#genio poetico
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Amir Temur: il fondatore dello stato centralizzato e la sua eredità eterna
La figura di Amir Temur rappresenta determinazione, coraggio e saggezza, creando un grande regno e unificando Movarounnahr. La poesia “Il genio della poesia è Muhammad Yusuf” celebra la grandezza di un altro genio uzbeko.
La figura di Amir Temur rappresenta determinazione, coraggio e saggezza, creando un grande regno e unificando Movarounnahr. La poesia “Il genio della poesia è Muhammad Yusuf” celebra la grandezza di un altro genio uzbeko. Amir Temur e la nascita di uno stato forte.Nel secondo quarto del XIV secolo, Movarounnahr era divisa in numerosi stati indipendenti. La difficile situazione politica…
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La miniserie su Leopardi mi è piaciuta molto.
Confermo ciò che già pensavo. Giacomo Leopardi ha avuto una mente e un'anima gigantesche inserite in un contesto mediamente composto da persone ottuse, a partire dai suoi genitori. Cresciuto rinchiuso in una casa, la sua mente e la sua anima già viaggiavano oltre.
La sua anima inquieta e il suo essere un tipo fragile e solitario non hanno fatto altro che concorrere alla formazione del suo assoluto genio poetico e filosofico. Giacomo nei sui componimenti non metteva tuttavia in risalto solo tristezza e malinconia, ma anche bellezza e amore.
Approfondirò sicuramente in misura maggiore questo grande genio. Merita assolutamente.
#pensieri#riflessioni#scrittura#frasi#frasi tumbrl#frasi pensieri#frasi italiane#poesia#filosofia#leopardi#bellezza
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ora io vi vedo storcere il naso, baricco qua baricco là, inventandovi cazzate sull'aria che sposta il suo ego quando cammina e vi autoconvincete pure, ché, se lo pensate, dovrà essere vero. stolti. iniziate a scrivere così, poi ne parliamo
ALESSANDRO BARICCO su CARMELO BENE, LA POESIA, LO SCRIVERE E TUTTO QUANTO
Carmelo Bene. Me l'ero immaginato definitivamente ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, e triturata dal suo stesso genio, portato via su galassie tutte sue, a doppiare pianeti che sapeva solo lui. Perduto, insomma. Poi ha iniziato a girare con questo suo spettacolo anomalo, una lettura dei Canti Orfici di Dino Campana.
L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti lui. A Napoli, all'Augusteo. Scena buia, solo un leggio. Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi. Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso. Cinquanta minuti, non di più. Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo.
Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo.
Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. Così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po' vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa.
Diceva Valéry che il verso poetico è un'esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c'è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento.
È meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l'idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un'ipotesi.
Non spiega quasi nulla, Carmelo bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell'oblio. Non so gli altri: ma a me m'ha fulminato. L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell'istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l'inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all'ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa c'avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un'ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l'avevi fatta, e avevi scritto una poesia.
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Simone Weil nasceva oggi, 3 febbraio, centoquindici anni fa. Simone la visionaria, il genio poetico, la digiunante, la mai stata baciata. Nata ebrea ma poi divenuta cristiana senza sacramenti, senza battesimo, senza gerarchia. Simone che "la Croce da sola mi basta".
Eri professoressa di liceo ma sei voluta andare a lavorare in fabbrica, nonostante la tua salute già compromessa, per sentire fin dentro la carne la condizione operaia, e poi sei andata a fare la rivoluzione in Spagna, e infine ti sei lasciata morire, sul quel letto a Londra, rifiutando il cibo, per mettere in atto, davvero e non solo a parole, il nucleo centrale del tuo pensiero, ovvero l'idea di decreazione.
Dio per farci esistere s'è ritratto, cercare Dio è asportarsi dal mondo. Creare quel vuoto che lui, lei, ləi ha voluto affinché il nostro essere avesse lo spazio per apparire. Cercare Dio è disfare la creazione, farci a pezzi ovvero farci mangiare. Un'idea né propriamente cristiana né propriamente ebraica. Un'idea sovrannaturale, radicale e piena di grazia, che ci turba e commuove, come ogni cosa in te.
Simone, che non ha mai conosciuto l'amore dei corpi ma i cui scritti vibrano d'un trasporto erotico teso e perfetto, Simone, che amavi la Grecia, il suo pensiero e i suoi miti, ma che amavi soprattutto le civiltà sconfitte, quelle cancellate dalla faccia della terra, tutte le comunità e le culture annientate dalla Bestia sociale, dall'Impero, dal regno della forza.
Simone non convertita ma sempre sulla soglia, luogo di possibilità più che di adesione o appartenenza, il luogo di chi non viene ammesso. Simone, che ci hai insegnato a pensare senza dimenticare la vita, e le sue contraddizioni, dolorose e liberatorie, dal cui attrito, qui e là, sa prodursi la scintilla del senso. Simone, esteta feroce e senza misura, sacerdotessa alla ricerca del tempio perduto, autentica figlia di Urano e Nettuno, tutta né cuore né testa, ma spirito, Simone tutta spirito, facoltà che diffida da ogni identificazione ovvero catena.
Ai genitori poco prima di morire affidasti alcune parole, saluto ed eredità, lascito di tutta una vocazione: “Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi. Dovunque c’è una cosa bella, ditevi che ci sono anch’io“.
Jonathan Bazzi
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Alessandro Baricco "racconta" Carmelo Bene
Carmelo Bene. Me l'ero immaginato definitivamente ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, e triturata dal suo stesso genio, portato via su galassie tutte sue, a doppiare pianeti che sapeva solo lui. Perduto, insomma. Poi ha iniziato a girare con questo suo spettacolo anomalo, una lettura dei Canti Orfici di Dino Campana.
L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti lui. A Napoli, all'Augusteo. Scena buia, solo un leggio. Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi. Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso. Cinquanta minuti, non di più. Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo.
Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo.
Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po' vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa.
Diceva Valéry che il verso poetico è un'esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c'è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento.
È meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l'idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un'ipotesi.
Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell'oblio. Non so gli altri: ma a me m'ha fulminato. L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell'istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l'inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all'ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un'ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l'avevi fatta, e avevi scritto una poesia.
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"La poesia più breve è un nome." Che pensiero curioso. Considerare che un nome, una sola parola, può racchiudere così tanto — eppure così poco. Forse è la forma più pura di poesia, distillata alla sua essenza. Un nome è un segno, un simbolo, un suono. Ma in quel suono fugace si nasconde l'intera storia di una persona, di un luogo, di un'idea. Prendiamo, ad esempio, le opere senza tempo di Shakespeare. Si potrebbe sostenere che Shakespeare, in tutto il suo genio, abbia compreso il potere di un nome meglio di chiunque altro. Romeo e Giulietta: quei due soli nomi, pronunciati nel silenzio di un teatro, suscitano emozioni. La faida tra i Montecchi e i Capuleti non è semplicemente una faida di famiglie, ma di identità, di nomi che racchiudono in sé generazioni di significati, amore e dolore. Giulietta dice: “Cosa c'è in un nome? Quella che chiamiamo rosa con un altro nome avrebbe lo stesso profumo”. Eppure, nonostante la sua protesta, il nome Montecchi ha ancora un peso. Non è solo una parola; è un lignaggio, un fardello, un'eredità. Lei lo sa, Romeo lo sa. E ad ogni pronuncia dei loro nomi, sentono sia l'attrazione del destino che il peso della storia. L'etimologia stessa della parola nome è affascinante. Dall'inglese antico nama, derivato dal protogermanico namô, risale ancora più indietro al protoindoeuropeo nomen, che significa “nominare” o “chiamare”. Il nome, nella sua forma più antica, era un richiamo, un modo per evocare qualcuno o qualcosa. Era un potere, e con il potere arrivava l'identità. Diventava un legame, un filo che collegava gli individui alle loro comunità, ai loro antenati, al loro destino. Che cos'è allora un nome? È molto più che un accozzaglia di lettere. È una rivendicazione. Un nome è un dono, ma a volte sembra più una condanna. Nei nostri nomi ereditiamo eredità di amore, ma anche di conflitti, di aspettative. Dal momento in cui ci viene dato un nome, esso inizia a plasmarci. Diventa parte del nostro paesaggio emotivo. Ci cresciamo dentro, o a volte ci ribelliamo ad esso, cercando di ridefinire chi siamo a prescindere da esso. In un certo senso, i nomi sono uno specchio. Ci riflettono chi siamo e chi siamo destinati a essere. Ma sono anche in continua evoluzione, perché il modo in cui ci chiamiamo, in cui ci rivolgiamo, definisce il modo in cui siamo visti. Considerate le emozioni che si provano intorno a un nome: l'emozione di sentire qualcuno pronunciare il vostro nome con amore, il dolore quando viene pronunciato con rabbia. C'è potere in un nome che viene sussurrato, che viene gridato, che viene scritto in una lettera, che viene inciso nella pietra. Ma forse il vero peso di un nome deriva dal suo legame con qualcun altro. Quando chiamiamo un altro per nome, lo riconosciamo. Convalidiamo la sua esistenza. Il semplice atto di pronunciare il nome di qualcuno ci lega in un modo che le parole da sole non possono fare. E cosa c'è di più poetico di questo? Un nome, la più breve delle poesie, è un ponte tra i cuori, un riconoscimento di chi siamo in relazione gli uni agli altri. Le grandi tragedie di Shakespeare ce lo ricordano. I nomi Amleto, Ofelia, Macbeth, Lear: ognuno è un filo di un complesso arazzo di emozioni, legami e conseguenze. Ma forse, alla fine, ciò che conta davvero è il nome che ci lasciamo alle spalle. Non perché durerà per sempre, ma perché è stata la poesia che abbiamo vissuto, quella che abbiamo portato con noi, che abbiamo sussurrato sulle labbra di chi abbiamo amato e che abbiamo impresso per sempre nel mondo che abbiamo toccato. Quindi, sì, la poesia più breve è un nome. È una poesia che, una volta pronunciata, può riecheggiare attraverso il tempo, attraverso le generazioni, attraverso i cuori.
#anne michaels#poem#poemi#poema#poesia#nome#etimologia#pensiero#pensieri#infinite gradation#citazioni#citazione#dark academia#dark academia quote#riflessioni#riflessione
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Le notti della morte blu,Eric Fouassier,Neri Pozza.A cura di Barbara Anderson
Ci sono senza alcuna ombra di dubbio le buone letture, le belle letture e poi ci sono quelle come questa: le letture straordinarie. Letture che hanno una ricchezza narrativa, storica, culturale, emotiva, una prosa che unisce il poetico, lo storico, la cultura, la morale, la scienza. Tutto ciò che di più affascinante ci possa essere è messo in un enorme calderone misto tra genio e immaginazione…
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Un mondo di sogni animati: torna il cinema di Isao Takahata Quattro film straordinari, alcuni dei quali inediti sul grande schermo in Italia, ci porteranno in un viaggio poetico e commovente attraverso il genio di Takahata. Info:--> https://www.gonagaiworld.com/un-mondo-di-sogni-animati-torna-il-cinema-di-isao-takahata/?feed_id=457974&_unique_id=6682d6486206b #Cinema #IsaoTakahata #Lastoriadellaprincipessasplendente #StudioGhibli #Unmondodisognianimati
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Raffaello, il figlio del vento di Matthias Martelli, racconto avvincente e poetico sul grande genio dell’umanità Raffaello Sanzio, sarà in scena sabato 27 gennaio alle 21 al Teatro dell’Accademia di Tuoro sul Trasimeno, domenica 28 gennaio alle 18 al Teatro della Filarmonica di Corciano, lunedì 29 e martedì 30 gennaio alle 20.45 al Teatro Secci di Terni. Considerato simbolo di grazia e perfezione, la vita del pittore divino esplode non solo di arte pura, ma anche di felicità, eros, sfide, contraddizioni e perfino polemiche con l’autorità e il senso morale del tempo. Matthias Martelli, accompagnato dalle musiche dal vivo del […]
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26 e 29 ottobre. Il ciclone CARAVAGGIO è arrivato. Il Sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi sarà presente al debutto. * In questa foto avevo tre anni. Fui sorpreso a dipingere di nascosto su una tela di mio padre. Lui mi lasciò fare. Quello nella foto è il quadro che firmammo in due. Sono cresciuto nell'odore dei colori ad olio. Sognavo di fare solo quello, dipingere. Ho passato le notti e i giorni a dipingere. Mi caricavo tele e colori nella mia vecchia 500 e andavo a dipingere sotto i ponti o nei boschi. Ci dovrebbero essere ancora i segni in quei luoghi. Non ho raggiunto nella pittura quello che ho raggiunto in teatro ma ora a teatro, per la prima volta, porto la pittura. Sono per me due vite che convergono e tutto avviene nel segno di un mio amore sensuale ed epidermico, Caravaggio. Mi ha telefonato il prof Vittorio Sgarbi dopo i primi studi estivi. Ho saputo che avete fatto un lavoro valido su Caravaggio, vorrei conoscervi. Ecco ci siamo conosciuti e abbiamo parlato a lungo come forse si faceva tra mecenati e artisti. Sarà presente al debutto del Teatro Kismet e per l'occasione presenterà il suo saggio Ecce Caravaggio. Vittorio Sgarbi, oltre che Sottosegretario alla Cultura del Governo, è uno dei più autorevoli e appassionati studiosi di Michelangelo Merisi. E' un onore. Ora il debutto di Bari (29 ottobre) sarà una lunga serata dedicata alla pittura di Caravaggio durante la quale interverranno anche Teresa Ludovico, Enzo Vetrano, Stefano Randisi. Due giorni prima l'anteprima nazionale sarà al Cantiere poetico per Santarcangelo curato da Fabio Biondi. * “Per quanto terribile il viaggio possa essere nessuno rinuncerebbe a intraprenderlo. L’idea del genio incompreso che si consuma su una tela in una cantina è una favola deliziosamente insensata ed è grazie alla vita di Vincent Van Gogh che questo mito è schizzato in orbita. Insomma quanti quadri ha venduto? Uno? Non riusciva neanche a regalarli. Doveva essere l’artista più moderno e invece non lo voleva nessuno. Proviamo così tanta vergogna per la vita che ha vissuto che la storia dell’arte d’ora in poi sarà un risarcimento per averlo trascurato. Nessuno vuole appartenere ad una generazione che ignora un altro Van Gogh. (…) Quando guardate una nuova immagine per la prima volta non dovete perdere di vista la barca. State molto attenti. Potreste avere davanti l’orecchio di Van Gogh.” dal film Basquiat di Julian Schnabel * CARAVAGGIO. DI CHIARO E DI OSCURO Il progetto ha come produttori la mia stessa compagnia, la compagnia Vetrano/Randisi, Teatri di Bari, Teatro Cristallo e Città di Mesagne - Capitale Cultura di Puglia 2023, madrina istituzionale del progetto.
#luigidelia#teatro#caravaggio#vittorio sgarbi#teatridibari#narrazione#francesconiccolini#enzovetrano#stefanorandisi#santarcangelodiromagna#cantierepoetico
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“All’improvviso” di Fernando Pessoa. Uno sguardo fulmineo e devastante sull’essenza dell’esistenza. Recensione di Alessandria today
"All’improvviso", testo tratto dal genio poetico e filosofico di Fernando Pessoa, è un viaggio travolgente nell'introspezione, una riflessione sull’identità, sulla percezione del sé e sull’inganno della realtà.
“All’improvviso”, testo tratto dal genio poetico e filosofico di Fernando Pessoa, è un viaggio travolgente nell’introspezione, una riflessione sull’identità, sulla percezione del sé e sull’inganno della realtà. Con la sua prosa densa e magnetica, Pessoa descrive l’esperienza folgorante di vedere la propria esistenza per ciò che realmente è: un susseguirsi di illusioni e autoinganni, un teatro…
#Alessandria today#All’improvviso#bellezza della scrittura#consapevolezza esistenziale#epifania della vita#esistenza e identità#Fernando Pessoa#Google News#introspezione filosofica#introspezione narrativa#introspezione psicologica#italianewsmedia.com#Letteratura universale.#letture filosofiche#Pessoa e il senso della vita#Pessoa e il simbolismo#Pessoa e l’essere#Pier Carlo Lava#poesia contemporanea#poesia e filosofia#Prosa Poetica#riflessioni sull’esistenza#Significato della Vita#testi filosofici
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Gli ottant'anni di Lucio Dalla
Gli ottant'anni di Lucio Dalla
Torniamo a parlare di un evento culturale e musicale molto importante.
Un approfondimento interessante era stato già proposto da Vortici.it, in un articolo precedente intitolato: Lucio Dalla. Anche se il tempo passa.
Il protagonista è lo stesso ma questa volta occorre parlare di un avvenimento altrettanto significativo.Arriva a Napoli l’affascinante viaggio nel mondo di Lucio, cantautore iconico, innovativo, immortale, una prerogativa, quest’ultima, propria dei grandissimi artisti. Non esiste luogo migliore per celebrarlo nel giorno del suo 80° compleanno, con la grande mostra - evento ribattezzata per l’occasione: “Lucio Dalla. Il sogno di essere napoletano”, dedicata al suo genio umano e musicale, in corso dal 4 Marzo al 25 Giugno 2023 al MANN - il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, tra le istituzioni culturali più antiche e importanti al mondo. Un viaggio che parte dall’infanzia e ripercorre un percorso straordinario di vita e memoria collettiva, al ritmo delle note delle sue straordinarie canzoni. Non è stato facile raccontare in un’esposizione cinquant’anni di storia. Tutto nasce da una lunga ricerca di materiali, molti dei quali esposti per la prima volta, che documentano l’intero cammino umano e artistico di uno degli artisti italiani e internazionali più amati. Lucio Dalla ha segnato in modo assolutamente unico e innovativo la storia della musica italiana. Un cantore di vita e di suoni che con graffiante ironia e sguardo poetico ha conquistato il cuore di tutti; non era solo musicista ma anche attore, scrittore, regista teatrale, amante dello sport e appassionato di motori, danza, opera lirica, pittura, letteratura, all'attivo un numero impressionante di interessi. L’esposizione è curata da Alessandro Nicosia, insieme alla Fondazione Lucio Dalla. In mostra documenti, foto, copertine dei dischi, video, oggetti, abiti di scena, locandine dei film a cui ha partecipato, manifesti, la ricca collezione di cappelli e berretti, che consentono di scoprire l’intimità di Lucio e vivere la forza della sua anima e della sua musica. La mostra è suddivisa in dieci sezioni: La sua musica, Famiglia - Infanzia - Amicizie - Inizi musicali, Dalla si racconta, Il clarinetto, Dalla e Napoli, Il cinema, il teatro, la televisione, Dalla e Roversi, Universo Dalla, Il museo Lucio Dalla.Dalla e Napoli è la sezione inedita dedicata al rapporto tra il cantante e il capoluogo campano.Di Napoli Dalla apprezzava la folla tra i vicoli, gli odori della cucina, i suoni, le voci, il dialetto, amato a tal punto da studiarlo tre ore a settimana per più di dodici anni. Amava gli scorci sul mare, un mare che navigava spesso con la sua barca Brilla&Billy. Aveva poi un legame profondo con Diego Armando Maradona. Il campione gli aveva donato un orecchino che Dalla indossava sempre volentieri e anche la sua maglia della nazionale argentina – esposti in mostra per la prima volta. Dalla invece gli donò un rosario che conservava dai tempi in cui era negli scout, oggetto che Maradona a sua volta, apprezzò moltissimo. Ad arricchire l’esposizione un importante catalogo edito da Skira che contiene storia, immagini e anche un lungo elenco di straordinarie testimonianze che aiutano a comprendere nel profondo il suo carattere ecclettico. La mostra, promossa dal MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli), diretto da Paolo Giulierini, e Fondazione Lucio Dalla con il Ministero della Cultura, si avvale della collaborazione e del sostegno della Regione Campania. L’esposizione fa parte delle iniziative programmate, nell'ambito degli eventi “Il MANN per la città” e vede la partecipazione di Archivio Luce Cinecittà con il patrocinio della RAI e la collaborazione tecnica della SIAE Società Italiana degli Autori e degli Editori, Universal Music Publishing Group. Immagine di copertina: Ministero della Cultura Read the full article
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Quando Leopardi cerca di rendere con metafore scientifiche, che si richiamano alla dinamica dei fluidi e degli aeriformi, alcuni concetti filosofici e risultati di analisi sociologica, mi fa molta tenerezza, così come ogni rarissima volta in cui mi avvedo che il suo tempo e la sua cultura hanno determinato un lieve sviamento della totale esattezza del suo pensiero.
Mi fa molta tenerezza ogni suo componimento poetico che è diversi gradini sotto alla fulgida perfezione dell'Infinito e di A Silvia e che gli è servito come appunto e promemoria, dal quale poi miracolosamente si è distaccato spiccando il volo.
Mi fa molta tenerezza che ancora a ventisei anni, come a diciannove, preferisse immaginare e sognare una donna piuttosto che frequentarla e prendersi cura di lei; che il suo amore fosse solipsistico ed egoistico, e che considerasse questo tipo di amore degno di essere esposto in un'operetta morale come Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare.
Per quanto si sentisse decrepito già da ragazzo, credo che Leopardi sia morto giovane, quasi bambino.
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Sempre a proposito del "suono - senso"...
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Alessandro Baricco "racconta" Carmelo Bene
Carmelo Bene. Me l'ero immaginato definitivamente ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, e triturata dal suo stesso genio, portato via su galassie tutte sue, a doppiare pianeti che sapeva solo lui. Perduto, insomma. Poi ha iniziato a girare con questo suo spettacolo anomalo, una lettura dei Canti Orfici di Dino Campana.
L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti lui. A Napoli, all'Augusteo. Scena buia, solo un leggio. Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi. Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso. Cinquanta minuti, non di più. Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo.
Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo.
Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po' vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa.
Diceva Valéry che il verso poetico è un'esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c'è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento.
È meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l'idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un'ipotesi.
Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell'oblio. Non so gli altri: ma a me m'ha fulminato. L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell'istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l'inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all'ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un'ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l'avevi fatta, e avevi scritto una poesia.
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(...) en el cielo de los cuartos de hotel se enfrentaban iguales y desnudos y allí podía consumarse la resurrección del fénix después que el la hubiera estrangulado deliciosamente, dejándole caer un hilo de baba en la boca abierta, mirándola extático como si empezara a reconocerla, a hacerla de verdad suya, a traerla de su lado.
Rayuela, Julio Cortázar
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