbandato delle pile ai goblin per far funzionare delle armi proibite poiché potenzialmente mortali, le Nasomolle, e quando la squadra di creature magiche scopre che il ragazzino non c’entra niente accetta il suo aiuto nelle indagini. In cambio Artemis chiederà il loro aiuto nel salvataggio di Artemis Fowl Senior, che si scopre vivo ma rapito dalla mafia russa.
Questo volume introduce Opal Koboi, la folletta che ha creato la maggior parte della tecnologia magica, come supercattivo della serie. È un villain tradizionale, in grado di fare cose grandiose ma con il pallino della distruzione degli esseri umani. Un altro personaggio ricorrente che viene ripreso anche nel secondo volume è Bombarda Sterro, un nano cleptomane ricercato negliStrati Inferiori (il mondo magico) che proverà ad infiltrarsi nel mondo umano.
La fortuna dei Fowl
Come tante opere di fantasia, la fortuna di Artemis Fowl è stata in parte slegata dalla storia in sé, per quanto geniale. No, era l’insieme che piaceva ai ragazzini: un conto erano i libri che parlavano di grandi magie e protagonisti in crescita, un conto era misurarsi con Artemis. Artemis Fowl è un ragazzino che supera i suoi tempi: appassionato di tecnologia e di informatica, riesce a rubare la magia, a copiare le tecniche del Piccolo Popolo e a renderle armi proprie. La differenza con la letteratura del periodo, quindi, stava nella concezione del protagonista: non è più il bambino ingenuo che scopre il mondo ma un bambino che senza l’aiuto degli adulti (se non quello del fedele Leale) riesce ad approcciarsi a un mondo più grande di lui e a sconfiggerlo. Nei libri, inoltre, i piccoli lettori erano sfidati a decifrare la vari codici, scritti tra le pagine in caratteri speciali, e a chi non piacciono i codici da decifrare?
Il film
Il film di Kenneth Branagh uscito da qualche giorno su Disney+ è stato una vera e propria scommessa. Il tentativo è stato quello di fondere i primi due libri, aggiungendo pezzi che ricordano vagamente il terzo (nello specifico l’artefatto al centro del film). L’impresa non è riuscita molto bene, poiché come già si è visto con molte opere letterarie, già la trasposizione di un libro in un film solo (o in due, addirittura) risulta difficile, figuriamoci comprimere le informazioni e gli eventi di due libri in appena novantaquattro minuti di girato.
L’accoglienza non è stata calorosa, ma questo era un rischio che tutti erano disposti a correre, pur di portare questi personaggi sul grande schermo. Chissà che non si faccia in futuro un lavoro migliore.
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storiearcheostorie · 2 years ago
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ARCHEOLOGIA / Abitazioni del VI millennio a.C., fornaci, silos, ceramiche e una moneta di Alessandro Magno: il Kurdistan iracheno svela la sua storia più antica
#ARCHEOLOGIA #SCAVI / Abitazioni del VI millennio a.C., fornaci, silos, ceramiche e una moneta di Alessandro Magno: il #Kurdistan iracheno svela la sua storia più antica @LaStatale #UniMi
 Si è conclusa nei giorni scorsi la missione archeologica dell’Università degli Studi di Milano nel Kurdistan iracheno. Un mese e mezzo di ricerche e indagini a tutto campo nei siti di Helawa e Aliawa, condotte da un gruppo interdisciplinare guidato da Luca Peyronel, docente di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico, del dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici.…
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red-kedi · 3 years ago
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I delitti di Alice. Le indagini del professor Seldom di Guillermo Martìnez Marsilio -  15/04/2021
https://redkedi.it/2021/07/i-delitti-di-alice-le-indagini-del-professor-seldom/
Un giovane matematico argentino, dal nome tanto difficile da risultare impronunciabile, si trova a Oxford per il suo secondo anno di dottorato. È estate e il paesaggio della bella cittadina inglese risplende sotto il sole, tra il fascino dei college antichi e il verde dei chiostri, quando all’improvviso la confraternita intitolata a Lewis Carroll è sconvolta da una serie di misteriosi delitti che ruotano intorno al libro più famoso dello scrittore: Alice nel Paese delle Meraviglie. Per far luce sugli omicidi, il decano della confraternita chiede aiuto al giovane dottorando e al suo mentore e amico, il professor Arthur Seldom. Chi vuole mettere in difficoltà la confraternita? E chi è disposto a macchiarsi di crimini tanto macabri, pur di screditare l’autore di Alice e i suoi adepti? Novelli Holmes e Watson, i due matematici cercano la soluzione, sapientemente nascosta nei diari e negli indovinelli di Carroll, conducendo con garbo e ironia una sofisticata indagine deduttiva, tra paradossi logici, rompicapo e rimandi letterari. Giochi innocenti che un incalzare di colpi di scena trasforma in qualcosa di molto serio, rendendo il lettore complice di un’inchiesta ricca di imprevisti, sorprese e scoperte strabilianti, in una ricerca della verità che molto ricorda il percorso degli eroi di Borges.
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marikabi · 7 years ago
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Like Fishes in the Net (XVII puntata)
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Fèisbuk è innanzitutto un investimento emozionale per gli utenti. Non lo è più per Mark Elliot Zuckerberg, ricchissimo CEO già alla veneranda età di 27 anni. O per lo meno, lo è nella misura in cui sta vivendo l’emozione di essere stra-ricco.
Le nostre emozioni – che postiamo gratis -- si trasformano in moneta sonante (pare 100 dollaroni a cranio, il che moltiplicato per in miliardo e duecento milioni di utenti, fa…) perché una volta depositate nella nostra Bacheca  non ci appartengono più. E non solo perché diventano pubbliche, ma perché sono pubblicate. La differenza è importante.
Un’emozione è pubblica anche se la svelo al bar tra amici, o se la condivido al pranzo del matrimonio di mio cugino o su di un palco ad una convènscion.
Un’emozione è pubblicata quando – una volta registrata – si può recuperare e riutilizzare. Come gli articoli dei giornali, i testi letterari, le canzoni su iTunes. Con la differenza importante che sulle nostre emozioni non c’è il copyright.
Facebook (l’azienda), inoltre, ha deciso che tutto ciò che non è esplicitamente vietato, è permesso, ovverosia, i settaggi delle impostazioni su ciò che deve rimanere in-pubblicato sono per default liberi da restrizioni. In questo modo, Facebook (sempre l’Azienda) ha il database più ricco e profondo di ogni altra nazione.
Quindi, se non ci preoccupiamo di andare a cambiare le impostazioni, ogni nostra informazione è accessibile. Non solo a potenziali stalker (meno male che non ci chiamiamo Charlize, Cameron o Anna Oxa) ma anche a tutte le tentacolari società di marketing che hanno fatto e faranno la fortuna economica di Mark Elliot di cui sopra, utilizzando le nostre emozioni per tarare le pubblicità ed offrire prodotti sempre più personalizzati alle nicchie di utenza.
Più postiamo notizie sulle nostre emozioni e più lievita il conto in banca del ventisettenne lentigginoso, il quale ha tutto l’interesse di far aumentare la quantità di utenti e di post.
Come abbiamo letto sul TIME, fèisbuk non è un fine, ma un mezzo per veicolare, come se fosse un immenso sistema nervoso collettivo che trasmette le sensazioni del mondo. È uno strumento creato per permettere alle persone per fare ciò che amano di più: comunicare. Tutti comunicano, tutto comunica: dall’albero che cade nella foresta disabitata agli ormoni nei vasi linfatici.
Uno degli sviluppi della piattaforma per rendere ancora più semplice la condivisione di sensazioni ed emozioni è aumentarne la fruibilità sugli smartphone, quegli ibridi tra cellulari e microcomputer, ormai indispensabili appendici della nostra vita. Tant’è che Foursquare (letteralmente: Quattro Cantoni)  è nato proprio per taggarci nei luoghi dove ci troviamo al fine di offrirci in tempo reale tutte le opportunità commerciali dei dintorni. Idem l’applicazione built-in “Places”.
I momenti in cui fèisbuk ci ha meravigliato con le sue possibilità di avere tutto sotto controllo (piissima illusione) o di poterci connettere immediatamente con i nostri amici sono quei potenti collanti che lo hanno reso pressoché indispensabile. Non avere fèisbuk a portata di click ci rende ansiosi come aver perso uno dei nostri sensi, come avere un potente raffreddore.
Il think tank di Mark il Rosso ha poi ideato quello che è il passaporto per i siti del mondo: non più login legati alla nostra e-mail, bensì al nostro account “F”. Et voilà, appare pure la nostra fotina ogni qualvolta apriamo un sito della piattaforma “FacebookConnect”. A seconda di ciò che leggiamo o scegliamo su questi siti, ecco che una pubblicità correlata apparirà in pop-up. Una manna anche per i motori di ricerca che hanno aperto una piattaforma all-purpose, come Google (Gmail, GoogleDocs) o Yahoo! . Nel 2010 si sono contati 2 milioni di siti integrati con fèisbuk e nell’ultimo anno si è avanzati al ritmo di 10.000 siti al giorno.
La preoccupazione degli utenti, però, non dovrebbe appuntarsi su questa incredibile invasione della privacy, anche perché nessuno di coloro che sta su fèisbuk se ne importa davvero più di tanto se si continua a postare roba del tipo “Ho mal di pancia. Devono essere state tutte quelle cozze di ieri sera.” Diciamo meglio che le persone vorrebbero avere la possibilità di controllare ciò che viene pubblicato.
E qui casca l’asino! Le operazioni per arrivare a controllare ciò che è visibile sono estremamente complicate ed inoltre quelli di Palo Alto aggiungono diavolerie quasi ogni trimestre. Mi chiedo come la maggior parte della fascia emergente sul social network, quella degli over 60 (che è poi la stessa più appetibile dai mercati, poiché più numerosa e ancora danarosa, in questi tempi di denatalità, crisi, disoccupazione e precariato giovanile), possa controllare le impostazioni cervellotiche sulla privacy di fèisbuk. Esiste, però, anche una App sull’iPhone che ci guida passo passo nel settaggio delle impostazioni sulla privacy di fèisbuk. L’unico problema è che è in inglese e che ogni tanto si deve ripetere la procedura perché a Palo Alto cambiano le impostazioni con frequenza (mica fessi). Secondo voi, GDPR (che ci ha fracassato i maroni, con banner e valanghe di email, con le quali abbiamo capito che la colpa è nostra se ci rubano i dati) ha sistemato le cose? Io penso di no.
Prendere per esempio quella ragazza tedesca che aveva postato un invito alla sua festa di compleanno. Si era dimenticata di settare le impostazioni dell’evento come ‘privato’ e così l’invito ha raggiunto circa 15 mila persone di cui mille e 600 si sono presentate a casa sua e per farle sgomberare è intervenuta la Polizia, fermandone qualcuna, sedando pure qualche rissa e spegnendo un paio di piccoli incendi. Molte ragazze in sandali si sono tagliate i piedi sui cocci si bottiglie rotte. La casa di Thessa (questo il suo nome) è stata transennata. Insomma, un disastro.
In linea di massima, sarebbe opportuno limitare le informazioni personali (età, preferenze, link), evitare di usare le applicazioni che vengono direttamente da fèisbuk (Farmville, Baci, Abbracci, MafiaWars, Poker, etc), non accettare l’amicizia di assoluti sconosciuti, non usare per fèisbuk la stessa password dell’e-mail, del conto in banca o di PayPal. Inoltre, sarebbe utile bloccare la chat, limitare la ricerca pubblica ed impedire che gli amici ti inondino di applicazioni cretine e di inviti ad eventi cui non parteciperai mai e poi mai, e loro lo sanno pure, ma ti invitano lo stesso, porca polenta!
La regola aurea che dovrebbe guidarci sarebbe la seguente: “Facebook (l’azienda) è un business e l’unica cosa che cerca è di fare soldi con le nostre informazioni”.
Abbiamo trovato interessante nella sua semplicità, una lettera che già nel 2010 un Senatore del Minnesota – tale Al Franken – ha inviato ai capi di Facebook (l’Azienda) chiedendo loro di adottare migliori politiche di tutela della privacy, in quanto gli inserzionisti pubblicitari (pagando, of course) possono ottenere da Palo Alto informazioni del tipo e-mail, numero di telefono, data di nascita o reddito presunto, semplicemente basandosi sui dati inseriti nelle impostazioni del profilo, ricavandone – con qualche arguzia anche i dati di una carta di credito da clonare. Il pericolo maggiore, però, è quello che corrono i minori, superficiali sulle regole, e ghiotto boccone pubblicitario (e non solo) per le Aziende.
Non ci è sembrata terrorizzante la nota del Senatore, ma circostanziata e piena di buon senso. Per quanto ivi spiegato, però, un certo timore ci è occorso e siamo andate a nascondere ogni dato (data e luogo di nascita, luogo di residenza, e-mail, preferenze sessuali e politiche) che potesse essere in qualche modo usato o incrociato per capire come spremerci meglio come consumatori. O raggirarci addirittura. In una lettera di presentazione agli inserzionisti (svelata dal TIME ma anche il WallStreetJournal ha dedicato una lunga serie di articoli) si legge: “Facebook vi da l’opportunità unica di scovare le persone nei momenti particolari della loro vita, quando sono più sensibili a mostrare interesse nei vostri prodotti o servizi. È uno strumento potentissimo per gli affari, voi riuscirete ad acquisire nuovi clienti nel momento in cui iniziano o finiscono gli studi, si fidanzano, si sposano o si mettono su famiglia, in quei momenti, cioè, in cui sono più predisposti ad avere bisogno dei vostri prodotti. Riuscirete ad identificare esattamente i vostri potenziali consumatori attraverso coordinate demografiche e geografiche ed avere un mirino di precisione attraverso la sezione ‘Interessi e preferenze.’ “  Insomma, ogni click su ‘mi piace’, su post, commenti, foto o pagine, regala un’informazione preziosa alle aziende che acquistano da Facebook possibilità di accedere al data base più grande del mondo. Più chiaro di così.
C’è, però, un risvolto positivo sulla privacy zoppicante di fèisbuk: le indagini di polizia. Funziona benissimo per scovare i delinquenti (che ora usano chat e skype, meno vulnerabili di una SIM telefonica. Tant’è che anche il nostro premier di dispiace di aver dovuto rinunciare al cellulare). La funzione ‘Places’ combinata con GoogleEarth te li localizza come un videogame. Niente appostamenti, niente travestimenti: “Volante Facebook a Volante Twitter, Volante Twitter rispondete!”
Non solo, ma fèisbuk non è poi ritenuto così virtuale come piazza, perché due tizi agli arresti domiciliari (in provincia di Catania) sono stati incriminati di evasione (seppur virtuale) perché da fèisbuk lanciavano invettive contro le Forze dell’Ordine e mantenevano contatti con i loro sodali di delinquenza. Insomma, la vita su fèisbuk è reale, lo sono anche i reati puniti con la galera (vera, mica virtuale).
Poi, c’è stata quella storia in cui il Comune di Bordighera (capito? Bordighera, in Liguria) è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Pare che gli inquirenti avessero – tra l’altro – scoperto che il Sindaco aveva tra gli amici alcuni ‘ndranghetisti di calibro. Voglio capire i teen agers, che accettano quasi chiunque, ma ad un Sindaco di una cittadina del nord gli viene qualche attimo di riflessione se uno che si chiama – che ne so – Cetto Laqualunque gli chiede l’amicizia. O no?
La privacy non esiste più. Anche perché a noi tutti (mica solo ai poliziotti, agli investigatori o agli avvocati divorzisti) piace da matti ‘guardonare’ nelle vite di chiunque e più è facile reperire fatti e notizie più la tecnologia s’ingegna nel diventare ficcanaso.
Una delle ultime trovate del team di Palo Alto (sono prolifici in ambito di diavolerie, quelli) è il riconoscimento automatico dei volti sulle foto postate. Non è l’atto di taggare qualcuno (che è volontario, ma ci si può tranquillamente s-taggare), bensì è la capacità della tecnologia di leggere le foto e -- meglio dell’effebiai -- identificare gli immortalati. Facebook (l’Azienda) proclama che questa è una gran comodità, ma puzza di violazione della privacy. Il fatto è che a Palo Alto si sono intestarditi a tenere abilitate le opzioni di pubblicizzazione delle info per default, mentre sarebbe più corretto tenerle disabilitate e lasciare agli utenti la scelta di ciò che vogliono o non vogliono condividere. Non possiamo farci nulla, il nostro mondo è cambiato ed occorre ripensare alla nozione di privacy. Siamo un po’ tutti diventati come i VIP, costretti loro malgrado a ritrovarsi sui giornali per la loro inevitabile notorietà. Solo che loro -- oltre a ricavarci gloria ed onori -- ne hanno fatto un mestiere peraltro redditizio. Ma noi comuni mortali?
Una voce controcorrente ci è sembrata quella dello stra-famoso sociologo Zygmunt Bauman. Il vate della modernità e della società liquida ci dice che i social media hanno capovolto il concetto di difesa dei diritti individuali fondamentali per l’autonomia dei singoli. “Quello che ci spaventa al giorno d’oggi non è tanto la possibilità del tradimento o della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d’uscita posano venire bloccate. L’area della privacy si trasforma in una specie di carcere”, dove nessuno vuole sentire di noi e della nostra storia, in una condanna al silenzio mediatico. Una vera e propria ‘morte sociale’ attende tutti i resistenti all’entrata nel cyber-mondo.
A proposito di morte. Il TIME ha riportato la storia di due ragazze australiane intrappolate in una tempesta, le quali invece di chiamare la polizia o la protezione civile, hanno postato il loro stato di emergenza su fèisbuk. Sono state rintracciate e salvate. Di converso, abbiamo letto di quel disastro aereo in Patagonia, nel maggio 2011. Il reporter ci informava afflitto che gli inutili soccorsi (tutti morti) sono stati oltremodo complicati in quanto la zona era senza copertura cellulare. Questi episodi indicano due cose fondamentali: a) ormai le giovani generazioni fanno più affidamento ai canali comunicativi offerti dai social media e b) fèisbuk e le comunicazioni cellulari (quando esistono, ma in Patagonia no, evidentemente) funzionano più dei canali tradizionali anche in casi di emergenza.
Vabbe’, ma che ce ne importa, alla fin fine, di queste pippe sulla pràivasi. Quasi quasi vado a vedere le foto del matrimonio che ha postato il cugino della sorella di mio cognato e fare la conoscenza degli invitati. In automatico.
(Capitoli da un best seller ormai introvabile)
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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La ruga del cretino: un’indagine tra mistero e ironia firmata Vitali e Picozzi. Recensione di Alessandria today
Un giallo avvincente che intreccia crimini, personaggi eccentrici e un pizzico di humor inconfondibile.
Un giallo avvincente che intreccia crimini, personaggi eccentrici e un pizzico di humor inconfondibile. Andrea Vitali e Massimo Picozzi, maestri rispettivamente della narrativa e della criminologia, collaborano per dar vita a “La ruga del cretino”, un romanzo che mescola sapientemente mistero, introspezione e ironia. Pubblicato da Garzanti, il libro si distingue per la sua capacità di…
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Milano indaga
Si è appena conclusa l’iniziativa Milano in giallo e noi vogliamo tracciare una sintetica panoramica degli autori più noti. “Milano come Chicago“: titolava così il 29 novembre 1976 la prima pagina de «La Notte», storico giornale milanese poi chiuso negli anni Novanta. Ecco spiegata la moltiplicazione di libri (e film) gialli e, di conseguenza, di ispettori, detective, commissari che hanno popolato e tuttora investigano nella nostra città.
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In realtà la ‘predisposizione’ di Milano ad essere terreno fertile per indagini criminali risale più indietro nel tempo, a quello che è considerato il padre di questo genere letterario, Augusto de Angelis: noto antifascista e giallista in un’epoca in cui il Minculpop aveva disposto il sequestro “di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita”, innamorato di una donna ebrea, incarcerato e poi picchiato da un fascista: morì in seguito alle ferite riportate a soli 56 anni. Il suo eroe, il commissario De Vincenzi, egregiamente interpretato da Paolo Stoppa in una serie di sceneggiati Rai, opera prevalentemente nella nostra città. 
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Forse anche l’atmosfera, soprattutto invernale, fatta di nebbia e cieli plumbei, ha favorito lo sviluppo di questo tipo di letteratura: un misterioso delitto nella caligine notturna di Palestro apre le pagine di Motivo d’allarme di Eric Ambler, ambientato durante gli anni del ventennio. 
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Al dopoguerra si ispira Dario Crapanzano: “Mario Arrigoni, capocomissario di Porta Venezia (che è come dire arcimilanese, meneghino al quadrato), si muove in una Milano impegnata a ricostruire ma non ancora toccata dalla febbre dal boom, dove insieme a fabbriche e uffici riaprono anche i teatri, come il Piccolo di Strehler; dove le auto sono poche e ci si sposta in tramvai, tutt’al più in Vespa; dove brunch e happy hour non sono stati ancora inventati e al massimo nelle fumose osterie si può mangiare un panino, anzi, un ‘sanguis’, traslitterazione milanese della parola sandwich”. 
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Dal dopoguerra la città si è ingrandita a dismisura, la periferia “ha fagocitato cascine, campi coltivati e borghi storici, e si è ritrovata, senza rendersene conto, una metropoli” (così scrive Michele Turazzi nell’utile volumetto Milano di carta). Sono gli anni del boom economico “di una società approdata al consumismo senza aver davvero capito di essere uscita dalla povertà”, e l’equazione ricchezza = criminalità dà i suoi risultati nella cronaca nera come nelle pagine dei romanzi gialli. Dalla vecchia ligera locale “malavita estrosa e un po’ scalcagnata” che quasi mai uccideva (quella cantata da Jannacci e Gaber, per intenderci) si passa alla delinquenza efferata con cui si trova a combattere l’investigatore Duca Lamberti (protagonista anche di alcuni film) creato dalla veloce penna di Giorgio Scerbanenco. Sono gli anni della famigerata ‘banda Cavallero’ (che ha ispirato il film di Lizzani Banditi a Milano, con Gian Maria Volonté), di Francis Turatello e di Vallanzasca.
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La mala degli anni ’60-70 è descritta da Paolo Roversi in Milano criminale, prequel di Solo il tempo di morire, ambientato tra il 1972 e il 1984, ancora prima della cosiddetta ‘Milano da bere’.
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Al 1978 risale il l’esordio di Renato Olivieri. Ecco come Andrea Camilleri (nella prefazione di Il romanzo poliziesco di Yves Reuter) descrive il suo eroe: “Il commissario Giulio Ambrosio, innamorato stendhalianamente della sua Milano, è un uomo colto, dalle abitudini borghesi, sostanzialmente malinconico”. Ricordiamo anche il bellissimo film I giorni del commissario Ambrosio con Ugo Tognazzi.
“Ma l’eredità maggiore di Scerbanenco si ritrova in tutti quei commissari, vicequestori e detective improvvisati che hanno invaso gli scaffali delle librerie nell’ultimo mezzo secolo, rendendo Milano la città d’elezione per le indagini letterarie nel nostro Paese. Questi investigatori agiscono ovunque, in qualsiasi quartiere di una città che, dal punto di vista del crimine, non conosce pace”. 
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È la Milano degli anni Ottanta quella di Piero Colaprico, il giornalista che ha coniato il termine ‘tangentopoli’ (la sua esperienza in tema di criminalità milanese gli ha dettato il saggio di recente pubblicazione Manager calibro 9), nonché padre, insieme a Pietro Valpreda, del maresciallo Binda “un investigatore che si inserisce perfettamente nella tradizione del giallo. Classico per la meticolosità dei suoi ragionamenti, moderno per la sua abilità nel districarsi nei vari strati sociali di una Milano colma di divergenze, Binda risulta un personaggio con il quale non si può non simpatizzare. Padre e marito modello, imperturbabile, ma con un profondo lato malinconico, quasi dark, che bilancia una certa dose di sana ironia. Un anziano ex carabiniere che vive una seconda giovinezza proprio grazie all’attività di investigatore privato”. 
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Si tratta di un vero proliferare (cui si può offrire solo un rapido cenno), che non sembra attenuarsi, forse perché la narrativa è più vera e accattivante se agganciata al territorio, e la Milano buia, nebbiosa, tentacolare, sovrappopolata ben si presta ad un immaginario di tipo poliziesco. 
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I più recenti: Il mistero di Chinatown di Mario Mazzanti, la prima indagine dell’anatomopatologo Tommy Davis e dell’amico Gualtiero Abisso; La disciplina di Penelope di Gianrico Carofiglio: “La protagonista, brillante magistrato dei tempi che furono, è impegnata in un’investigazione tra le vie di Milano, avvolta nei ricordi e in un intrico da svelare”; a proposito di nebbia, è appena uscito Una giornata di nebbia a Milano di Enrico Vanzina: “È una giornata di nebbia a Milano, una di quelle che sembravano non esistere più, come se fosse uscita da un romanzo di un altro tempo, da una ballata di giorni lontani. Luca Restelli sta andando al giornale per cui lavora, per le pagine di cultura, quelle che non considera nessuno. Non ha ancora quarant’anni, ma anche i suoi gusti sono ‘passati’, come la nebbia di quella mattina: vive di riferimenti letterari e cinematografici, tra insicurezze e un po’ di superbo disprezzo per il mondo indolente e arrivista che lo circonda. All’improvviso arriva una notizia, un omicidio in Corso Vercelli, un uomo è stato ucciso con un colpo di pistola, è stata arrestata una donna. Restelli si propone, la cronaca nera gli è sempre piaciuta. Dopo aver raccontato la città eterna, Vanzina racconta l’altra capitale italiana. Il risultato è un giallo straordinario, elegante, irriverente, geniale e inaspettato”; Nella luce di un’alba più fredda di Hans Tuzzi: nuove indagini per il commissario Norberto Melis; Un colpo al cuore di Piergiorgio Pulixi, ambientato tra la Sardegna e Milano è la storia di “un serial killer che ha deciso di riparare i torti del sistema giudiziario”; e poi le indagini del commissario Caronte di Alessandro Reali. 
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Ambientato sempre a Milano (ma questa volta in estate!) l’ultimo bestseller di Alessandro Robecchi, Flora, di cui abbiamo già parlato: “Storia di un Pigmalione ai tempi della televisione che cerca di convertire la sua pupilla e le masse al culto della poesia, tramite il toccante esempio del surrealista Robert Desnos. Storia di un rapimento sui generis in cui il lettore è dalla parte dei malviventi, e ben presto lo sarà anche la vittima. Scritto in piena pandemia, ne riporta qualche velata eco”.
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Addirittura una magliaia è stata promossa all’invidiabile ruolo di investigatrice: si tratta di Delia, la protagonista dei gialli di Mauro Biagini.
Come dice Turazzi, “la lista è quasi inesauribile”. Per la fortuna di noi appassionati lettori, ci viene da aggiungere...
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abatelunare · 7 years ago
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Di cani pavidi e ingordi
Fra le innumerevoli serie animate che vedonono quale protagonista il pavido e ingordo cane Scooby-Doo, direi che Scooby-Doo! Mystery Incorporated è la più assurda. Si compone di due sole stagioni di ventisei episodi ciascuna. Ed è concepita come uno sceneggiato. A fare da filo rosso che unisce le varie avventure c'è un mistero legato a Crystal Cove, la città dove sono nati e vivono i cinque protagonisti. Lo schema degli episodi è sempre lo stesso: presunto mistero sovrannaturale da risolvere, raccolta degli indizi, spiegazione razionale del mistero. A cambiare, rispetto alle altre serie, è la cornice narrativa in cui sono collocate le varie indagini, e l'interazione fra i protagonisti. Disegno e animazione sono sicuramente buone. E non mancano i siparietti comici ad alleggerire i vari momenti di tensione. Peccato l'inverosimiglianza della vicenda - questa volta sì soprannaturale - che percorre sotterranea - in molto sensi Scooby-Doo! Mystery Incorporated. Gli autori disseminano qua e là numerose citazioni, soprattutto televisive (Twin Peaks in testa) e letterarie (Howard Phillps Lovecraft e Harlan Ellison su tutti). E tirano in ballo la leggenda di Nimiru, il dodicesimo pianeta del sistema solare. (Chi volesse saperne di più potrebbe leggersi i saggi di Zecharia Sitchin). Nel complesso, la serie è gradevole. Ma trovo che la narrazione sia eccessivamente intricata e peschi da troppe fonti. Tanto che si capisce come a un certo punto non abbiano più saputo come concluderla in modo sensato (il finale è fra i più deludenti e banali). Poi c'è anche da dire che io sono indissolubilmente legato ai cartoni animati della mia infanzia. E rimango scettico davanti alle varie riattualizzazioni, sequel o quel che siano. Mi piace ricordarle come erano. Non come sono diventate.
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istruzionedigitale2020 · 5 years ago
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Addio Project Gutenberg?
Se cercate il termine istruzione sul vocabolario capirete che non si tratta solo dell’insegnamento scolastico e questo è il presupposto da cui parte questo post, perché molto spesso, e vale anche da settembre a giugno, tutto parte da un libro. Ora basta aggiungerci affianco l’aggettivo “elettronico” o, ancora meglio, “digitale” e capirete di cosa voglio parlare qui.
Ecco, quello che oggigiorno conosciamo quasi tutti come “ebook” nasce quasi 50 anni fa grazie ad uno scrittore e informatico americano di nome Michael Hart. Egli è stato il fondatore del cosiddetto Project Gutenberg (PG) che, se non sapete di cosa si tratti, è stata la prima iniziativa di biblioteca online completamente gratuita che mira a “rompere le barriere dell'ignoranza e dell'analfabetismo” attraverso una collezione di oltre 60 mila testi per la maggior parte di dominio pubblico (non coperti o decaduti dai vincoli del diritto d’autore), condivisi come file di testo ma anche in altri formati quali HTML, EPUB e Plucker. Una piccola curiosità: il primo ebook caricato è stato la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, digitata parola per parola dallo stesso Hart che ne aveva una copia nello zainetto. Da allora volontari da tutto il mondo si unirono a questo progetto.
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Project Gutenberg logo - Fonte: Wikimedia Commons - Autore: Dianakc
Tuttavia, non ho intenzione di dilungarmi troppo su noiosi aneddoti storici poiché, per quanto possa sembrare contraddittorio visto quanto scritto finora, voglio parlare di “attualità”. Sì, attualità, perché il sito del “Progetto Gutenberg” è stato posto sotto sequestro preventivo e oscurato a maggio 2020 dalla Guardia di Finanza in seguito a una disposizione del Tribunale di Roma in merito alle indagini preliminari sui canali Telegram che diffondevano domini contenenti materiale editoriale piratato. E ad oggi, il sito del progetto è ancora irraggiungibile in tutt’Italia. La notizia è riportata da diversi quotidiani quali La Stampa e La Repubblica. Rincresce perciò sapere che questa biblioteca virtuale creata senza scopi di lucro e nel rispetto del copyright sia ora inaccessibile. Dalla sua creazione Project Gutenberg rilascia infatti opere letterarie storicamente significative e di riferimento mondiale: da Omero a Shakespeare, dalla Bibbia a Thomas Hardy. E non solo in lingua inglese! Per quanto limitate, ci sono collezioni di testi anche in italiano (tra cui la Divina Commedia), in francese, in tedesco ed altro ancora.
Non si impara solo a scuola o all'università, ma anche leggendo, per questo Project Gutenberg, attraverso la vastità di grandi classici e altri libri che offre, è una risorsa importante per tutti, studenti e non. L’augurio è quello che il sito venga “scagionato” al più presto e che non ne venga danneggiato.
In attesa di nuovi aggiornamenti ricordiamoci però una cosa che abbiamo capito soprattutto in questo periodo (grazie Covid-19!): esistono sempre molte opportunità specialmente online per imparare.
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Schermate di una libreria - Fonte: Pixabay - Autore: geralt
Irene Bortolossi
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vocidaiborghi · 5 years ago
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In questi giorni le circostanze hanno fatto sì che mi trovassi a transitare sulla strada provinciale che da Quarto d’Altino, comune del veneziano, conduce a Portegrandi, un paesino al margine della laguna di Venezia, dove le acque del fiume Sile, il più lungo corso fluviale di risorgiva d’Europa, si amalgamano con quelle salmastre. La mattinata si era presentata con la prima nebbia, che sapeva di un inverno imminente, e i giorni a seguire non avrebbero smentito una tale previsione.
La strada corre sinuosa in gara con il Sile per lunghi tratti ed è costeggiata da alberi, le cui chiome sono ormai scheletriche. Gli incontri sono sporadici: l’ostinato della bicicletta lungo gli argini, qualche auto e l’immancabile trattore con l’aratro sporco di terra nera. Raggiungo Trepalade. Quattro case e un ristorante chiuso da tempo. Qualche centinaio di metri in là, una targa ricorda l’edificio in mattoni quale l’ospedaletto da campo numero 67 della Prima Guerra Mondiale. Memorie di paese, sempre più rare, evocano radi scorci di quei tempi, tra i quali il ricordo dell’americano che guidava un’ambulanza, divenuto anni dopo un famoso scrittore.
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L’atmosfera della campagna circostante è ovattata, ogni rumore pare perdersi nella nebbia, che sembra carezzare i campi e i fantasmi di filari di piante spoglie. Imboccata la strada che, volte le spalle al Sile, conduce alla più trafficata Triestina, un canale dalle acque sonnolente sembra accompagnare il percorso. Le sue dimensioni sono modeste, come modesto appare il suo nome se rapportato al suo vicino Sile. In realtà, il Siloncello, opera dell’ingegno romano, rappresenta il filo conduttore della storia di questi luoghi: l’acqua.
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Più avanti, la vecchia sede del Museo archeologico di Altino, il cui porticato ancora oggi esibisce un coro di voci epigrafiche, che narrano il grande teatro della vita e della morte in un saliscendi silente tra i desideri terreni e l’aspirazione all’eternità.
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Qualche timido raggio di sole si fa spazio tra la nebbia e si accendono i colori che vanno dal marrone al rossiccio. Il panorama è un susseguirsi di poderi con qualche casolare, spesso diroccato, che rompe la continuità senza fine. Eppure, a qualche decina di metri, sotto qualche spanna di terra, il suolo nasconde l’ava di Venezia: la paleoveneta e romana Altino.
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Velleio Patercolo, storico latino del periodo di Tiberio, ricorda che, tra il 42 e il 40 a.C., queste terre furono solcate da Asinio Pollione al comando di un esercito composto da sette legioni. Da qui tenne in mano la “Venetia” e provvide alla distribuzione della terra ai veterani di Filippi (Vell. Pat., II, 76, 2). Più avanti, un altro storico latino, Tacito, ricorda che l’arrivo delle truppe di Vespasiano e il successivo presidio militare in previsione di un attacco della flotta ravennate. (Tac., Hist., III, 6). Più avanti ancora, nel 166 d.C., Altino divenne uno dei capisaldi delle truppe romane contro i Quadi e i Marcomanni, intenti ad assediare Aquileia, dopo aver dato alle fiamme la vicina Opitergium; e trampolino logistico per le spedizioni danubiane, effettuate da Marco Aurelio e da suo fratello adottivo Lucio Vero, il quale, di ritorno a Roma dal fronte danubiano, venne colpito da un colpo apoplettico, morendo nel febbraio del 169 d.C. nei pressi della città, dove si era fermato per una sosta (Hist. Aug., Ver. 9, 2). Peraltro, gli altinati videro il macabro trofeo di guerra delle truppe senatorie nella lotta contro l’imperatore Massimino il Trace. La sua testa fu esibita lungo il percorso da Aquileia ad Altino, per poi essere trasportata attraverso il tragitto endolagunare fino a Ravenna e, quindi, a Roma. Secoli dopo, alcuni passi delle epistole di San Girolamo al primo vescovo di Altino, Sant’Eliodoro, ricordano il centro come popoloso, tanto che l’aria sovrastante alla città era fosca e caliginosa per i numerosi focolari: Quam diu te tectorum umbrae premunt? Quam diu fumeus harum urbium carcer includit? (Hier., Ep., 14, 10). Il primo colpo d’arresto della città fu segnato dall’arrivo di Attila, che, seguendo le parole di Paolo Diacono (H.R., XIV, 11) e dell’Anonimo Ravennate (Chorographia, IV, 30), avrebbe preso e distrutto la città nel 452 d.C., benché le varie indagini archeologiche abbiano alquanto ridimensionato l’aspetto rovinoso dell’incursione.
Fino a qualche tempo fa, si riteneva che le origini della frequentazione umana dell’area altinate dovessero essere relegate all’età della cultura paleoveneta, basandosi in particolare sulle tracce superstiti risalenti al VIII – VII secolo a.C., rinvenute durante gli scavi effettuati nelle necropoli. Invece, uno scasso fortunato di un aratro aprì un nuovo capitolo nella comprensione della storia evolutiva dell’agglomerato urbano di Altino. In località Vallesina, le sabbie di origine pleistocenica avevano preservato delle preziose evidenze, che rievocavano la storia di un sito preistorico, ubicato in una posizione decisamente favorevole, essendo più alta rispetto al piano di campagna e ai margini della laguna. Lo studio dei manufatti e le considerazioni geostratigrafiche sul sito di ritrovamento collocarono questa stazione litica nel Mesolitico, l’era dei grandi cambiamenti climatici e ambientali. Lo stanziamento, forse più stagionale che permanente, apparteneva ad un gruppo di cacciatori e raccoglitori, che, allettato dalle nuove e più abbondanti risorse alimentari, alternò alla caccia la pesca e la più semplice raccolta dei molluschi marini. Numerosi indizi, quale la materia prima per eccellenza come la selce, portarono a pensare un possibile collegamento con le stazioni mesolitiche lungo la fascia collinare e pedemontana del Veneto orientale, forse attraverso i sentieri aperti dai cacciatori seguendo i percorsi stagionali degli animali, anticipando per taluni versi il tracciato stradale che in epoca romana sarà individuato come la via Claudia Augusta Altinate. Anche il Neolitico ha riservato continue ed importanti sorprese, che hanno mutato in modo sostanziale le convinzioni sulla tarda storicità del territorio altinate. In questo periodo ricevono grande impulso le tecnologie della manifattura in ceramica e della levigatura della pietra dura per costruire oggetti taglienti in genere, come le due asce rinvenute in località Cà Nuova e Brustolade, che rivestono una particolare rilevanza, dato il loro possibile raffronto con le due coeve portate alla luce alla fine dell’Ottocento a Venezia da Urbani De Gheltof, durante i lavori di consolidamento delle fondazioni del palazzo Tiepolo Papadopoli e la ricostruzione del Fondaco dei Turchi, l’altomedioevale palazzo Pesaro.
Nel 2004, in seguito ai lavori di sbancamento effettuati nella tenuta “I Marzi” di Portegrandi, emersero segnali di un possibile interesse archeologico. La Soprintendenza archeologica del Veneto, ordinata la sospensione dei lavori, intraprese le indagini stratigrafiche orizzontali e verticali del caso, affidandole alla dottoressa Elodia Bianchin Citton. Si è così proceduto allo scavo e sono emersi tutta una serie di dati, che hanno permesso di stabilire una cronologia relativa dell’occupazione dell’area, restituendo le testimonianze di una sua frequentazione insediativa a partire dall’età del Bronzo finale, intorno al X secolo a.C.. Il sito si estendeva al di sopra di un dosso sabbioso in adiacenza di un paleo-alveo del Sile ormai in foce, la cui continuità insediativa si venne ad interrompersi agli inizi della prima età del ferro, a causa dell’ingressione marina.
La nuova facies culturale, che possedeva una sua unità originaria indifferenziata, evolse tenendo conto delle specificità insediative più importanti, divenute tali in virtù di un processo di distinzione economica. Este e Padova divennero i due poli di maggiore irradiazione della cultura paleoveneta. La prima proiettò la propria influenza a sud-ovest, toccando il veronese; mentre la seconda segnò il Veneto orientale, segnatamente con i centri di Oderzo e Altino.
L’affermazione culturale e territoriale paleoveneta in quella che diverrà la “Venetia” si strutturerà in un arco temporale dal X/IX secolo al II secolo a.C., coincidente con l’arrivo dei Romani, che è stato suddiviso dagli studiosi in quattro periodi diacronici (A. Prosdocimi, 1882; G. Fogolari e O.H. Frey, 1965). I Paleoveneti possedevano una propria lingua di ceppo indoeuropeo e una scrittura basata da un alfabeto di derivazione etrusca. Secondo le fonti letterarie e le ricerche archeologiche i veneti dovevano essere un popolo di agricoltori e famosi allevatori di cavalli, ma, stando alle testimonianze pervenute, non sono mai ricordati come guerrieri. Comunque sia, per quanto inspiegabile il comprensorio veneto riuscì a mantenere una propria indipendenza dalle genti vicine piuttosto bellicose e lo stesso contatto con i Romani avvenne in virtù di un’alleanza militare in funzione antigallica.
I primi segni insediativi più consistenti sul suolo di quella che sarà Altino risalgono al X secolo a.C.. Sono uomini che costruiscono un impianto domestico con capanne a pianta rettangolare, pavimentate da un battuto argilloso con elevato al graticcio, poste al di sopra di dossi fluviali, delimitati da canali gravitanti sulla laguna e sul paleo-alveo del Sile. Le sue origini sono intimamente connesse al fiume Sile e alle acque della laguna, che grazie ai suoi primitivi ancoraggi la protesero in mezzo ai traffici endolagunari e marittimi del Mediterraneo. Inoltre, questo scalo fluviale sull’Adriatico era interessato da un reticolo stradale di antica percorrenza, che in molti casi vennero rifondate più avanti dagli ingegneri romani.
Intorno al VII secolo a.C., l’area interessata dalla stazione capannicola trovò una nuova dimensione urbanistica, divenendo un quartiere artigianale, mentre l’abitato residenziale venne spostato in direzione nord ovest, ma fu solo con il VI secolo che l’abitato assunse una determinazione protourbana, più o meno coincidente al suolo della successiva città romana, definita peraltro, dai due luoghi cultuali, collocati a fronte della direttrice marittima l’uno e l’altro sulla prospezione terrestre. A partire dal 1997, le indagini archeologiche sull’area oggi interessata dal nuovo Museo Archeologico Nazionale hanno restituito i resti di un’area sacra, che si sviluppò dal VI secolo a.C. all’età imperiale romana. La struttura cultuale, sorta in prossimità di un dosso bonificato da una canaletta e servita da una stradina che la poneva in relazione all’abitato, possedeva una planimetria rettangolare di 20 m X 12 m. L’elevato era pavimentato ed era costituito da un porticato anch’esso rettangolare, che cingeva una sorta di corte, all’interno della quale vi erano due grandi altari. All’esterno, i depositi votivi e rituali, all’interno dei quali erano stati deposti tutti gli ex voto e i resti del sacrificio, dopo la loro originaria deposizione nel tempio. Oltre ai resti ossei di numerosi animali domestici, tra i quali maialini da latte e cavalli, si sono rinvenuti numerosi frammenti ceramici, molti confrontabili con gli esemplari cultuali d’ambito patavino, nonché una decina di iscrizioni – tra le quali quella che ricordava il nome venetico di Padova – che hanno attestato l’esistenza di un rapporto tra Padova e Altino, suggerendo un’ipotesi molto suggestiva che vedrebbe nell’emporio altinate uno dei porti adriatici di Padova. Inoltre, le fosse del santuario hanno restituito delle ceramiche e dei bronzetti di attestazione etrusca padana, attestando determinate relazioni con gli empori di Spina ed Adria, attraverso le rotte marittime ed endolagunari. Infine, le dodici iscrizioni che hanno riportato in grafia patavina e locale il nome della divinità a cui era dedicato il tempio venetico: Altinom, in grafia patavina, e Altnoi, in grafia locale. Il teonimo e il toponimo coincidono; e si riferirebbe ad un luogo prominente rispetto alla realtà di spiaggia circostante, personificando la realtà insediativa.
L’altra area cultuale, identificata in località Maraschere per lo più dai dati archivistici relativi agli scavi del passato, avrebbe rivelato la coesistenza di almeno sei are, le cui dedicazioni evidenziano un contesto necropolare e, contestualmente, un baricentro ideale con la direttrice terrestre dello scambio di merci, idee, culture e tradizioni dell’emporio altinate: una ara anepigrafe, una dedicata agli dei degli Inferi, una a Vetlonia, una a Lucra Merita, una a Venere e una ad Ops, nonché un probabile culto di Belatukadro, dio celtico della guerra, testimoniato da un’iscrizione votiva del V – IV secolo a.C. (Marinetti, 2001, 103 ss).
Una prima organizzazione delle aree sepolcrali risalente al lasso temporale tra il VII secolo e il IV secolo a.C. è stata verificata a sud di quest’ultimo tempio, principalmente nelle località Fornasotti, Portoni, Brustolade e nella Tenuta Albertini. Dal punto di vista tipologico, le tombe in fossa terragna ricalcavano in linea di massima quelle riscontrabili nelle altre città venete. Anche il trattamento crematorio dei morti, la modalità di deposizione dei resti ossei combusti e del corredo personale all’interno di un contenitore per lo più ligneo collimavano con la coeva ritualità funeraria veneta. Dal IV secolo a.C. fanno la loro apparizione le sepolture a cremazione in “dolii”, grossi recipienti deposti nel terreno, in linea con le necropoli rinvenute a Padova. Un caso a sé è rappresentato dalle fosse multiple con individui di sesso diverso, ritrovate nella necropoli di Brustolade, dove si sono evidenziate delle inumazioni, probabilmente legate a specifici segmenti sociali.
I corredi femminili, che testimoniano analogie con il Veneto orientale e i centri friulani, sono costituiti da oggetti legati a lavori artigianali e domestici, oltre ad oggetti preziosi, indicandovi con ciò l’elevato status sociale della donna e della famiglia di appartenenza. Le tombe maschili, invece, sono caratterizzate da un corredo più povero e, solo in pochi casi, si registrano delle armi, per lo più cuspidi di lance.
A partire dalla fine del V secolo a.C., l’Italia settentrionale vede stringersi i rapporti non solo commerciali con il mondo celtico, ma assiste all’ingresso di piccoli gruppi nella Pianura Padana, preludio della successiva invasione, avvenuta in tempi diversi, attraverso i valichi montani. La prima popolazione celtica che mise piede stabilmente nel nord Italia furono gli Insubri, che si stabilirono nell’attuale Lombardia centro occidentale. Le ondate successive furono caratterizzate dai Cenomani, dai Lingoni, dai Boi, dai Carni e, infine, dai Senoni. I Cenomani occuparono l’area delimitata dal fiume Oglio fino alla pianura veronese; i Carni si stanziarono a nord est lungo l’asse segnato dal bacino del fiume Tagliamento, nell’odierno Friuli-Venezia Giulia; i Lingoni e i Boi si fermarono nell’area emiliana; i Senoni, infine, s’insediarono nel territorio romagnolo marchigiano. Il nuovo assetto territoriale del nord Italia determinò nuovi equilibri per quanto fluidi, circoscrivendo i Liguri ad occidente, ad oriente i Veneti, mentre sopravvivevano piccole enclave di greci etruschi, mero retaggio dell’Etruria padana.
Non è un caso se le testimonianze storiografiche siano del tutto concordi sul rapporto di conflittualità permanente, causato dal nuovo rapporto d’equilibrio tra il mondo celtico e la realtà veneta. Lo storico latino, dai natali patavini, ricorda lo stato permanente di guerra delle città venete, compresa la sua Padova, con i Galli vicini (Livio, X, 29). Tuttavia, nel II secolo a.C., i confini territoriali e culturali tra le due éthne erano andati sfumando in un gioco di vasi comunicanti, soprattutto nell’area veronese, nel altoplavense e a sud del ramo settentrionale del Po, tanto da far sottolineare allo storico Polibio che “la parte vicina all’Adriatico era abitata da un’altra popolazione molto antica, quella dei Veneti, per costumi e abitudini poco diversi dai Celti, ma con un’altra lingua” (Polibio, II, 17, 5). Ad Altino, come nelle altre realtà venete, l’elemento tangibile della rottura dell’unità socioculturale delle due etnie è rappresentato dalla comparsa di armi nelle tombe maschili, in particolare spade, l’arma per eccellenza del guerriero celta, confermando la graduale integrazione del ceppo celtico nel tessuto venetico. Alcune evidenze sepolcrali altinati, risalenti al IV secolo a.C., infatti, presentano un rito funerario estraneo all’ambito veneto, evidenziato dall’inumazione e dalla deposizione di spade, la cui tipologia rimanda al comparto senone. Successive sepolture, invece, presentano elementi di novità nelle armi di ambito cadorino, rafforzato dal rinvenimento delle statuine stereotipate in bronzo raffiguranti guerrieri celti, che trovano corrispondenza in quelle del santuario di Lagole a Calalzo di Cadore.
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Con la fine del III secolo e gli inizi del II secolo a.C., il Veneto sarà interessato dal vasto processo di romanizzazione, volano fondamentale per la storia della Venetia, non solo dal punto di vista politico, ma economico e culturale. La fondazione della colonia latina di Aquileia (181 a.C.), che viene a completare il processo di controllo militare romano lungo l’asse Piacenza-Cremona-Rimini e cuneo verso l’Oltralpe e l’Illiria, era stata favorita dalla costruzione di assi stradali, sovrapposti sulle direttrici già attive in epoca protostorica. Altino fu raggiunta nel corso del II secolo dal reticolo viario convergente su Aquileia, ma fu senza dubbio la via Annia, il tracciato costruito dal console Tito Annio Lusco nel 153 a.C. (Croce da Villa, in Concordia, 2001, 125),
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l’asse di scorrimento più rilevante della città, condizionando di fatto il processo evolutivo della città e il suo assetto urbanistico, oltre ad aver facilitato l’arrivo di soggetti romani, latini e italici, attratti dalla possibilità di laute attività commerciali.
L’abitato veneto vide aumentare il traffico dei militari e civili non soltanto per la raggiera di arterie stradali, ma vide accrescere il movimento del suo porto, reso più efficiente dalla costruzione di nuovi moli. Le strade e il porto, che allacciavano Altino all’Oriente e all’Occidente, furono i principali vettori degli scambi tra le diverse etnie, le quali portarono con sé non solo i prodotti di vita materiale, ma anche nuovi interessi politici, economici, nonché spirituali e culturali, che andarono a stratificarsi mano a mano nella vita di ogni giorno della città. Le nuove istanze portarono alla rifondazione su scala monumentale del santuario di Fornace, benché la dedicazione rimanga la medesima al dio Altino.
Comunque, fino a quel momento l’abitato altinate rimaneva un’entità insediativa di modesta estensione, la cui abbondante presenza dell’acqua aveva fortemente condizionato le sue caratteristiche ambientali e, a sua volta, aveva rappresentato un fattore d’impulso per l’economia locale, ma di contralto aveva dovuto fare i conti con le periodiche e rovinose piene e l’insalubrità delle zone paludose, che l’attorniavano. Inoltre, le aree portuarie, poco più di piccoli ancoraggi, possedevano un’attrezzatura inidonea al movimento di merci per una città con velleità commerciali di una certa rilevanza.
Gli ingegneri romani, favoriti dall’abilità raggiunta nelle opere idrauliche grazie alle tecniche derivate dall’Egitto tolemaico (Strab., V, I, 5), intrapresero una rilevante opera di risanamento e regimazione delle acque (Tirelli 1999, 12). La sua realizzazione prese avvio nella prima metà del I secolo a.C. e consentì il raggiungimento di finalità molteplici, strettamente connesse tra loro, quali la difesa idraulica del territorio; l’utilizzazione di nuove aree prima depresse, improduttive e paludose; la migliore fruibilità delle acque disponibili, con l’uso di nuovi tronchi di canali ai fini idroviari (Tirelli 1999, p. 12-13; Cresci Marrone – Tirelli 2007, 63). Furono di particolare rilievo le opere atte a sottrarre l’abitato di Altino al pericolo del Sile e degli altri corsi d’acqua, nonché allo sbilanciamento tra gli afflussi e gli efflussi di marea, l’effetto del quale non poteva essere che un progressivo aumento di allagamento della parte bassa, causa prima dello stato palustre della città. Lo scavo del Siloncello concluse questa grande operazione idraulica. Alimentato dalle acque del Sile, che si distendeva nei suoi meandri a nord della città, il suo corso rettifilo incontrava il canale di Santa Maria, che delimitava a sud l’abitato, divenendo da un lato il collettore principale delle acque circostanti i dossi dell’insediamento urbano e dall’altro l’ambito portuale fluviale collegato alla laguna, con tanto di nuove dotazioni di moli d’ormeggio (Cipriano 1999, 34-35).
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Tronco di rovere – rinforzo sponda Siloncello
Dovette essere quella un’opera di risanamento memorabile, come le altre effettuate sempre in ambito territoriale della Venetia, tanto che l’architetto Vitruvio, durante il suo viaggio in Gallia, al seguito di Cesare in qualità di praefectus fabrum, tiene a menzionarla: “Ne sono un esempio le paludi della Gallia intorno ad Altino, Ravenna, Aquileia e di altri municipi che sorgono in luoghi con analoghe caratteristiche…che…si rivelano…incredibilmente salubri” (de arch., I, 4, 11).
A qualche decina di metri dal vecchio edificio del museo archeologico, il Siloncello entrava nella città antica, dove la Porta Urbica Altinate si specchiava sulle sue acque. Si trattava di un ingresso monumentale costituito da torrioni laterali a pianta quadrata sul fronte e circolari all’interno, collegati da un muro. La struttura, le cui fondazioni sono costituite da palizzate di tronchi di rovere (Tombolani 1985; Gambacurta 1992), era fiancheggiata da entrambi i lati da due barriere murarie, definendo un cavedio quadrangolare di circa nove metri.
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L’effetto scenografico rappresentato dalla porta, e il suo intimo ruolo propagandistico, corrisponde ad una chiara attestazione della rinnovata fisionomia della città, ormai con numerosi elevati in mattoni e pietra e adeguata alla concezione urbanistica romana, come le necropoli collocate lungo le strade d’accesso che collegavano la città.
Altino, come tutti i centri situati tra il Po e le Alpi, si era vista concedere nel 89 a.C. il “diritto latino” con la Lex Pompeia e fra gli anni 49 a.C. e il 42 a.C. assunse la condizione giuridica di municipio romano, venendo ascritto alla tribù Scaptia. Il ricordo delle magistrature del municipio altinate si è tramandato grazie alle iscrizioni epigrafiche funerarie. Queste ricordano il consiglio cittadino, l’ordo decurionum,
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Sex(tus) Magius/ Sex(ti) f(ilius) Serenus/ Decurio sibi/ et Hermero/ ti Delicato/ v(ivus) f(ecit)            I sec. d.C.
che deliberava sui diversi aspetti pubblico-amministrativi della vita cittadina; nonché la presenza di altre importanti istituzioni pubbliche, quale il collegio dei magistrati, i quattuorviri. Il collegium era costituito da due coppie di magistrati, i duoviri iure dicundo, amministratori della giustizia, e i duoviri aedilicia potestate, con le funzioni di polizia e, per certi versi, con le competenze degli attuali assessori ai lavori pubblici, oltre all’occuparsi degli approvvigionamenti.
Dai materiali epigrafici risultano i collegi sacerdotali, quali ad esempio gli Augustales, addetti al culto imperiale, e i “collegia”, associazioni professionali, nelle quali si riunivano coloro che esercitavano un medesimo mestiere, con scopi sia assistenziali, sia religiosi. I ritrovamenti epigrafici confermano l’esistenza dei “centonarii” (fabbricanti di vesti e coperte), dei “fabri” (fabbri e carpentieri) e dei “fullones” (lavatori di lana). A questo proposito, gli allevamenti ovini e i pregi delle lane bianche di Altino sono ricordati da numerose fonti letterarie latine, da Marziale (XIV, 155) a Columella (VII, 2,3), da Strabone (V, 1, 7, 214) a Tertulliano (de pallio, III, 5-6).
In epoca Giulio Claudia, Altino conobbe un nuovo sviluppo urbanistico, che sostituì il precedente tessuto, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione dei lotti, degli isolati e delle sedi stradali.
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decumano
Un documento epigrafico, rinvenuto a Torcello e risalente ad un arco temporale tra il 13 a.C. e il 9 a.C., s’inserisce a pieno titolo a questo riguardo. La città lagunare, che, a breve avrebbe visto sorgere sul suo suolo il foro, il teatro e le terme, era stata arricchita da nuovi templi, portici e giardini, grazie alla donazione del futuro imperatore Tiberio (Tirelli 1998, 189-190). Altro elemento determinante per la prosperità della città fu la Via Claudia Augusta, tracciata nel 15 a.C. da Druso, generale di Augusto, e completata dall’imperatore Claudio. Due cippi commemorativi a forma di miliare, rinvenuti l’uno nel 1552 a Rablà vicino a Merano e l’altro a Cesiomaggiore nel 1786, riportano due iscrizioni non identiche, che ricordano la strada e celebrano Druso e Claudio. La diversità delle due iscrizioni si riferisce sul punto di partenza del percorso, dato che il cippo di Rablà lo poneva vagamente sul Po, mentre quello di Cesiomaggiore ricordava il capolinea nella città di Altino, generando ovviamente diverse ipotesi, che si sono risolte in linea di massima con l’ammettere due distinti capolinea e la rispettiva congiunzione nei pressi di Trento, per poi giungere all’antica Augusta Vindelicum (l’odierna Augsburg).
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Il cippo miliare di Cesiomaggiore, reca inciso il seguente testo:
T(iberius) Claudius Drusi f(ilius) Caesar Aug(ustus) Germa nicus pontifex maxu mus tribunicia potesta te VI co(n)s(ul) IV imp(erator) XI p(ater) p(atriae) censor viam Claudiam Augustam quam Drusus pater Alpibus bello pate factis derex[e]rat munit ab Altino usque ad flumen Danuvium m(ilia) p(assum) CCCL
“Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, figlio di Druso, pontefice massimo, tribuno per la sesta volta, console per la quarta volta, imperatore per l’undicesima, padre della patria e censore, stese la via Claudia Augusta che già il padre Druso aveva tracciato, una volta spalancate le Alpi con le armi, da Altino al fiume Danubio per una lunghezza pari a 350 miglia” (518 chilometri ca.).
Allo stesso imperatore viene attribuita la paternità del prolungamento attraverso una “fossa transversum”, la fossa Clodia, che perfezionava la rotta da Ravenna ad Altino con un percorso endolagunare, ricordato dall’Itinerario Antonino: inde (da Ravenna) navigatur Septem Maria Altinum usque (L. Bosio 1984, 115-118; L. Bosio 1992, 197-198) Sempre in età giulio claudia, la necessità di rispondere alle nuove dinamiche di sviluppo che avevano preso piede in Altino, sempre più schiacciata dagli elementi naturali, l’attenzione cadde sul tratto meridionale del Siloncello, che venne coperto e inglobato dallo sviluppo urbano. Ormai il paesaggio urbano della città portuale e le sue terminazioni in laguna, forse da individuare nell’odierna palude di Cona, avevano trovato la sua compiutezza. Le isole emergenti, ancora lambite da un reticolo di fiumi e canali ma collate tra loro mediante ponticelli e traghetti, sono caratterizzate da banchine e magazzini, edifici monumentali pubblici e privati, quando le leggere architetture di legno avevano lasciato il posto alle case di mattoni e pietra. Le porte urbiche, il porto e i tratti di cinta muraria raccontano di una città vitale e orgogliosa delle sue origini e del suo presente. Mentre lungo le strade prendevano corpo i grandi mausolei  e le sepolture più semplici dei ceti più abbienti cittadini,
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lungo la gronda lagunare numerose ville dei possidenti gareggiavano con quelle di Baia per la sontuosità (Mart., Ep. 4, 25), dotate tra l’altro di peschiere e piscine per l’allevamento di mitili e ostriche e, in alcuni casi, vasche adibite a saline. Un panorama questo che sembra adattarsi a quanto scrisse secoli dopo Goethe nella sua “Italienische Reise”, riferendosi alla più famosa delle sue discendenti, Venezia: “Tutto ciò che mi circonda è pieno di dignità, è una grande opera della forza umana congregata, un maestoso monumento, non di un despota ma di un popolo intero”.
A partire dal III secolo d.C., Altino, nonostante alcuni segni di degrado e di cambi di destinazione del tessuto urbano oltre una rilevante contrazione, dimostra una certa continuità insediativa. Nel 343 d.C. il concilio di Sardica aveva proibito di creare nuovi vescovi “in aliquo pago vel parva urbe, cui vel unus presbyter sufficit…ne episcopi nomen et auctoritas vilipendatur” (J. Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, I/2, Paris 1907, 737 ss); e dato che Altino era divenuto sede di diocesi non poteva definirsi senz’altro un abitato di modesto rilievo. La topografia cristiana, ancora oggi custodita dal sottosuolo ma intuibile grazie alle fonti scritte, aveva determinato una nuova ridefinizione urbana, ponendo al centro la “basilicae ecclesiae” e il “martyrum conciliabula”.
Nei secoli successivi, le invasioni barbariche e, soprattutto, l’azione trasformatrice della laguna e dei fiumi portarono all’inesorabile crollo delle funzioni commerciali svolte dalla città e del progressivo abbandono delle infrastrutture d’approdo del suo porto; e una volta crollate, Altino non riuscì più a sollevarsi, costringendo gli abitanti al suo abbandono intorno al VII secolo d.C., divenendo una cava di pietra delle nuove realtà lagunari, quali Torcello prima e Venezia poi. In seguito, il silenzio. Altino era scomparsa dalla storia.
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Nuovo Museo Archeologico Nazionale di Altino – area espositiva
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Nuovo Museo Archeologico Nazionale – sale polifunzionali ed archivio
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Museo Archeologico Nazionale – ingresso
      Altino. La prima Venezia In questi giorni le circostanze hanno fatto sì che mi trovassi a transitare sulla strada provinciale che da Quarto d’Altino, comune del veneziano, conduce a Portegrandi, un paesino al margine della laguna di Venezia, dove le acque del fiume Sile, il più lungo corso fluviale di risorgiva d’Europa, si amalgamano con quelle salmastre.
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goodbearblind · 8 years ago
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TEMPI BUI
In memoria di Franca RAME, morta a 83 anni a Milano il 29 maggio 2013. Un articolo di Saverio FERRARI, che ricostruisce l'ambiente fascista in cui maturò nel marzo 2013 il suo sequestro e chi furono i responsabili della violenza.
CHI COPRIVA NEGLI ANNI SETTANTA I PICCHIATORI DI SAN BABILA IL CASO DEL SEQUESTRO E DELLO STUPRO DI FRANCA RAME NEL 1973 COMMISSIONATO AI FASCISTI DAI CARABINIERI DEL GENERALE PALUMBO I FESTEGGIAMENTI IN CASERMA DOPO L’AZIONE
Milano, ai tempi della strategia della tensione, conobbe per anni una sorta di occupazione “militare” di piazza San Babila, a due passi dal Duomo, da parte di bande di picchiatori neofascisti che letteralmente si accamparono in alcuni bar della piazza o prospicienti le vie d’accesso (Corso Europa, via Borgogna e Corso Vittorio Emanuele). Tutt’altro che un fenomeno di costume. Come accertato in sede giudiziaria, dentro e nei pressi di quei locali pubblici non ci si appostava solo per marcare il territorio ma per aggredire chi con sembianze di sinistra si avventurava in zona. Impressionante l’elenco, tra il 1969 e il 1975, delle aggressioni. Tra le altre quella mortale del 25 maggio 1975, quando fu assassinato a coltellate il giovane studente di sinistra Alberto Brasili, inseguito fino in via Mascagni davanti alla sede dell’Anpi. L’ENCLAVE NERA Nei bar di quella piazza si arrivò anche a progettare una strage, quella del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma, per fortuna fallita per imperizia degli attentatori, tutti appartenenti a La Fenice, la denominazione milanese di Ordine nuovo. Come ricostruito dalle inchieste l’ultima riunione preparatoria si tenne la sera precedente alla birreria tedesca Wienervald nei pressi della galleria Vittorio Emanuele. Qui e negli altri bar si incontravano anche i componenti delle Sam (le Squadre d’azione Mussolini) che firmarono venti attentati dinamitardi in due anni, contro lapidi partigiane (tra le altre, alla Loggia dei Mercanti e alla stele di Piazzale Loreto di Milano, nella notte fra il 9 e il 10 maggio 1972), sedi di partito (nel caso dei socialisti venne anche pesantemente colpita la federazione milanese, il 17 aprile del 1971), redazioni e tipografie di quotidiani democratici («Il Giorno» e «l’Unità»), ma anche la casa del procuratore generale di Milano Luigi Bianchi d’Espinosa. Con molta onestà uno degli stessi protagonisti di quella stagione, Alessandro Danieletti, in un romanzo di soli pochi anni fa dai tratti autobiografici dal titolo Avene selvatiche, firmato con il cognome della madre, Preiser, apprezzato anche da stimati critici letterari come Claudio Magris, ne ha dato una rappresentazione alquanto vicina al vero, ripercorrendo le imprese di squadristi prezzolati e neonazisti figli di papà, ma anche di sottoproletari o semplici malavitosi. Personaggi non inventati, riconoscibilissimi pur dietro nomi di fantasia nello stesso romanzo. L’impunità di cui godettero i picchiatori e i bombaroli di piazza San Babila fu quasi totale. All’origine di questa enclave nera un ruolo fondamentale fu giocato da alcuni settori borghesi ultrareazionari che finanziavano i giovani neofascisti e le loro imprese per intimidire le lotte operaie e studentesche con assalti ai picchetti e alle loro mobilitazioni. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se non vi fossero state coperture istituzionali ad alto livello. La vicenda del sequestro e dello stupro nel marzo 1973 dell’attrice Franca Rame ci dice tutto. LA CASERMA DI VIA LAMARMORA Il sequestro si consumò il 9 marzo 1973. Franca Rame all’epoca era molto impegnata insieme al marito, Dario Fo, non solo nell’attività teatrale, ma anche, attraverso Soccorso rosso, in favore dei carcerati e in particolare dei detenuti di estrema sinistra. Venne quel giorno, in Via Nirone, fatta salire a forza su un furgone, sottoposta a violenza carnale e successivamente abbandonata in un parco. Gli autori del gravissimo episodio rimasero per moltissimi anni sconosciuti. Una prima indicazione sui responsabili materiali giunse solo nel 1987. A fornirla fu Angelo Izzo, uno degli autori del “massacro del Circeo” (l’uccisione tra il 29 ed il 30 settembre1975 di Rosaria Lopez di 19 anni e lo stupro di Donatella Colasanti di 17 anni ad opera di tre fascisti), che nel corso di alcune dichiarazioni rese al Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, Dr.ssa Maria Luisa Dameno, confessò di aver appreso in carcere che il principale responsabile dell’aggressione era stato Angelo Angeli e che l’azione era stata “suggerita” da alcuni ufficiali dei Carabinieri della Divisione Pastrengo. Nell’ambito dell’istruttoria negli anni Novanta condotta dal giudice Guido Salvini sulle attività eversive dei gruppi di estrema destra che porterà all’ultimo processo sulla strage di piazza Fontana, emersero altri particolari e altre conferme. In particolare fu Biagio Pitarresi, figura di rilievo della destra milanese negli anni Settanta, all’epoca vicino al gruppo La Fenice prima di transitare nei ranghi della malavita comune, a raccontare in un interrogatorio del maggio 1995, che l’azione contro Franca Rame era stata in un primo momento proposta proprio a lui, ma egli si era rifiutato ed era quindi subentrato Angelo Angeli il quale aveva materialmente agito con altri camerati, fra cui un certo Muller e un certo Patrizio. Biagio Pitarresi soprattutto confermò che l’azione era stata ispirata da alcuni ufficiali dei Carabinieri della Divisione Pastrengo, con i quali lo stesso Pitarresi insieme ad Angeli era da tempo in contatto in funzione sia informativa sia di supporto in attività di provocazione contro gli ambienti di sinistra. Ancora nel marzo 2009 Pitarresi ribadì che l’episodio della violenza era stato deciso nella caserma dei carabinieri di via Lamarmora a Milano, e che gli esecutori erano “sanbabilini” facendo i nomi di Angelo Angeli (delle Sam), che ricevette direttamente l’incarico da un ufficiale dell’Arma, tale capitano Rossi, di Dario Panzironi (soprannominato Himmler) e di Patrizio Moretti. Con loro, disse, poteva anche esserci Roberto Bravi. Questa ricostruzione sulle responsabilità dei Carabinieri fu confermata dal generale Bozzo, all’epoca dei fatti tenente di stanza alla caserma Lamarmora, che testimoniò il fatto che in caserma si era brindato e che il generale Palumbo, il comandante dell’Italia del Nord dei Carabinieri, parlando in ufficio con il suo segretario personale, all’arrivo della notizia, esclamasse «finalmente!». «Anche il probabile coinvolgimento quali suggeritori dell’azione di alcuni ufficiali della Divisione Pastrengo», scrisse nel febbraio 1988 il giudice istruttore Guido Salvini, «alla luce delle complessive emergenze istruttorie di questi ultimi anni, non deve certo stupire. Si ricordi che […] il Comando della Divisione Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, nella prima metà degli anni Settanta, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura dei traffici di armi organizzati dal Mar di Carlo Fumagalli». Giovanbattista Palumbo, già aderente alla Rsi, aveva raccolto ancor prima attorno a sé i principali collaboratori del generale Giovanni De Lorenzo all’epoca del Sifar, come il colonnello Dino Mingarelli, uno degli estensori nell’estate del 1964 del cosiddetto Piano Solo, volto a sovvertire la Repubblica. Alla fine risultò essere iscritto alla P2, come il capo di stato maggiore dell’Arma Franco Picchiotti. La storia di San Babila e delle protezioni ai picchiatori fascisti hanno nomi e cognomi. SAVERIO FERRARI Milano, Novembre 2016
Fonte:
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1383503295077814&substory_index=0&id=838273619600787
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fashioncurrentnews · 6 years ago
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Il festival Babel racconta il Brasile
Un’edizione dedicata al Brasile, esplorato nei suoi aspetti meno mainstream e meno noti: il festival Babel 2018 (12-15 settembre, a Bellinzona) ci porta alla scoperta di un Brasile misterioso e di frontiera, dalle foreste dell’Amazzonia alle aride terre del sertão, fino alle favelas urbane. Brasil Babel va alla ricerca di voci ancora poco conosciute
 in Europa e poco ascoltate anche in Brasile, la cui energia e urgenza hanno una potenza espressiva che non può passare inascoltata. Il Brasile più oleografico e meno interessante, quello della vulgata culturale samba-calcio-carnevale, fa spazio alle sperimentazione letterarie di una grande autrice come Clarice Lispector, alle indagini antropologiche dello scrittore Bernardo Carvalho e all’incrocio tra samba, bossa nova del grande musicista Arto Lindsay (nella foto).
Sabato 15 settembre l’incontro delle 16 è dedicato alla scrittrice più enigmatica e adorata del Paese sudamericano, Clarice Lispector: parlano di lei Roberto Francavilla (docente di letteratura portoghese e brasiliana e traduttore della Lispector che in Italia è pubblicata da Adelphi) e lo scrittore Emanuele Trevi. Alle 18 si torna all’attualità politica: la scrittrice turca Asli Erdogan porta il suo sguardo su Rio de Janeiro e sulla situazione in Brasile, a un mese dalle elezioni e dopo l’attentato di cui è rimasto vittima il candidato di destra Jair Bolsonaro.
Il programma prosegue con molti altri appuntamenti, dall’antropologia alla musica: la guida completa sul sito di Babel
    L'articolo Il festival Babel racconta il Brasile sembra essere il primo su Vogue.it.
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