#Romanzo esistenziale
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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La città e le sue mura incerte di Haruki Murakami: Il confine tra sogno e realtà. Recensione di Alessandria today
Un viaggio onirico attraverso l'amore, il tempo e le barriere dell'esistenza
Un viaggio onirico attraverso l’amore, il tempo e le barriere dell’esistenza Recensione: La città e le sue mura incerte è l’ultimo romanzo di Haruki Murakami, pubblicato il 1 ottobre 2024, e conferma ancora una volta il suo inconfondibile stile narrativo, sospeso tra realtà e fantasia, tra concretezza e visione onirica. Questo romanzo ci trasporta in una storia intrisa di malinconia, desiderio…
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ilcaffeletterariodimars · 8 days ago
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⋆˙⟡ recensione: la diva julia - w. somerset maugham
Inghilterra, primi anni del Novecento. L’affermata attrice teatrale Julia Lambert comincia una relazione clandestina con il ragioniere del teatro in cui lavora, di proprietà del marito. Lei si convince che sia una tresca temporanea, in cui i sentimenti non sono coinvolti, ma presto si rende conto che questo giovane ragioniere, di carnagione un po’ troppo pallida e decisamente troppo magro, è riuscito a farla innamorare nuovamente.
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L’amore, un sentimento che l’aveva trasportata fino alla nascita del figlio e che era sicura di provare per suo marito, Michael – l’uomo più bello e modesto d’Inghilterra, come non si stancava mai di ripetergli. Il suo fascino composto e elegante l’aveva lasciata senza fiato fin dalla prima volta che l’aveva visto, sul palco, anche lui come attore. Gentile com’era, aveva deciso di mettere da parte la sua carriera teatrale per poter fare emergere Julia e fondare una compagnia insieme – lei non aveva mai recitato così bene prima che fosse lui a dirigerla, e si sentiva di amarlo più che mai. Poi con la guerra e dopo il parto, qualcosa cambia in Julia: Michael non è più il ragazzo modesto che l’amava talmente tanto da sacrificare la propria carriera, ma diventa un uomo snob per cui non prova altro che fastidio. E, ciò nonostante, gli rimane fedele per venti anni – episodi fugaci di divertimento non potevano certo essere considerati come tradimento, giusto? – fino a quando la fiamma dell’amore non si riaccende grazie a questo giovane riccioluto che la conquista con un'umile tazza di tè. 
In La diva Julia, W. Somerset Maugham dipinge un quadro psicologico magistrale della sua protagonista – o come piace chiamarla a lui, “eroina” – di questo appassionato romanzo. Comprendiamo il suo stato d’animo grazie alla sua mimica, che è spesso accompagnata da parole che vogliono dire il contrario di quello che prova. Da attrice provetta, la migliore in tutta l’Inghilterra, nasconde le sue emozioni e non si lascia il tempo per poterle elaborare: utilizza il teatro anche nella vita reale, mascherando il nucleo della sua anima per poter continuare a interpretare il ruolo dell’attrice famosa, della madre amorevole, dell’amante appassionata. Viene spontaneo simpatizzare per Julia, perché impariamo a conoscerla nella sua intimità, perdonandole gli sbagli e capendone il forte disagio interiore, che lei non ammette mai a sé stessa. Molte volte ci sentiamo presi da un moto di sconforto e vorremmo quasi poter intervenire per proteggerla e avvisarla di non commettere lo stesso errore due volte; e forse anche l’impotenza nel cambiare la sua sorte ce la fa apparire in una luce ancora più drammatica.
Allo stesso tempo, tuttavia, il lettore deve stare attento a non farsi coinvolgere troppo per evitare di perdere la sua imparzialità: la prosa scorrevole ci induce torpidamente a condividere le opinioni dell’eroina, che trova sempre un modo per giustificare le sue decisioni ingiustificabili.
«La gente non cerca ragioni per fare quello che desidera» rifletteva. «Cerca solo scuse».
Alla fine Julia sembra vincere: appartata in un angolino di un ristorante, lontana dagli occhi indiscreti della folla, si convince che la vita reale non è altro che teatro e che la vita vera stia sul palcoscenico, davanti al pubblico. Maugham costruisce così il romanzo più perfettamente tragicomico: la grande attrice comica diventa, senza rendersene conto, la protagonista di uno struggente dramma esistenziale in cui i ruoli interpretati vanno a racchiudere, come matriosche, l’unicità della persona, nascondendola. Il tentativo grottesco di rifiutare la realtà dei fatti aggiunge una vena profondamente tragica e contemporaneamente comica alla narrazione.
In questo Maugham, con le sue doti di romanziere impeccabile, sembra farsi erede del Socrate del Simposio, riuscendo a comporre allo stesso tempo una divertente tragedia e un’amarissima commedia. Nel leggere La diva Julia, ci viene ricordato con forza che l’esistenza non è solo comica o tragica, ma che entrambi i poli ne caratterizzano lo scorrere inesorabile fino all’ultimo momento.
Mars. 
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Scelti per voi
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Fonte: pixabay.com
Una piccola scelta di libri “certificati” dai bibliotecari per distrarvi nel migliore dei modi durante le vacanze. Si tratta di novità, di titoli non recentissimi ma che magari vi sono sfuggiti e meritano attenzione, e di opere da cui sono stati tratti ottimi film.
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Se non l’avete ancora letto vi consigliamo L’animale più pericoloso di Luca D’Andrea, del 2020. Ma qual è l’animale più pericoloso? Se non ci si lascia sviare dall’immagine di copertina, si può intuirlo fin dalle prime righe di questo avvincente giallo che ha come tema (argomento di scottante attualità) la salvaguardia dell’ambiente. A parte l’idea di fondo dell’adolescente rapita che ricorda il pregevole La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi, la storia si dipana in maniera diversa, dalla location (le montagne della Val Pusteria), ai moventi dei crimini, allo stile, agile, moderno, mai banale. Anche il finale diverge, ma su questo, naturalmente, non sveliamo nient’altro. Rispettata in pieno l’unica regola cui i gialli dovrebbero essere sottoposti: quella di inchiodare il lettore alle pagine, fino alla conclusione.
Pare che le case di ringhiera della vecchia Milano siano una continua fonte di ispirazione per scrittori e assassini: dopo i gialli di Francesco Recami orientati sulla figura dell’ex tappezziere in pensione Amedeo Consonni, è il vice-commissario Enea Zottìa che deve occuparsi di una serie di crimini in un vecchio stabile malandato nel cuore di Milano nell’ultimo libro di Marco Polillo I delitti di corso Garibaldi. Ma le indagini ci porteranno anche a Viboldone, frazione di San Giuliano Milanese e sede di un’antica Abbazia, e all’isola di San Giulio sul lago d’Orta (ebbene sì, proprio nel luogo in cui C’era due volte il barone Lamberto!), dove le vicende, soprattutto sentimentali, dei protagonisti troveranno il loro più naturale scioglimento.
Ambientato sul lago di Como è I milanesi si innamorano il sabato di Gino Vignali, il cui titolo si ispira al famosissimo I milanesi ammazzano al sabato di Scerbanenco (da cui è stato tratto anche un film per la regia di Duccio Tessari). “Dopo la fortunata tetralogia riminese con protagonista Costanza Confalonieri Bonnet, Gino Vignali cambia atmosfere e personaggi ma mantiene intatti il tono scanzonato e il ritmo incalzante che contraddistinguono i suoi fortunati gialli. Suspense, erotismo, umorismo sono gli ingredienti vincenti di un romanzo che, giocando abilmente con dubbi e ossessioni, incertezze e desideri, incanta il lettore in un riverbero di luci e ombre. Come l’acqua del lago, quando sembra calma ma non lo è”.
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Non intendiamo certo tralasciare l’ultimo Simenon, L’orsacchiotto, anche questa opera di introspezione, di scavo profondo nella psiche umana aperto a più interpretazioni, una delle quali può essere che non è possibile mantenere sempre il controllo su tutto, anche ad altissimi livelli professionali: dopo una intera esistenza trascorsa all’insegna del più assoluto dominio di sé, una sola deroga al perfetto meccanismo esistenziale che il protagonista si è imposto può costare un prezzo inestimabile.
Torna nell’ultimo romanzo di Fabio Stassi, Notturno francese, il simpatico counselor della rigenerazione esistenziale Vince Corso, ma in questo caso, come per Simenon, l’indagine è introspettiva: un viaggio parallelo nei ricordi dell’infanzia e in treno, lungo la Costa Azzurra, terra d’origine del nostro detective-bibliofilo, trapiantato in Via Merulana. Finalmente sarà svelato il mistero del padre mai conosciuto a cui Vince indirizza cartoline nell’unico luogo che di sicuro aveva frequentato, almeno per una memorabile notte, ovvero il mitico Hotel Negresco.
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Folgorante fin dall’incipit, la lettura di Perle ai porci (il titolo originale suona: God Bless You, Mr. Rosewater, or Pearls Before Swine) rende pienamente ragione a Umberto Eco che annoverava Kurt Vonnegut tra i suoi scrittori preferiti:
Uno dei protagonisti di questa storia, storia di uomini e donne, è una grossa somma di denaro, proprio come una grossa quantità di miele potrebbe essere, correttamente, uno dei protagonisti di una storia di api.
Ironico, dissacrante, politicamente scorretto, bizzarro, surreale, a metà strada fra America di Kafka e i racconti di Carver; uno stile veloce, tagliente; un lessico moderno e spiazzante. Se poi vi affezionate a questo autore, allora vi consigliamo Ghiaccio-nove, anche questo composto in una forma originalissima che sconcerta il lettore con la sua imprevedibile fantasia che scardina completamente gli schemi narrativi tradizionali. Strutturato a brevi capitoli sullo stile del Tristram Shandy di Sterne è un libro trasgressivo, esilarante fino al demenziale, davvero “uno dei tre migliori romanzi dell’anno scritto dal più grande scrittore vivente” come lo accolse Graham Greene nel 1963, anno della pubblicazione. Una potente satira della società contemporanea, che punta in particolare alla condanna della guerra, argomento quanto mai tristemente attuale.
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Lo spaccone  di Walter Tevis è un romanzo di formazione in cui il protagonista svolge il suo “apprendistato” (come lo definisce Fabio Stassi nella prefazione all’edizione minimum fax) nelle sale da biliardo dove sbarca il lunario spennando ‘polli’ grazie al suo non comune talento. Ma la conquista della consapevolezza comporta un prezzo molto alto: la coscienza del proprio valore si paga con la perdita della libertà. Un libro con i fiocchi che non poteva non ispirare un capolavoro come il film di Robert Rossen del 1961 con un Paul Newman perfettamente incarnato nella parte di Eddie Felson, The Fast, ‘lo svelto’. A voi il piacere di scoprire le differenze (che ci sono, e anche notevoli) tra il libro e il film. Newman rivestirà lo stesso ruolo nel 1986 come mentore del giovane Tom Cruise in Il colore dei soldi, per la regia di Scorsese, sempre dal sequel di Tevis.
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Da La morte corre sul fiume di Davis Grubb è stato tratto nel 1955 per la regia di Charles Laughton un film talmente bello e originale proprio dal punto di vista tecnico da far rimpiangere che si tratti dell’unico exploit come regista da parte del celeberrimo attore britannico. Tratto da una drammatica storia vera, il romanzo si dispiega su più piani narrativi: il tema fiabesco, reso da Laughton con splendide immagini dello sfondo naturale notturno, il noir e la denuncia del fanatismo religioso. “La storia è qualcosa di più, se possibile, dei fatti che la compongono, è un’omelia nera, una lunga e cupa ballata atroce almeno quanto le filastrocche infantili che di tanto in tanto la interrompono, risuonando nel vuoto”.
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Non è una storia dell’orrore, come il precedente Dracula, che tanta popolarità diede al suo creatore, Bram Stoker: Il gioiello dalle sette stelle è soprattutto un racconto d’avventura, i cui protagonisti, sorta di Indiana Jones tra le mummie, sono morbosamente infatuati dalla passione per la storia egizia. A metà tra il romanzo gotico di stampo ottocentesco e l’egittomania molto diffusa all’epoca, tanto da influenzare anche Conan Doyle e Poe, è un romanzo piacevole e adatto come lettura per le vacanze. Tra culto della reincarnazione, sarcofagi, ricerche archeologiche, luoghi affascinanti come il misterioso Egitto e la nebbiosa Londra, abbiamo anche la possibilità di scegliere tra due finali, perché il pubblico non gradì il primo e costrinse l’autore, pare, a riscriverne uno nuovo nella seconda edizione uscita nel 1912, anno della sua morte. In questa ristampa di ABEditore del 2022 sono presenti entrambe le varianti.
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moonyvali · 2 years ago
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Il World Economic Forum lo ha detto chiaramente:
"Non POSSIEDERAI nulla e SARAI felice".
Bisogna quantomeno dargli atto dell'onestà intellettuale; non hanno detto infatti:
"Non POSSIEDEREMO nulla e SAREMO felici".
Per apprezzare fino in fondo lo straordinario pezzo che segue consiglio di tenere bene a mente due ambienti: da un lato le meravigliose case degli anziani di paese, che straripano di oggetti, foto di famiglia, ninnoli e cianfrusaglie; dall'altro le asettiche residenze minimali che tanto vanno di moda oggi, che somigliano più a Bed&Breakfast che ad abitazioni e che straripano di tecnologia ma sono prive di qualsiasi riferimento al passato o alla storia della famiglia.
Quando tutta la memoria sarà digitale, bastera un click per cancellare il passato e riscrivere la storia a piacimento.
Giorgio Bianchi
TUTTA COLPA DI FIGHT CLUB.
Di Lorenzo Vitelli.
La musica su Spotify. I film su Netflix. I documenti su Cloud. I libri su Kindle. L’enciclopedia su Wikipedia. Le foto su Instagram. Il lavoro su Drive. Il cibo su Glovo. Siamo nullatenenti. Affittuari di esperienze. E se vi dicessimo che la colpa è di Fight Club, un’apologia del post-capitalismo?
Fight Club, il film diretto da David Fincher e tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, ha segnato profondamente l’immaginario dei Millennials, la generazione che comprende i nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta. Interpretato dal riuscito binomio Norton-Pitt, il primo un impiegato mediocre, frustrato e insonne, e il secondo (in verità il suo doppelgänger) un carismatico e imprevedibile giovane kerouachiano a capo di un’organizzazione eco-terrorista, questo lungometraggio è uscito nelle sale statunitensi nel 1999, sul finire del secolo, quando qualcuno credeva che la storia fosse giunta al termine. Negli anni si è affermato come un vero e proprio cult movie, un contenitore simbolico da cui i Millennials hanno attinto citazioni e riferimenti anti-capitalisti, pose e stili di vita, poster e magliette, tanto che taluni hanno eletto il film a manifesto generazionale. Affresco schizofrenico della società tardocapitalistica il film offre una critica ridondante e fuori tempo massimo alla società dei consumi.
Si tratta di una critica all’americana della società americana, un’esplicita condanna all’accumulazione di oggetti, alla mercificazione del mondo, alla corsa ai consumi emulativi che caratterizza la classe media, in particolare i colletti bianchi, le masse impiegatizie e salariate incastrate nella gabbia trigonometrica casa-starbucks-ufficio e ritorno. A questa vita si contrappone il fight club, zona franca dell’escapismo selvaggio all’interno della metropoli. Un luogo dove si combatte a mani nude, senza regole, e che permette ai suoi adepti, quelli che si sono risvegliati dall’american dream – un risveglio che assomiglia all’effetto della red-pill di Matrix (film uscito nello stesso anno) – di riscoprire la cattività del loro essere interiore attraverso una violenza che diventa ricreativa e terapeutica, violenza redentrice che desta l’individuo dalla sua disforia esistenziale, rendendogli evidente l’asimmetria tra ciò che crede di essere e ciò che realmente è. In modo superficialmente nietzschiano, il film trasmette messaggi di questo tipo: “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!”. Stampata sulle magliette, tatuata sugli avambracci, utilizzata per citazioni fuori luogo sui propri profili Facebook è una frase che per assurdo oggi suona come un claim pubblicitario: “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Una lezione, questa, che noi Millennial a quanto pare abbiamo introiettato alla perfezione, finendo poi per vederci costretti a metterla in pratica. Infatti non siamo più posseduti dalle cose che possediamo, perché non le possediamo più! Macchine, case, vestiti di marca, conti in banca in positivo sono prerogative che la nostra generazione non contempla. Nullatenenti, al massimo possiamo affittare esperienze: ascoltiamo musica e vediamo film in streaming, leggiamo libri su supporti virtuali, non acquistiamo più riviste né giornali, abitiamo case dormitorio per tempi sempre più ridotti, guidiamo macchine non nostre, lo smartworking ci ha privato persino di un ufficio in cui lavorare stabilmente. Le città testimoniano di questo mutamento: niente più negozi di dischi, biblioteche, cinema, teatri, niente più uffici e forse, a breve, neanche più scuole. Pur rimanendo professionalmente frustrati come il protagonista, stavolta non per colpa della vita impiegatizia ma della precarietà, ci atteggiamo a Tayler Durden quando accediamo al nostro fight club customizzato inserendo un nome utente e una password su una qualsiasi piattaforma digitale, dove non ci sono più oggetti a possederci (ma i contenuti cattura-attenzione prodotti da un algoritmo).
Fight Club perciò ci ha venduto come una forma ribellistica di liberazione dalla merce, l’esproprio che in realtà il post-capitalismo stava già mettendo in atto con il nostro tacito assenso. Interiorizzata tra i Millennials l’idea secondo cui “i beni che possiedi alla fine ti possiedono”, la nostra generazione si è rivelata un parterre perfetto, ideologicamente e antropologicamente restio all’accumulazione di oggetti, alla stabilità e alla vita borghese, a cui si potevano disinvoltamente vendere i nuovi prodotti fatti di byte, la cui immaterialità assicurava di non partecipare alla società dei consumi (come la si conosceva prima dell’avvento di internet), lasciando accedere i suoi membri al nascente mercato digitale privi di sensi di colpa ma con spirito da pionieri anti-sistema. Fight Club ha raccontato implicitamente un passaggio di consegne da un’architettura capitalistica a un’altra: il vecchio mondo fordista e industrializzato muore – come nell’epilogo del film in cui esplode la città – ma perché nulla cambi davvero. Fincher e Palahniuk hanno fornito ai Millennials un libretto di istruzioni per farla finita con il vecchio capitalismo dell’accumulazione, e una cartina per orientarsi nella geografia del nuovo mondo, hanno dato vita a una delle più riuscite apologie della società post-capitalista, insospettabilmente complice dello stile di vita anti-materico che nel frattempo la Apple aveva cominciato a pubblicizzare con il suo design buddhista e il suo comunismo light dello sharing. La Apple era già promotrice dell’abolizione degli oggetti, delle case vuote e minimaliste, di un certo nomadismo esistenziale, delle vite precarie ma customizzate. Come dice Ian Svenonius in Censura subito!!!: “Apple sprona alacremente la popolazione a liberarsi dei propri beni. La musica? Salvatela sul Cloud. I libri? Sul Cloud. I film, le riviste, i giornali, e la televisione devono essere tutti stoccati nell’etere, non per terra o in un armadio. È come vivere in un monastero modernista il cui culto è la Apple stessa”. E aggiunge: “Apple ha operato un rovesciamento del mondo che ha trasformato il possesso materiale in un simbolo di povertà, e l’assenza di beni in un indice di ricchezza e potere”.
Siamo dei nullatenenti, in definitiva, e ce ne vantiamo. Le cose intorno a noi stanno scomparendo. L’accumulazione di oggetti è diventata una pratica volgare e retrograda nonostante gli oggetti raccontino una storia, costellino i nostri ricordi. Gli oggetti erano, come dice sempre Svenonius, “dei ricettacoli di conoscenza, avevano un senso, erano totem di significato”, custodivano un sapere tramandato rispetto a quello sempre rinnovato, in costante aggiornamento virtuale, che troviamo online. Il fenomeno vintage testimonia la nostalgia per gli scaffali pieni di libri polverosi, i dischi accatastati, le videoteche e le dispense piene. Ma si tratta proprio di una posa in voga tra pochi privilegiati che conferma la tendenza della società a liberarsi degli oggetti, o comunque a dargli un’importanza sempre minore, a favore invece dell’esperienza connessa all’acquisto. Alla proprietà di qualcosa infatti, si preferisce fare l’esperienza di qualcosa: questo è diventato un mantra ormai banale tra gli startupper e gli esperti di marketing di tutto il mondo. La gente vuole fare cose, vuole condividere momenti, avventure, sensazioni, peripezie. È una rincorsa al consumo emulativo di attività esperienziali da rilanciare sui propri profili social. Siamo ancora la canticchiante e danzante merda del mondo, ma adesso non abbiamo neanche più degli oggetti dietro cui nasconderci. Vogliamo farlo sapere a tutti.
https://www.lintellettualedissidente.it/inattuali/tutta-colpa-di-fight-club/?fbclid=IwAR0x5vl4FC8oEg9lZV1UVoGoMc1CggtL7E-9IPBmDFksI_o1rASrFNUTA-4
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intotheclash · 1 year ago
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Io sono per una controstoria della filosofia alternativa alla storiografia dominante idealistica; sono per una ragione corporale e per il romanzo autobiografico che l'accompagna in una logica puramente immanente, nel caso specifico materialistica; per una filosofia intesa come egodicea da costruire e decodificare; per una vita filosofica come epifania della ragione; per una prospettiva esistenziale con obiettivi utilitaristici e pragmatici. L'insieme converge verso un punto focale: l'edonismo. Metto spesso in primo piano questa massima di Chamfort, perché essa funziona come imperativo categorico edonista: godi e fai godere, senza far del male né a te né a nessuno, eccola qua tutta quanta la morale".
Michel Onfray - La potenza di esistere
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carmenvicinanza · 1 year ago
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Ágota Kristóf
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Ágota Kristóf, scrittrice e drammaturga ungherese passata alla storia della letteratura mondiale col suo capolavoro La trilogia della città di K. che ha ricevuto numerosi premi letterari ed è stato tradotto in oltre trenta lingue.
I suoi romanzi, dalla scrittura asciutta e incisiva, la prosa austera e la narrazione senza fronzoli, esplorano, in maniera cruda e provocatoria, temi universali come la violenza, la guerra, l’infanzia e la natura umana. I personaggi dei suoi racconti sono spesso segnati dalla condizione esistenziale dell’erranza, di chi è costrettə ad abbandonare la propria terra per cercare rifugio in un paese straniero
Nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd, un piccolo villaggio in Ungheria, a quattordici anni scriveva le sue prime poesie mentre studiava in un collegio di sole ragazze.
Nel 1956, dopo l’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, è fuggita con il marito e la figlia in Svizzera stabilendosi a Neuchâtel, dove ha vissuto fino alla morte, avvenuta il 27 luglio 2011.
Quando è scappata aveva poco più di vent’anni e una bambina di undici mesi avvolta alla schiena. Ha dovuto imparare a ricostruirsi una nuova vita, una nuova lingua, che ha adoperato per scrivere sentendosi sempre analfabeta perché non la padroneggiava abbastanza. Ha lavorato come operaia in una fabbrica, poi è stata insegnante e traduttrice, ha divorziato e avuto altri due figli. 
La sua fuga è stato un trauma da cui non si è mai ripresa, allontanata dagli affetti in un mondo totalmente diverso da quello a cui apparteneva. La condizione inesorabile della persona migrante che deve adattarsi a una realtà da cui si sente estranea.
Ha raggiunto il successo internazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier che, insieme a La preuve e Le troisième mensonge è confluito in quel grande capolavoro che è stato la Trilogie (Trilogia della città di K.). I tre libri ripercorrono il tema del distacco, la separazione di due gemelli, Klaus e Lucas, e il ritrovamento dopo la guerra.
La sua scrittura è scarna, crudele, reale. Un pugno nello stomaco di chi la legge. Quello che racconta non ha bisogno di fronzoli o abbellimenti, è il ritratto di una realtà dura che molto coincide con la sua biografia. Ha rappresentato le tragedie della guerra con una disperazione fredda e sorda, come se scrivesse attraverso gli occhi di un bambino che non giudica mai niente, che si limita a registrare quello che accade con spietata ingenuità.
Vari i romanzi e le opere teatrali che ha scritto consumando, con parole dure, la lotta per integrarsi in una nuova cultura, la continua guerra di chi ha perso la propria terra e non potrà mai più tornare indietro.
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chez-mimich · 2 years ago
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LE OTTO MONTAGNE
Quando si commenta un film, un libro, uno spettacolo teatrale, occorrerebbe sempre pensare alla cosiddetta “autonomia del significante”. Ogni film, libro, opera teatrale o altro dovrebbero essere giudicati al di là delle nostre convinzioni personali o delle nostre scelte esistenziali, religiose, politiche ecc. Naturalmente non sempre questo è possibile ma, data per accettata, l’autonomia del significante, prima che io commenti “Le otto Montagne” di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (dal romanzo di Paolo Cognetti), è meglio che sappiate che quando vado in montagna (raramente), dopo un paio d’ore incomincio a guardare l’orologio e mi chiedo se non sia ora di tornare a casa. Sono un “animale” urbano e quindi, come dice Woody Allen, “non vivrei mai nello Iowa, anche perché non so nemmeno dove sia”. Fatta questa premessa non doverosa, ma necessaria, credo che “Le otto montagne” sia davvero un bel film, non tanto per il messaggio che contiene e che io non condivido. La storia è ormai nota: Pietro, bambino di città (Torino), con un padre ingegnere e Bruno, figlio di un montanaro e montanaro lui stesso, stringono una profonda amicizia proprio grazie alla vacanze estive di Pietro, bambino di città, nelle montagne di Bruno, un’amicizia che durerà tutta la vita, con annessi e connessi di amori, aspirazioni, difficoltà. Ma se per Pietro la montagna è soprattutto motivo di riflessione esistenziale e in un certo senso filosofica, per Bruno la montagna è l’unico possibile orizzonte di vita, tanto da dedicare ad essa, e vivere in essa, tutta la propria esistenza. Dopo, aver incontrato la donna della sua vita e averla portata con sé in questa scelta di vita, Bruno si accorge che vivere “di” montagna è difficile, se non impossibile, ma la sua scelta non dipende da questioni materiali, poiché la montagna è immanente nell’anima di Bruno, mentre non lo è in quella dell’amico Pietro, che pur amandola non ne fa una ragione di vita. Film ben confezionato, dal buon ritmo narrativo, con un’adeguata fotografia “wildness style”, a cui si aggiungono le buone interpretazioni di Alessandro Borghi, nella parte di Bruno, e di Luca Marinelli, nella parte di Pietro. Magari, con un po’ più di attenzione da parte dei due registi si sarebbe potuto ovviare a qualche ingenua incongruenza, come la cadenza lombarda dei due protagonisti, più da Valtellina che da Alpi occidentali. Volendo cavillare, anche la scelta della colonna sonora avrebbe potuto essere un po’ meno country, che fa molto “west”, ma che sembra un po’ in contrasto con la “mission” del film che è, indubbiamente, quello di raccontare il legame quasi embrionale di un uomo con l’ambiente che lo circonda. Mito del buon selvaggio? Natura matrigna? Ecologismo? Niente di tutto ciò, solo una storia, magari non originalissima, ma che funziona sempre e sulla quale è certamente possibile girare un film con un buon risultato.
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boldlymagnificentperson · 5 months ago
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Libri: A. Piperno, Aria di famiglia, Mondadori.
Simone Vaccarino ci consiglia di leggere l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno. A questo proposito Simone ci scrive: “Grande libro da me apprezzato e che consiglio vivamente. Piperno ha una scrittura sofisticata capace di descrivere ogni tipo di sensazione nel modo più completo. La vicenda del protagonista, uno scrittore cinquantenne in crisi esistenziale che “rinasce” grazie ad una complicata…
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libroazzurro · 9 months ago
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Un oggetto chiamato salvezza #1
«Se Hans Doré salva il mondo è perché il mondo salva Hans Doré» è una formulazione declinata dalla mia bocca durante un’intervista di Filippo Golia per TG2 Storie del novembre 2022; una frase detta senza pensare, frutto di un momento di felice sperdimento, che, eppure, descrive perfettamente la fisica e l’ontologia de «Lo splendore»: ogni ente è tale solo nella relazione con gli altri, e solo in questa relazione, dunque, si può trovare la salvezza.
Sì, ma la salvezza cos’è? È un’azione che passa fra due o più oggetti? È un’azione assoluta? È che azione è? E se la salvezza fosse la relazione stessa? Ho almanaccato per molto tempo su questo argomento, e sono giunto a infinite conclusioni, più di una corretta, senza dubbio, e perfino suggestiva, ma nessuna capace di soddisfare il mio intimo sentimento della verità. Confesso che questo sentimento è di natura spiritualmente romanzesca, e che, per temperamento, sono incline a certe fedeltà d’amore che fanno di me ciò che, in modo non generico, si suole definire un tradizionalista: motivo per il quale ho alla fine capito che la salvezza di cui parlo nel romanzo deve essere, in fondo, pensata come un oggetto. Del resto l’apostolato umano e l’avventura esistenziale di Hans Doré, il protagonista del romanzo, tutta si riduce alla ricerca di un oggetto.
Nell'immagine, "The Damsel of the Sanct Grael", olio su tela di Dante Gabriel Rossetti, realizzato nel 1874, collezione privata (immagine nel pubblico dominio, tramite Wikimedia Commons). 
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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lucianopagano · 10 months ago
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Mauro Marino a proposito del romanzo di Davide Morgagni «Il rifiuto» (Musicaos)
Venerdì 19 gennaio 2024 presso la Biblioteca Bernardini di Lecce si è tenuta l’anteprima del romanzo di Davide Morgagni, «Il rifiuto» (Musicaos), l’autore ha letto alcuni brani del romanzo.
Nelle parole di Mauro Marino (Biblioteca Bernardini):
«Un intenso reading ha attraversato i quattro romanzi raccolti nel volume - I pornomadi (2014), Strade negre (2017), Del 2019 La nebbia del secolo (2019), Finché c’è rabbia (2023) - una narrazione che attraversa quindici anni della nostra recente storia, un nomadismo, geografico ed esistenziale, da Lecce a Roma, da Roma a Parigi e poi ancora il Salento. Fare pratica dell’ascolto, guardare, stare nel ritmo della vita, sentirlo quel ritmo, quel battito, l’incessante divenire della lingua, della parola. Farne canto, racconto, preghiera. Questo fa un autore, un buon autore; un attore, un attore-scrittore che tesse la sua drammaturgia, facendo “altezza” la scelta della lateralitá. Quello il posto ideale per esercitare l’attenzione, la presenza, la militanza. Per fare della scrittura teatro».
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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L'acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito – Una storia di lotta e sopravvivenza tra le ombre dell’esistenza
Giulia Caminito ci regala un romanzo potente e struggente sulla precarietà della vita e la forza di una ragazza in cerca di sé stessa.
Giulia Caminito ci regala un romanzo potente e struggente sulla precarietà della vita e la forza di una ragazza in cerca di sé stessa. Recensione:“L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito è un romanzo che esplora con brutalità e delicatezza le sfide dell’esistenza umana, filtrate attraverso la vita di Gaia, una giovane cresciuta in un ambiente sociale difficile. L’acqua del lago…
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agathaandrea · 10 months ago
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Recensione … Anime di Maria Cristina Buoso
Ciao, ringrazio  Andrea del Blog Respiro di Libri per la bella recensione fatta al mio libro. Grazie e buona lettura 🙂 https://respirodilibri.blogspot.com/2023/12/recensione-romanzo-by-andrea-anime-di.html ….  “Anime” di Maria Cristina Buoso è un romanzo breve, un dialogo a tre voci che ruota attorno a una scelta che il protagonista, un affermato avvocato che sente un “disagio” esistenziale…
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cinquecolonnemagazine · 11 months ago
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I capolavori del cinema italiano da scoprire e rivedere
Lo streaming e la televisione, che ci offrono una vasta gamma di opzioni cinematografiche a portata di clic, ci danno l'opportunità di scoprire e apprezzare tanti capolavori del cinema italiano degli ultimi anni. Con le festività natalizie e qualche giorno libero in più, è il momento ideale per dedicarsi alla visione di quei film che, nel trambusto quotidiano, spesso finiamo per trascurare. I capolavori del cinema italiano da scoprire e riscoprire Dunque non resta che mettersi comodi sul divano telecomando alla mano. Non dimenticate la copertina e una tisana calda rilassante (o digestiva, considerato il momento). Se l'offerta è troppo ampia e avete l'imbarazzo della scelta vi diamo noi qualche suggerimento. Dogman (2018) di Matteo Garrone. In uno dei tratti più abbandonati del litorale domitio, si snoda la storia del perverso rapporto tra un carnefice e la sua vittima. Vittima che finirà per ribellarsi facendo emergere il lato più animalesco di sé. La cruda pellicola, liberamente ispirata a un fatto di cronaca quale l'omicidio del Canaro, offre le brillanti interpretazioni di Marcello Fonte e Edoardo Pesce. Chiamami con il tuo nome (2017) di Luca Guadagnino. Adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di André Aciman, il film racconta con delicatezza, la struggente storia d'amore tra Elio e Oliver nata in una lenta e assonnata estate. La narrazione è sempre più intensa a mano a mano che ci si avvicina al finale. Il traditore (2019) di Marco Bellocchio. Regista che si è più volte confrontato con le pagine più oscure della storia italiana del secondo Novecento, Bellocchio ci propone un ritratto del mafioso Tommaso Buscetta. In questa pellicola ci restituisce una ricostruzione della sua vita dai tempi d'oro fino alla collaborazione con il magistrato Giovanni Falcone. Anche questo film si distingue, tra l'altro, per una grande prova attoriale di Pierfrancesco Favino. Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone. Cambiamo decisamente genere ed epoca con il film di Martone sulla vita di Giacomo Leopardi. Uno strepitoso Elio Germano incarna lo scrittore e poeta con tutto il suo travaglio fisico ed esistenziale. Un animo sensibile in aperto contrasto con la fragilità del suo corpo e la superficialità del mondo che lo circonda. Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia. Sono alquanto amare le risate che questa pellicola ci ispira. Le avventure della sgangherata banda di ricercatori dell'Università della Sapienza di Roma mette in luce tutta la precarietà del mondo della ricerca in Italia. Narra, a suon di battute, il triste destino di tanti giovani italiani i cui sogni, dopo tanti anni di studio, si infrangono di fronte alla triste realtà. Il film inaugura una trilogia tutta da ridere. Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese. Metti una sera a cena tra amici in cui si decide di condividere i messaggi che arrivano al proprio cellulare. Da quel momento si scoprono retroscena e segreti che nessuno avrebbe mai sospettato. Nessuno si salverà. La pellicola cult di Genovese mette in luce un altro aspetto dei nostri tempi: l'esistenza di tre sfere, la pubblica, la privata e la segreta. Read the full article
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bibliotecasanvalentino · 1 year ago
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Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ.
La casa editrice di questo mese è: NN Editore
Buona lettura a tutti!
ℚ𝕌𝔸𝕃ℂ𝕆𝕊𝔸 ℕ𝔼𝕃𝕃𝔸 ℕ𝔼𝔹𝔹𝕀𝔸 – ℝ𝕠𝕓𝕖𝕣𝕥𝕠 ℂ𝕒𝕞𝕦𝕣𝕣𝕚
«Ho scritto un libro che parlava di come ci si possa sentire in gabbia di fronte all'infinito, ora, nei racconti che ho iniziato, sento che c’è qualcosa di diverso, qualcosa che non capisco. Voglio scoprire dove mi sta portando, ascoltare ciò che mi sta chiamando.»
Può il confine tra finzione e realtà diventare sempre più labile tanto da consentire ad uno scrittore di incontrare e guardare negli occhi i propri personaggi? Questo è ciò che accade in “Qualcosa nella nebbia”, di Roberto Camurri, un romanzo in cui l’autore prova a descrivere il malessere esistenziale che può sottendere al processo creativo.
Il lettore si trova di fronte ad un vero e proprio metaromanzo, poiché il protagonista è lo scrittore Roberto alle prese con la stesura della sua nuova opera, una raccolta di racconti incentrati sulle vicende di Andrea detto Jack, Alice e Giuseppe che vivono nel comune di Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia.
Andrea è un giovane uomo consumato dalla vita; da bambino è stato vittima di bullismo e, una volta cresciuto, ha sviluppato una dipendenza da alcol e droghe. Un evento del passato lo ha segnato inesorabilmente: l’arrivo di una strana famiglia nella casa accanto alla propria, che sarà vittima di un’immane tragedia. Andrea ha un’unica amica alla quale è molto legato, Alice.
Alice è la sola ad andare via da Fabbrico per inseguire sogni di fama e fortuna. È diventata una star televisiva da reality show, ma non può fare a meno di tornare al paese d’origine. È anche il personaggio più complesso e sfaccettato: vuole rinnegare le proprie radici, ma non riesce a stare lontana da Fabbrico per troppo tempo. Cerca l’amore, ma si butta via lasciandosi coinvolgere in storie con uomini sbagliati che la umiliano e la maltrattano.
Giuseppe è un tipo piuttosto introverso. È il grande amore di Alice, ma il loro è un rapporto fatto di assenza e grandi silenzi. Il legame col padre alcolizzato è stato fonte di grande sofferenza e lo ha portato a chiudersi in se stesso a tal punto da diventare estraneo a ciò che lo circonda.
Lo scrittore Roberto, che tira le fila delle varie vicende, è un uomo profondamente irrisolto e insoddisfatto e questo lo spinge a provare molta rabbia nei confronti della moglie, donna solida, accogliente e pragmatica, e della figlioletta. Attraverso la scrittura Roberto attiva un processo di catarsi che gli consentirà non solo di annullare la distanza tra sé e i personaggi da lui creati, ma anche di ricordare un evento tragico del suo passato nascosto nei recessi più profondi della memoria.
La Fabbrico descritta da Camurri non è reale, piuttosto è cupa, fosca, sotterranea poiché riproduce i moti dell’anima dello scrittore e dei suoi personaggi. È il luogo in cui si creano rapporti, si stringono amicizie, ma anche quello dove avvengono fatti di sangue e in questo romanzo, di violenza sia fisica che psicologica, ce n’è davvero tanta. La scrittura è estremamente intima e scava nell'anima dei protagonisti mettendone a nudo gli stati d’animo, i sentimenti e le debolezze.
Leggendo questo libro è impossibile non provare un profondo senso di malessere e di straniamento, simile a quello derivante dalla visione di un film di David Lynch. Allo stesso tempo, non si può non restarne invischiati: il senso di fascinazione che le vicende e i personaggi esercitano sul lettore non lasciano scampo.
Infine c’è la nebbia che nasconde luoghi, oggetti, persone e quel qualcosa di cui tutti noi, in fin dei conti, siamo alla ricerca.
COSA MI È PIACIUTO
Ho amato molto l’elemento metanarrativo del romanzo e il modo in cui il protagonista cerca di entrare nel libro che sta scrivendo. Inoltre ho apprezzato il colpo di scena finale.
COSA NON MI È PIACIUTO
L’estrema violenza e la volgarità del linguaggio in alcune delle situazioni narrate.
L’AUTORE
Roberto Camurri è nato nel 1982, undici giorni dopo la finale dei Mondiali a Madrid. Vive a Parma ma è di Fabbrico, un paese triste e magnifico che esiste davvero. È sposato con Francesca e hanno una figlia. Lavora con i matti e crede ci sia un motivo, ma non vuole sapere quale. Il suo libro d’esordio, “A misura d’uomo” (NNE 2018), ha vinto il Premio Pop e il Premio Procida ed è stato tradotto in Olanda, Spagna e Catalogna. Il suo secondo romanzo, “Il nome della madre”, è stato tradotto in Olanda e Germania. “Qualcosa nella nebbia” è il suo terzo romanzo.
LA CASA EDITRICE
NN Editore ha avuto inizio il 19 marzo 2015, quando sono usciti in libreria “Benedizione” di Kent Haruf e “Sembrava una felicità” di Jenny Offill. Fin dal nome - NN sta per nomen nescio, nome sconosciuto, come nella carta d’identità degli "orfani" di padre – la casa editrice ha voluto dare risalto al tema della ricerca d’identità nel mondo contemporaneo, insieme alla qualità della scrittura e all'empatia suscitata nei lettori dalla voce degli scrittori al di là dei generi e della nazionalità degli autori. Il catalogo di NN non ha collane, ma si sviluppa in Stagioni, Trilogie e Serie. Ogni stagione illumina un tema specifico legato alla ricerca d’identità, come il peso di ruoli e relazioni, l’eredità del passato, gli alleati e i nemici nella ricerca del proprio posto nel mondo. In questo modo, i libri sono legati tra loro da invisibili fili rossi, a costituire nel loro insieme un ideale percorso di lettura.
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Varese, Baj, Guttuso, Tavernari, virtuose relazioni al castello di Masnago
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Varese, Baj, Guttuso, Tavernari, virtuose relazioni al castello di Masnago I Musei Civici del Castello di Masnago ospitano il nuovo percorso espositivo Baj, Guttuso, Tavernari. Virtuose relazioni varesine. Un allestimento inedito con cui il Comune di Varese vuol far conoscere e dialogare tra loro le opere dei tre grandi artisti Enrico Baj, Renato Guttuso e Vittorio Tavernari, accomunati da un legame esistenziale e creativo col territorio varesino. L'inaugurazione al pubblico è per sabato 2 dicembre alle ore 11. Ad ospitare le opere sono cinque stanze dell'ala quattrocentesca del Castello di Masnago, che trova il suo perno nella Sala degli Svaghi. L'intento è quello di valorizzare il prezioso patrimonio del Comune di Varese, esponendo e mettendo a confronto opere sia di proprietà dell'Ente sia in comodato, offrendo al visitatore una diversa rilettura della collezione permanente, per arricchire e integrare le diverse mostre temporanee presenti al Castello. Una rassegna di opere e documenti che ha l'intento di coinvolgere i visitatori sul piano espressivo, tematico e culturale, mettendo in rilievo la relazione degli artisti con l'ambiente varesino, come è dimostrato dalle numerose note biografiche che integrano il percorso espositivo. «Questa iniziativa – spiega l'assessore alla Cultura, Enzo Laforgia – si inserisce nel costante impegno del nostro assessorato finalizzato alla ricostruzione e alla valorizzazione di importanti esperienze artistiche e culturali, che hanno caratterizzato la storia del nostro territorio e che testimoniano la ricchezza del patrimonio custodito presso le nostre collezioni.» «Lungo il percorso espositivo - aggiunge la curatrice Serena Contini - posto in alcune suggestive sale del Castello, si possono riscoprire sotto una nuova luce i rapporti amicali e professionali tra gli artisti Baj, Guttuso e Tavernari. Si è voluto sottolineare come il rispetto e l'ammirazione delle individuali capacità creative di questi tre Maestri trovarono esplicazione in fruttuose collaborazioni reciproche in ambito artistico, ben evidenziate nelle diverse sale tematiche con la presentazione di opere ad olio, collage, polimateriche, acqueforti-acquetinte, sculture, lastre originali con le relative stampe, libri d'artista, lettere, cartoline, a testimonianza della loro affettuosa frequentazione». Le relazioni umane e intellettuali tra gli artisti e il più vasto contesto culturale del territorio sono messe in evidenza dal materiale documentario formato da lettere, pubblicazioni d'epoca, schizzi d'arte. Particolare rilevanza hanno le cartelle d'artista, con lo scrittore Piero Chiara come elemento di congiunzione, come ad esempio la cartella d'artista del 1966 intitolata Il povero Turati con un racconto di Piero Chiara e due acqueforti di Renato Guttuso; la cartella d'artista pubblicata nel 1971, Gli Amanti, frutto del sodalizio tra Vittorio Tavernari e Piero Chiara; la cartella d'artista del 1990 con un brano tratto dal romanzo Una spina nel cuore di Piero Chiara e un'acquaforte di Enrico Baj. Insieme all'allestimento saranno proposti momenti di approfondimento aperti al pubblico, visite guidate ed eventi. Il Museo d'Arte Moderna e Contemporanea del Castello di Masnago è aperto da martedì a domenica dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 14.00 alle 18.00. Maggiori dettagli sul sito museivarese.it.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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giancarlonicoli · 1 year ago
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21 nov 2023 19:50
“HO DENTRO UN CASINO GRECO-SICULO, ROMANTICO E SENTIMENTALE” – ANNA KANAKIS, L’ATTRICE MORTA A 61 ANNI, SI RACCONTAVA COSI’ IN UN’INTERVISTA DEL SETTEMBRE 2022: “COSSIGA? QUANDO MI CHIAMÒ PER ARRUOLARMI NEL PARTITO, MI DISSE: STIA TRANQUILLA, SE NON LA FANNO LAVORARE PERCHÉ È CON ME, VADO SOTTO AL CAVALLO DELLA RAI E FACCIO UN GRAN CASINO" – E POI ALBERTO SORDI (“CI DAVANO PER FIDANZATI”), IL PADRE "ESTRANEO" E IL TERZO ROMANZO: "TUTTO È INIZIATO IL GIORNO IN CUI IL COMPIANTO CESARE DE MICHELIS MI DISSE: ‘TU HAI UNA FANTASIA MALATA…’” – MISS ITALIA, I MATRIMONI, IL PORTO D'ARMI... - VIDEO
Estratto dell’articolo di Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
«Tutto è iniziato il giorno in cui, dopo aver letto il mio primo manoscritto, il compianto Cesare De Michelis mi disse: tu hai una fantasia malata, ti pubblico». Accadeva più di dieci anni fa, Anna Kanakis era celebre per essere stata Miss Italia, per essere protagonista di fiction di successo come Vento di Ponente e per essere stata responsabile del settore Cultura e Spettacolo dell'Udr di Francesco Cossiga.
Ora, ricorda: «Un giorno, leggendo una biografia di George Sand, mi appassiono alla figura di Alexandre Manceau, il suo ultimo amante. Prendo foglio e penna, inizio a scrivere: era lui che raccontava la sua storia.
I fogli si ammonticchiano, li trascrivo al computer, li mando agli amici Isabella Bossi Fedrigotti e Massimo Gramellini. Entrambi mi chiamano dicendo: "Anna, questo è un romanzo, devi proporlo a una casa editrice"». Oggi, è al suo terzo libro: Non Giudicarmi esce per Baldini+Castoldi venerdì 23 settembre.
Che cosa intendeva l'editore di Marsilio con «fantasia malata»?
«Che volo tanto con la testa. Ho scritto sempre romanzi storici, su persone realmente esistite, che riesco a riempire di emozioni. Ora ho raccontato l'ultimo giorno di vita del barone Jacques d'Adelswärd-Fersen, che ho fatto semplicemente sbarcare a Capri e arrivare a casa: lui prese la funicolare, io l'ho fatto salire a piedi.
Lui ci mise dieci minuti, io ho scritto 112 pagine in cui scorre una vita intera, con paure, ossessioni, sensi di colpa, perversioni, amici, nemici: questa è la mia "parte malata", il volo con la fantasia, che pure rimane fedele alla storia. Volevo raccontare la fatica esistenziale e sentimentale di un omosessuale negli anni '20, perché il passato aiuta a capire il presente e sul tema diritti e omofobia, oggi, ce n'è particolarmente bisogno».
Nella vita, la fantasia è malata o sana?
«Ho dentro un casino greco-siculo, romantico e sentimentale, che cerco di dominare con la razionalità. Prima ero più concentrata su me stessa, ora guardo più alle vite degli altri, ne immagino le sofferenze, mi adopero per aiutare».
E si sente più attrice o scrittrice?
«Quando arrivò il primo scatolone coi miei libri, chiamai l'avvocato Giorgio Assumma che mi seguiva come attrice e gli dissi: temo che non ci vedremo più per le fiction, perché mi sono innamorata della scrittura. In fondo, scrivere si avvicina alla recitazione: se interpreti qualcuno, fai una ricerca, cerchi di capirne le emozioni. Infatti, già da attrice, sulla ricerca ero maniacale».
La cosa più maniacale che ha fatto?
«Assistetti a un'autopsia con Nicola Calipari».
Con l'agente del Sismi ucciso in Iraq?
«Allora era nella Criminalpol. Fu lui a spiegarmi cosa si fa appena si arriva sulla scena del crimine. Era il 1999, dovevo girare una fiction: Fine Secolo , sei puntate per Raidue. Facevo una superpoliziotta arrivata dall'America per indagare sulla morte di una ragazza. Dovevo sparare come un tiratore scelto, buttare a terra un delinquente, fare testacoda pazzeschi, assistere a un'autopsia. L'ispirazione era Nikita. Cossiga chiamò il capo della Polizia, disse: c'è un'attrice che lavora per me, un tipo molto esigente che vuole imparare a fare tutto».
Mima bene la voce del fu presidente emerito.
«Mi manca quel signore col quale parlavo di cinema, letteratura, tutto. Aveva la freschezza di un bambino. Era bimbo dentro e abile politico fuori. Quando mi chiamò per arruolarmi nel partito, mi fece ridere dicendo: stia tranquilla, se non la fanno lavorare perché è con me, vado sotto al cavallo della Rai e faccio un gran casino».
Che altro imparò per quel set?
«Il capo dei Nocs mi affidò a un campione di pistola che m' insegnò a sparare al poligono della Polizia e che mi insegnò ad atterrare i criminali con una mossa di aikido».
La mossa di aikido se la ricorda ancora?
«Certo. E, dopo, ho preso il porto d'armi».
Che ci fa con un'arma?
«Tiro al piattello in Toscana o tiro dinamico al poligono. Ho un'ottima mira».
[...]
È mai uscita con la pistola nella borsetta?
«Le prime volte, se andavo in metro da sola».
Non ha avuto ripensamenti sull'addio ai set?
«Mai. Anzi, mi sono sentita liberata dalla schiavitù di apparire. Padrona del mio lavoro: non dipendevo più da un regista o da un produttore, ma ero libera di gestire il mio tempo e produrre una forma d'arte diversa.
Ho lasciato senza rimpianti e ai massimi, mentre andava in onda La terza verità, che faceva quasi 8 milioni di ascolti. Dopo, quando dicevo no a dei copioni, non ho provato emozioni. Invece la prima recensione mi aveva asciugato la bocca, ero impazzita di gioia. Ne ho poi collezionate 19: su un romanzo storico, scritto da un'attrice, ex miss...».
Facciamo un passo indietro a quel 1977 in cui a 15 anni diventava la più bella d'Italia.
«Ancora? È roba vecchia come le guerre puniche. L'ho raccontato mille volte di come fu per caso, di come mi selezionarono in vacanza a Vulcano... Da lì, se fai l'attrice, allora sei miss e non puoi essere brava e devi dimostrare più delle altre, come se la bellezza si potesse coniugare solo con la stupidità».
Mettiamola così: chi era la giovane Anna?
«Una ragazzina che studiava al liceo Cutelli di Catania, fortemente politicizzato a sinistra: un giorno sì e uno no, si facevano assemblee. Leggevo tantissimo, studiavo tantissimo ed ero cresciuta con una madre in gamba, capo dell'ispettorato del lavoro di Catania».
Il papà greco quanto c'era?
«Mamma era tornata in Sicilia con me e mia sorella e fu tra le prime a usufruire della legge sul divorzio. Nei miei primi 25 anni, lui l'avrò visto cinque volte, poi è morto. È stato un estraneo, il quale pensava che aver generato due figlie non significasse occuparsene».
Quanto le è mancata la figura paterna?
«Sono stata in parte cresciuta da nonna, perché mamma si era laureata e dava concorsi in tutta Italia. Ero viziata, ma dentro, a volte, sentivo solitudine. Crescendo mi sono accorta che guardavo non i coetanei, ma gli uomini più grandi e che dipendeva dall'assenza del padre. Al che ho letto un tomo sul complesso di Elettra e ogni volta che incontravo un signore che mi pareva affascinante mi dicevo: Anna, fermati, rifletti. Così, l'età dei fidanzati successivi è scesa».
Il primo matrimonio - lei 19 anni, lui dieci in più - durò niente.
«Cercavamo le stesse cose: io un padre, lui una mamma. Lì iniziò la mia vita romana da sola. Facevo la mannequin, il cinema me l'avevano proposto in tutte le salse, ma andavano Edwige Fenech e le scene sotto la doccia: la mamma ispettrice del lavoro e la figlia che leggeva romanzi non intendevano fare quel genere di film. Poi, un giorno, Giuseppe Tornatore, un giovane amico che iniziava nel cinema, mi parlò delle mie pagliuzze negli occhi».
Che cosa sono queste pagliuzze?
«Guizzi che deve avere l'attore per manifestare emozioni. Mi lasciai trascinare a un provino con Luigi Magni, per 'O re , che mi prese. Dopo, ho interpretato il soprano Maria Maligran nella Famiglia Ricordi di Mauro Bolognini, suore, una tossicomane in Riflessi in un cielo scuro di Salvatore Maira... Ho cercato ruoli che non fossero la bellona di turno».
Come eravamo messi col MeToo?
«Arrivavo da una sana educazione del Sud: ero poco disposta e poco disponibile. Qualche volta, qualcuno mi ha detto "se sarai carina con me, sarò carino con te" e non mi ha più vista».
Com' è la storia del rubino che uno sceicco arabo le fece trovare in un melograno? «Lucherinate: invenzioni da ufficio stampa».
Un incontro memorabile della sua carriera?
«Con Alberto Sordi: la stampa rosa ci aveva anche fidanzati. Giravamo L'Avaro con Tonino Cervi, un giorno, davanti al camino, in abiti di scena, mi raccontò che non volevano produrgli Un borghese piccolo piccolo , il suo film più bello: I produttori gli dicevano "Albe', ma qua non fai ride'...". Capisce la cecità?».
Un momento di down in cui si è detta «basta questo mestiere non fa per me»?
«Mai. Sono un panzer. E avevo scelto un mestiere in cui, anche se ti chiami Gassman, finisci un lavoro e sei disoccupato. Infatti, ero concentratissima sul lavoro. Dopo il divorzio sono rimasta di fatto single fino a 42 anni».
Single, ma corteggiatissima?
«Un pochino».
Sospiro.
«Vabbé... Tanto. La mamma mi vedeva tagliare le teste e mi diceva: ma perché quello non ti piace? E quell'altro?».
 A che punto della conoscenza tagliava teste?
«Quando dicevano: ho la barca, ho questo, quell'altro. Detesto la mancanza di profondità».
Suo marito Marco Merati Foscarini è banchiere e discendente di un doge di Venezia, com' è che lui l'ha sposato in soli quattro mesi?
«Mi ha fatto riacquistare la stima nel genere maschile. Mi ha avvicinata a una cena parlando non di quello che possedeva, ma di quello che sentiva dentro di sé. Siamo sposati da 18 anni. È il primo che legge ogni mio capitolo».
Scrive ancora a penna?
«Sì e poi copio al pc. Scrivere richiede ritualità e disciplina. Io mi chiudo nel mio studio in vestaglia, salto il pranzo, scrivo fino alle 16.30, poi Marco mi porta da mangiare e stramazzo».
Compiere 60 anni, a febbraio, che effetto le ha fatto?
«Nessuno. Ho un rapporto sereno con l'età».
Ha ancora un sogno?
«Sì: vorrei una società più luminosa».
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