#il libro contro la morte
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“Nonoo” questa mattina sei venuto a mancare e dopo aver lottato per altri tre mesi, anche se in ospedale ti avevano dato pochi giorni, ininterrottamente non hai mai mollato quel filo sottile che divide la vita dalla morte; anche contro le tue volontà a testa alta col tuo carattere (in cui non mi rispecchiavo) sei riuscito a tenerti vivo, ahimè, purtroppo, la morte vince si tutto, non ha pietà.
Fin da piccolo il tuo sogno era di vedermi guidare, cosa che se pur col tempo ho saputo apprezzare non ho mai amato fare come te, prima che l’infarto ti colpisse definitivamente ti avevo fatto una promessa, di portarti a vedere un gran premio di formula uno, da noi tanto amata, questo seppur per evidenti problemi economici non mi avrebbe mai impedito di non farlo, però non avresti avuto le forze, anche se immagino che ti saresti commosso, anche se una persona come te era difficile vederla piangere.
Abbiamo avuto periodi in cui ci costruivamo mentalmente dei muri invisibili e proprio per la differenza del nostro carattere questo ci ha ferito entrambi, fuori sicuramente eravamo orgogliosi ma il problema poi è sempre dentro, quel peso che a lungo andare ti consuma fino a trasformalo in malattia.
Col senno di poi siamo bravi tutti, tu hai le tue responsabilità e io le mie, non esistono santi, nessuno di noi due ha vinto o perso, nonostante abbiamo sofferto, ci siamo riavvicinati pian piano, con più fiducia e lo abbiamo fatto raccontandoci la mia, la nostra infanzia, nostra perchè alla fine hai passato davvero tanti anni assieme a me quando ero piccolo, io non dimentico i tuoi errori nonno, ma nemmeno il bene che mi hai fatto, la tua immensa disponibilità per me e la mamma quando aveva bisogno di essere portata per lunghi anni su e giù in ospedale, sappi che queste cose rimarranno impresse nella mia testa, perché col tempo, forse crescendo, anche se ancora mi vedo, sai, un po’ bambino, quel Mattia che era il tuo idolo, che doveva essere il migliore di tutti, ma che in realtà voleva solo essere come tutti, e che quei tutti avessero il mio stesso cuore, quella bontà che col tempo è pian piano svanita.
Chi si dimentica di tutta quella gente che ci Incontrava in bici la mattina presto?
La tua felicità negli occhi, nel vedere come tutti si fermassero a guardarmi, a parlarmi e a sottolineare il fatto che il sorriso non mi mancasse mai.
Si andava a prendere il pane, ne volevo subito un pezzo, ci fermavamo a vedere tutti i cani della via con la speranza che rispondessero alle mie parole, e restavo lì convinto fino a quando sentivo abbaiare e tu mi davi conferma delle loro risposte.
Che periodi, cercavo sempre mia mamma, purtroppo per via del lavoro per me era come stesse via intere settimane ma in realtà così non era, però tu ben sapevi quanto io sia legato a mamma, e tranquillo ricorderò sempre quanto anche tu lo fossi, anche se spesso avevi qualcosa da ridere per via del tuo carattere ricorderò le tue ultime parole: “La mamma è la donna più intelligente che ho conosciuto, fin troppo buona e disponibile per tutti, voglio che lei lo sappia”.
Potrei scrivere un libro, non un poema su ciò che abbiamo vissuto insieme, sei stato la mia infanzia, il mio periodo preferito, lo rivivrei mille volte, nonostante il tuo modo di essere, ma chi sono io per giudicare? Certo, quello che penso lo dico, come hai sempre fatto tu, ma allo stesso tempo non mi nasconderò mai come non giudicherò mai!
Ora stai vicino alla nonna, e assieme fatemi il regalo più grande, che non sono i soldi, non sono una vita di successi, ma la speranza di vedere vostra figlia, mia mamma, stare un po’ meglio.
Solo questo.
Il pensiero rimbomberà sempre nella mia testa, fra cose belle e cose brutte, ma per vivere di questi tempi, bisogna affidarsi solo all’amore, lo sai nonno no?
Quella piccola parte di odio che io ho sempre avuto verso la mia generazione, e tu, verso chi ben sapevi, era molto simile, però se fossi qui so che con un sorriso, e magari una lacrima, diresti: “Qua te ghe rason”.
Ciao caro nonno, ti voglio bene❤️
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" Il 31 ottobre 1926, durante una grande adunata fascista a Bologna, un colpo di pistola viene sparato contro il ‘Duce’. Chi ha sparato? Il fatto è ancora avvolto nel più grande mistero. Un ragazzo di 16 anni, tale Zamboni, ex fascista, viene conclamato autore del gesto e trucidato sul posto, sotto gli stessi occhi del ‘Duce’. È l’uragano che, stavolta, sconvolge tutta l’Italia. Gli oppositori più in vista sono obbligati a sottrarsi alla furia e le loro case vengono saccheggiate. I giornali avversi al regime sono distrutti. Dovunque, sono giornate di terrore. Quel giorno, io ero a Cagliari, a casa mia. Verso le nove di sera, un amico, trafelato, venne ad avvisarmi che i fascisti suonavano l’adunata di guerra. Io uscii con lui per vedere di che si trattava. Sulla porta di strada, un altro amico mi riferì la notizia che era arrivata ai fascisti ed alla prefettura la notizia dell‘attentato al ’Duce’. «Ho potuto segretamente avere copia del telegramma. Qui, tutti i fascisti sono stati convocati d‘urgenza per le rappresaglie. La tua casa e la tua vita sono in pericolo. Abbandona la città o nasconditi in una casa sicura.» Mentre parlava, arrivavano da più parti gli squilli di tromba con cui, nei differenti rioni, gli squadristi suonavano l’adunata. Salii in casa, licenziai la donna di servizio. Non dovevo pensare che a me stesso. Ridiscesi. Altri amici in piazza erano corsi ad informarsi: i fascisti si adunavano nella loro sede centrale; le automobili erano in movimento per il trasporto più rapido, grida di morte si udivano qua e là contro di me. Andai a pranzare in un ristorante, a pochi metri da casa.
Mentre pranzavo, mi giungevano via via le notizie: i teatri, i cinema, i pubblici ritrovi erano stati fatti chiudere tutti; le squadre fasciste circolavano armate; alla sede del fascio organizzavano la spedizione punitiva contro di me; i capi esaltavano i gregari con discorsi incendiari; io ero la vittima designata; fra mezz‘ora sarebbe cominciata l’azione. Il cameriere, che mi serviva, era stato alle mie dipendenze durante la guerra. Era diventato fascista in seguito, ma non poteva dimenticare un certo rispetto per il suo antico ufficiale. Era molto imbarazzato quella sera, e non osava parlarmi. Tentò più volte, ma io non lo incoraggiai. Finalmente mi disse: «Signor capitano, io so quali ordini ci sono. La scongiuro, non ritorni a casa: parta subito. Si tratterà solo di qualche giorno. Poi vedrà che tutto diventerà normale». «Credi tu» gli chiesi «che io abbia ragione o torto?» «Lei ha ragione» mi rispose arrossendo e prendendo macchinalmente la posizione militare d’attenti. «E allora, perché dovrei fuggire?» La mia domanda lo imbarazzò ancor di più. Non aggiunse parola. Andando via, gli chiesi: «Perché sei diventato fascista?» «I tempi sono difficili. Mi hanno promesso tante cose… Chi può vivere contro i fasci?» "
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, introduzione di Giovanni De Luna, Einaudi (collana ET Scrittori n° 1037), 2008⁴, pp. 168-170.
NOTA: Questo memoriale antifascista fu pubblicato dall'autore in esilio a Parigi dapprima nel 1931 per un pubblico internazionale, quindi nel 1933 in lingua italiana (col significativo sottotitolo Fascismo visto da vicino) dalla casa editrice parigina "Critica". Il libro fu edito in Italia già nel 1945 dall'editore Einaudi nella Collana "Saggi".'
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Platee Sconfinate
Chi ha frequentato il Liceo Classico, probabilmente, ricorderà una versione tratta da un testo di Plutarco dal titolo Il Teatro di Euripide salva gli Ateniesi prigionieri a Siracusa. Si racconta infatti che dopo la disfatta, inaspettata, dell'esercito ateniese giunto in Sicilia per conquistare le colonie dell'Isola, i prigionieri guerrieri vennero stipati nella latomie: cave di pietra prima, furono poi "convertite" a mega carcere per le centinaia di prigionieri. Fredde d'inverno e torride d'estate, essere imprigionati nelle latomie equivaleva a una condanna a morte: i prigionieri ateniesi furono lasciati morire di fame e di stenti, senza alcuna possibilità di fuga. Plutarco racconta però che i Siracusani, popolo colto e ricco, "amavano Euripide più di tutti gli altri Greci delle colonie" dando ristoro, o addirittura liberando, i guerrieri che ne conoscevano a memoria qualche brano. I sopravvissuti, narra l'aneddoto, quando fecero ritorno a casa, andarono a ringraziare persino il grande drammaturgo.
Questa vicenda ha una parte vera e una falsa: la vera, è che i prigionieri ateniesi davvero morirono di fame nelle latomie di Siracusa. La falsa è che l'aneddoto, divenuto celeberrimo, è appunto falso, e prima di Plutarco ne scrisse uno simile un biografo di Euripide, Satiro di Callatis, autore di molte biografie, quasi tutte perdute, ma di cui è rimasta una parte di quella di Euripide. Tuttavia il nostro Satiro è famoso principe del Metodo Cameleonte, dal nome del peripatetico Cameleonte di Eraclea, che iniziò a scrivere biografie basate a pure combinazioni e deduzioni, ai pettegolezzi e alle cronache scandalose della commedia, e al romanzesco e al leggendario (che non vuol dire che sia sempre fonte inattendibile, ma che va presa con non una ma tre pinze).
Eppure questa leggenda ha ispirato un filologo libano-irlandese, Ferdia Lennon, per scrivere un romanzo, che ho amato tantissimo, che tramite il Mito affronta situazioni davvero profonde, attualissime, usando una scrittura vivace, elettrica e piena di soprese.
Lennon immagina che due vasai disoccupati, il brillante Gelone e Lampo, zoppo e frugale, presagendo che la sconfitta di Atene possa portare alla perdita del grande patrimonio culturale della stessa, si mettano in testa di fare una rappresentazione teatrale con gli atenesi prigionieri nella latomie. Ma non una cosa qualsiasi, bensì un pastiche tra Medea e Le Troiane, le due tragedie leggendarie di Euripide, opere che furono rappresentate la prima poco prima della Guerra del Peloponneso nel 431 a.C., la seconda ebbe la prima ad Atene nel 415 a.C., proprio pochi mesi prima della disfatta di Siracusa. Il progetto è già arcigno, dato lo stato cadaverico degli Ateniesi prigionieri, delle pressioni dei Siracusani e dalle difficoltà nell'allestimento, ma con una serie di imprese al limite dell'eroico, i nostri riescono a farsi fare i costumi, le maschere, le scene e mettono su lo spettacolo. Non vi dico di più, perchè la storia va avanti e di molto, e spero di incuriosirvi con questi altri aspetti per andare da soli a leggere come va a finire.
Innanzitutto la lingua di Lennon, resa magnifica dalla traduzione di Valentina Daniele: peculiare per ogni protagonista, ricca di immagini potentissime, a volte aulica a volte sporca, le invenzioni di traduzione (gli aristo, per definire le classi ricche, o l'uso del mi' ma', mi' pa' per definire colloquialmente i genitori) rende la lettura piacevolissima. La costruzione dei personaggi, soprattutto i principali, il retto e saggio Gelone contro lo spirito intraprendente, al limite del furbesco, di Lampo. Le metafore che quell'impresa offre: il rapporto con l'altro, il ruolo del ricordo, la guerra e le sue conseguenze, persino il ruolo e la potenza dell'Arte come linguaggio universale. Ne esce fuori un libro gioiello, edito tra l'altro da una casa editrice, NN, che nella quarta di copertina ha questo passo: In questo libro c'è un Uomo Nudo. Ciò vuol dire offrire ai lettori storie di uomini che si concepiscono diversi e lottano per questa diversità, lontano da modelli e maschere di padri e pari. C’è, in sostanza, la volontà di stimolare una riflessione collettiva sul maschile, quindi quando troverete questo segnale in copertina, sapete a cosa state per andare incontro.
Che è un ulteriore buon motivo per leggere un libro che mi ha affascinato come pochi.
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da GIULIO MEOTTI
Lola, sgozzata sull'altare della vigliaccheria multiculturale. Aveva dodici anni. L'hanno asfissiata e poi le hanno quasi staccato la testa. Arrestati quattro algerini. “Proteggiamo i nostri bambini, Lola”, accusa Eric Zemmour, l’unico che in Europa sembra aver conservato gli attributi e la lingua per nominare le cose. L'orrore colpisce la Francia quasi ogni giorno ed è impossibile tenere il passo delle cronache. Una guerra di sangue e di conquista, spesso in sordina, è dichiarata contro i suoi abitanti. Soltanto nei giorni scorsi un sacerdote aggredito per strada, un liceo chiuso per le violenze degli studenti islamici, due professori (di cui uno ebreo) minacciati di morte e messi sotto scorta... E poi ebrei buttati dalla finestra, accoltellamenti davanti alle scuole, fedeli cattolici aggrediti. Intanto l'ex capo della polizia di Parigi in un libro scrive: "Vedo un futuro molto oscuro per i nostri figli e nipoti". Quando ci sveglieremo? Lo volete capire che l' unica soluzione sono i porti chiusi e i rimpatri? Vogliono farvi credere che è impossibile...chi? quelli che sono riusciti con la scusa dell' influenza a tenerci chiusi in casa senza diritti per fare i loro sporchi comodi....!!!! Basta volerlo e l' occidente ritorna occidentale.. bisogna volerlo. Basta voltarsi dall' altra parte perché Lola e i tanti assassinati stuprati feriti umiliati non sono altri da noi. Siamo noi.
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Dedicato alle capre antisemite.
LA VERITA' SUGLI EBREI IN ERETZ ISRAEL, O PALESTINA
Di Indro Montanelli
Nel 1876, assai prima dunque della nascita del sionismo, vivevano a Gerusalemme 25.000 persone, delle quali 12.000, quasi la metà, erano ebrei, 7500 musulmani e 5500 cristiani. Nel 1905 gli abitanti erano saliti a 60.000. Di questi 40.000 erano ebrei, 7000 musulmani e 13.000 cristiani. Nel 1931 su 90.000 abitanti, gli ebrei erano 51.000, i musulmani 20.000 e i cristiani 19.000. Nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato ebraico, la popolazione di Gerusalemme era quasi raddoppiata: 165.000 persone, di cui 100.000 ebrei, 40.000 musulmani e 25.000 cristiani. La presenza ebraica a Gerusalemme ha sempre costituito il nucleo etnico numericamente più forte. Di nessun altro popolo Gerusalemme è mai stata capitale. E’ quindi una leggenda l’affermazione che gli ebrei siano stati assenti da Gerusalemme per quasi venti secoli o che costituissero una insignificante percentuale della popolazione.
Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, il nazismo in Germania già perseguitava i suoi 500.000 cittadini ebrei. Le disperate richieste di quegli ebrei di essere accolti nei paesi democratici al fine di evitare quello che già si profilava chiaramente come il loro tragico destino, vennero respinte.
Nel luglio 1938, i rappresentanti di trentuno paesi democratici s’incontrarono a Evian, in Francia, per decidere la risposta da dare agli ebrei tedeschi. Ebbene, nel corso di quella Conferenza, la risposta fu che nessuno poteva e voleva farsi carico di tanti profughi. Dal canto suo la Gran Bretagna, potenza mandataria della Palestina, venendo meno al solenne impegno assunto verso gli ebrei nel 1917 di creare una National Home ebraica in Palestina, nel 1939 chiudeva la porta proprio agli ebrei con il suo Libro Bianco, nel vano tentativo d’ingraziarsi gli arabi.
E’ stata questa doppia chiusura a condannare a morte prima gli ebrei tedeschi e poi, via via che la Germania nazista occupava l’Europa, gli ebrei austriaci, cechi, polacchi, francesi, russi, italiani, e così via. Il costo per gli ebrei d’Europa, che contavano allora una popolazione di dieci milioni, fu di sei milioni di assassinati, inclusi un milione e mezzo di bambini. Appena finita la seconda guerra mondiale i 5/600.000 ebrei superstiti, in massima parte originari dell’Europa orientale, si trovarono senza più famiglia, senza amici, senza casa, senza poter rientrare nei loro paesi, dove l’antisemitismo divampava (in Polonia ci furono sanguinosi pogrom persino dopo la guerra, e nell’Unione Sovietica Stalin dava l’avvio a una feroce campagna antiebraica).
Tra il 1945 e il 1948 nessun paese occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, volle accogliere neanche uno di quel mezzo milione di ebrei “displaced persons”, come venivano definiti dalla burocrazia alleata. La Palestina, malgrado la Gran Bretagna e il suo Libro Bianco, sempre in vigore anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, non fu quindi una scelta, ma l’unica speranza, cioè quella del “ritorno” a una patria, all’antica patria, una patria dove da tempo si era già formata una infrastruttura ebraica.
Nel passato la vita degli ebrei nei paesi islamici e negli stessi paesi arabi è stata nell’insieme sopportabile. Di serie B, ma sopportabile. Gli arabi hanno incominciato a sviluppare in Palestina un odio “politico” nei confronti degli ebrei pochi anni dopo l’inizio, nel 1920, del Mandato britannico. L’odio, sapientemente fomentato dai capi arabi, primo tra i quali il Gran Muftì di Gerusalemme (che durante la seconda guerra mondiale avrebbe raccolto volontari per formare una divisione SS araba andata poi a combattere a fianco dei tedeschi contro l’Unione Sovietica), doveva culminare, dopo molti altri gravi fatti di sangue antiebraici, nella strage perpetrata a Hebron nel 1928 contro l’inerme, antica comunità religiosa ebraica.
Chiunque abbia viaggiato e vissuto nei paesi arabi durante le guerre del 1947-1973, sa che l’intera coalizione araba (Egitto, Siria, Iraq e Giordania) con il sostegno dei paesi arabi moderati, avevano un solo scopo che non veniva tenuto celato: il compito non era dare una patria ai palestinesi. Era cancellare ed annientare lo Stato di Israele. Le tragiche vicende che hanno successivamente tormentato il popolo palestinese sono state sempre per mano araba. Due i fatti impossibili da dimenticare: lo sterminio dei palestinesi in Giordania per mano di re Hussein e delle sue artiglierie, dove, solo il primo giorno del terribile “Settembre Nero” si contarono 5.000 morti; le stragi nel Libano, dove i palestinesi sono stati assediati ed attaccati, distrutti e costretti alla fuga dai miliziani sciiti di “Amal” e dai siriani.
Così scriveva Montanelli: “Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l’odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell’altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso.”
(Dal «Corriere della Sera», Indro Montanelli, 16 settembre 1972).
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Per la Corte d’Appello di Torino, offrire rifugio ai migranti in attesa di aiutarli a superare illegalmente il confine con la Francia si configura come «stato di necessità»: confermato il verdetto del primo grado.(...)
Una storia da libro Cuore, apparentemente, se non fosse che l’edificio di fatto era diventato una base logistica dell’immigrazione clandestina, in un continuo via vai di disperati intenzionati, e in questo modo agevolati, ad attraversare il confine irregolarmente. Per quasi quattro anni. Poi nel marzo del 2021 arriva lo sgombero e gli anarchici vengono indagati per invasione di terreni o edifici. (...)
Il Tribunale li riconosce responsabili del reato di «invasione di edifici», ma concede l’assoluzione per «tenuità del fatto». Una vittoria «a metà» spiegano gli avvocati, quindi non abbastanza. E così decidono di andare avanti e rivolgersi alla Corte di appello di
Torino che con una sentenza emessa ieri decide di accogliere la richiesta delle difese di applicare l’articolo 54 del Codice penale in base al quale chi commette un fatto perché «costretto dalla necessità di salvare sé o altri da un pericolo di un danno grave alla persona» non è punibile. «Una questione di principio», commenta l’avvocato Sara Gamba, che in questo modo ha fatto assolvere pienamente l’operato degli anarchici.
«In primo grado il giudice aveva escluso lo stato di necessità dei migranti perché la situazione di pericolo non era immediata, ma durava anche diversi mesi», spiega. «Poi evidentemente i giudici hanno capito che i migranti, trovandosi in quelle zone di montagna senza posti dove andare e a volte con abiti estivi in pieno inverno, correvano pericoli gravissimi e che gli imputati, non hanno fatto altro che salvare le persone», sottolinea l’avvocato Danilo Ghia.
Una questione di principio che sicuramente soddisfa quanti avevano trasformato la casa cantoniera non tanto in una questione umanitaria ma in una vera battaglia politica. «Contro tutte le frontiere e il decreto Salvini», recitava un cartello affisso all’esterno dello stabile autogestito e occupato. Mentre sui social ripetevano che «la solidarietà non si sgombera» ricordando come tra i migranti di passaggio ospitati all’interno della casa vi fossero anche molte famiglie. Non solo, a detta degli attivisti l’occupazione sarebbe nata in seguito ai molti casi di morti sul percorso, almeno una trentina negli anni a ridosso dell’apertura del presidio.
In realtà, la zona non era priva di strutture autorizzate all’accoglienza. A circa 500 metri dalla casa cantoniera c’era il rifugio Massi, gestito dai salesiani, che operava però in orari limitati e inizialmente aveva una capienza ridotta a 20, 30 unità. (...) Dure infatti le parole del sindaco di Oulx, Paolo de Marchis, che all’epoca dei fatti aveva definito l’occupazione incomprensibile: «Chi vuol accompagnare i migranti in Francia a tutti i costi, è un porta di morte. In montagna d’inverno, con vestiti non idonei, rischia di morire». Non solo. Il primo cittadino aveva spiegato come la zona non fosse certo priva di progetti di accoglienza autorizzati e ben avviati, in procinto di essere ampliati. Ben diversi dalla casa cantoniera occupata che, secondo quanto aveva riferito la prefettura al momento dello sgombero, si era presentata in uno stato di completo degrado e pessime condizioni igieniche. «L’occupazione sembra una iniziativa contro le istituzioni, un modo di andare contro il nostro impegno che va anche nella direzione di aiutarli a capire che affrontare la montagna significa quasi sicuramente morire». (...)
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------------Pfizer---> Rezifp-----------
Reshef (a destra) raffigurato sulla stele di Qadesh.
Il termine è presente come etimo in lingua ebraica con il significato di "fiamma, fulmine" (Salmi 78:48), da cui derivano significati figurativi, come "freccia" (Libro di Giobbe 5:7) e "febbre che infiamma" (Deuteronomio 32:24)
Per la sua capacità di controllare e scatenare malattie e pestilenze, presso i greci venne accostato ad Apollo ed al vedico Rudra, mentre le caratteristiche marziali e belligeranti di Reshef ne hanno spesso favorito l'occasionale paragone con le figure di Marte e del dio babilonese della morte Nergal. I fenici si riferirono a lui come Resheph Gen (‘Reshep del Giardino’) e Baal Chtz (‘Signore delle frecce’), mentre gli ittiti lo hanno descritto come il dio cervo o il dio gazzella. A Larnaca, Cipro, Reshef aveva l'epitteto di ḥṣ, inteso come "arco" da Javier Teixidor, che, di conseguenza, interpretava Resheph come dio delle malattie, comparabile ad Apollo, le cui frecce portarono la peste contro gli Achei (Iliade I.42-55). Reshef compare anche in testi mitologici ugaritici come il poema epico di Kirta.
il testo di un'antica formula apotropaica invoca il nome di Reshef, insieme a quello di Astarte, come rimedio all'azione del demone cui si attribuiva la causa dei dolori addominali. Nel suo duplice aspetto di divinità guerriera e guaritrice, capace di coniugare in sé le opposte polarità di vita e morte, Reshef era conosciuto in Egitto e nel vicino Oriente.
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scateniamo l'immaginazione...;-)
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C’è qualcosa che tutti possiamo fare un po' di più: è guardare, guardare con più attenzione il mondo intorno a noi. Guardare non è tanto un modo di informarsi, ma l’unico varco per arrivare a un possibile stupore, può essere un paesaggio lontano, può essere vicinissimo a casa nostra. Guardare è un modo per dire alle cose e agli animali di non andarsene, di rimanere ancora con noi. Guardare una lampadina, un imbuto, un albero, un cane, guardare e sentire un momento di vicinanza, mettere in crisi per qualche secondo la solitudine in cui siamo caduti.
In me la ricerca di quello che chiamo Sacro minore è andata crescendo man mano che aumentava l’invadenza della vita digitale. Si può stare in Rete anche molto tempo, ma non bisogna accodarsi all’esodo verso l’irrealtà, bisogna rimanere fedeli al reale, è l’unico bene, è il bene comune, il bene più comune di tutti e non dobbiamo perderlo.
Questo guardare di cui parlo non è un partito, non è un’ideologia, non è andare a rintanarsi in un rifugio, come se altrove fosse tutto deserto e miseria spirituale. Direi che è semplicemente il coltivare una saltuaria abitudine percettiva. Io non so fare di più. Dopo questi brevi slanci verso l’esterno la mia vita rifluisce verso l’interno, si riduce alla continua manutenzione dell’inquietudine. E qui mi pare che si incroci con quella di tanti in questo tempo di vite spaiate, lontane da ogni fuoco collettivo. Ecco il bivio: da una parte l’attenzione al mondo che ci circonda, dall’altra la deriva opinionistica in cui tutti cinguettano su tutto in una babele di parole che girano a vuoto.
La poesia è come un vigile che sta davanti a questo bivio e indirizza chi la legge verso l’attitudine percettiva piuttosto che verso le astrazioni dell’opinionismo. La poesia è la scienza del dettaglio, è il sogno tagliato dalla ragione o la ragione tagliata dal sogno, comunque non è mai nel dominio di una sola logica, è sempre intreccio, sconfinamento, purissima impurezza.
Io credo di essermi educato allo sguardo proprio grazie alla poesia, al suo rendere l’anima più agile, capace di oscillare dall’infimo all’immenso, dal dentro al fuori. E sull’attenzione al mondo esterno posso citare i miei due grandi maestri, Peter Handke e Gianni Celati. Il primo conosciuto e frequentato nei suoi libri, l’altro frequentato anche di persona. Celati mi ha insegnato le meraviglie dei luoghi ordinari, delle giornate qualsiasi. In fondo il mio lavoro di paesologo ha una sola regola che si può riassumere con questo mio aforisma: “Io guardo ogni cosa come se fosse bella e se non lo è vuol dire che devo guardare meglio.” All’inizio la mia attenzione ai luoghi marginali era più in chiave politica, ero infiammato dalle disattenzioni della politica. Il margine era indagato come luogo dell’abbandono, ero protesto a cogliere il passaggio dalla miseria contadina alla desolazione della modernità incivile. Sono rimasto a indagare il margine, ma con uno sguardo diverso, direi più ricco. Non ho abbandonato la lotta contro lo spopolamento delle aree interne, ci ho aggiunto l’attenzione al sacro che ancora resiste in quelle aree, come se Dio amasse i luoghi dove non c’è partita Iva. Da qui è arrivato un libro come Sacro minore o un film come Nuovo cinema paralitico, realizzato con Davide Ferrario. Guardare il mondo quasi come un’attività nostalgica, considerando che stiamo tutti diventando senza mondo, considerando che non bisogna dare per scontata l’esistenza del mondo, come se la fuga nel digitale potesse trafugarlo e lasciarci come ombre vaganti in una terra di nessuno. Una volta si indagava il mistero della vita dopo la morte, adesso è da indagare il mistero della morte che dilaga dentro la vita, dilaga quanto più la morte viene rimossa, occultata dal fervore masochistico del consumare e produrre. Ecco che dal guardare, dalla semplice postura contemplativa, la questione diventa più complessa, diventa politica: non è in gioco solo il nostro modo di abitare la giornata, ma il modo in cui l’umanità abita il pianeta. Si tratta di prendere atto che il modello imperante produce solitudine e depressione negli individui, produce ingiustizie sociali e danni enormi al pianeta. Qualcuno ha detto che la bellezza salverà il mondo. Forse ora si potrebbe dire che il mondo lo salveranno i percettivi. FRANCO ARMINIO
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È troppo facile pensare l'informe come l'opposto della forma.E pensare alla forma versus la materia. Perché questo ��versus” riempie sempre i compiti della forma, che sono di creare delle opposizioni binarie, di separare il mondo in coppie di opposizioni nette, per mezzo di “ redingote matematiche”, secondo l'espressione di Bataille. Forma versus materia. Maschile versus femminile. Vita versus morte. Interno versus esterno. Verticale versus orizzontale ecc.. Il caos opposto alla forma è un caos che potrebbe sempre prendere forma, poiché la forma è da sempre lì ad attendere il caos.
Dobbiamo piuttosto pensare l'informe come qualcosa che è creato dalla forma stessa, secondo una logica che agisce logicamente contro se stessa, dall'interno, per cui la forma produce un’eterologia. Consideriamolo non come l'opposto della forma, ma come una possibilità che opera nel cuore della forma, per eroderla.
[...]
L'impiego che faccio dell'inconscio ottico così come è stato evocato nelle pagine di questo libro si riferisce dunque a quello di Benjamin. Se è possibile dire che si presenta come isolato nel campo del visivo, e perché così l'ha voluto un gruppo disparato di artisti che l’hanno “costruito” come proiezione dell’idea che la visione umana è ben lungi dal padroneggiare tutto ciò che abbraccia con lo sguardo, poiché è in conflitto con l’interno dell’organismo che essa abita.
Rosalind Krauss, "L'inconscio ottico"
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LA MORTE DI PITON PER AMORE
L'interpretazione è quella canonica e il riassunto proviene dal capitolo 5 del libro di Laura Anna Macor, "Filosofando con Harry Potter" (Mimesis).
- SETTE ANNI DI GUAI -
Piton è il personaggio piu' sfuggente e contraddittorio perche', se ufficialmente e' schierato coi "buoni", non fa corrispondere a questa scelta un cambiamento di psicologia o una differenza di comportamento. Fin dal primo anno si dedica a salvare Harry Potter lanciando un controincantesimo che impedisce al professor Raptor di uccidere il bambino nella partita di quidditch: eppure Piton odia Harry, perche' è il figlio dell'uomo che lo bullizzava a scuola - James Potter. E Potter fu anche quello che gli porto' via la ragazza che amava: Piton non ha mai cambiato il suo punto di vista.
Il secondo anno, scoperta la gatta pietrificata, sostiene che potrebbe non essere stato Harry Potter ma lo dice come se facesse del sarcasmo.
Il terzo anno nessuno ha ancora capito che Sirius Black è innocente del tradimento dei genitori di Harry e della loro conseguente morte: benche' Piton odi Remus Lupin profondamente, non e' per odio che si oppone all'idea di assumerlo come insegnante, bensi' perche' era amico di Sirius e ritiene che potrebbe avere la tentazione di aiutarlo ad entrare a scuola, per consentirgli di uccidere Harry.
Durante il quarto anno, il Veritaserum che serve a tirare fuori la verita' da Barty Crouch jr proviene da Piton.
Nel quinto anno, Piton scopre che la visione trasmessa ad Harry di un Sirius Black torturato all'Ufficio Misteri era falsa. Pertanto avverte i membri dell'Ordine della Fenice perche' vadano in aiuto dell'esercito di Silente.
Durante il sesto anno, dopo aver ucciso Silente che stava proteggendo Harry Potter, impedisce ai Mangiamorte di torturare il ragazzo.
Nonostante tutto cio', è palpabile la sua avversione per ogni membro dell'Ordine, il disprezzo per individui di sangue non puro, il disgusto per chi cerca e accetta la compagnia di creature "subumane" come lupi mannari ed elfi domestici.
- IL NOCCIOLO DEL PROBLEMA -
< Che valore ha una scelta che non modifica in alcun senso il carattere di una persona?> (Cit.)
La chiave di lettura fornita dalla Macor deriva dal rapporto che ciascun personaggio, Piton in particolare, ha con la morte.
Dopo gli anni di scuola, Lily sposa il giovane che aveva bullizzato Piton e lo fa essenzialmente perche' membro dell'Ordine. Peraltro, lo stesso Piton da ragazzo tendeva a bullizzare i maghi nati babbani, da solo o in compagnia di altri Serpeverde. Non vede in questo comportamento una frattura o una contraddizione, come se Lily fosse altro da se stessa, un'idea della sua mente.
Severus Piton ammette davanti a lei le molestie ad altre babbane ma non ne comprende appieno la gravita'. È maligno, ma non corrotto, in caso contrario mentirebbe. È interessato unicamente ai propri desideri, ma non e' falso; tuttavia il suo è un amore immaturo rimasto ai primi anni dell'infanzia.
Piton diventa un Mangiamorte seguace di Voldemort, in parte per lenire la delusione d'amore, ma anche perche' convinto degli ideali della purezza della razza.
- DUE AMORI -
L'amore per Lily è cio' che lo ha convinto a passare definitivamente alla magia oscura, ma e' la morte di Lily che lo induce a diventare spia per conto di Silente.
Come puo' lo stesso sentimento spingere a due comportamenti antitetici?
La confusione è aumentata dal fatto che il Patronus di Piton è una cerva, come quello di Lily, il che denota sincerita' di sentimenti. Pero' non e' chiaro se lo sia sempre stato o se il Patronus sia diventato cosi' dopo la morte dell'amata, uccisa per mano di Voldemort.
Dopo aver implorato il signore oscuro di risparmiare la donna in cambio del marito e del figlio - inviano - Piton passa i successivi 17 anni a complottare contro il suo vecchio signore, facendogli credere di essergli ancora alleato. E senza dubbio Voldemort ci crede, perche' la loro ideologia condivisa vuole che Lily fosse un capriccio, un desiderio rimpiazzabile da una piu' degna pretendente di sangue puro.
Piton tuttavia non si sposa, ma chiede a Silente che nessun altro sappia le sue reali intenzioni, di fatto gettando fango su di se'. Ancora una volta, non e' con Voldemort che ha un conto in sospeso, ma con se stesso.
- LO SCOPO E LE INTENZIONI -
Se manifestare antipatia verso Harry Potter servisse al suo scopo di spia, egli dovrebbe dimostrare comprensione ed empatia verso il ragazzino, nelle occasioni in cui parla da solo con Silente. Invece il suo atteggiamento non cambia.
Piton si divide tra l'amore infantile - ma puro - l'amore maturo, corrotto e consapevole, e l'avversione per gli altri personaggi, per lo piu' conosciuti negli anni di scuola. L'amore infantile è quello dominato dall'egocentrismo e dal sacrificio chiesto agli altri. L'amore maturo porta al sacrificio di se', ragion per cui è probabile - anche se non reso esplicito - che Piton non avesse Patronus prima di apprendere della morte di Lily. O che ne avesse uno differente.
< Non stupisce che Harry ne rivendichi la centralita' (del Patronus) come testimonianza della fedelta' di Piton a Silente nel dialogo che precede il suo scontro finale con Voldemort. > (Cit.).
- LE NOSTRE CONVINZIONI -
L'odio che Piton nutre per i propri alleati, anziche' diminuire la credibilita' delle sue scelte, sembra esortare a "curare cio' che ci unisce, non cio' che divide". Il filosofo Vaihinger scrisse che le nostre idee e convinzioni non descrivono la realta', ma danno comunque una direzione che migliora la vita. "Comportati come se fosse vero", disse. Piton fa qualcosa di piu', si comporta come se ci credesse, dal momento che anche quella di Vaihinger è una convinzione.
< Egli non si limita a riconoscere la propria parte di colpa ne' acconsente semplicemente a proteggere Harry (...) Non porta solo dentro di se' il ricordo dell'errore commesso, quasi morso interiore che preclude il raggiungimento di qualsiasi felicita', ma sceglie consapevolmente e ripetutamente di confermare la decisione presa a suo tempo > (Cit.)
La morte per amore, invece dell'amore per la morte come era nei progetti iniziali.
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" Nel novembre 1972, Oriana Fallaci riuscì a intervistare Henry Kissinger, che gestiva i destini dell’America in Vietnam. Kissinger si dipinse come «il cowboy che guida la carovana, che entra tutto solo nella città. Come nei western». «Agli americani ciò piace immensamente» aggiunse. Il paragone era ciò che la Fallaci aspettava per trovare una conferma al ritratto di uomo vanitoso che s’era fatto dell’allora potentissimo assistente agli affari esteri di Nixon. Così lei, insistendo sull’argomento, nella domanda successiva completò astutamente l’identikit, accostando Kissinger all’attore Henry Fonda, icona dell’eroe disarmato pronto a menar botte per onesti ideali. E lui lusingato riprese: «Esser solo ha sempre fatto parte del mio stile».
Un’apoteosi. Pubblicata su «L’Europeo», e poi ripresa per intero da numerosi giornali americani, l’intervista creò a Washington un putiferio. Kissinger, che dopo il successo della «diplomazia del ping-pong» con la Cina godeva di una stampa generosa, fu definito un presuntuoso pronto a oscurare Nixon. E la satira dell’uomo con cappellaccio e speroni invase i giornali. Finì per smentire quelle dichiarazioni che gli procurarono un paio di settimane di gelo nei rapporti col presidente: «Non mi sono paragonato a un cowboy solitario, Miss Fallaci ha distorto il mio pensiero: come ho fatto ad accettare quell’intervista, non lo so. È stata la cosa più stupida della mia vita!». La reazione di Oriana fu in tipico Fallaci style. Mandò a Kissinger un lunghissimo e furente telegramma in cui considerava la smentita un insulto alla sua onestà e alla sua professionalità. «Chiunque può ascoltare la registrazione dell’incontro!». La lite è rimasta come uno degli episodi più gustosi nella letteratura delle interviste che la Fallaci ha fatto ai potenti della Terra. Al pari del clamoroso gesto davanti a Khomeini, quando, per reazione al giudizio che l’imam aveva delle donne, si levò il chador. Chi aveva ragione tra Oriana e il cowboy Kissinger? A un anno dalla morte [di Oriana Fallaci], il «Corriere della Sera» ha ritrovato il nastro dell’intervista. Lo custodisce François Pelou, il giornalista della France Presse che fu legato sentimentalmente a Oriana in quegli anni. Il verdetto del dialogo dà sostanzialmente ragione alla Fallaci. Le parole di Kissinger sono più scarne di quanto fu pubblicato da «L’Europeo» e successivamente nel libro Intervista con la storia. Inoltre il politico americano non pronuncia la parola “cowboy”. Ma si definisce effettivamente il condottiero solitario nel Far West: il nocciolo c’è. "
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Brano tratto dall'articolo di Alessandro Cannavò «Fallaci contro Kissinger: aveva ragione lei» pubblicato sul «Corriere della Sera» il 10 settembre 2007, ad un anno dalla morte della giornalista.
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Lunedì 23 Settembre 2024 alle ore 20.30 il GdL "Chiave di Lettura", presso i locali della Biblioteca San Valentino, si incontrerà per discutere insieme del libro “Oltre l’inverno” di Isabel Allende proposto dalla nostra Arianna Pascetta
Lucía, cilena espatriata in Canada negli anni del brutale insediamento di Pinochet, ha una storia segnata da profonde cicatrici: la sparizione del fratello all’inizio del regime, un matrimonio fallito, una battaglia contro il cancro, ma ha anche una figlia indipendente e vitale e molta voglia di lasciarsi alle spalle l’inverno. E quando arriva a Brooklyn per un semestre come visiting professor si predispone con saggezza a godere della vita. Richard è un professore universitario spigoloso e appartato. Anche a lui la vita ha lasciato profonde ferite, inutilmente annegate nell’alcol e ora lenite solo dal ferreo autocontrollo con cui gestisce la sua solitudine; la morte di due figli e il suicidio della moglie l’hanno anestetizzato, ma la scossa che gli darà la fresca e spontanea vitalità di Lucía restituirà un senso alla sua esistenza. La giovanissima Evelyn è dovuta fuggire dal Guatemala dove era diventata l’obiettivo di pericolose gang criminali. Arrivata avventurosamente negli Stati Uniti, trova impiego presso una facoltosa famiglia dagli equilibri particolarmente violenti: un figlio disabile rifiutato dal padre, una madre vittima di abusi da parte del marito e alcolizzata, un padre coinvolto in loschi traffici. Un incidente d’auto e il ritrovamento di un cadavere nel bagagliaio della macchina che saranno costretti a far sparire uniranno i destini dei tre protagonisti per alcuni lunghi giorni in cui si scatena una memorabile tempesta di neve che li terrà sotto assedio.
Isabel Allende (1942) è una scrittrice e giornalista cilena naturalizzata statunitense. Considerata una delle scrittrici più famose dell'America Latina, “La casa degli spiriti” è il suo romanzo più famoso. Ha partecipato a molti tour mondiali per promuovere i suoi libri e ha anche insegnato letteratura in vari college statunitensi. Vive in California dal 1989 e ha ottenuto la cittadinanza statunitense nel 2003. Nel settembre 2010 è stata insignita del Premio Nazionale di Letteratura del Cile. Ha scritto romanzi basati sulle sue esperienze di vita, ma ha anche parlato delle vite di altre donne, unendo mito e realismo, ha scritto anche romanzi storici, come “Inés dell'anima mia”, basato sulla vita di Ines Suarez, la prima spagnola ad aver raggiunto il Perù, oltre a “L'isola sotto il mare” che racconta la vita di una schiava di nome Zarité a Santo Domingo, ora Haiti, alla fine del XVIII secolo. La sua opera viene accostata al movimento letterario conosciuto come posboom, anche se alcuni studiosi preferiscono il termine novisima literatura. Questa corrente è caratterizzata dal ritorno al realismo e da una prosa più facile da leggere. Si abbandona il tentativo di creare nuovi modelli di scrittura (metaletteratura), e si pone l'accento sulla storia e la cultura locale.
Se volete partecipare, contattateci all'indirizzo mail: [email protected] oppure all'indirizzo, sempre mail, [email protected] e riceverete, in prossimità dell’incontro, il link di riferimento.
Vi aspettiamo per confrontarci insieme su questa autrice e scoprire il suo libro, non mancate!!!
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«Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacinque chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie. Per quanto mi ricordassi, avevo sempre cercato di non esistere. Tu hai dovuto lavorare per anni per farmi accettare la mia esistenza. La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest'uomo sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione; non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri [...]. Ciascuno di noi vorrebbe non sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme».
“Lettera a D. Storia di un amore”, opera di André Gorz
Gorz scrisse queste pagine nel 2006. Il 22 settembre 2007, lui e la moglie si sono suicidati assieme. Lei era malata di tumore. Il libro si apre e si chiude con lo stesso periodo: "Hai appena compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorato di te un'altra volta e porto di nuovo in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie... Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme". Otto righe di perfezione, amore e dolore assoluti.
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Ho ucciso l'angelo del focolare. È stata legittima difesa.
Mi accorsi che se volevo recensire dei libri, dovevo combattere contro un certo fantasma. E il fantasma era una donna, e quando imparai a conoscerla meglio la chiamai come la protagonista di una famosa poesia, la chiamai l’Angelo del focolare. Era lei che quando scrivevo una recensione si metteva in mezzo tra me e il mio foglio. Era lei che mi angustiava e mi faceva perdere tempo e mi tormentava a tal punto che alla fine la uccisi. Voi che appartenete a una generazione più giovane e più felice forse non capite che cosa intendo per Angelo del focolare. Proverò a descrivervela il più brevemente possibile. Era infinitamente comprensiva. Era estremamente accattivante. Era assolutamente altruista. Eccedeva nelle difficili arti del vivere familiare.Si sacrificava quotidianamente. Se c’era il pollo, lei prendeva l’ala; se c’era uno spiffero, ci si sedeva davanti lei; insomma era fatta in modo da non avere mai un pensiero, mai un desiderio per sé, ma preferiva sempre capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri. E soprattutto(non occorre dirlo) era pudica. Il pudore era ritenuto la sua bellezza piu grande, i suoi rossori il suo più bell’ornamento. A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria) ogni focolare aveva il suo Angelo. E quando incominciai a scrivere me la trovai davanti alle prime parole. L’ombra delle sue ali cadevano sulla mia pagina; sentivo nella stanza il fruscio delle sue gonne. Non appena presi in mano la penna per recensire il romanzo di quell’uomo famoso, insomma, lei mi scivolò alle spalle sussurrandomi:« Mia cara, sei una ragazza giovane. Stai scrivendo di un libro che è stato scritto da un uomo. Sii conprensiva; sii tenera, lusinga, inganna, usa tutte le arti e le astuzie del nostro sesso. Non far mai capire che sai pensare con la tua testa. E soprattutto, sii pudica. » E fece come per guidare la mia penna. Ora voglio registrare l’unico gesto per cui mi assumo qualche credito, anche se di diritto il credito va dato a certi miei ottimi antenati che mi lasciarono una certa somma di denaro (facciamo cinquecento sterline I’anno?), sicché non mi trovavo nella necessità di dipendere esclusivamente dalle mie grazie per sopravvivere. Mi voltai e l’afferrai per la gola. Feci del mio meglio per ucciderla.
La mia giustificazione, se mi avesse trascinata in tribunale, sarebbe stata che avevo agito per legittima difesa.Non l’avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dai miei scritti. Perché, e me ne resi conto subito appena impugnata la penna, non si può recensire neppure un romanzo senza pensare con la propria testa, senza esprimere quella che secondo noi è la verità sui rapporti umani, sulla morale, sul sesso. E di tutti questi problemi, secondo l’Angelo del focolare, le donne non devono parlare liberamente e apertamente; le donne devono ammaliare,devono conciliare, devono, per dirla brutalmente, dire bugie se vogliono avere successo. Perciò, ogni volta che avvertivo l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola, afferravo il calamaio e glielo scagliavo contro. Ce ne volle per farla morire. La sua natura fantastica le dava un vantaggio. È molto piu difficile uccidere un fantasma che una realtà. Credevo di averla liquidata e invece eccola li di nuovo. Benché mi lusinghi di averla uccisa infine, fu una lotta durissima; che richiese del tempo che sarebbe stato piu utilmente impiegato a imparare la grammatica greca; o a girare il mondo in cerca di avventure .Ma fu una vera esperienza; un’esperienza che doveva toccare a tutte le donne scrittrici a quell’epoca. Uccidere l’angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice.
Virginia Woolf, La morte della falena e altri saggi, 1942.
Illustrazione: Liuba Gabriele
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Marjane Satrapi
Marjane Satrapi, fumettista, regista, sceneggiatrice e illustratrice, con il suo lavoro illustrato ha dato voce all’Iran contemporaneo.
È l’autrice del famosissimo Persepolis, il primo fumetto autobiografico sulla storia iraniana poi diventato un film, nel quale descrive la sua infanzia in patria e la sua adolescenza in Europa. La protagonista è una bambina, i suoi giochi, la scuola e la scoperta del rock, che si svolgono in mezzo all’ascesa del fondamentalismo religioso in Medio Oriente.
Una riflessione sui comportamenti legati alla superficialità e al pregiudizio che portano a identificare un paese, un’intera civiltà, con alcuni estremi, drammatici aspetti della sua storia recente.
Scritta con l’intento di “ribattere ai pregiudizi sul mio Paese senza essere interrotta” è la saga di una famiglia iraniana a Teheran tra il 1960 e il 1990.
Sua è anche l’immagine simbolo della lotta delle donne iraniane contro il regime: Donna, Vita, Libertà.
Nata a Rasht, il 22 novembre 1969, è stata educata secondo principi progressisti da genitori illuminati, che, per evitarle il clima oppressivo ed estremista del regime di Khomeini, l’hanno fatta studiare prima al Liceo Francese di Teheran e poi, ancora giovanissima, a Vienna, dove ha dovuto fare i conti con pregiudizio e razzismo nei suoi confronti.
Nel 1988, alla fine della guerra con l’Iraq, è tornata a casa e ha frequentato la Facoltà delle Belle Arti. Incapace di reggere il clima di censura e privazione delle libertà, terminati gli studi, si è trasferita prima a Strasburgo e poi a Parigi dove, frequentando l’Atelier des Vosges, gruppo di disegnatori e disegnatrici che hanno dato vita al movimento d’avanguardia della Nouvelle bande dessinée.
Nel 2001 è nato il suo capolavoro Persepolis che ha riscosso subito un grande successo grazie allo stile semplice e immediato del disegno, volutamente naif e talvolta elementare, sempre efficace.
Il libro ha venduto oltre tre milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in oltre venti lingue. La storia ha assunto un carattere universale grazie all’astrazione conferita dal segno in bianco e nero e alla semplificazione delle figure. La forma del romanzo grafico è riuscita magistralmente a sintetizzare specificità culturali entrando in comunicazione con culture e età diverse.
Nel 2007 ne è stato tratto l’omonimo film d’animazione candidato al Premio Oscar nel 2008. Scritto e diretto da Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud è stato realizzato interamente a mano, secondo le tecniche più tradizionali, per ricreare il segno del fumetto.
Dopo Persepolis ha pubblicato Taglia e cuci, Pollo alle Prugne con cui ha vinto l’Oscar del fumetto al festival internazionale di Angoulême, Il sospiro, favole persiane, Il velo di Maia. Marjane Satrapi o dell’ironia dell’Iran.
La trasposizione filmica di Pollo alle prugne, in live action, del 2011, è stata presentata in anteprima alla 68ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ha anche diretto The Voices (2014) e Radioactive (2019).
La sua ultima fatica letteraria è stata Donna, vita, libertà, in cui ha riunito esperti di storia, politica e comunicazione e i più grandi talenti del mondo del fumetto per raccontare l’evento che ha segnato la storia contemporanea: l’uccisione di Mahsa Amini dovuta al pestaggio della polizia morale perché non indossava “correttamente” il velo. La morte della giovane ha scatenato in tutto l’Iran un’ondata di protesta che ha dato vita a un movimento femminista senza precedenti.
Marjane Satrapi vive e lavora a Parigi, collabora con numerose riviste e cura una colonna illustrata per il The New York Times.
Nel 2024 è stata insignita del prestigioso Premio Principessa delle Asturie 2024 per la comunicazioni e gli studi umanistici per “la sua voce essenziale nella difesa dei diritti umani e della libertà“.
Nella motivazione, la giuria ha evidenziato che “è un simbolo dell’impegno civico guidato dalle donne. Per il suo coraggio e la sua produzione artistica è considerata una delle persone più influenti nel dialogo fra culture e generazioni“.
Nel ringraziare per il riconoscimento, Marjane Satrapi ha affermato: “approfitto l’opportunità per celebrare la feroce lotta del mio popolo per i diritti umani e la libertà. Oggi si onorano tutti i giovani che hanno perso la vita e a quanti continuano nella battaglia per la libertà in Iran“. E ha dedicato il premio a Toomaj Salhebi, artista di rap, condannato a morte per il suo canto alla libertà.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
L’ESPRESSIONE
Si tolgano all’arte due parole: bellezza e artistico. Si adotti, invece, il termine "espressione". Attraversata su questo versante, l’arte ritrova la sua essenza multiforme, i suoi “sensi”, plurali, diffusi, ricchi di significati, appartenenti a una dimensione culturale collettiva, di mille voci che trovano “espressione” in un gesto, in un’immagine pittorica, in un tratto di scalpello, nelle innumerevoli tecniche, moltiplicate da altrettanti strumenti, sorte nel corso del ‘900 e poi in questo primo ventennio del XXI secolo. Dunque, l’arte ha attraversato e continuerà a percorrere cammini imponderabili, tutti orientati nel verso della libertà e della sensibilità, sublimandosi con efficacia oppure ingaggiando una polemica contrapposizione con se stessa. Poiché è dell’arte, di ogni forma che l’uomo plasma per esprimersi, la manifestazione di un pensiero sul mondo capace di rappresentarne una traccia nel tempo. Una traccia non sempre lineare, spesso equivoca, ambigua, sconcertante, che racchiude una critica feroce all’arte della crisi e dell’identità perduta: come la “Merda d’artista” di Piero Manzoni (1933-1963), datata 1961, conservata nel Museo del Novecento a Milano. Il manifesto dell’arte concettuale contro l’arte concettuale. Quale migliore espressione per i mille detrattori dell’arte contemporanea? Ecco come diviene traccia che promana da un’esperienza collettiva: la soggettività è solo la maschera di una struttura formata dalla relazione, che è nel tempo e nello spazio, imprescindibile erede di stratificazioni millenarie. Così, quella traccia, nell’arte è: tragedia e commedia, meditazione e impulso, armonia e caos, convenzione e dissacrazione, gioco polemico e significato profondo, sacro e profano, vita e morte, il fanciullo e l’adulto, gioia e terrore, mimesi e simbolo, reale e irreale, razionale e irrazionale, sensuale e orrida, intelligente e sciocca, libera e servile, ammaliante e disgustosa, palese e indecifrabile, geniale e banale. L’arte è l’umanità che nasconde e che rivela. Espressione muta. Eppure, l’unica a poter irrompere nel silenzio di una stanza nascosta: la coscienza.
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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