#indagini internazionali
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Tragedia nei cieli: il volo Azerbaijan Airlines colpito da un missile russo.
Un errore fatale nei sistemi di difesa russi mette in luce una drammatica vicenda nei cieli del Kazakistan.
Un errore fatale nei sistemi di difesa russi mette in luce una drammatica vicenda nei cieli del Kazakistan. Un nuovo capitolo tragico si aggiunge alla storia dei cieli internazionali. Fonti governative azere hanno confermato che il volo Azerbaijan Airlines 8432, precipitato nei cieli del Kazakistan, sarebbe stato colpito accidentalmente da un missile terra-aria lanciato dai sistemi di difesa…
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marcogiovenale · 1 year ago
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una firma per la palestina: netanyahu criminale di guerra
https://mettilafirma.it/netanyahucriminale/ NETANYAHU CRIMINALE DI GUERRA – FERMARE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESELa risposta del governo israeliano al terribile attacco terroristico di Hamas del 7 Ottobre ha preso fin da subito la forma di una ritorsione contro la popolazione civile, una punizione collettiva del popolo palestinese.Quello a cui stiamo assistendo è un genocidio di fatto del…
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primepaginequotidiani · 6 months ago
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PRIMA PAGINA Corriere Umbria di Oggi giovedì, 08 agosto 2024
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superfuji · 6 months ago
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Corte penale, l’autogol di Kiev e il doppio standard del diritto
Luigi Daniele
Ucraina/Russia. Zelenksy chiede l’adesione allo Statuto di Roma ma invoca l’articolo 124: nessuna indagine nei prossimi sette anni. A restare fuori, però, non sarebbero solo eventuali crimini ucraini: “via libera” anche a quelli russi commessi sul territorio del paese invaso. Torna l’idea di regole internazionali à la carte, buone solo quando servono contro i nemici
Nel 1945 il giudice che avrebbe servito come procuratore capo americano a Norimberga, Robert Jackson, criticando i profili di «giustizia dei vincitori» che le giurisdizioni penali internazionali avrebbero mantenuto da allora per molti decenni, dichiarò alla Conferenza di Londra: «Non possiamo codificare norme penali contro gli altri che non saremmo disposti a vedere invocate contro di noi».
Sembra questa, al contrario, la scelta del governo Zelensky, che ha ottenuto ieri dalla Verchovna Rada l’approvazione della propria proposta di legge di ratifica dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi). La legge contiene l’invocazione dell’articolo 124 dello Statuto, che stabilisce che «uno Stato che diviene parte al presente Statuto può, nei sette anni successivi all’entrata in vigore dello Statuto nei suoi confronti, dichiarare di non accettare la competenza della Corte per quanto riguarda la categoria di reati di cui all’articolo 8 quando sia allegato che un reato è stato commesso sul suo territorio o da suoi cittadini».
LA PROCURA della Cpi, giova ricordarlo, dal 2022 ha considerato la situazione in Ucraina una priorità assoluta, stanziando la più alta cifra del proprio budget (4,5 miliardi di euro) per le indagini, assegnandovi 42 investigatori, organizzando numerose visite in situ del procuratore e aprendo un country office nel paese. Un paese, però, che non aveva mai ratificato lo Statuto, essendosi limitato a una dichiarazione ad hoc di accettazione della giurisdizione della Corte sul proprio territorio e sui propri cittadini nel 2014 e nel 2015 (una sorta di invocazione di intervento della Cpi consentita anche agli stati che non ratificano il suo trattato istitutivo).
L’Ucraina si è trovata nella singolare posizione di essere al vertice delle priorità della Corte, pur non essendo uno Stato parte. La richiesta di aderire al sistema Cpi ridimensiona questa anomalia, aggiungendone però una ancor più stridente: l’invocazione della clausola dell’articolo 124, ovvero una richiesta di temporanea immunità per crimini internazionali eventualmente commessi da propri cittadini o, problematicamente, sul proprio territorio.
Relitto dei compromessi del 1998, anno in cui lo Statuto istitutivo della Corte fu approvato, l’introduzione dell’articolo 124 fu voluta dalla Francia, che minacciava di non firmare se non fosse stata inserita questa clausola, funzionale a tenere il proprio territorio e i propri cittadini «al riparo» dalla giurisdizione della Corte per sette anni dall’adesione.
L’articolo 124 apparì subito così contrario allo spirito dello Statuto che fu immediatamente destinato (come specificato nell’articolo stesso) a essere emendato nella prima conferenza di revisione del trattato. Nel 2015, quindi, l’Assemblea degli stati parte ha approvato un emendamento di cancellazione dell’articolo, che entrerà in vigore se sostenuto dai sette ottavi degli stati parte (tra quelli che hanno già acconsentito alla cancellazione figura la stessa Francia).
Nella speranza di mettere al riparo propri cittadini da possibili responsabilità per crimini di guerra, quindi, Kiev ha optato per la clausola in via di cancellazione. Tuttavia, anche se accettata, la clausola non potrebbe essere applicata retroattivamente.
QUELLO dell’Ucraina potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol: se l’articolo 124 fosse applicato, non escluderebbe solo la giurisdizione della Corte su possibili crimini di guerra commessi da cittadini ucraini, ma anche su crimini di guerra commessi su suolo ucraino, inclusi quelli contestati alla leadership e alle forze russe. L’articolo parla di crimini di cui sono sospettati cittadini dello Stato e di crimini la cui commissione è sospettata sul territorio dello stato. È indubbio che i crimini di guerra contestati a Putin, Lvova-Belova e ai comandanti delle forze russe rientrino in tale categoria.
Le implicazioni di questo tentativo, tuttavia, non si limitano ai gravi rischi di effetti controproducenti per il diritto alla giustizia delle stesse vittime ucraine. Segnalano, più profondamente, una riproduzione dell’approccio tipico degli Stati uniti al diritto internazionale penale: ci si indigna per i barbarici crimini internazionali dei nemici, proclamando a reti unificate la necessità morale della loro punizione, mentre si mantiene in vigore nella propria legislazione la cd. «Legge di Invasione dell’Aja», che autorizza all’uso della forza armata per liberare cittadini americani o di stati alleati imputati di crimini internazionali e in custodia della Corte.
Persino le norme più elementari di diritto internazionale, ovvero quelle funzionali alla prevenzione e punizioni dei crimini di massa (e di Stato) si dichiarano senza infingimenti buone solo per i nemici e simultaneamente inapplicabili a se stessi.
TRAMONTA così il nucleo di tre secoli di sviluppo della tradizione giuridica illuministico-liberale, cardine dei modelli democratici di giustizia penale, che esigono che sia il tipo di condotta, con il danno sociale che produce e non il tipo di autore, a essere al centro dell’attenzione dei codici penali e delle istituzioni punitive. Al contrario, l’enfasi sui tipi di autore – identificati di volta in volta come nemici «della razza», «della patria» o «della rivoluzione» – fu il tratto distintivo dei modelli punitivi delle esperienze autoritarie e totalitarie.
È un paradosso degno del regresso a cui la guerra ci condanna che siano proprio le forze che si proclamano a difesa delle democrazie a formalizzare e istituzionalizzare nuovi modelli di diritto del nemico, che globalizzano l’etica della diseguaglianza di fronte alla legge e forgiano politiche internazionali che riducono il diritto a strumento di guerra ibrida.
Il nemico totale, la guerra e il diritto del nemico totale sono stati i motori della distruzione della democrazia nel Novecento. Piaccia o meno, è solo l’ultimo a mancare all’appello nell’attuale discorso dominante delle democrazie occidentali. Guerra e democrazia, è una legge della storia, si combattono sempre, spesso all’ultimo sangue. Caduto il bastione dell’eguaglianza di fronte alla legge, anche crimini internazionali e genocidi potranno essere crimini buoni e giusti, purché a commetterli sia la nostra tribù, la tribù delle democrazie.
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the-world-union · 3 years ago
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Non Sono un Truffatore
Non sono un truffatore". Ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro. Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, ha risposto alle domande della giudice per le indagini preliminari, Ermengarda Ferrarese, provando a dare una spiegazione sulla sua attività e ribadendo di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra. 
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex broker finanziario è rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto avvenuto su ordine di custodia cautelare del gip non appena atterrato all'aeroporto di Elmas. La sorella, Barbara Diomedi, finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, accompagnata dall'avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero. 
"Non sono un truffatore". Roberto Diomedi, il 51enne di Sinnai indagato come “mente” del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe raggirato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro, respinge le accuse.
Lo ha fatto rispondendo per due ore e mezzo alle domande del giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese e provando a dare una spiegazione sulla sua attività.
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex borker finanziario - rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto non appena atterrato all'aeroporto di Elmas - ha anche ribadito di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, difesa dall'avvocato Pierandrea Setzu e finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere.
Per la Procura il gruppo avrebbe messo in piedi uno "schema Ponzi" con le vittime che venivano attirate a investire con la promessa di interessi anche del 5% mensile, ma poi a fine anno agli investitori non versavano nulla o quasi e non restituivano il capitale investito. Secondo il metodo utilizzato in sequenza, infatti, alcuni investitori venivano ripagati da iniziali rendimenti particolarmente favorevoli in tempi molto brevi, ma con fondi raccolti dai nuovi clienti.
Come detto, Diomedi avrebbe negato che si trattasse di una truffa, ribadendo che i piani d'investimento erano reali e che avrebbero fruttato nel tempo, ma non con rendimenti così alti come quelli ipotizzati dagli inquirenti. 
“Non sono un truffatore”. Così si difende Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, arrestato sabato 16 aprile per associazione a delinquere in truffa aggravata in riferimento all’attività della società Bolton Holding Limited e ad altre società che operano nel settore degli investimenti internazionali, dell’intermediazione e delle cripto valute.
L’ex consulente finanziario, rispondendo alle domande dei giudici per due ore e mezzo, ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che secondo la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro.
Diomedi, difeso dall’avvocato Antonello Garau, ha ribadito di essere autorizzato a svolgere la sua attività di broker da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, seguita dall’avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero.
A coordinare le indagini è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata all’abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l’autoriciclaggio.
Due ore e mezzo di interrogatorio, una domanda dopo l’altra fatta dalla giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese a Roberto Diomedi, accusato di essere la mente di una mega truffa, fatta a cinquemila persone, da 4,5 milioni di euro. L’uomo, ex broker 51enne, stando alle accuse di Guardia di Finanza e polizia Postale avrebbe architettato una truffa nei confronti di migliaia di investitori utilizzando il “metodo Ponzi”: soldi in più solo a pochi “fortunati”, ottenuti non realizzando profitti leciti ma utilizzando i denari ricevuti da altri malcapitati. Diomedi è a Uta, e dalla sua cella, assistito dall’avvocato Antonello Garau, si è difeso: “Non sono un truffatore. Gli investimenti sono stati fatti, pietre e metalli preziosi, a Dubai e in altri paesi esteri”. Questa, in sintesi, la posizione rimarcata più volte al gip. Nei prossimi giorni la decisione del giudice: o scarcerazione o permanenza in carcere.
“Il mio assistito ha risposto serenamente a tutte le domande, negando ogni addebito di truffa e garantendo l’esistenza dei prodotti acquistati, meno i costi per i progetti effettuati, cioè pietre e metalli, depositati. Ci siamo detti disponibili alla nomina, anche da parte del tribunale, di un ufficiale giudiziario per procedere alla vendita. Altrimenti, chi ha investito aspetterà e quando si vendono si realizzeranno i profitti, ma non quelli del 5 per cento al mese che non sono mai stati garantiti. Non ci sono mai state compravendite in Italia”, spiega l’avvocato Garau, “le autorizzazioni erano estere. Londinesi, svedesi, come previsto dalle normative. I depositi sono all’estero, anche a Dubai. Attendo la decisione del giudice, sono intenzionato a presentare, o domani o entro lunedì, un’istanza di scarcerazione”.
Non sono un truffatore.
Ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro. Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, ha risposto per due ore e mezzo alle domande della giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese, provando a dare una spiegazione sulla sua attività e ribadendo di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra.
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex borker finanziario è rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto avvenuto su ordine di custodia cautelare del gip non appena atterrato all'aeroporto di Elmas. La sorella, Barbara Diomendi, finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, accompagnata dall'avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero. A coordinare le indagini della Guardia di Finanza e della Polizia Postale c'è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata all'abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l'autoriciclaggio.
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italy24live · 3 years ago
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''Non Sono un Truffatore''
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Non sono un truffatore". Ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro. Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, ha risposto alle domande della giudice per le indagini preliminari, Ermengarda Ferrarese, provando a dare una spiegazione sulla sua attività e ribadendo di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra. 
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex broker finanziario è rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto avvenuto su ordine di custodia cautelare del gip non appena atterrato all'aeroporto di Elmas. La sorella, Barbara Diomedi, finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, accompagnata dall'avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero. 
"Non sono un truffatore". Roberto Diomedi, il 51enne di Sinnai indagato come “mente” del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe raggirato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro, respinge le accuse.
Lo ha fatto rispondendo per due ore e mezzo alle domande del giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese e provando a dare una spiegazione sulla sua attività.
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex borker finanziario - rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto non appena atterrato all'aeroporto di Elmas - ha anche ribadito di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, difesa dall'avvocato Pierandrea Setzu e finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere.
Per la Procura il gruppo avrebbe messo in piedi uno "schema Ponzi" con le vittime che venivano attirate a investire con la promessa di interessi anche del 5% mensile, ma poi a fine anno agli investitori non versavano nulla o quasi e non restituivano il capitale investito. Secondo il metodo utilizzato in sequenza, infatti, alcuni investitori venivano ripagati da iniziali rendimenti particolarmente favorevoli in tempi molto brevi, ma con fondi raccolti dai nuovi clienti.
Come detto, Diomedi avrebbe negato che si trattasse di una truffa, ribadendo che i piani d'investimento erano reali e che avrebbero fruttato nel tempo, ma non con rendimenti così alti come quelli ipotizzati dagli inquirenti. 
“Non sono un truffatore”. Così si difende Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, arrestato sabato 16 aprile per associazione a delinquere in truffa aggravata in riferimento all’attività della società Bolton Holding Limited e ad altre società che operano nel settore degli investimenti internazionali, dell’intermediazione e delle cripto valute.
L’ex consulente finanziario, rispondendo alle domande dei giudici per due ore e mezzo, ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che secondo la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro.
Diomedi, difeso dall’avvocato Antonello Garau, ha ribadito di essere autorizzato a svolgere la sua attività di broker da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, seguita dall’avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero.
A coordinare le indagini è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata all’abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l’autoriciclaggio.
Due ore e mezzo di interrogatorio, una domanda dopo l’altra fatta dalla giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese a Roberto Diomedi, accusato di essere la mente di una mega truffa, fatta a cinquemila persone, da 4,5 milioni di euro. L’uomo, ex broker 51enne, stando alle accuse di Guardia di Finanza e polizia Postale avrebbe architettato una truffa nei confronti di migliaia di investitori utilizzando il “metodo Ponzi”: soldi in più solo a pochi “fortunati”, ottenuti non realizzando profitti leciti ma utilizzando i denari ricevuti da altri malcapitati. Diomedi è a Uta, e dalla sua cella, assistito dall’avvocato Antonello Garau, si è difeso: “Non sono un truffatore. Gli investimenti sono stati fatti, pietre e metalli preziosi, a Dubai e in altri paesi esteri”. Questa, in sintesi, la posizione rimarcata più volte al gip. Nei prossimi giorni la decisione del giudice: o scarcerazione o permanenza in carcere.
“Il mio assistito ha risposto serenamente a tutte le domande, negando ogni addebito di truffa e garantendo l’esistenza dei prodotti acquistati, meno i costi per i progetti effettuati, cioè pietre e metalli, depositati. Ci siamo detti disponibili alla nomina, anche da parte del tribunale, di un ufficiale giudiziario per procedere alla vendita. Altrimenti, chi ha investito aspetterà e quando si vendono si realizzeranno i profitti, ma non quelli del 5 per cento al mese che non sono mai stati garantiti. Non ci sono mai state compravendite in Italia”, spiega l’avvocato Garau, “le autorizzazioni erano estere. Londinesi, svedesi, come previsto dalle normative. I depositi sono all’estero, anche a Dubai. Attendo la decisione del giudice, sono intenzionato a presentare, o domani o entro lunedì, un’istanza di scarcerazione”.
Non sono un truffatore.
Ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che per la Procura di avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4 milioni e mezzo di euro. Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, ha risposto per due ore e mezzo alle domande della giudice per le indagini preliminari Ermengarda Ferrarese, provando a dare una spiegazione sulla sua attività e ribadendo di essere autorizzato da concessioni ottenute in Inghilterra.
Difeso dall'avvocato Antonello Garau, l'ex borker finanziario è rinchiuso da alcuni giorni nel carcere di Uta, dopo l'arresto avvenuto su ordine di custodia cautelare del gip non appena atterrato all'aeroporto di Elmas. La sorella, Barbara Diomendi, finita invece ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, accompagnata dall'avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero. A coordinare le indagini della Guardia di Finanza e della Polizia Postale c'è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata all'abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l'autoriciclaggio.
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investigationreport · 3 years ago
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Associazione a delinquere, Diomedi si difende: “Non sono un truffatore”
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“Non sono un truffatore”. Così si difende Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, arrestato sabato 16 aprile per associazione a delinquere in truffa aggravata in riferimento all’attività della società Bolton Holding Limited e ad altre società che operano nel settore degli investimenti internazionali, dell’intermediazione e delle cripto valute.
L’ex consulente finanziario, rispondendo alle domande dei giudici per due ore e mezzo, ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che secondo la Procura di Cagliari avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro.
Diomedi, difeso dall’avvocato Antonello Garau, ha ribadito di essere autorizzato a svolgere la sua attività di broker da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, seguita dall’avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero.
A coordinare le indagini è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata all’abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l’autoriciclaggio.
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unionesarda · 3 years ago
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Associazione a delinquere, Diomedi si difende: “Non sono un truffatore”
“Non sono un truffatore”. Così si difende Roberto Diomedi, 51 anni di Sinnai, arrestato sabato 16 aprile per associazione a delinquere in truffa aggravata in riferimento all’attività della società Bolton Holding Limited e ad altre società che operano nel settore degli investimenti internazionali, dell’intermediazione e delle cripto valute.
L’ex consulente finanziario, rispondendo alle domande dei giudici per due ore e mezzo, ha negato con forza di essere la mente del sistema piramidale che secondo la Procura di Cagliari avrebbe truffato migliaia di investitori in tutta Italia per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro.
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Diomedi, difeso dall’avvocato Antonello Garau, ha ribadito di essere autorizzato a svolgere la sua attività di broker da concessioni ottenute in Inghilterra.
La sorella, Barbara Diomedi, ai domiciliari, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, seguita dall’avvocato Pierandrea Setzu. La misura cautelare comprende anche quattro destinatari di obblighi di dimora e altri sei denunciati a piede libero.
A coordinare le indagini è la sostituta procuratrice Diana Lecca che ipotizza, a vario titolo e a ciascuno per le proprie imputazioni, reati che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata all’abusivismo finanziario, alla truffa, ma anche il riciclaggio e l’autoriciclaggio.
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scienza-magia · 29 days ago
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Grande giacimento d'oro in Africa occidentale
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1. 45 tonnellate d’oro e oltre 3,7 miliardi di euro: la colossale scoperta in Africa sconvolgerà il mercato mondiale. La Costa d’Avorio ha appena fatto scalpore nel settore minerario internazionale con la scoperta di uno straordinario giacimento d’oro a Boundiali, nella regione di Bagoué. Questa spettacolare scoperta di 45 tonnellate d’oro, valutata a 3,7 miliardi di euro ai prezzi attuali, posiziona il Paese come uno dei principali attori emergenti sulla scena mondiale dell’oro. Aurum Resources, sostenuta da investitori australiani e cinesi, è alla guida di questo ambizioso progetto, che potrebbe ridisegnare la mappa della produzione di oro in Africa occidentale. Esplorazione ad alta tecnologia per risultati eccezionali L’identificazione di questo tesoro sotterraneo è il risultato di una campagna di esplorazione meticolosa che ha utilizzato tecnologie all’avanguardia. Un intenso programma di perforazione diamantata, per un totale di quasi 64.000 metri dall’ottobre 2023, ha permesso di mappare con precisione il giacimento, che contiene 1,59 milioni di once d’oro. Per il 2025, Aurum Resources prevede di estendere le sue indagini con ulteriori 100.000 metri di perforazione, dimostrando la sua determinazione a ottimizzare lo sfruttamento di questa risorsa. Vantaggi economici promettenti Questa scoperta si inserisce perfettamente nella strategia di sviluppo della Costa d’Avorio, che ha già visto triplicare la produzione di oro in dieci anni, raggiungendo le 51 tonnellate nel 2023. Con l’ambizioso obiettivo di raddoppiare la produzione a 100 tonnellate all’anno entro cinque anni, il giacimento di Boundiali è un catalizzatore cruciale per raggiungere questi obiettivi. L’impatto economico previsto potrebbe trasformare in modo significativo il panorama socio-economico locale. Nonostante l’entusiasmo suscitato da questa scoperta, la strada verso l’effettivo sfruttamento rimane irta di sfide. Dovranno essere condotti rigorosamente studi di fattibilità e ambientali e dovranno essere mobilitati ingenti finanziamenti. La Costa d’Avorio dovrà inoltre garantire che questo sfruttamento sia di beneficio duraturo per le comunità locali, nel rispetto degli standard ambientali internazionali. Un nuovo capitolo per l’industria mineraria africana Questa scoperta posiziona la Costa d’Avorio come un attore chiave nel settore aurifero globale. Con un aumento del prezzo dell’oro del 35% nel 2024, che raggiungerà gli 82.282,77 euro al chilogrammo all’inizio del 2025, il momento di questa scoperta è particolarmente opportuno. Questa situazione potrebbe fungere da catalizzatore per un nuovo afflusso di investimenti nel settore minerario dell’Africa occidentale. La scoperta del giacimento di Boundiali segna una svolta decisiva nella storia mineraria della Costa d’Avorio. Oltre al suo considerevole valore monetario, questo tesoro rappresenta un’opportunità unica per lo sviluppo economico e sociale del Paese. La gestione responsabile di questa risorsa e la sua trasformazione in benefici sostenibili per la popolazione saranno le vere sfide degli anni a venire. Questa scoperta potrebbe essere il trampolino di lancio che proietta la Costa d’Avorio tra le nazioni produttrici di oro più importanti del mondo. Read the full article
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brtnows · 5 years ago
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14 indagati nell’inchiesta sulla Link University di Roma
La Guardia di Finanza sta eseguendo una serie di perquisizioni e acquisizioni di atti alla Link University di Roma nell’ambito di un’indagine coordinata dalla procura di Roma in cui sono indagati a vario titolo 14 persone in rapporti diretti e indiretti con l’ateneo. Dall’inchiesta, secondo quanto si apprende, emergerebbe che la Link e il ‘Consortium for research on intelligence and security services’ avrebbero simulato l’esecuzione di progetti di ricerca e sviluppo che avrebbero loro consentito di godere di crediti fiscali.
Tra gli indagati ci sono diverse figure di vertice dell’università tra cui il rettore Claudio Roveda, il presidente della società di gestione ‘Gem’ Vanna Fadini, il membro del Consiglio d’amministrazione e presidente della scuola per le attività Undergraduate e Graduate Carlo Maria Medaglia, il direttore generale Pasquale Russo. Simulando l’esecuzione di progetti di ricerca e sviluppo, la Link e il Consortium avrebbero maturato – si legge nel decreto di perquisizione – “inesistenti crediti di imposta che avrebbero poi utilizzato in compensazione in occasione del versamento delle imposte da loro dovute”.
Le società hanno poi “ottenuto indietro parte del denaro versato alle società commissionarie attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti con conseguenti movimenti finanziari di rientro delle somme originariamente versate”. L’indagine nasce da una serie di informative del nucleo di polizia economico finanziaria di Firenze e Roma e dell’Agenzia delle Entrate. Alla Link i finanzieri stanno acquisendo documenti contabili ed extracontabili, computer, server, agende, documenti bancari, registrazioni di videoconferenze. Tutto materiale che sarà necessario a ricostruire le modalità e i soggetti coinvolti nei progetti di ricerca e sviluppo messi in piedi dalla Link e dal Consortium.
Le indagini sugli esami facili alla Link University
Il 14 maggio scorso la procura di Firenze aveva invece chiuso le indagini sui presunti «esami facili» effettuati all’università privata Link Campus con 71 indagati per associazione a delinquere e falso. Tra loro il presidente della scuola, che rilasciava lauree riconosciute dallo Stato, l’ex ministro Vincenzo Scotti, vertici amministrativi dell’ente, docenti e studenti, fra cui ci sono molti poliziotti. L’atto di conclusione delle indagini è del sostituto Christine von Borries, del procuratore aggiunto Luca Turco e del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. tra i 71 indagati che hanno ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini c’è il fondatore e presidente dell’Università privata, oltre che docente di economia politica, l’ex democristiano sette volte ministro Vincenzo Scotti, 86 anni, accusato di associazione per delinquere finalizzata ai falsi esami, assieme a Claudio Roveda, rettore e membro del cda, Pasquale Russo, direttore generale, Pierluigi Matera componente del Senato accademico, Maurizio Claudio Zandri coordinatore del corso di laurea.
Tra gli indagati anche Veronica Fortuzzi consulente dell’ex ministro della difesa Trenta, oltre ad altri docenti, ricercatori, amministrativi. Stessa accusa anche per Felice Romano, segretario nazionale del Siulp, il sindacato di polizia che con la Link aveva stipulato una convenzione per i propri iscritti. In quel documento, dell’aprile 2017, si stabiliva una «collaborazione per favorire la formazione, istruzione e aggiornamento del personale di polizia», arrivando poi a un accordo tra la Fondazione Sicurezza e libertà di cui il Siulp è socio per proporre agli iscritti e ai parenti e amici l’iscrizione alla Link, in particolare per quelli provenienti dalla Toscana.
I corsi indicati erano il triennale di Scienza della politica e delle Relazioni internazionali e la laurea magistrale in Studi strategici e scienze diplomatiche. Per entrambi c’era l’indicazione che gli esami sarebbero stati sostenuti nella città di provenienza, mentre l’unica sede autorizzata era Roma.
Scotti creò nel 1999 l’Università di Malta, poi diventata Link nel 2011 con il riconoscimento del ministero dell’Istruzione. Sotto inchiesta i corsi degli anni 2016-2017 e 2017-2018. Secondo quanto ricostruito dalle indagini i poliziotti avrebbero sostenuto esami finti, con il permesso di copiare liberamente, senza mai vedere i professori, che però avrebbero poi firmato i verbali degli esami. Invece di svolgere gli esami nella sede di Roma gli studenti in qualche occasione sono stati mandati anche nella sede di una cooperativa all’interno del mercato ortofrutticolo di Firenze. Ai poliziotti iscritti al Siulp bastava versare alla Fondazione Sicurezza e libertà una retta di iscrizione di 600 euro (oltre ai 3.500 della retta universitaria) che finiva in un conto corrente a San Marino.
La storia di Mifsud e del Russiagate
Nel 2019 invece uscì fuori la vicenda del Russiagate e di Joseph Mifsud, il professore dell’università Link Campus di Roma che nel 2016 avrebbe informato George Papadopoulos — all’epoca consigliere della campagna elettorale di Donald Trump —dell’esistenza di «migliaia di mail imbarazzanti su Hillary Clinton», in possesso dei russi. Per oltre un anno il procuratore Robert Mueller ha indagato su un possibile complotto ordito contro la Clinton dal comitato elettorale di Trump e il Cremlino. Al termine dell’inchiesta Mueller ha dichiarato di non aver raccolto prove sufficienti a dimostrarlo, ma ha comunque raccontato le trame e lo scambio di documentazione. Per questo il ministro della Giustizia di Trump William Barr incontrò in due occasioni i servizi segreti italiani. La seconda è stata raccontata all’epoca dal Corriere della Sera:
Barr torna a Roma e incontra nella sede del Dis di piazza Dante lo stesso direttore, il capo dell’Aise Luciano Carta e quello dell’Aisi Mario Parente. Con loro c ’è anche il procuratore Dhuram. Viene rinnovata la richiesta — già rivolta a Gran Bretagna e Australia — di mettere a disposizione eventuale documentazione raccolta in questi anni. L’attenzione si concentra su Mifsud, visto il ruolo chiave che gli ha assegnato Papodopoulos. Agli atti ci sono diversi incontri tra i due, alcuni anche in compagnia di Olga Polonskaya, ex manager di una società russa che si sarebbe presentata come amica dell’ambasciatore russo a Londra. Barr insiste più volte sulla necessità di scoprire che fine abbia fatto.
Liam Burke
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Parakalò": Il Ritorno del Detective Alberto AL Lunardini in un’Avventura Tra Alessandria e il Mar Egeo. Presentazione del nuovo romanzo di Alberto Del Sarto: mistero, azione e un viaggio tra Europa e Grecia.
Il romanzo Parakalò, scritto da Alberto Del Sarto, segna il ritorno dell’iconico detective alessandrino Alberto AL Lunardini, già protagonista de Il Caso Fuentes.
Il romanzo Parakalò, scritto da Alberto Del Sarto, segna il ritorno dell’iconico detective alessandrino Alberto AL Lunardini, già protagonista de Il Caso Fuentes. Questa volta, il protagonista si trova coinvolto in un’avventura che lo porta a confrontarsi con intrighi internazionali, misteriosi personaggi e una serie di sfide lungo le coste del Mar Egeo. Con la sua capacità investigativa e il suo…
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aylindemirnewsexpress · 4 years ago
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«Nascondevano il denaro degli evasori» Due fratelli comaschi finiscono in cella
Avrebbero consentito di creare riserve in nero utilizzate per una maxi tangente in Francia
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Lui è un nome conosciuto, nella Como che conta. Residenza a Lugano, domicilio di fatto in città, un posto nel board dell’esclusivo golf Villa d’Este, la nomea di mago del fisco con la sua fiduciaria svizzera frequentata da decine di imprenditori del Nord Italia. Da ieri mattina Oscar Ronzoni, 63 anni, è in carcere con l’accusa di riciclaggio internazionale di denaro sporco. In cella anche il fratello, l’avvocato Luca Ronzoni, 54 anni, anche lui residente in convalle, già vicepresidente - tra l’altro - del comitato di vigilanza di Infrastrutture Lombarde, meno di un anno fa uscito con un patteggiamento da un’accusa di frode fiscale.
L’inchiesta
I due fratelli sono stati ammanettati dai finanzieri del nucleo di polizia economico e finanziaria di Milano, che hanno eseguito un ordine di custodia cautelare che li accusa di aver fatto scomparire nei paradisi fiscali qualcosa come 20 milioni di euro (e oltre) di soldi frodati al fisco da decine e decine di clienti con il vizio di non pagare le tasse.
Non solo, perché parte di quel denaro, un milione e mezzo per la precisione, dopo essere stato dirottato all’estero è finito sui conti dei dirigenti di una spa italiana, la Petrovalves Spa, che li hanno utilizzati in parte (740mila euro, secondo l’accusa) per girarli a dirigenti della Technip France così da garantirsi un maxi contratto di fornitura per un lavoro da svariati milioni di euro. Una corruzione internazionale tra privati scoperta dai finanzieri e dalla Procura di Milano (il pm è Paolo Storari) proprio grazie all’analisi della documentazione sequestrata a suo tempo a Oscar Ronzoni e alla sua società con sede a Milano, la Luga srl, legata a doppio filo con la fiduciaria luganese Luga Audit & Consulting.
L’intera inchiesta, che ha coinvolto anche le polizie di Svizzera, Austria e Francia, oltre ad aver partorito rogatorie internazionali anche con Gran Bretagna, Bahams, Canada e Repubblica Ceca, parte da una verifica fiscale che l’Agenzia delle entrate ha eseguito ormai diversi anni fa a carico di Ronzoni. Quell’accertamento avrebbe portato alla luce, nella rilettura delle carte da parte degli investigatori, un ruolo decisivo del fiscalista comasco nel far fuggire capitali all’estero attraverso una serie di schermature solo formalmente (è sempre l’ipotesi accusatoria) lecite.
In sostanza diverse società estere, legate e gestite indirettamente - secondo la Gdf - dai fratelli Ronzoni, avrebbero emesso fatture per operazioni inesistenti per milioni di euro a carico delle società italiane interessate a far sparire il proprio nero all’estero. In questo modo il denaro veniva bonificato sui conti della società che aveva emesso la fattura, salvo poi ripartire verso altri lidi, in particolare Mauritius e Bahamas dove Oscar Ronzoni avrebbe gestito, presso la Amber Bank, un fondo da ben 14 milioni.
Commissione del 18%
Oltre al carcere, il giudice delle indagini preliminari di Milano ha emesso a carico dei fratelli Ronzoni anche un decreto di sequestro di poco inferiore al milione di euro. Stando all’inchiesta la commissione chiesta dal fiscalista comasco per far scomparire fondi altrimenti destinati alle tasse sarebbe stata pari al 18% della cifra complessiva.
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primepaginequotidiani · 6 months ago
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PRIMA PAGINA Libero di Oggi lunedì, 19 agosto 2024
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curiositasmundi · 5 months ago
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“Avevo visitato il centro governativo di Zawiya, chiuso dopo tre attacchi inscenati dal clan di Bidja perché l’unico a restare operativo fosse quello aperto illegalmente dalla sua rete”. Grazie all’incarico istituzionale nella guardia costiera, Bidja e i suoi avevano il controllo di tutta la filiera. Non a caso nel 2017, come racconterà due anni dopo Nello Scavo su Avvenire, l’allora capitano Bidja viene invitato in Italia per partecipare a riunioni con funzionari italiani, visitare il Centro per richiedenti di Mineo e gli uffici della Guardia costiera a Roma. Fatti che nessun governo italiano ha mai voluto chiarire, nonostante il nome di Bidja fosse finito nella black list del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a due sole settimane da quel viaggio. Nonostante le indagini della procura di Agrigento e quelle della Corte penale internazionale avviate grazie al lavoro di Porsia. “Sono diventata la nemica numero uno di Bidja che nel 2019 ha minacciato me e la mia famiglia via social, citando nome e cognome di mio figlio che allora aveva due anni, la stessa età che ha oggi suo figlio”, ricorda la giornalista, che dopo l’uscita della sua inchiesta ha rischiato di essere rapita, ha dovuto lasciare la Libia e da allora si è vista negare il visto per rientrarvi. Ma c’è di peggio: “L’Italia sapeva dei pericoli che correvo, ma non fece nulla per proteggere me e il mio lavoro”. Al contrario, nel 2021 scoprirà che la procura di Trapani, quella delle indagini sulle Ong, nel 2017 l’ha intercettata per sei mesi “sebbene non fossi tra gli indagati”.
Tutto a causa di un’inchiesta dall’incredibile tempismo. “Il mio lavoro e così la mia interlocuzione con Bidja per tentare un incontro che poi non ci fu, si svolgevano mentre il governo italiano intesseva il memorandum: stavo provando a denunciare gli interlocutori con cui l’Italia trattava”. Ora che Bidja è morto, spiega, “rimane l’amarezza di essere stata tradita dallo stesso sistema democratico di cui faccio parte”. Quanto alle sorti della Libia, “un’esecuzione mafiosa non può che confermare la condizione del Paese: chiunque sostituirà Bidja sarà come lui se non peggio”. Al contrario, l’attuale governo italiano ritiene che il Paese sia cambiato e che le condanne, anche in Cassazione, delle navi che negli anni passati hanno riportato in Libia i migranti salvati nel Mediterraneo siano superate dall’attuale contesto, “migliorato anche grazie al sostegno dell’Italia e dell’Europa”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piatedosi che non manca mai di ringraziare la guardia costiera libica per le migliaia di persone intercettate e riportate nei centri di detenzione. “Certo, bisognerà capire chi sostituirà Bidja perché il suo era un ruolo chiave: decideva i luoghi di sbarco dei migranti intercettati, dove sarebbero finiti e quindi chi avrebbe ricevuto i finanziamenti”, spiega Porsia, che avverte: “Il suo omicidio incrocia anche interessi internazionali”.
“Ma non c’è bisogno di un erede vero e proprio perché ormai si tratta di un intero sistema, corroborato e suggellato anche nel forum internazionale tenutosi a Tripoli lo scorso luglio dove la premier Giorgia Meloni era in prima fila: chiedere ad uno Stato fallito com’è la Libia di gestire una materia delicata come la tutela dei diritti umani è come consegnare l’agnello al lupo”. E nella Tripolitania dove le milizie si spartiscono territorio e ministeri, i lupi non mancano: “Dagli Interni alla Difesa, tutti cercano di accaparrarsi la fetta di torta più grande, anche investendo nelle operazioni di pattugliamento a largo delle coste perché questo è il canale principale per prendere i fondi”. Per i migranti, assicura Porsia, “la situazione è solo peggiorata. Le prigioni libiche restano punti neri sulla mappa dove la detenzione è arbitraria e le persone sono numeri che le milizie rivendono al governo di Tripoli come all’Italia. Le torture e le violazioni sono costanti, per uscire bisogna pagare e a farlo è spesso il trafficante che recupererà il denaro dal prezzo della traversata via mare, magari l’ennesima per la stessa persona”. Poco importa chi organizza il viaggio: “Le partenze sono funzionali al business di detenzioni e intercettazioni che a loro volta alimentano i viaggi via mare”. Bidja è stato tra i primi a mettere in piedi un cartello in grado di attuare il patto Italia-Libia alla uniche condizioni possibili in un Paese senza Stato. “Un’azione necessaria alla tenuta democratica dell’Italia – disse del memorandum l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti.
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highvoltagenews · 11 years ago
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Truffa internazionale ed evasione fiscale nuovo arresto per il faccendiere Oliverio
In manette con altre 9 persone l’uomo che aveva un archivio su personaggi pubblici, politici, militari. Amico di alti prelati, lavorava per i Servizi. Tasse non pagate per 500 milioni
La Guardia di Finanza di Roma ha arrestato 9 persone con l’accusa di reati fiscali e fallimentari. Tra queste figura anche il «faccendiere» Paolo Oliverio, noto come il fiscalista di molti personaggi potenti, già finito in manette nel novembre 2013 per un’inchiesta sugli affari dell’Ordine religioso dei Camilliani. Oliverio, come avevano svelato gli inquirenti, è un commercialista che frequentava uomini d’affari, politici, imprenditori, ma anche alti prelati e militari della stessa Guardia di Finanza. Nel suo archivio, centinaia di schede con dati sensibili su personaggi noti, politici, manager, alti prelati e militari: l’uomo era stato per due anni un collaboratore dei servizi segreti, ingaggiato dall’Aisi, l’agenzia per la sicurezza interna, all’epoca diretta dal generale Giorgio Piccirillo.
FALSE FATTURE E CONTI ESTERI - Con Oliverio, le Fiamme Gialle hanno fermato anche un altro commercialista: gli arresti sono stati eseguiti nell’ambito dell’operazione «Ermitage», una vicenda di truffe internazionali con evasione fiscale e bancarotta fraudolenta che ha portato al sequestro di beni per 154 milioni di euro a carico di 13 persone. Le indagini hanno consentito anche di individuare un imponibile evaso per circa 1 miliardo di euro, attraverso l’emissione ed utilizzo di false fatture per oltre 1 miliardo e 300 milioni di euro. Ben 79 le persone denunciate, 82 le imprese coinvolte: tra queste, alcune aggiudicatarie di appalti con la Pubblica amministrazione. I finanzieri hanno scoperto milioni di euro transitati su conti correnti svizzeri e monegaschi intestati a società panamensi.
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Paolo Oliverio
APPALTI PUBBLICI E FONDI UE - Gli ulteriori sviluppi investigativi hanno accertato responsabilità penali di 46 persone fisiche e di altre 50 società che risultano aver beneficiato del sistema di false fatture: tra queste, 12 società vincitrici di appalti pubblici, società beneficiarie di finanziamenti comunitari, importanti imprese leader nel settore informatico. I reati ipotizzati a carico dei 79 denunciati - tra cui 5 titolari di studi commercialisti - vanno dall’emissione ed utilizzo di fatture false all’occultamento di scritture contabili, all’omessa dichiarazione dei redditi ed Iva (con l’aggravante della transnazionalità), alla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, al millantato credito, al riciclaggio, alla bancarotta fraudolenta patrimoniale.
DA PANAMA A LUSSEMBURGO - Nei confronti di 11 soggetti è contestata pure l’associazione a delinquere. Nel complesso, le 82 società coinvolte (di cui 3 inglesi, 1 lussemburghese e 4 panamensi) hanno sottratto al fisco materia imponibile ad oggi stimata in oltre 1 miliardo di euro, con un’effettiva evasione d’imposta, ai fini imposte dirette e dell’Iva, quantificata in circa 500 milioni di euro, negli anni dal 2006 al 2013.
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micro961 · 6 months ago
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Alessandro Quadri di Cardano – Il nuovo romanzo “La mela marcia”
Un giallo ambientato a New York
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Lo scrittore Alessandro Quadri di Cardano pubblica il suo nuovo romanzo “La mela marcia” con l’editore Bertoni, disponibile dall’11 luglio 2024. Si tratta di un libro giallo in cui New York funge da sfondo alle vicende narrate: la comunità arcobaleno della città è sconvolta da una serie di efferate esecuzioni da parte di un killer che uccide le sue vittime con un solo colpo, sparato alle spalle. Il caso è affidato al tenente Frank Bongiovanni che, assieme alla sua squadra di investigatori, cerca di mettere luce su questi omicidi. Una volta individuato un facile colpevole per quietare la stampa e i cittadini, il tenente non si arrende, scardina la gerarchia del NYPD e inizia a condurre singolarmente le indagini, scavando in sé stesso e nel cuore della città. New York è una mela marcia, un labirinto che lascia smarrire i suoi abitanti e li fagocita.
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Feltrinelli/IBS
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Storia dello scrittore
Alessandro Quadri di Cardano è nato nel 1980 a Bologna, da padre italiano e madre belga. Stimolato dall’ambiente multiculturale, si laurea in “Scienze internazionali e diplomatiche” presso l’Università di Bologna, nel 2005. Ottiene una borsa di studio da parte del Ministero degli Affari Esteri italiano e frequenta il Collegio d’Europa di Bruges (Belgio), dove ottiene il Master in “Studi Politici e Amministrativi Europei”, nel 2007. Da quello stesso anno, lavora presso le Istituzioni Europee e, attualmente, vive a Bruxelles, con la moglie e i figli. Sin da ragazzo, coltiva l’amore e la passione per le opere di letteratura italiana e straniera, che legge spesso in versione originale, parlando quattro lingue. Nel 2022, pubblica il suo romanzo d’esordio, intitolato “La verità non conta” (NeP Edizioni). “La Mela Marcia” è il primo romanzo pubblicato con Bertoni.
Instagram: https://www.instagram.com/alessandro_quadridicardano/
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