#fuga dalla città
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Maurizio Carucci Presenta "Non esiste un posto al mondo" ad Alessandria: Un Viaggio tra Natura e Anima
Il 9 novembre alla Ristorazione Sociale di Alessandria, Maurizio Carucci dialogherà con Pierluigi Pasino sul suo nuovo libro, un viaggio intimo e paesaggistico.
Il 9 novembre alla Ristorazione Sociale di Alessandria, Maurizio Carucci dialogherà con Pierluigi Pasino sul suo nuovo libro, un viaggio intimo e paesaggistico. Il 9 novembre, alle ore 18:30, Maurizio Carucci sarà ospite della Ristorazione Sociale di Alessandria per presentare il suo ultimo libro, Non esiste un posto al mondo, edito da HarperCollins. Conosciuto come cantautore e fondatore della…
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L’esule e il cittadino
È bene riflettere su un fenomeno che ci è insieme familiare ed estraneo, ma che, come spesso avviene in questi casi, può fornirci delle utili indicazioni per la nostra vita fra gli altri uomini: l’esilio. Gli storici del diritto discutono tuttora se l'esilio – nella sua figura originaria, in Grecia e a Roma – debba essere considerato come l'esercizio di un diritto o come una situazione penale. In quanto si presenta, nel mondo classico, come la facoltà accordata a un cittadino di sottrarsi con la fuga a una pena (in genere alla pena capitale), l'esilio sembra in realtà irriducibile alle due grandi categorie in cui si può dividere la sfera del diritto dal punto di vista delle situazioni soggettive: i diritti e le pene. Così Cicerone, che aveva conosciuto l’esilio, può scrivere: «Exilium non supplicium est, sed perfugium portumque supplicii», «L'esilio non è una pena, ma un rifugio e una via di scampo rispetto alle pene». Anche quando col tempo lo stato se ne appropria e lo configura come una pena (a Roma questo avviene con la lex Tullia del 63 a.C.), l’esilio continua a essere di fatto per il cittadino una via di fuga. Così Dante, quando i fiorentini imbastiscono contro di lui un processo di bando, non si presenta in aula e, prevenendo i giudici, comincia la sua lunga vita di esule, rifiutandosi di far ritorno alla sua città anche quando gliene viene offerta la possibilità. Significativo è, in questa prospettiva, che l’esilio non implichi la perdita della cittadinanza: l’esule si esclude di fatto dalla comunità a cui continua tuttavia formalmente ad appartenere. L'esilio non è diritto, né pena, ma scampo e rifugio. Se lo si volesse configurare come un diritto, cosa che in realtà non è, l’esilio verrebbe a definirsi come un paradossale diritto di porsi fuori dal diritto. In questa prospettiva, l’esule entra in una zona di indistinzione rispetto al sovrano, che, decidendo dello stato di eccezione, può sospendere la legge, è, come l’esule, insieme dentro e fuori l’ordinamento.
Proprio in quanto si presenta come la facoltà di un cittadino di porsi fuori dalla comunità dei cittadini e si situa pertanto rispetto all’ordinamento giuridico in una sorta di soglia, l’esilio non può non interessarci oggi in modo particolare. Per chiunque abbia occhi per vedere, è infatti evidente che gli stati in cui viviamo sono entrati in una situazione di crisi e di progressivo, inarrestabile disfacimento di tutte le istituzioni. In un simile condizione, in cui la politica scompare e cede il posto all’economia e alla tecnologia, è fatale che i cittadini divengano di fatto esuli nel loro stesso paese. È questo esilio interno che occorre oggi rivendicare, trasformandolo da una condizione passivamente subita in una forma di vita scelta e attivamente perseguita. Dove i cittadini hanno perduto persino la memoria della politica, a fare politica sarà solo chi nella sua città è in esilio. Ed è solo in questa comunità degli esuli, sparsa nella massa informe dei cittadini, che qualcosa come una nuova esperienza politica può qui e ora diventare possibile.
Giorgio Agamben, 7 novembre 2024
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“unafraid to fall” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Il sole stava calando dietro le cime degli edifici, lanciando sfumature di rosso e arancione nel cielo. Sul tetto dell'edificio abbandonato, due ragazzi si tenevano in piedi con il vento freddo della sera tra i capelli.
Nick fissava il tramonto, le mani infilate nelle tasche della giacca sbiadita. Era alto e magro, con i capelli corti e gli occhi che sembravano trattenere un segreto. Al suo fianco, Edo, più piccolo ma dal viso determinato, sfoggiava una giacca di pelle logora.
Non avevano molto da dire, ma c'era un'intesa silenziosa tra loro. Erano fuggiti dalla monotonia della vita quotidiana, cercando qualcosa di più, qualcosa di diverso. Avevano scelto questo vecchio edificio, una sorta di monumento decadente, come loro rifugio. Una fuga dalla realtà, una ribellione silenziosa.
"Guarda là", disse Edo, indicando l'orizzonte. "Sembrano pennellate di un pittore ubriaco."
Nick annuì, senza staccare gli occhi dal cielo in fiamme. "È strano come il mondo possa sembrare diverso da quassù."
Si sedettero sul bordo del tetto, le gambe penzoloni nel vuoto. L'asfalto disegnava la città sotto di loro come un mosaico di luci tremolanti. Il suono della città notturna si faceva sentire lontano, come un sottofondo costante.
Edo tirò fuori una sigaretta dal pacchetto sgualcito e la accese offrendone una a Nick. Fumarono in silenzio, osservando la luce del giorno svanire gradualmente.
"Che ci fai qui, Nick?" chiese Edo alla fine, rompendo l'assenza di parole.
Nick esalò il fumo lentamente. "Sto cercando di capire cosa voglio dalla vita. E tu?"
Edo sorrise debolmente. "Stesso motivo, suppongo. Solo qui sembra che tutto abbia più senso, anche se so che è solo un'illusione."
I loro sguardi si incrociarono per un istante, e capirono. Quel tetto, privo di barriere, era una metafora della loro vita in quel momento. Senza regole, senza confini.
"Abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo, Edo. Qualcosa di più grande di noi stessi", disse Nick, fissando l'orizzonte ora oscurato dalla notte.
Edo annuì, la città sotto di loro si animava sempre di più. "Forse è ora di iniziare a cercare."
Si alzarono in piedi, guardando l'infinito davanti a loro. I due ragazzi, in bilico tra il passato e il futuro, senza paura di cadere.
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'E no, la Terra non ci salverà.
Abbandonata, trascurata, sottovalutata, mai ringraziata, poco, davvero poco lodata, curata, svenduta poi costruita, a volte rubata.
Camminata, più calpestata direi, ridicolizzata, espropriata, avvelenata e desertificata.
Solo chi non la tiene in mano ogni giorno può pensare possa salvarci.
È stanca e provata, asciutta, poi allagata, gli piove sopra quello che non si può dire per vergogna o forse per pudore.
"Shhh, non glielo dire", come chi cade e si rialza "tutto a posto grazie", ma tu lo vedi sanguinare.
No, non ci salverà la Terra, non è la nostra amante da farci una passeggiata quando capita, una parentesi alla noia o al malumore, una fuga dalla realtà, città, una foto in posa.
Non è un'amante, è una sposa davanti all'altare, una "messa" da celebrare e cantare.
È una madre.
Va beh, ci salverà il Mare.
E no, il mare non ci salverà.
Gli abbiamo rubato coste, perle e fondali, sfruttato tutte le rare bellezze, preso il pesce e in cambio, dato grida, barche, uomini, donne e bambini morti.
No, il mare non ci salverà.
E allora ci salverà il Cielo.
Quello intubato, intossicato di scie e aerei andata ritorno andata ritorno e poi ancora andata?
O quello che non può certo rimediare al nostro odiare, perché è noi che lo facciamo e non lui?
No, il cielo non ci salverà, non è un'amante da raccontare, è uno sposo che sta fermo e spera di vederci arrivare.
È un padre.
Quale, quale cielo potrà mai salvarci e perdonarci?
No, questa volta non ci salverà nessuno.
Ci siamo noi, adesso, che dobbiamo salvare: terra, mare, fiumi, laghi, boschi, monti e cielo.
Tutto da rifare, tutto da tornare a ringraziare.'
La Raccontadina
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'Be brave', ©Sara Burrier Art
Figlie della Madre
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“ Carismatico, coraggioso, indomito, Lussu è un figlio della Sardegna più profonda. Nato ad Armungia nel 1890, laureato in Giurisprudenza a Cagliari, amatissimo comandante della brigata Sassari (nella prima guerra mondiale ha ricevuto ben quattro medaglie dopo quattro anni di trincea per azioni sull’altipiano del Carso e della Bainsizza), ex deputato del Partito sardo d’azione, ha pagato cara, fin lì, la sua militanza, ma ha anche ottenuto una gran bella vittoria su un regime che sembra inattaccabile. Capelli e occhi neri, slanciato, elegante, occhiali dalla montatura di metallo, baffi e pizzetto, sguardo ironico e tagliente, in quel periodo si fa chiamare ‘Mister Mill’ e vive in clandestinità. Agli occhi dei giovani dell’epoca, lo dice Joyce stessa, è un personaggio leggendario, per le gesta in Sardegna e per la sua avventurosa fuga da Lipari. I fatti della Sardegna sono questi: la sera del primo novembre 1926, centinaia di fascisti hanno assediato la casa dell’avvocato Lussu. Non è un’azione isolata, è solo una delle rappresaglie che bande di fascisti organizzano in tutta Italia – devastando case, sedi di giornali, picchiando e assaltando – non appena si è diffusa la notizia dell’attentato fallito a Mussolini, avvenuto il giorno prima a Bologna per mano del sedicenne Anteo Zamboni. Lussu, che è un antifascista, ha partecipato alla secessione dell’Aventino dopo l’assassinio di Matteotti, è antimonarchico, ha lavorato a un progetto federalista-rivoluzionario per unire azionisti, repubblicani e socialisti, è nel mirino dei fascisti della sua città: l’ordine è di saccheggiarne la casa e linciarlo sul posto. L’organizzazione dell’assalto, nella sede del fascio, è durata tutta la giornata per cui c’è stato tempo e modo, per Lussu, di ricevere informazioni da voci amiche e preparare una reazione. Gli amici gli consigliano di scappare ma lui decide di restare in casa, situata nella piazza più centrale di Cagliari, lasciandola ben illuminata, «per dare un esempio di incitamento alla resistenza».
Scende in strada per vedere che succede, sente gli squilli di tromba che chiamano a raccolta i fascisti mentre la piazza si fa deserta. Risale, manda via la domestica. La città continua a serrarsi, i negozi abbassano le saracinesche, i cinema si svuotano. Al ristorante vicino casa dove va a pranzare, il cameriere – che è stato un suo soldato durante la guerra e ora è diventato fascista ma nutre ancora grande rispetto del capitano – lo scongiura di partire subito. La sentenza contro Lussu è stata emessa e lo sa tutta Cagliari. Persino gli inquilini del suo palazzo, tra cui un magistrato di Corte d’appello, si chiudono e tacciono terrorizzati. «Incominciai a preparare la difesa. Un fucile da caccia, due pistole da guerra, munizioni sufficienti. Due mazze ferrate dell’esercito austriaco, trofei di guerra, pendevano al muro». Due giovani amici e compagni si presentano per aiutarlo ma lui li congeda senza discutere. Spegne la luce e si avvicina alla finestra. Assiste alla devastazione della sede della tipografia del giornale «Il Corriere» all’angolo, poi a quella dello studio dell’avvocato Angius. Quindi risuona il grido «Abbasso Lussu! A morte!». È sorpreso di riconoscere tra gli assalitori persone che conosce bene, di cui è stato amico o compagno di scuola. La colonna si divide in tre parti e l’attacco arriva da tre punti: una squadra sfonda il portone e sale dalle scale, una cerca di entrare da un cortile sul retro, l’ultima si arrampica dai balconi. «Confesso che, nella mia vita, mi sono trovato in circostanze migliori. I clamori della piazza erano demoniaci. La massa incitava gli assalitori dalle finestre con tonalità di uragano». Lussu lancia un primo avviso, grida «Sono armato!» da dietro le persiane. Poi, mira e spara al primo che arriva sul balcone. Un giovane fascista, Battista Porrà, colpito a morte piomba giù, sul selciato della piazza. Gli altri scompaiono in un lampo. Nonostante lo svolgimento dei fatti dimostri la legittima difesa (e infatti verrà assolto) e nonostante l’immunità parlamentare, Lussu viene portato in carcere. Ci vorrà un anno prima di arrivare a sentenza ma l’ordine di scarcerazione immediata è seguito da un ordine di domicilio coatto. Lussu è condannato alla pena di cinque anni di confino per misure di ordine pubblico e definito «avversario incorreggibile del regime». “
Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2022¹; pp. 31-33.
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Venerabile buongiorno. Senta, non credo mancherà molto all'apocalisse zombie. Nel caso pensavo di tornare in Sardegna. Dovessi svegliarmi con il casino per strada, dovrei uscire dalla città, buttarmi in autostrada e rubare un gommone per scendere nell'isola. Eviterei Genova per ovvi motivi, magari Portofino, così lo inculo a qualche magnaschei del Nord e mi sento meno in colpa. Pensavo di andare in qualche deposito della nettezza urbana e pigliarmi un camion che usano loro, dato che sono belli corazzati e mettermi in viaggio. Ho cibo, sigari, trecento colpi più trenta nei caricatori.
Che dici? Sardegna si, Sardegna no?
In caso no cosa suggerisci?
Il tuo piano presenta molteplici criticità che andrò a elencare in lista dettagliata:
Uscire dalla città. Durante uno zombie outbreak, lo scenario peggiore è proprio quello del cluster metropolitano, dove l'architettura urbana di una grande città si unisce al grande numero di abitanti, esitando in una concentrazione di molti infetti in poco spazio. In base alla classe dell'outbreak, il disingaggio dovrà avvenire con le seguenti modalità:
Classe 1 - pochi contagi, scambiati per tossicodipendenti in crisi di astinenza e trasmissione a personale sanitario. Fuga in macchina utilizzando autostrade e superstrade.
Classe 2 - il numero di infetti aumenta. Allerta delle forze dell'ordine e casi isolati di incidenti e limitati blocchi del traffico. Fuga in macchina evitando zone di ingorgo abituale ed utilizzando solo strade abitualmente scorrevoli.
Classe 3 - considerevole numero di infetti. Blocchi stradali, ingorghi e incidenti. Scegliere un mezzo piccolo, preventivando le vie di fuga e prediligendo strade secondarie.
Classe 4 - la città è infestata da zombie. Carcasse di macchine incidentate bloccheranno ogni strada e ci saranno incendi. A piedi, con un adeguato gruppo armato e preparato. Un mezzo consono verrà recuperato appena fuori dall'area urbana (fuoristrada, mezzo militare o delle forze di polizia).
I suddetti scenari, però, prendono solo in considerazione la modalità più consona per lo sgancio dall'unità urbana, mentre per spostamenti su lunghi tragitti un mezzo pesante (camion della nettezza urbana) ha dalla sua parte senza dubbio la relativa sicurezza del guidatore e dei passeggeri, ma dal punto di vista della manovrabilità e della sussistenza avresti a muoverti su arterie principali congestionate dal traffico o su strade secondarie parimenti intasate; la moto o, meglio, la bicicletta (perché più silenziosa) dovrebbero essere la scelta di elezione.
Sardegna e come raggiungerla. Di seguito, mappa dei principali porti del nord e del centro con relativa distanza nautica di approdo:
La Spezia - Olbia 330 km
Livorno - Olbia 280 km
Piombino - Olbia 230 km
Porto S.Stefano - Olbia 180 km
Fiumicino - Olbia 220 km
Un buon gommone (diciamo 40 CV) raggiunge una velocità massima di 30 nodi (circa 50 km/h) con un consumo approssimativo di 20/25 litri di carburante ogni ora (variabile in base a motore 2/4 tempi, velocità, carico, vento etc) e che i serbatoi di tali motori hanno una capacità di 20-30 litri.
Quindi dovresti partire con parecchie taniche a bordo ma, soprattutto vista la distanza, in Agosto e col mare piatto.
Io so bene che tu vuoi fuggire dalla tetra Milano per ritornare nella tua icnusica terra natia ma considerando il viaggio verso l'eventuale porto e la traversata, io dico che saresti più al sicuro in un paesino sulle Alpi. Oppure da me.
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50 nerbate.
Espulso per sempre da tutte le scuole nazionali.
2 anni di galera, per adulti, non minori.
Al resto ci pensa Dio.
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Se questa è la scuola, meglio chiuderle tutte
A Fabriano alcuni studenti maltrattano e fanno morire un agnellino. Non ci sono più regole: ora punizione esemplare
di Francesco Teodori 24 Giugno 2024
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A volte è necessario anche per l’Inattuale abbandonare per un momento gli avvenimenti internazionali e abbassare lo sguardo verso la vita quotidiana, fonte inesauribile di indignazione. Il nostro sdegno si volge oggi verso la scuola e la sua squallida decadenza.
Alcuni studenti dell’istituto tecnico agrario di Fabriano, piccola e splendida città nelle Marche, mentre stavano svolgendo un periodo di alternanza scuola-lavoro all’interno di un’azienda agraria che ospita animali da allevamento (nello specifico pecore) hanno pensato bene di maltrattare un po’ le povere bestie. Uno di loro in particolare le ha aggredite calciandogli ripetutamente addosso un pallone. Mentre le pecore scappavano impaurite uno degli studenti ha catturato un agnellino, anch’esso in fuga per la paura, e l’ha lanciato al di fuori del recinto dove erano tenuti gli ovini.
Dopo aver rincorso la povera bestiola lo stesso studente lo ha acciuffato nuovamente, scaraventandolo all’interno del recinto da cui l’aveva prelevato. Il tutto sotto lo sguardo divertito del gruppo. L’agnello, secondo il verbale del direttore dell’azienda agraria indirizzato al dirigente scolastico della scuola, a causa del trauma subito ha riportato la paralisi di tutti e quattro gli arti ed è in seguito morto dopo una tremenda agonia.
Tutta la scena è stata ripresa dalle telecamere installate all’interno dell’azienda agricola. Da quanto abbiamo appreso da una docente dell’istituto, la quale ci ha anche raccontato per prima questa triste vicenda, al momento la decisione sulla sanzione da infliggere ai ragazzi (quasi tutti minorenni) responsabili di questo gesto efferato non è stata ancora presa. Nel frattempo, è stato chiesto ai carnefici di redigere un “tema” in cui avrebbero dovuto riportare una riflessione su quanto accaduto.
Da molti anni ormai osserviamo un rapido ed inesorabile disfacimento dell’istituzione scolastica in Italia, un declino a cui nessuno sembra voler prestare adeguata attenzione e che passa non tanto dalla, in genere pessima, preparazione degli studenti italiani, quanto proprio dall’incapacità della scuola di agire sulla formazione del carattere dei ragazzi. Questo sconcertante episodio ne è la prova.
Un agnello, simbolo dell’innocenza, è stato fatto oggetto della più assurda e gratuita brutalità. Una crudeltà senza scopo e dunque ancora più inquietante. Uccidere per gioco. Seviziare per il semplice gusto di farlo. Per di più un animale destinato ad essere parte di una fattoria didattica, dove le bestiole vengono allevate e curate dalla nascita fino alla morte naturale.
Se la scuola non è in grado di far comprendere a chi la frequenta la distinzione tra bene e male, tra civiltà e barbarie, allora tanto vale rinunciarvi definitivamente. Si chiudano tutte le scuole e si lasci che siano i social network, la strada, la musica o i siti porno ad educare i ragazzini. Se i risultati sono quelli che vediamo, almeno si risparmierebbero soldi pubblici, non più sprecati in inutili programmi educativi.
Ci domandiamo, dunque, se questa è la scuola. Se in un paese che si dica civilizzato sia possibile tollerare episodi del genere senza procedere, una volta appurati i fatti con certezza, ad una punizione esemplare, ammesso che ve ne siano per un gesto tanto crudele.
Così come ci domandiamo come sia possibile che un insegnante guadagni quanto un netturbino, che si possa dare delle “puttana” ad una professoressa senza temere alcuna conseguenza, che quasi la metà degli studenti al termine della scuola superiore non capisca un testo scritto in italiano. E nonostante ciò vengano promossi anche a pieni voti. In attesa di conoscere quale sia l’esito di questa tragica storia che abbiamo raccontato, ci auguriamo che il sacrificio involontario di quel povero agnellino serva quantomeno a far riflettere chi dovrebbe riflettere. E a far vergognare chi dovrebbe vergognarsi.
Francesco Teodori, 24 giugno 2024.
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Non ci sono parole, per di più frequentano una scuola ad indirizzo agrario.
Sarà un caso isolato di giovinastri senza educazione, cultura, formazione civica e formazione genitoriale? Non credo, è la china in discesa che hanno preso questi piccoli delinquenti da quattro soldi.
Ma forse anche sui genitori si dovrebbe indagare a fondo.
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Non va poi così male, te lo assicuro. Ho scoperto persone che mi fanno ridere, molto. Ho ritrovato me stessa di mattina, quando faccio il caffè e tu non ci sei; di sera, quando torno dal lavoro e sotto le coperte non c’è nessuno… Non va poi così male, credimi. Sto bene, anche se ogni mattina vedo il tuo riflesso nel caffè per un millesimo di secondo e poi la sera, quando sollevo le coperte cercando qualcosa su cui appoggiarmi. Ti dirò la verità: essere o esserci non sono la stessa cosa, tu continui ad essere anche se non ci sei più.
Sto bene, ho spalancato le braccia per far entrare ricordi nuovi di cui tu non sia il protagonista; ciò nonostante, confesso: non ne ho ancora a sufficienza da tenermi al caldo la notte.
Non sei più qui, anche se continuo a vederti
Scrivere è il modo più difficile e meno coraggioso che abbia trovato per dirti che mi manchi incondizionatamente, ma che ho bisogno di vivere con me stessa – proprio come tu vivi senza di me. Proprio così, se ormai non possiamo più essere una cosa sola, è ora che cominci almeno ad essere me stessa. Mi hanno detto, infatti, che in fin dei conti l’unica persona con cui devo imparare a stare è me stessa.
Da tempo tu non sei più qui con me, anche se continuo a vederti ovunque vada. In tutti quei luoghi che conservano l’affetto che io ancora provo, quei posti a cui dobbiamo tutti i momenti di felicità vissuti. Perché dietro a tutto il marcio, siamo stati davvero capaci di ridere insieme.
Sarà difficile sì,mi hanno anche detto – ed è questa la vera funzione di questo scritto – che il miglior modo di far cessare il dolore è liberarlo. Per questo, senza rancore e senza odio, ti offro tutta la libertà di cui hai bisogno: non mi riferisco all’ovvio, al fatto che te ne sei andato. Voglio lasciarti libero di essere per davvero, senza sensi di colpa né rimorsi, senza più pianti.
Per questo, almeno per adesso, è meglio che ci dimentichiamo di tutto: delle domeniche a casa tua, dei film visti insieme che mi facevano addormentare ogni volta, delle cene che non condivideremo più. Lasciamo andare i sogni rimasti incompiuti, il mio essere di cattivo umore che impediva il tuo sorriso, la tristezza, la nostra allegria. Voltiamo pagina.
Diciamo addio alle città che ci hanno visto insieme, a tutte le prime volte, a quello che mi hai insegnato e che forse anch’io ho insegnato a te. Ricominciamo da zero. Ti libero da me, così come lo fa ogni angolo di questa città che un giorno ci ha visti insieme, ma che non ci vedrà più.
Ti dico addio senza esserne capace del tutto; lo faccio perché so che è necessario per non dire addio a me stessa, definitivamente. Sono sicura che saresti d’accordo: se non possiamo essere come avremmo voluto, la cosa più sana è cercare di essere diversi; e se adesso non c’è verso, l’unica cosa che ci può fa guarire è smettere di essere. “Oggi ti libero.
Ti libero da me,
Pdai miei mali,
da quelle sere infinite della domenica,
dall’odio dei miei compleanni,
dal non sapere cosa regalarti
che tu già non abbia o che non perda.
Ti libero dal mio disinganno,
dal tuo karma,
dalle mie novità,
da quella contraddizione che mi invadeva
e che rappresento.
Ti libero dalle mie chiamate,
dai miei guai,
dai miei capelli lisci, lunghi e spettinati
che si attorcigliavano fra le tua dita facendomi male.
Ti libero dalla mia coscienza,
dalle cadute, dalle risalite,
da questa fuga.
Ti libero da quei punti di sospensione,
dai punti e a capo,
dalle domande e dalle esclamazioni,
da tutte quelle regole grammaticali che, in fondo, non servivano a nulla.
Ti libero attraverso la porta che hai appena chiuso,
affinché tu possa andare,
mi possa lasciare,
affinché tu mi veda da lontano e mi desideri ogni giorno di meno,
nonostante ciò mi ferisca nel più profondo del mio cuore.
Mario Benedetti
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Terramarina – Un viaggio tra sogno e realtà di Tea Ranno. Recensione di Alessandria today
A metà tra veglia e sonno, un romanzo che esplora il confine sottile tra l'immaginazione e il vissuto.
A metà tra veglia e sonno, un romanzo che esplora il confine sottile tra l’immaginazione e il vissuto. Recensione:“Terramarina” di Tea Ranno è un romanzo che si muove delicatamente tra il mondo reale e quello onirico, portando il lettore in un viaggio introspettivo che va oltre il tangibile. Il racconto si snoda in un’atmosfera sospesa, dove la protagonista vive tra i ricordi di un passato che…
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Ciao. Mi dispiace per come ti senti e per quello cui andrai incontro. Spesso faccio lunghi periodi di giornate lavorative infinite, senza gratificazione. Lo stipendio è buono ma se sei svuotato di energie e non hai tempo libero, i soldi marciscono assieme a te. Ho dovuto ricorrere a farmaci e terapia per lungo tempo e adesso sto meglio, ora sono in grado di pensare: mal che vada mi licenzio e sopravviverò come tutti, senza vergognarmi per questo pensiero a causa del mio senso del dovere. Ma io sono in Italia, bene o male ho affetti vicini, si parla la mia lingua, se sto male mi metto in malattia (non l'ho mai fatto...) senza dover contare i giorni che mi restano nell'anno. Tu... ti leggo e mi chiedo spesso perché ti sia decisa a fare determinate scelte. Coraggiose se vogliamo, per prospettive future. Tuttavia mentre raggiungiamo il burnout la vita ci passa davanti e quello che immaginavamo potesse accadere, cambia. Restiamo delusi, con niente di concreto in mano. Onestamente al solo pensiero di essere lontana non dico dalla famiglia, ma dalla confortante madrepatria, alle condizioni quali quelle che descrivi... non so come tu faccia. Mi scuso se ti risulto inopportuna, ti scrivo perché mi sembra di riconoscerla la tua sofferenza. Una cosa sola mi ha insegnato la depressione, che quando ci sei dentro vedi davvero quanta povertà si cela dietro i castelli di fantasie più o meno autoindotte per trovare una strada nella vita. E pensi che ti sei ammalato "per niente". Tutt'ora fatico a concepirmi distaccata dal mio lavoro, anche se la società lo ritiene nobile e indispensabile mi ha rovinato anni importanti. Ma sono arrivata ad essere consapevole dei miei limiti, ho imparato a proteggermi un po'di più, a dire di no. Per adesso resisto ma sai, adesso non mi importa più di come reagirebbe la gente a sapere che ho lasciato per andare a raccogliere pomodori o pulire bagni, proprio io che sono così brava, istruita e specializzata. Non mi importa più cosa dice il mio senso del dovere. E mi sento meglio, anche solo perché mi permetto di pensare a delle vie di fuga.
Abbi cura di te.
Ciao.
Spesso è facile leggere senza dire niente quando non si conosce qualcuno, quindi ti ringrazio per il tuo messaggio, sebbene in anonimo (non perché sminuisce il pensiero, semplicemente a volte non ne comprendo a pieno il motivo del suo utilizzo - ma questo è un discorso a parte).
Mi dispiace molto per quello che ti è successo, anche se mi pare tu stia leggermente meglio e sono contenta per te per questo.
I motivi per cui sono tornata qui sono tanti e, forse, a dirli nemmeno li si comprenderebbe. Uno tra tutti: ho speso quasi 10 anni della mia vita (e denaro) per studiare la lingua e la cultura di questo paese e purtroppo questi 10 anni non li posso "vendere" a nessuno perché non sai quanta gente fa la stessa cosa. Una cosa che mi sono promessa a me stessa è che io questi 10 anni della mia vita non li voglio buttare, anche se giustamente c'è gente che si reinventa nonostante la sua laurea (non ho niente contro di loro, ma vorrei evitare di farlo io).
Hai ragione nel dire che spesso quelli che costruiamo sono solo castelli senza alcun senso e non ti nascondo che sono già un paio di anni che la mia testa è a metà tra il voler diventare chissà chi e il voler semplicemente vivere di un lavoro umile con uno stipendio minimo che mi permetta di mangiare, mandando a fanculo laurea e tutto il resto.
A volte sono sul punto di pentirmi della mia scelta ma quando la mia migliore amica, come te, mi dice: "Stai attenta alla tua salute mentale perché se le cose vanno male, puoi sempre tornare in Europa", sai cosa le rispondo? Che non è il momento adatto. Adesso è come se vivessi nell'occhio del ciclone: sebbene la cultura lavorativa giapponese faccia veramente pena, questa megalopoli vive di milioni di opportunità diverse e non penso ciò sia equiparabile a qualsiasi altra città in Europa.
Per cui non posso fare altro che sfruttare questa opportunità il meglio che posso. Non mi interessa dell'opinione di nessuno e vivere dall'altra parte del mondo, sebbene sia triste perché non hai nessuno su cui poter contare se non te stesso, hai la libertà di poter fare il cazzo che ti pare, pure lasciare tutto e andare a raccogliere i pomodori o andare a fare le pulizie.
Poi, anche se volessi tornare, dove vado? Non ho più contatti con nessuno della mia famiglia, né li voglio avere e sono al punto che quasi non saprei nemmeno dove andare a dormire se tornassi in Italia. Anzi, me ne sono andata anche per tagliare finalmente tutti i ponti possibili.
Detto questo, come hai detto anche tu, per adesso, resisterò. Quando la situazione mi sembrerà insostenibile, cambierò e cercherò altro; almeno avrò soldi a sufficienza per poter vivere senza lavorare per un po' (dato che non avrò tempo per spenderli).
La via di fuga cerco di vederla sempre (anche se è molto difficile farlo), perché, almeno per il momento, non mi voglio assolutamente arrendere a questo mondo bastardo e per me oltremodo incomprensibile.
Abbi cura di te anche tu.
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22 Novembre 1963
IL GIORNO IN CUI MORI’ JOHN KENNEDY
Ho sognato che ero il presidente di questi Stati Uniti ho sognato di aver sostituito l’ ignoranza la stupidità e l’odio ho sognato l ‘unione perfetta e la legge perfetta, irrefutabile e più di tutto ho sognato di aver dimenticato il giorno in cui mori John Kennedy
Ho sognato che riuscivo a fare il lavoro che gli altri non avevano fatto ho sognato che non ero corrotto e che ero giusto con tutti ho sognato che non ero volgare o indegno un criminale in fuga e più di tutto ho sognato di aver dimenticato il giorno in cui morì John Kennedy
Oh, il giorno in cui morì John Kennedy oh, il giorno in cui morì John Kennedy
Ricordo dove ero quel giorno ero in un bar fuori città una squadra universitaria giocava a football alla televisione poi lo schermo si schiarì e l’annunciatore disse «C’è stata una tragedia ci sono giunte notizie non confermate che hanno sparato al presidente e che forse è già morto o che sta per morire.»
Le chiacchiere si fermarono qualcuno gridò «Che cosa?!» corsi fuori in strada dappertutto si era radunata della gente e diceva avete sentito che cosa hanno detto alla tv? e poi un uomo in una Porsche con la radio accesa cominciò a suonare il clacson e ci diede la notizia disse «Il presidente è morto gli hanno sparato due volte nella testa a Dallas, e non sanno chi è stato.»
Ho sognato che ero il presidente di questi Stati Uniti ho sognato che ero giovane e brillante e che tutto ciò non era uno spreco ho sognato che esiste un punto di svolta per la vita e la razza umana ho sognato che potevo in qualche modo comprendere perché qualcuno gli avesse potuto sparare in faccia
Oh, il giorno che morì John Kennedy oh, il giorno in cui morì John Kennedy oh, il giorno in cui morì John Kennedy oh, il giorno in cui morì John Kennedy
Lou Reed, The Day John Kennedy Died, Blue Mask, 1982
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Ferragosto, di Achille Campanile (1953)
(Giorgio de Chirico, L'enigma di una giornata, 1914)
Nell'aria immobile della città rimasta quasi vuota per il Ferragosto, tuonò il comando: "Tutto quello che è finto, diventi vero! Beninteso, quanto a statuaria". Immediatamente, dalla base del monumento a Cavour si alzò il leone di bronzo, diventò all'improvviso di carne e d'ossa e, dopo essersi stiracchiato e aver fatto uno sbadiglio accompagnato da un quasi impercettibile guaito, con un balzo leggero fu a terra e si voltò ad aspettare che Cavour lo raggiungesse. Cavour intanto, un po' impacciato dalla redingotta, cercava a fatica di venir giù dall'alto basamento, badando dove metteva i piedi e borbottando: "Piano, figliolo, io non sono un leone come te, e poi sto molto più in alto; avrebbero fatto meglio a metter te qua in cima e me laggiù". L'Italia, la formosa matrona in costume succinto, che sedeva sul basamento, l'aiutò a metter piede a terra e dié una spolveratina e una rassettatina alla redingotta dello statista, che nella discesa s'era un po' gualcita; poi la brigatella s'avviò verso il centro, Cavour con gli occhiali, il leone scodinzolante, la matrona solenne. Qualche raro passante già fissava la donna prosperosa, incerto se mettersi dietro. "Piano," diceva Cavour" venite dietro me. Cerchiamo di non perderci. Ormai la mia famiglia siete voi."
Il punto di ritrovo dei monumenti cittadini era stato fissato, naturalmente, in Piazza Duomo. Dove già scorrazzava e ruzzava una moltitudine di lupi e lupacchiotti latranti, cani e strane bestie, che fino a un momento prima servivano a sostenere i pluviali del Duomo. Erano stati i primi ad arrivare, per la buona ragione ch'erano già sul posto. Intanto si staccava dalle mensole, e con uno svolazzio leggero scendeva sul sagrato, una folla di santi, santoni e santerelli, con barba e senza, uomini e donne, grandi e piccoli. Vittorio Emanuele II a cavallo galoppava in lungo e in largo intorno alla piazza con la sciabola sguainata divertendosi a mettere in fuga i lupi e i santerelli, seguito a passo di corsa da una doppia fila di piccoli bersaglieri scesi dal bassorilievo del basamento, e in atto di andare a un attacco alla baionetta. Nella lunga palandrana, veniva in fretta da via Orefici l'abate Parini, mentre, fiancheggiato da quattro valletti, Leonardo da Vinci in accappatoio e cuffia da bagno, traversava la Galleria, tra le scappellate dei tre o quattro perdigiorno presenti. Con un rumore zoppo di zoccoli sul selciato, arrivò al piccolo trotto stracco da via Mazzini il generale Missori sul suo cavalluccio a penzoloni. Intanto da Monforte arrivava San Francesco d'Assisi a braccia aperte. Dall'altissimo piedistallo, sempre a braccia aperte, aveva fatto un vol plané di trenta o quaranta metri. Roba da Santi. Da un'altra parte arrivava l'asso Baracca. S'udì avvicinarsi un coro di voci argentine: dal Monumentale arrivava dietro il Duomo una fila di vetture tranviarie piene zeppe d'Angeli che cantavano, di sconosciuti e di mezzi busti, i quali ultimi pagavano mezzo biglietto. Intanto, alla Stazione Centrale succedeva un parapiglia. Al comando iniziale, s'era visto un brulichio, un formicolio sulla facciata, sui fianchi e sul tetto, come se l'edifizio s'animasse tutto. C'era uno starnazzar d'ali, uno scrollarsi. In men che non si dica, vennero giù con fracasso certi strani e massicci cavalli alati, condotti per la cavezza da uomini nudi, o quasi. Roba da alzar l'idea. Fortuna che non c'erano vigili in giro. Scesero strani grifi e mostri, chimere, sfingi. Aquile come piovessero. Già s'allontanava verso il centro scodinzolando la lupa, seguita da Romolo e Remo. I due frugolini stentavano a tener dietro alla bestia, correndo a piedi nudi sull'asfalto rovente, nudi essi stessi come mamma li aveva fatti, e ridendo e giocando, ruzzando e facendo mille monellerie. In cima a una colonna dell'edifizio ferroviario, il toro che rappresentava Torino, scalpitava e sbuffava inferocito, non osando fare il gran salto. Qua e là per la città avvenivano altri episodi. In piazza Scala spuntarono gli Omenoni, col torcicollo per l'incomoda posizione in cui stavano da circa cent'anni. Nel cortile della Casa di riposo per i vecchi musicisti, Verdi s'alzò dalla poltrona di pietra, come si fosse seduto un momento prima. Non parliamo poi di Beccaria e di Manzoni: naturalissimi. Un certo contingente fu fornito anche dall'Arco del Sempione. Ma erano mezze figure, altorilievi. Il Napoleone nudo di Brera arrivava disinvolto, pavoneggiandosi, seguito da Gabrio Piola, Pietro Verri, Luigi Cagnola, Tommaso Grossi e certi Ottavio Castiglione e Bonaventura Cavalieri; i quali tutti esterrefatti, dicevano all'uomo del destino: "Non si può girare in costume adamitico". "Nel mio vocabolario" ribatté il fatal còrso, senza voltarsi "non esiste la parola impossibile."
Il pittore Hayez, con la papalina in testa e la tavolozza in mano, s'unì alla brigatella e per prima cosa buttò via la tavolozza. "Sono cent'anni che volevo liberarmene!" esclamò. "Mi hanno fatto il monumento con la tavolozza in mano. Credendo di farmi piacere. Come se non avessi abbastanza tenuto in pugno, nella vita, questo strumento di tortura." Per avere notizie circa il grande movimento che si sapeva essersi manifestato contemporaneamente in tutto il mondo, si cercò il monumento di un giornalista. Allora le statue fecero una curiosa scoperta: fra i monumenti non ce n'era nessuno di giornalista. Nessun giornalista era stato mai ritenuto degno d'un monumento. Fu giocoforza ascoltare la radio. Le notizie cominciavano ad arrivare, e venivano diffuse di momento in momento: a Firenze s'erano mossi il Biancone, Ercole e Caco, il Perseo, Proserpina in combutta coi suoi rapitori, Savonarola, il Porcellino. A Bologna, il Nettuno s'era messo alla testa d'una sollevazione. A Roma, i primi a scendere in piazza erano stati Mosè, le sfingi, le tartarughe. Il piedone di via Piè di Marmo s'avanzava da solo come un'immensa sogliola verso il Collegio Romano, per accodarsi al corteo diretto in Piazza Venezia e del quale facevano parte Madama Lucrezia, Pasquino, Marforio, il Tritone, i tritoncelli, le Naiadi e le Sirene di Piazza Esedra, che ebbero un successo strepitoso, Vittorio Emanuele II, grossissimo e dorato, il bersagliere di Porta Pia, il ferroviere, Goethe, Toti, alcuni imperatori romani. Chiudeva il corteo il muletto di Villa Borghese con le salmerie. Gioacchino Belli scese tra il popolino di Trastevere e cominciò a molestare le ragazze con la punta del bastone, rispondendo a tono ai loro insulti. Sull'Appia Antica si videro avviarsi intere famiglie avvolte nei sudari, scese dai monumenti sepolcrali.
A Recanati, il gobbino Leopardi s'avviò tutto fiero: "Sono l'unico monumento del mondo che abbia la gobba" ripeteva.
Un senso di panico si diffuse quando si seppe che dal colle di Arona stava scendendo a passi di gigante il San Carlone alto cento metri. A Venezia, i cavalli di San Marco, Tommaseo, Manin col leone, Paleocapa, tutti con un piccione sulla testa. A Torino, gente a cavallo da tutte le parti, con le spade sguainate. Giungevano dispacci dall'estero. A Parigi, poco. I monumenti in bronzo erano stati portati via durante la guerra. C'erano la Repubblica, De Musset. Nel foyer del Théâtre Français c'era un po' di confusione. Quel seccatore di Voltaire pretendeva assumere il comando. Napoleone in cima alla colonna Vendôme aspettava che lo facessero scendere. A Londra, l'Eros di Piccadilly scese nella piazza eseguendo sulle punte la Danza delle Ore. Nelson in cima alla colonna altissima, impossibilitato a scendere da quell'altezza, strillava: "Tiratemi giù!". A New York, la statua della Libertà s'imbarcò subito per l'Europa, ma a mezza strada ci ripensò e tornò indietro.
Ritornando a Milano, s'incontrava un signore che girava spaesato tenendo in mano l'epigrafe del proprio monumento: "A Agostino Bertani gli Italiani riconoscenti" e mormorando: "Ma chi ero?". La piccola sfinge o chimera di pietra che sta dalla parte interna della stazione di Milano e si vede solo dal treno, fra le locomotive e gli scambi. Come deve soffrire in quell'ambiente! Scese anche lei e andò al raduno. Mancava il Sant'Antonio della fontana di piazza Sant'Angelo.
"O dov'è andato?" si domandavano tutti. Con la sciabola trinciando l'aria, Vittorio Emanuele II galoppò a cercarlo in piazza Sant'Angelo. La statua era lì, nella consueta posizione. Come? Il Santo non era diventato vero? Sì, era diventato vero. Ma, appena diventato vero, invece di andarsene, era rimasto nella stessa identica posizione del monumento, a guardare incantato i pesci rossi nella fontana. E non si muoveva.
#ferragosto#achille campanile#letteratura del '900#racconto#italia#monumenti#piazze#personaggi#arte#giorgio de chirico
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fuga strisciante dalla città in fiamme
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Sempre più mansueti, sempre più da appartamento.
Quando conobbi i primi Cani Lupi Cecoslovacchi, quegli individui ancora mantenevano chiari tratti ferini: indipendenti, diffidenti, con una distanza di comfort elevata, abili cacciatori, riservati, attivi. Riuscire a soddisfarli era davvero impegnativo perché nessuna recinzione rappresentava per loro un ostacolo e se desideravano inseguire una potenziale preda si arrampicavano come gatti.
Oggi, a distanza di un solo decennio, sono a tutti gli effetti cani addomesticati che vivono in appartamento. Docili e mansueti, socievoli e giocherelloni.
Andiamo per ordine: il CLC venne creato nella seconda metà degli anni 50 a scopi militari, dalla Guardia di Confine dell’ex Repubblica di Cecoslovacchia per rincorrere e catturare le persone che tentavano di scappare dalle persecuzioni operate per motivi politici. I Pastori Tedeschi non possedevano doti fisiche adeguate in termini di resistenza allo sforzo e al clima dei Carpazi, una catena montuosa che attraversa l’Europa e che rappresentava una via di fuga dal regime dittatoriale dell’epoca. L’idea fu quindi di fare accoppiare una Lupa dei Carpazi con un Pastore Tedesco. A seguito di ripetuti processi di ibridazione si ottenne quella che venne successivamente riconosciuta come razza ufficiale.
Il pelo del CLC è idrorepellente, in grado di resistere a pioggia, neve e intemperie proteggendo egregiamente il cane da inverni sotto zero ed estati torride. Le sue prestazioni fisiche, la velocità di reazione, l’indipendenza, la predatorietà lo rendevano estremamente adatto a sventare i tentativi di fuga dei dissidenti. Ma……la necessità di una socializzazione completa e precoce, rappresentava per l’esercito uno sforzo eccessivo e l’esperimento venne abbandonato rinunciando all’idea di avere una nuova razza di cani da servizio. Nel 1971, l'allevamento del Cane Lupo Cecoslovacco venne quasi completamente interrotto. A causa della sospensione dell’allevamento, molti ibridi lupo-cane furono soppressi.
Poi però subentrò la moda che lo rilanciò sulle passerelle del consumismo e gli allevamenti spuntarono come funghi. Ci si innamorò di questo simil lupo e quindi la selezione iniziò ad agire per renderlo sempre meno indipendente, diffidente, selvatico. Un’altra dissociazione cognitiva degli umani: si urla di sopprimere i lupi perché danneggiano le attività dell'uomo ma si acquista una sua bella copia da sfoggiare sul divano di casa, portarlo a passeggio in centro città, vederlo giocare nelle aree sgambamento. Nessun rispetto per quegli individui creati, ahinoi, a scopi militari, ma totale impegno a mutare geneticamente le loro peculiarità comportamentali per farne sfoggio.
La mentalità antropocentrica è dura da smantellare e mentre inorridiamo al ricordo del genocidio nazista, proseguiamo con l'eugenetica per creare, stavolta, le razze di Animali non umani.
(nella foto Loukanicos, emblema della rivolta in Grecia)
#antispecismo#rispetto#animalità#zooantropologia#dignità#facilitatrice_relazione#meticciato#larazzanonesiste
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Wonka il Film 2023
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:: Trama Wonka ::
Il giovane cioccolataio Willy Wonka arriva in una nuova città con il sogno di aprire una cioccolateria alle Galeries Gourmet. Tuttavia, i suoi primi sforzi sono vani, dato che Wonka incontra l'opposizione dei tre affermati cioccolatai del luogo, Slugworth, Prodnose e Fickelgruber, che gli aizzano contro la polizia. Inoltre Willy è stato raggirato dalla sua padrona di casa, l'avida signora Scrubbit, che esige un affitto esorbitante e costringe il giovane a lavorare nella sua lavanderia quando non si può permettere di pagare.
Mentre viene sfruttato dalla Scrubbit, Willy conosce Noodle, Abacus, Piper, Larry e Lotte, anche loro costretti a lavorare nella lavanderia, e i cinque gli raccontato che Slughworth, Rodnose e Fickelgruber gestiscono un cartello del cioccolato, con sede nelle fondamenta della parrocchia gestita da Padre Julius. Grazie a un sotterfugio, Willy riesce a evadere dalla lavenderia e a cominciare a vendere il cioccolato insieme a Noodle, a cui rivela che la sua passione per il dolce nasce dall'ultimo regalo fattogli dalla madre prima di morire: una barretta di cioccolato.
Wonka si accorge che un misterioso omino arancione che lo segue da anni gli ha rubato i cioccolatini e, dopo averlo rintracciato, lo cattura. Prima di fuggire, la creatura rivela di esssere un Umpa Lumpa di nome Lofty, esiliato dalla sua tribù anni prima quando Wonka aveva rubato dei preziosi chicci di cacao a cui lui era stato messo a guardia.
Wonka e i suoi amici guadagnano abbastanza soldi per aprire un negozio. La Scrubbit però, avvertita dal cartello del cioccolato, ha aggiunto sudore di yeti ai cioccolatini di Wonka. La folla entusiasta all'apertura della cioccolateria comincia a sviluppare problemi di irsutismo appena assaggia i cioccolatini e l'inaugurazione si trasforma in un disastro. Dopo che il suo negozio è stato devastato, Wonka viene avvicinato dai membri del cartello, che si offrono di saldare i suoi debiti in cambio della sua immediata fuga dalla città. Wonka accetta e, lasciati i suoi amici, si imbarca su un battello, ma Lofty lo convince appena in tempo a tornare indieteo e combattere il cartello, che ha tentanto di ucciderlo piazzando dell'esplosivo a bordo.
Mentre Abacus, Piper, Larry e Lottie vengono rilasciati dalla lavanderia, Noodle è destinata a rimanervi prigioniera. Wonka e gli altri salvano la ragazza e Wonka le rivela che lei è la nipote di Slugworth, che ha corrotto la Scrubbit affinché la tenesse rinchiusa così che Noodle non potesse reclamare la sua eredità di famiglia. Tentando di annientare il cartello, Noodle e Wonka entrano nella loro base segreta, ma vengono accerchiati dai nemici che vogliono annegarli nel cioccolato. Vengono salvati appena in tempo da Lofty e, grazie al contabile Abacus, rivelano alla polizia le frodi fiscali e la corruzione perpetrata dal cartello, in cui membri vengono arrestati. Mentre la folla assaggia finalmente il cioccolato di Wonka, il giovane scarta la barretta lasciatogli dalla madre: la donna aveva messo in essa un biglietto dorato in cui gli ricordava che il cioccolato è migliore se condiviso. Wonka divide quindi la barretta con i suoi amici.
Noodle ritrova la sua madre biologica e Wonka acquista un castello abbandonato e comincia a costruire la sua fabbrica di cioccolato.
Cast e Regia: Il cast di "Wonka" include talentuosi attori che interpretano i personaggi con grande abilità. Ogni membro del cast contribuisce a creare una dinamica coinvolgente e a dar vita alla storia. Il regista, con la sua visione e il suo stile unico, dà vita alle scene d'azione e crea un'atmosfera ricca di suspense.
Dove Guardarlo: Per vivere l'emozione di "Wonka" al massimo, ci sono diverse opzioni per guardare il film completo. È probabile che il film venga proiettato al cinema, offrendo agli spettatori l'opportunità di immergersi completamente nell'azione e di godere degli effetti speciali sul grande schermo. Inoltre, potrebbe essere disponibile anche in streaming su piattaforme come Netflix, Amazon Prime Video o altre piattaforme digitali, che consentono di gustarsi il film comodamente da casa.
Conclusion: "Wonka" è un film avvincente che promette di offrire un'esperienza adrenalinica. Con un cast talentuoso e una regia esperta, lo spettatore viene trasportato in un viaggio pieno di suspense e tensione. Che siate appassionati di film d'azione o amanti di storie avvincenti, "Wonka" è sicuramente un film da non perdere per le sue scene ad alto tasso di adrenalina e la trama coinvolgente. Quindi, preparatevi a vivere un'esperienza mozzafiato con "Wonka" e godetevi il film completo.
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Ágota Kristóf
Ágota Kristóf, scrittrice e drammaturga ungherese passata alla storia della letteratura mondiale col suo capolavoro La trilogia della città di K. che ha ricevuto numerosi premi letterari ed è stato tradotto in oltre trenta lingue.
I suoi romanzi, dalla scrittura asciutta e incisiva, la prosa austera e la narrazione senza fronzoli, esplorano, in maniera cruda e provocatoria, temi universali come la violenza, la guerra, l’infanzia e la natura umana. I personaggi dei suoi racconti sono spesso segnati dalla condizione esistenziale dell’erranza, di chi è costrettə ad abbandonare la propria terra per cercare rifugio in un paese straniero
Nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd, un piccolo villaggio in Ungheria, a quattordici anni scriveva le sue prime poesie mentre studiava in un collegio di sole ragazze.
Nel 1956, dopo l’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, è fuggita con il marito e la figlia in Svizzera stabilendosi a Neuchâtel, dove ha vissuto fino alla morte, avvenuta il 27 luglio 2011.
Quando è scappata aveva poco più di vent’anni e una bambina di undici mesi avvolta alla schiena. Ha dovuto imparare a ricostruirsi una nuova vita, una nuova lingua, che ha adoperato per scrivere sentendosi sempre analfabeta perché non la padroneggiava abbastanza. Ha lavorato come operaia in una fabbrica, poi è stata insegnante e traduttrice, ha divorziato e avuto altri due figli.
La sua fuga è stato un trauma da cui non si è mai ripresa, allontanata dagli affetti in un mondo totalmente diverso da quello a cui apparteneva. La condizione inesorabile della persona migrante che deve adattarsi a una realtà da cui si sente estranea.
Ha raggiunto il successo internazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier che, insieme a La preuve e Le troisième mensonge è confluito in quel grande capolavoro che è stato la Trilogie (Trilogia della città di K.). I tre libri ripercorrono il tema del distacco, la separazione di due gemelli, Klaus e Lucas, e il ritrovamento dopo la guerra.
La sua scrittura è scarna, crudele, reale. Un pugno nello stomaco di chi la legge. Quello che racconta non ha bisogno di fronzoli o abbellimenti, è il ritratto di una realtà dura che molto coincide con la sua biografia. Ha rappresentato le tragedie della guerra con una disperazione fredda e sorda, come se scrivesse attraverso gli occhi di un bambino che non giudica mai niente, che si limita a registrare quello che accade con spietata ingenuità.
Vari i romanzi e le opere teatrali che ha scritto consumando, con parole dure, la lotta per integrarsi in una nuova cultura, la continua guerra di chi ha perso la propria terra e non potrà mai più tornare indietro.
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