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Il furto della Divina Commedia di Dario Crapanzano: Un giallo nella Milano degli anni '50 con l'ispettore Fausto Lorenzi. Recensione di Alessandria today
Dario Crapanzano ci trasporta nella Milano vintage degli anni '50 con un giallo intrigante e un nuovo, affascinante investigatore.
Dario Crapanzano ci trasporta nella Milano vintage degli anni ’50 con un giallo intrigante e un nuovo, affascinante investigatore. “Il furto della Divina Commedia” di Dario Crapanzano è un romanzo che ci riporta nella Milano degli anni Cinquanta, un’epoca in cui il mistero e il fascino delle vecchie librerie, dei cinema fumosi e degli antichi vicoli milanesi offrono lo sfondo perfetto per un…
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Ma di cosa è morto Cangrande della Scala il 22 luglio 1329? Nel 2004, quando a Verona governava il centrosinistra, dissero che si trattò di avvelenamento da Digitale, ma oggi che governa il centrodestra sono certi che fu per malattia genetica. Studi che a distanza di 15 anni, entrambi condotti da luminari di chiara fama, hanno quindi portato a diagnosi differenti.
Oggi è certo che Cangrande della Scala morì a causa di una rara malattia, la Glicogenesi tipo II, che lo stroncò in maniera quasi fulminea conducendolo al decesso dopo tre giorni di agonia. Questo è il verdetto della prima indagine sul DNA della sua mummia, orchestrata dai laboratori di Genomica Funzionale dell’Università di Verona e di Antropologia Molecolare e Paleogenetica dell’Università di Firenze, con la collaborazione del Museo di Storia Naturale della città scaligera.
Lo studio ha rispettato le scadenze prefissate nel gennaio 2020, quando l’obiettivo annunciato era quello di analizzare le sequenze genetiche del rinomato signore di Verona per ricostruirne gesta e fattezze entro il 2021, ovvero il settimo centenario della morte di Dante Alighieri di cui Cangrande fu amico e mecenate, tanto da meritare la dedica della terza cantica della Divina Commedia, il Paradiso.
La falange del piede e il pezzo di fegato prelevati dai resti del celebre scaligero hanno fugato i sospetti che circolavano attorno i suoi ultimi istanti di vita. «La morte di Cangrande oggi non è pi�� un mistero» ha annunciato il sindaco Federico Sboarina. «Contrariamente a quanto supposto per secoli, morì per una malattia genetica». Dunque nessuna congiura ai danni del temuto condottiero che aveva appena conquistato trionfante Treviso, nessun assassinio a spezzarlo, nessun avvelenamento. O forse sì…
Infatti il sonno eterno del signore di Verona era già stato disturbato nel febbraio 2004 allo scopo di effettuare studi paleopatologici sul suo corpo in ottimo stato di conservazione, e le analisi intraprese sembravano aver condotto ad approdi definitivi sulla sua morte: l’équipe di studiosi, composta tra gli altri dai professori Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e Franco Tagliaro dell’ateneo di Verona, aveva sottoposto la mummia a Tac, autopsia ed analisi tossicologiche, rilevando nel suo intestino eccessive quantità di Digitale, una pianta dalle proprietà curative ma che può risultare letale per l’uomo se assunta in dosi massicce.
Così erano state anche smentite le fonti antiche che rubricavano la scomparsa di Cangrande come caso di fluxus ventris (dissenteria) e il giallo del grande scaligero pareva archiviato: avvelenamento, forse dovuto ad un’ingestione accidentale di foglie di digitale, o forse provocato da una volontà cospiratrice. Di certo, la condanna a morte del suo medico, ritenuto responsabile della somministrazione fatale, faceva propendere più per la seconda ipotesi. Così per anni giornali, radio e TV hanno diffuso la notizia del mistero risolto.
Tuttavia dopo la recente indagine genetica queste certezze sembrano venire meno: ma allora, come è morto Cangrande? Noi uomini ignoranti di scienza possiamo, con uno sforzo immaginativo, far coesistere i due studi, fantasticando che le foglie di Digitale – ammesso che all’epoca fossero conosciuti i benefici medici della pianta – siano state ingerite dal condottiero per attenuare la violenta crisi generata dalla Glicogenesi. Ma sono solo congetture, chissà quanto distanti dalla verità che le nuove tecnologie hanno chiarificato in maniera definitiva. Forse.
Nel frattempo si sono levati i consueti “cori social” a commentare la notizia, chiedendosi l’utilità di questi studi in un periodo di pandemia e difficoltà economica, ma la grandiosa portata scientifica dell’indagine, che ha comunque accertato l’effettiva presenza della patologia su un uomo vissuto 700 anni fa, è più che sufficiente per giustificarne gli sforzi. I dubbi vengono piuttosto mettendosi nei panni del povero Cangrande, perché, oggi più che mai, dall’alto del Paradiso che Dante gli aveva fatto tanto amare, pure lui si starà chiedendo: «Come diavolo sono morto?».
Gregorio Maroso
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A Natura Dèi Teatri, lo sguardo di Lenz indaga il senso dello spazio nell’opera teatrale .
Dopo aver aperto le Porte della propria indagine sui linguaggi del contemporaneo e indagato il Punto Cieco della prospettiva artistica, Natura Dèi Teatri focalizza il proprio sguardo sullo spazio dell’arte, interrogando direttamente la Scia lasciata dal «lavoro dell’artista» e dalla «durata dell’opera d’arte».
Sovrapponendo con lucida coerenza «un grande monumento mentale» a un grande monumento fisico, materializzando concretamente quella terra di mezzo nella quale il Sommo Poeta «raffigurò la condizione umana nelle diverse situazioni in cui [essa] si rapporta con il mondo fisico, l’estasi, il vivere quotidiano in tutte le sue manifestazioni sociali, etiche e filosofiche», Purgatorio, l’ultimo nato in casa Lenz, palesa con trasparente plasticità due aspetti che riconosciamo essere cruciali nella ricerca di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri.
Il primo riguarda l’instabile equilibrio dell’intenzione drammaturgica che innerva Purgatorio sul senso dell’artista; un’intenzione che, superati i confini del metateatrale e del site-specific, si enuclea secondo il linguaggio della sensibilità, identificando non tanto una condizione biologica o un anelito romantico (Adelchi), quanto un’originale e reale curvatura dell’arte contemporanea nella prospettiva dell’oltreteatrale (Autodafé), ossia della reciproca disponibilità alla contaminazione di responsabilizzazione e apertura da parte, rispettivamente, del pubblico e dell’attore.
Un risultato prodigioso e figlio di una progettualità rigorosissima fin dal concepimento, che spesso abbiamo visto formalizzarsi in ambienti di folgorante e spaesante bellezza: proprio quest’ultimi, a partire dalla non banale o scontata capacità organizzativa messa in campo da tutte le maestranze della complessa architettura lenziana per riportare a nuova/vera vita scenari genericamente impermeabili all’esterno perché vissuti inutili e improduttivi, rappresentano – a parere di chi scrive – quel secondo elemento rispetto al quale l’attenzione di Maestri e Pititto si mostra di esemplare e adamantina lungimiranza. Dal contesto di allestimento arrivano suggestioni spesso eclatanti, a volte (s)velate dal didascalico (Il Furioso 2), ma sempre determinanti nel destrutturare la direzione esclusiva di un mondo di cui Lenz denuncia le antitetiche contraddizioni.
A partire dall’illuminante «ambientazione all’interno di una fabbrica», abbiamo ammirato mettere al bando «l’idea di una società che […] si concepisce in termini di produzione e consumo», che «pensa di aver superato la concezione di cittadino […] in quella di consumatore» (Promessi Sposi) e in cui «l’accumulo oggettivo rende dominante la spersonalizzazione» (La fuga – L’isola). Una società che, per la consapevole e colpevole confusione tra «l’autodeterminazione della persona» e la «riduzione della vita umana a parametro economico di un bilancio aziendale» (Aktion 4) e attraverso la «glaciale contrarietà» di luoghi in cui «l’avvento dell’estremo saluto al corpo che fu rimanda […] all’assolutizzazione di quell’immateriale che accomuna trasversalmente chi è ancora» (Il Furioso 2), celebra la morte più che la vita, genuflettendosi a «un biopotere sottile ed evidente, misteroso e invadente» che continua a «autoimporsi in funzione disciplinare» (Autodafé).
Esito finale di un percorso che pensa l’arte come Materia del Tempo, Purgatorio è l’incipit di un progetto biennale sulla Divina Commedia di Dante Alighieri «suddiviso in tre site-specific performativo-musicali […] realizzati in tre luoghi significanti della città di Parma», l’Ospedale Vecchio, il Ponte Nord e il Termovalorizzatore.
È una scena scabra, dai colori freddi e minimalista quella che accoglie gli astanti in un luogo «organizzato intorno alla grande Crociera a forma di croce greca sormontata da una cupola» e in cui muove i primi passi la «riscrittura drammaturgica e scenica» dantesca con «l’installazione della cantica del Purgatorio nell’Ospedale Vecchio, uno dei complessi monumentali più importanti di Parma, nonché l’edificio simbolo della storia ospedaliera della città». In esso, Lenz colloca l’unica cantica sinceramente terrena, quella di un Regno al cui interno la gravità dei peccati risulta rovesciata fino all’ascesa nella purezza, e che – paradosso della Divina Commedia – conosce il trapassare del giorno nella notte e scopre il buio tornare a farsi luce.
Di questo Regno mortale, i cui abitanti sono solo di passaggio, espianti posti di fronte a exempla del vizio punito e della virtù mancata, introdotti dal canto degli angeli custodi delle sette cornici, Francesco Pititto e Maria Federica Maestri mantengono intatto il patrimonio dantesco, trasfigurano nella semplicità dell’incedere scenico ogni dettaglio del cammino di Dante attraverso i sette peccati capitali e, così facendo, iniziano un «percorso verso la Bellezza, verso le Stelle» non dal luogo in cui le anime non hanno più alcun controllo del proprio destino, ma da quello in cui «i peccatori penitenti sono più vicini all’uomo contemporaneo», in cui «intraprendere la via della salvezza [e] raggiungere il Paradiso o sprofondare all’Interno dipenderà [dalle] preghiere e dalla volontà di espiazione».
Versi declamati con estremo rigore nello stretto volgare di Parma e raccordati all’inizio di ogni cornice da angeliche introduzioni in italiano accompagnano il disordine controllato di movimenti capaci di restituire una sensazione di caos calmo a un percorso narrativo e fisico di fluida passione, con il pubblico ai lati della scena sedotto o abbandonato a un difficoltà di comprensione testuale in realtà solo apparente, vista la celebrità di quanto rappresentato.
L’aderenza alla terra di chi dal passato continua ad agire nel presente, la gens di Parma, dunque l’essere «ponte tra tradizione e contemporaneità», viene assicurata dalla scelta di (co)affidare la costruzione e l’espressione del testo ad attori delle Compagnie dialettali di Parma: un voto di fiducia che contribuendo a consegnare, da un lato, l’operazione artistica di «recupero di bellezza sostenibile» alla «partecipazione reale del cittadino al suo patrimonio culturale e urbanistico» e, dall’altro, l’ambiente di allestimento al co-protagonismo all’interno dell’evento spettacolare, rende il processo creativo scevro di ogni possibile connotato di asettica autoreferenzialità, nonché degli abusi in cui la cosiddetta sperimentazione spesso annaspa nell’uso indiscriminato della multidisciplinarietà e degli strumenti digitali.
Purgatorio è, allora, un’autentico ecosistema scenico in cui, recuperando con infinito rispetto la dignità dell’opera di cui è voce e corpo, ogni singola parola e ogni atto compiuto rifrange la consapevolezza di Lenz di ripensare continuamente lo spazio dell’arte quale condizione necessariamente propedeutica di ogni esperienza artistica.
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Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Natura Dèi Teatri Ospedale Vecchio via Massimo d’Azeglio 45, Parma
Purgatorio drammaturgia e imagoturgia Francesco Pititto installazione site-specific, elementi plastici, costumi, regia Maria Federica Maestri musica, installazione sonora Andrea Azzali in scena Valentina Barbarini, Fabrizio Croci, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Delfina Rivieri e attori delle Compagnie dialettali di Parma: Roberto Beretta, Sonia Iemmi, Ylenia Pessina, Mirella Pongolini, Giacomo Rastelli, Cesare Quintavalla, Silvia Reverberi, Valeria Spocci cura Elena Sorbi media video Stefano Cacciani cura tecnica Alice Scartapacchio, Andrea Bonaccini assistente di scena Marco Cavellini produzione Lenz Fondazione con il patrocinio del Comune di Parma e in collaborazione con il Coordinamento delle Compagnie Dialettali della città in collaborazione con Teatro Regio di Parma, Biblioteca Civica e Archivio di Stato di Parma con il sostegno di: MiBACT – Comune di Parma, Regione Emilia-Romagna, DAISM-Ausl
Purgatorio / Natura Dèi Teatri A Natura Dèi Teatri, lo sguardo di Lenz indaga il senso dello spazio nell'opera teatrale .
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Il furto della Divina Commedia - Dario Crapanzano: Un’indagine di Fausto Lorenzi tra libri rari e misteri. Recensione di Alessandria today
Un giallo avvincente che mescola cultura, storia e intrighi nella Milano degli anni ’50
Un giallo avvincente che mescola cultura, storia e intrighi nella Milano degli anni ’50 Recensione: Dario Crapanzano torna con Il furto della Divina Commedia, un nuovo capitolo delle avventure di Fausto Lorenzi, un personaggio affascinante e ben delineato che si muove nella Milano degli anni ’50. Questa volta, l’ispettore Lorenzi si trova ad affrontare un caso singolare: la scomparsa di una…
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