Tumgik
#deformità
stralci · 3 months
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alcune frasi asperse da contesto da Fantasmi, di Cerami: «basta scoprire la tranquillità una volta ed è finita. è la doccia che uccide l'allegria, sono il dentifricio alla menta, la penombra delle imposte mezze chiuse, dell'abat-jour posata sul pavimento» / «il povero è uno straniero in casa propria» / «un vago odore di sessantotto stagnava nell'aria» / «un'intensa fanciulla che corre scapigliata nel silenzio» / «ritornava profumata d'orto» / «il bacio fu così lungo che si addormentarono labbra contro labbra» / «con raffinatissima, bizantina intelligenza» / «l'aria era fresca, saporita di gerani» / «ma lei non deve pensare alla potenza dei regnanti o dei magnati, dei maghi o chissà chi. deve pensare alla potenza di un albero, ecco, alla potenza di un albero» / «penso che sia un errore rincorrere, migliorare gli altri. chi ce lo dà questo diritto? e perché mai dovrebbe essere un dovere, chi ce lo ha imposto?»
alcune altre frasi asperse da contesto da Fantasmi, di Cerami, pt II: «era confinato dietro una linea invisibile che raccoglieva cittadini a cui nulla poteva mai capitare tranne le sciagure» / «si incistava, metteva radici» / «si chiese se la gioia per un pericolo scampato non spinga le anime innocenti a caccia di rischi» / «aveva un sorriso onesto e profumava di funerale» / «tutti e tre finirono nei versi dell'ecclesiaste dove si dice che i vivi sanno almeno che moriranno mentre i morti non sanno proprio niente» / «la casa era pulita pulita, ordinata e senza soprammobili, profumata di caldo» / «aprii con il cuore in bocca» / «di conseguenza lasciava che mi muovessi da solo, salvo farsi trovare sempre a braccia aperte sotto il burrone»
alcune altre frasi ancora asperse da contesto da Fantasmi, di Cerami, pt III: «perché la difformità fa tanto paura agli uomini, perché è tanto insopportabile? forse perché coincide con la deformità» / «perché i ragionamenti, si sa, scavano dove è inutile scavare e dimostrano tutto e il contrario di tutto» / «altro pensiero: basta volerlo e si esiste anche da soli» / «la realtà non sarà mai come la vogliono le parole» / «accorata fin quasi alla smanceria» / «insieme rubavano paradiso anche ai minuti» / «ho paura di non essere più capace di soffrire. ogni tanto ci penso e mi allarmo» / «aveva sognato le montagne che respirano»
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ambrenoir · 6 months
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Le storie di dipendenza affettiva sono sempre sconcertanti perché invischiano i loro protagonisti in un vortice autodistruttivo dal quale non sembrano volersi ritrarre malgrado l’escalation di dolore che infligge. La logica porterebbe a pensare che i tradimenti, le menzogne, la svalutazione, l’abuso psicologico, a volte velato, altre volte eclatante e la violenza verbale o fisica che caratterizzano la relazione dipendente debbano spingere la vittima a interrompere il rapporto, ma da un punto di vista psico-logico accade spesso l’inverso. Infatti, ogni mancanza e ogni attacco del membro “forte” della coppia sortisce l’effetto apparentemente inspiegabile di rafforzare il legame mentre erode la capacità reattiva della controparte, che finisce per abbandonarsi al proprio amore esasperante.
La trappola dell’ambivalenza. Le persone intrappolate nella dipendenza affettiva vivono soggiogate dall’ambivalenza: l’altro é buono, romantico, affascinante, unico e speciale a tratti … ma anche, a tratti, diventa crudele, gelido, respingente, brutto, banale. Senza soluzione di continuità, l’oggetto dell’amore dipendente presenta due facce contrapposte ma fuse in una alchimia venefica. Di qui l’impossibilità di stabilire se sia del tutto buono o del tutto cattivo diventa paralizzante.
Pensiamo che uomini e donne che amano poco siano creature algide, individui calcolatori e anaffettivi, criminali emotivi dal fare sospetto e inequivocabile ma non é affatto così. Al contrario, nella dipendenza affettiva almeno una delle parti presenta e agisce un’identità duplice, alterna slanci emotivi con la disarmante spontaneità di un bambino a esplosioni di rabbia o silenzi siderali; si cimenta in promesse d’amore vibranti e poi si nega con veemenza imponderabile.
Questa dualità costituisce il perno della dipendenza relazionale: la “vittima” si innamora del volto buono del partner, dei suoi aspetti sentimentali e della sua transitoria sensibilità, lo idealizza e vi si dedica interamente, mentre minimizza o nega la “faccia cattiva”, la scinde dall’oggetto d’amore perché illogica e incongruente con i propri bisogni affettivi coscienti e con l’immagine specchiata dell’amore romantico. Il mostro che incatena, maltratta, umilia, manipola, sfrutta è così in salvo, sotto la tutela della sua prigioniera che imputa a se stessa ogni punizione e violenza subita ed é disposta a perdonare tutto, a transigere su tutto pur di intravedere una volta ancora quel fugace sprazzo di luce angelicale sul viso amato.
I “mostri umani”. I mostri non esistono, o almeno, non esistono nella forma stereotipata e lampante in cui pretendiamo di riconoscerli. I mostri umani, quelli veri, non hanno i denti aguzzi dei vampiri, né presentano inquietanti deformità fisiche, non emanano afrori mefitici e non girano armati sino ai denti. I mostri umani sono dotati di quella capacità mimetica che li rende come gli altri e, anzi, li fa apparire migliori degli altri: più affascinanti, più intelligenti e più dotati. Esibiscono certezze lapidarie e dispensano verità di solennità sacerdotale. Il loro segreto consiste nello scindere e isolare quanto più possibile da sé le emozioni “negative”: la paura dell’abbandono, la vulnerabilità, la potenziale fallacia di un’emozione, di una scelta o di un’azione, il timore di soccombere all’angoscia di essere perfettamente umani.
Dunque, se dal partner dipendente l’amato é avvertito come un angelo caduto in una nebulosa ipnotica di stati d’animo in contraddizione e profondamente emozionanti, il mostro si auto-percepisce come un essere perfetto indebitamente offeso dalla fragilità dell’altro e dalla sua oscena dedizione. E più l’altro si espone e si oppone con amore incrollabile al dolore per la relazione impossibile che lo insabbia, più il mostro umano si adombra nel disprezzo e nella rabbia.
L’errore di fondo Il dramma della dipendenza affettiva comincia e si propaga a patire da un’enorme equivoco, in fondo. La “vittima” si innamora di un volto dorato ed intrigante e considera le incursioni del mostro umano sulla scena della relazione come manifestazioni dovute alla propria indegnità. Si lascia colpevolizzare, soggiace alla menzogna più bieca e al tradimento palese nell’illusione di conquistare il volto buono del partner e di sollevarlo dal male oscuro che lo ammorba. Ma l’intemperanza e l’inquietudine che trapelano dalla maschera meravigliosa dell’amato, il disprezzo ferino, la bieca indolenza e le temperature siberiane del suo agire, non sono la maschera di una persona buona e quindi amabile, sono il volto pieno del mostro umano.
Perché il mostro vero é duale, abita la contraddizione, la incarna, é il risultato di una integrazione mancata tra le parti positive e le parti negative di sé, della sua storia emotiva, del suo vissuto rimosso, traumatico e mai elaborato di bambino. (Enrico Maria Secci)
tratto da “DIPENDENZE AFFETTIVE MALDAMORE” pagina FB
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surripedia · 5 months
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Fallimento
Fallimento sost.s.m. deformità priapica.
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schizografia · 9 months
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E infine c’era il me stesso anomalo, contorto, malato; il degenerato disgustoso e isolato che si defilava di soppiatto per non dare nell’occhio. Qual era la tara segreta che mi escludeva dal gregge umano? Una malattia fisica? Ma, a parte qualche febbricola di origine polmonare del tutto innocua e peraltro abbastanza frequente tra i ragazzi della mia età (e che mi costringeva a soggiornare in montagna per un mese o due all’anno), godevo di una discreta salute... E allora, quale poteva essere la causa di quell’indeterminatezza interiore che faceva di me, ragazzo piuttosto allegro, una specie di mostro attratto da tutte le deformità e patologie dell’esistenza? Ero, e ne prendevo atto senza ombra di stupore o di protesta, un essere anormale, incapace di aprirsi con nessuno, eternamente condannato a nascondersi e a vivere in clandestinità. Le mie pulsioni erotiche mi trascinavano in basso, nella strada, in segrete e solitarie avventure nelle più remote periferie varsaviane con donne della peggiore specie. No, non si trattava di prostitute: in quelle goffe avventure cercavo proprio la salute, qualcosa che fosse il più possibile infimo ed elementare, e quindi anche più autentico... Ma che fare se al contatto delle mie mani avvelenate tutto diventava grottesco? Al rientro da quelle spedizioni selvagge tornavo alla mia vita di bravo figlio di papà e alle mie ingenuità da ragazzo “di buona famiglia”. Come facevo a coltivare due realtà tanto diverse? A quel tempo io e alcuni dei miei compagni “bene” avevamo fondato un club escursionistico con il quale organizzavamo gite fuori città, che erano quanto di più decente e corretto si potesse immaginare. Come potevo dedicarmi contemporaneamente a quei due generi di escursioni?
Witold Gombrowicz
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wwweirdworld · 2 years
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La convivenza con il dolore
Ho una malattia rara alla gamba, ce l’ho da quando sono nata. Ce l’ho da così tanto tempo che ormai ci ho fatto l’abitudine, e non mi crea più troppi problemi. Quando ero piccola era molto peggio: ricevevo sguardi di pietà che sottintendevano la frase “peccato, sarebbe stata una bella bambina”, frase mai detta ma chiaramente leggibile attraverso quegli occhi falsi di gente insignificante. Sono cresciuta credendo che sarebbe stato un privilegio trovare qualcuno che mi amasse nonostante questo, perché nemmeno io riesco ancora a convivere con l’immagine della mia deformità. Certi giorni è veramente orribile svegliarsi e vedere una caviglia più gonfia dell’altra, con un piede non armonico e tutto l’equilibrio sballottato. Certi giorni sento il rumore dei miei passi l’uno diverso dall’altro: il piede destro deciso e regolare, quello sinistro più sordo e incostante. 
Ogni giorno mi fa male, sia che piova o ci sia sole. Le mie vene formano all’altezza del ginocchio un groviglio impenetrabile, e nemmeno il chirurgo più esperto ha saputo sbrogliare il bandolo della matassa. Ogni giorno quelle vene pulsano, ogni passo provoca dolore ai muscoli del polpaccio, sento un tendine tirare meno dell’altro. Ogni salto fa male, ogni passo, ogni corsa, ogni tocco persino. Sfiorarmi il ginocchio per sbaglio può farmi stare male, il piede non riesce a piegarsi. L’impossibilità del tocco sul corpo si riflette dentro di me: sono un’impenetrabile fortezza. La paura di essere distrutta è più forte della gioia di accettare il contatto fisico. Ho il terrore degli abbracci all’improvviso, del solletico e dello sfiorarmi...sono improvvisati e sfuggono alla mia mania del controllo.
A volte mi dimentico del dolore, ma lui è lì. Ogni giorno, sia che sia una bella giornata o una di merda, io soffro. Alcuni giorni il sangue pulsa di più, altri meno. Alcuni giorni i passi sono sopportabili, altri pesanti. Quando la giornata è piena di imprevisti, lo sento ancora di più. Al cambiar delle stagioni, del clima e dei fusi orari, i miei tendini soffrono. Ogni equinozio e solstizio lo sento fino in fondo, e anche l’arrivo della pioggia mi provoca fastidio. A volte il vivere stesso sembra solo successione di dolore ovunque, ma si sopravvive. Si ignora tutto, si stringe i denti, ci si inventa nuove strategie per sopportare. Quando tutto diventa difficile, si prova a smontare il problema in mattoncini più piccoli, finché esso non sembra più affrontabile. Ogni giorno si cercano distrazioni: si prova a ridere di più, ogni emozione si amplifica, e a volte ci si dimentica di quel male invisibile ma presente.
Io convivo con il dolore, e a volte raggiungo il limite. Quando accade urlo, sbrocco, ho crampi ovunque. Passa con calma, con l’acqua calda e con un panino alla marmellata. Passa con una carica di endorfina e una scarica di adrenalina, si inietta tramite barrette di cioccolato la serotonina. Alcuni giorni sembro incazzata, e invece è solo dolore. Ricorda sempre, quando mi ferisci, che il mio male è doppio: io ne porto già uno dentro, all’altezza del polpaccio. Non si vede, ma lo sento, esiste e vuole ostacolarmi. Vuole rendermi sua schiava e prigioniera del mio corpo, ma io resisto. La resilienza implica rabbia e angoscia, sentimenti chiusi dentro, limiti e sconfitte, orgoglio e umiltà. 
Abbi rispetto del dolore di chiunque, a volte non si vede, ma ti sta mangiando dentro.
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La prigionia delle idee
I silenzi imposti,
gli assensi estorti,
le illusioni eradicate
dalle deformità diffuse,
definiscono normalità
il privilegio,
svuotano l’essenza,
ormai scardinato simulacro
dell'essere,
ipostasi
dello spessore del nulla.
Ma un fruscio di libertà
distrae
dalla mediocrità
di patetici artigiani
della simulazione.
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unastanza · 2 years
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La ragazza con un solo occhio
Non mi piace quando lo fa.
Lo detesto. Detesto la sua barba, le sue mani tozze, volgari.
Mi guardo intorno e detesto tutto di questo posto: le luci soffuse, gli eleganti centrotavola floreali, l’orchestra che suona dal vivo un brano di Glenn Miller, le coppie attorno a noi, così perse in passioni e desideri, così lontane, in un mondo a parte e distaccato da quello su cui io ora poggio i piedi.
Ma più di ogni altra cosa, detesto me stessa.
Non so neanche perché mi trovo qui, con lui. Qual è la ragione che mi ha spinta ad accettare? Non lo so.
Ero stanca della sua insistenza, forse. Ero stanca del suo fiato caldo come quello di una bestia famelica, che puzza sempre di bourbon scadente e sigari, dritto sulla mia faccia.
Così ho detto sì.
Ed implicitamente, ho detto sì alle sue mani, al suo fiato putrido, al suo viso già rubizzo per i fumi dell’alcool, ai suoi capelli laccati di gel, che a me paiono così unti, schifosamente sporchi, ai suoi occhi acquosi, storditi, annebbiati da un’unica voglia malata, che di ora in ora si manifesta sempre più palese.
È un uomo schifoso, lo sanno tutti. Ma nessuno fa niente.
Ricordo le occhiatacce di disprezzo e di disgusto delle mie colleghe dattilografe, alla notizia che avevo accettato l’invito, i discorsetti alle mie spalle, come se io non potessi sentire, come se il mio handicap peggiore fosse l’udito.
E non la vista.
Non le biasimo.
Le parole cattive uscite in miasmi di risentimento dalle loro gole, gli sguardi carichi di incredulità mista ad avversione, sono gli stessi che ho riservato a me stessa, una volta tornata a casa.
Eppure, nonostante questo, ho spazzolato i capelli, truccato il viso, acceso guance e labbra di rosso, indossato il mio miglior vestito – con il mio stipendio, è difficile spendere in lussi da ragazzetta vanitosa – e preso il taxi che mi ha condotta qui stasera.
Lui era alla porta ad aspettarmi, nel freddo sferzante di Gennaio.
Un vero galantuomo, ho pensato. Ironica.
Il suo braccio teso verso di me, una richiesta avanzata con arroganza.
L’ho ignorato, con un sorriso gentile.
Non azzardarti a toccarmi.
Lo ripetevo come un mantra, come una maledizione che speravo lo colpisse, che le sue braccia e le sue gambe e il resto del suo corpo disgustoso potessero per sempre smettere di funzionare, cedere e liquefarsi se solo avesse provato a toccarmi.
Non sta funzionando: continua a spostarmi i capelli dal viso.
Non mi piace quando lo fa.
Espone la mia parte vulnerabile, la deride, si prende gioco di me.
La mia ragazza con un solo occhio, è così che mi chiama, sorride con la speranza di trasmettere simpatia e non schifo.
Schifo, schifo, schifo.
Mostra a tutta la sala il mio difetto genetico, il peggiore che la natura avrebbe mai potuto imputarmi.
Quasi li vedo smettere di mangiare, alzarsi dai tavoli, venirmi incontro per deridermi con i loro visi perfetti, con una bocca normale, con un naso normale, e cosa più importante, con due occhi.
Io ne ho solo uno, il destro. Lì dove dovrebbe esserci il sinistro, una membrana tesa e screpolata, tirata come la pelle di un vecchio, circonda e protegge un buco scuro, vuoto, dove oltre non si riesce a vedere.
Ossa, cervello, cranio, muscoli.
Ci sono, sono lì, si sviluppano e pulsano e si contraggono, ma non si vedono.
La ragazza con un solo occhio.
Per colpa di questa deformità – o forse dovrei dire per totale assenza di forma – il lato sinistro del viso si sviluppa in modo irregolare, sgraziato.
Un’incrinatura ambulante, con le grosse labbra che lasciano intravedere le gengive e parte dell’incisivo e il canino sinistro; sbeccatura e caricatura di me stessa, con la narice che asseconda la piega distorta della mia bocca, puntando verso l’alto.
Un viso che si sviluppa all’insù, sollevato, evasivo; la mia stessa carne ribelle che vorrebbe scappare, che non accetta l’irregolarità.
Uso sempre i capelli per coprirmi il volto, rossi e lucenti, sono la mia massima soddisfazione.
Ma lui non vuole lasciare le cose così come sono adesso. Sposta e scopre ed evidenzia, mi espone come un fenomeno da baraccone.
Non mi piace quando lo fa.
Si avvicina, annaspa, goffo ed ingombrante, mi mette una mano sulla coscia, l’altra in vita, spaventosamente vicino al seno.
Stringe e cinge, la sua pelle di maschio puzza già di sudore, emana l’olezzo della carne euforica, pregusta quello che sta per avvenire, quello che vorrebbe che accadesse, proprio qui, in questa sala, su questo tavolo, sul pavimento, spinta contro una finestra, contro il mio stesso volere.
Perché è così che lui fa, è così che agisce.
Non chiede, esige.
Sfonda e si appropria di tutto ciò che vede, che tocca, che bacia, lecca.
È la caccia, ad eccitarlo, più di ogni altra cosa. Gioca con me, mi saltella intorno, mi prende di mira. È il vedermi sua preda, schiacciata sotto la forma possente e grossa del suo corpo, a piacergli. Non io.
«Spero che la serata sia di suo gradimento, signorina Welch.»
Ridacchia. Pronuncia il mio nome con beffarda ironia.
Mentre penso alla risposta da dare, il mio sguardo indugia sul coltello alla mia sinistra.
È fermo in bilico sul piatto, la lama lucente, intinta dei succhi di un anatra all’aceto balsamico che a stento ho avuto il coraggio di sbocconcellare.
Mi rendo conto solo adesso di aver maltrattato la carne, così sottile, così tenera; l’ho sfilacciata, ridotta in pezzettini piccoli, adatti alla boccuccia di un uccellino.
Quei pochi bocconi che ho ingerito, l’ho fatto masticando e frantumando sotto i denti, deglutendo a fatica.
Realizzo in questo istante di aver fatto al mio pasto ciò che avrei voluto fare a lui.
Il coltello, di nuovo, lo fisso, intenso e brillante. Divento la sua allodola. È ipnotizzante.
Mi scopro a pensare, per niente terrorizzata, se solo potessi ficcarglielo in gola, aprirlo da parte a parte, sgozzarlo come un maiale, far scendere la lama lungo il suo petto ed eviscerarlo, sventrarlo, svuotarlo sempre di più, sempre più giù, fino a raggiungere i suoi genitali!
Sarebbe una liberazione, penso. Enorme sollievo.
«Molto, signor Thorne» rispondo, muto la mia forma, divento malleabile ed accomodante, modifico il tono di voce, degradandolo a sfumatura civettuola.
Mimo un flirt che non intendo veramente, mi lascio andare.
Sto per sgozzarlo.
«La ringrazio molto per questo invito, sono così lusingata. Una ragazza come me...»
«Sprovveduta» aggiunge, mi blocca, completa erroneamente la mia frase. «Sprovveduta» ripete, «Rammento ancora il suo primo colloquio nella mia azienda, era così persa. Sprovveduta.»
Lo rammento anche io.
Mani, bocche, saliva, fiato che puzza.
Stringe la presa sulla mia coscia. «E guarda invece adesso dove sei arrivata! Immagino, signorina Welch, quanto fortunata lei possa sentirsi in questo momento.»
Termina con una risata gutturale, interrotta da un colpetto di tosse.
Lo guardo sorpresa, gelido senso di sopraffazione mi corre lungo la spina dorsale. «Già, sono molto fortunata.»
È compiaciuto adesso, me ne accorgo dal modo in cui si lecca le labbra e le fa schioccare. Una goccia di saliva mi arriva sul mento.
Per un breve attimo, sussulto.
Non se ne accorge; sono anzi sicura e certa, che abbia scambiato il mio ribrezzo per brivido di eccitazione.
«Le piace l’orchestra?»
Annuisco.
«Anche me, è deliziosa. E Glenn Miller?»
«Sì.»
«Nel tempo ho collezionato i suoi vinili più famosi.»
Ammicca, saliva bianca si accumula e si incrosta ai lati della sua bocca larga e secca.
Capisco immediatamente dove vuole andare a parare, e mi sta quasi bene.
Ho bisogno di privacy assoluta ed intimità, se voglio mettere in pratica il mio piano.
Navigo nell’indefinita, vaga eppure persistente voglia di toglierlo di mezzo, di farlo collassare, di svuotare le sue carni.
Così la smetterà di toccarmi. Così la smette.
La smette di essere così sporco e schifoso, la smette di spostarmi i capelli da davanti il viso.
Un gesto che ripete senza considerazione, io nata per compiacerlo e nella mia anormalità mostruosa divertirlo ed affascinarlo.
Non so ancora come ma avverrà.
Lo farò.
Stanotte.
È questo esacerbato istinto di sopravvivenza, questo desiderio di vendetta, che mi porta a sorridere. Gli angoli della bocca si incurvano verso l’alto, la mia eccezione sfuggente diventa più evidente, virgolette di alterazione che lo fanno infiammare.
«Le andrebbe di proseguire la serata in un luogo più...»
Esita, ma è una mossa studiata. Si aspetta che lo guardi con trepidazione.
Lo esaudisco, lo soddisfo.
Il mio atto finale più atteso sta per andare in scena.
«Appartato?» lo sorprendo.
Alza un braccio e con un cenno rapido dell’indice richiama a sé un cameriere annoiato e ondeggiante a ritmo di musica.
Paga il conto e lo vedo alzarsi, pingue e goffo, il forte e pesante graffiare della sedia mi fa quasi ridere.
Lui è così fuori contesto, così anacronistico, costretto nel suo doppiopetto blu.
Per una frazione di secondo, sbircio sulla stoffa tirata e sugli affaticati bottoni e cuciture che la tengono insieme.
Sta per esplodere, penso.
E la risatina che ne consegue arriva proprio nel momento in cui con disarmonica, inutile, deludente eleganza sposta la mia sedia in un gesto che vorrebbe essere di cortese galanteria, ma che in realtà, a momenti, mi fa quasi cadere in avanti.
Non devo neanche sforzarmi di soffocare la mia ilarità, il suo ego è preponderante, così proporzionato e contemporaneamente adatto alle dimensioni del suo girovita, che pensa io sia sorridendo con lui, non di lui.
Stupido nei suoi disgustevoli errori.
Con la stessa maldestra premura, apre la portiera della sua auto dal lato del passeggero. La carrozzeria è ben lucidata e nera, come il cuoio delle sue scarpe da signore raffinato, poco adatte ai suoi piedi da porco.
Il tempo in macchina, l’anello di congiunzione tra una cena sazia di tensione e la fine della sua stupida esistenza, trascorre in maniera sorprendentemente anonima.
Nessun batticuore, nessuna ansia, sono stata concepita dai miei genitori, in tutta la mia menomazione fisica, proprio per essere qui, per portarlo al limite e poi annientarlo, fino al parossismo acuto, fino alla sua estinzione.
Una supernova che brillerà e in poco tempo collasserà, si spegnerà, per sempre.
Non allunga le mani, non accenna a nessuna porcheria lasciva, non sfiamma prepotente in elogi carnali.
Quasi mi dispiace.
Sì, un po’ mi dispiace.
Provo pena per l’essere molliccio e sfibrato, scomposto ed obeso, che sfreccia nel silenzio di una città già addormentata, che non sa, che ignora, una città bambina ignara e che serena non si aspetta di incontrare la Dea Morte per mano mia.
Per mano di una menomata, abituata all’oscurità e agli angoli più polverosi e angusti dell’esistenza.
Uno in meno, illustre cittadino con la maschera della rettitudine incollata di forza sul viso.
Uno in meno.
Penso anche che forse, dopotutto, non è colpa sua.
Se agisce da stupratore e maniaco, da molestatore indefesso e concentrato nella sua macabra missione.
Magari è stato abituato fin da piccolo a cacciare, a dimostrare la propria condizione di maschio.
Lo vedo traslato in una realtà passata, bambino, già grassoccio e impacciato, nei boschi, intento a far del male a cervi, cinghiali, creature selvatiche che richiedono libertà per poter sopravvivere, condizione, questa, per cui l’uomo è letale, impietoso.
Lo osservo bene, adesso, nel presente, è sudato e con gli occhi appannati.
Non sa cosa farsene di una donna consenziente, penso con orrore.
Non è abituato all’accettazione, non deve sgomitare per imporre la propria presenza.
Non con me.
Non sa cosa farsene di me, adesso che ho detto sì.
Non posso smettere di pensare alle sue mani lascive sulla mia coscia, sui miei fianchi, vicino al seno.
Sul mio viso.
All’esasperazione di affermare la mia dignità, attraverso il rifiuto di mostrare il mio volto per intero.
Me lo ha negato.
E mi ha offesa.
Immorale, vizioso, un’onta che non accenna a placarsi.
Il mio odio per lui.
Il vialetto che conduce al suo appartamento è immacolato, non una singola foglia fuori posto; e anche l’interno della casa mostra una faccia candida, sterile.
È fredda, come se le mura e i pavimenti stessi si preparassero ad accogliere il fiato gelido della morte.
Ho fretta di concludere, l’anticipazione, il pregustare, sono cose che mi innervosiscono e mi danno modo di riflettere.
E non posso permettermelo, è un lusso che mi è stato precluso.
Devo concludere.
Non posso avere ripensamenti.
Mi guardo attorno. «Saltiamo i convenevoli?» dico, ammiccando in direzione del divano. Studio la stanza, subito adocchio la statuetta spigolosa di una venere, languida e placida sul tavolino basso.
Un sorriso affiora sulle mie labbra.
Lui è fermo davanti a me. «Non vuoi bere qualcosa, prima?»
«Abbiamo bevuto abbastanza.»
Il tuo copione con me non funziona, ti sto cambiando le battute, sono io la direttrice di questa commedia, il teatro, il palcoscenico, la platea non ti appartengono più.
Si passa una mano tra i capelli, è insicuro, è incerto.
L'altra mano la porta all’inguine, vedo l’abbozzatura grossa del suo membro eretto.
Se ne accorge e mi fissa come un ragazzino alle prime armi, impacciato. Non sa come proseguire; lo disorienta, procedere in questa certa direzione senza sfogare la forza bruta che adesso non trovo sbocco, che evanescente si è ritirata, sembra quasi sparita.
«Ti piacerebbe un po' di musica, Mary?»
«No.»
Lo prendo per mano, sfioro il suo rigonfiamento, lo strizzo. Emette un gemito, un rantolo cavernoso che mi fa accapponare la pelle.
«Piano», mi intima.
Il disgusto che provo per me stessa, adesso è nulla in confronto alla ferocia del mio odio.
Ci ritroviamo avvinghiati sul divano, il suo peso mi schiaccia, faccio quasi fatica a respirare.
È violento anche nel suo roco ansimare.
«La mia ragazza con un solo occhio», geme, mentre muove i lardosi fianchi su di me, su e giù, destra e sinistra.
Ondeggia e dà solidi, duri colpi di reni, una sorprendente scioltezza di movimenti, in netto contrasto con la sua mole da toro, che mi verrebbe da definire armoniosa, se solo la circostanza fosse diversa.
Se io fossi diversa.
Se lui fosse più umano.
Mi tocca il viso, fa scorrere le dita lungo il profilo irregolare della mia deformità.
Sento il rumore della zip che si abbassa, il suo arrochito boccheggiare diventa ora più intenso.
Avverto la violenza montarmi in corpo, assecondo il suo funereo, straziante galoppare. Mi invade e mi scuote, fa vibrare i miei muscoli, i miei arti elettrici, pronti a scattare.
Lo voglio uccidere, proprio qui, proprio ora, essere misero, eretto, insignificante come un verme.
Lo voglio schiacciare.
È dentro di me, si fa spazio, mi invade con arroganza.
Sospiro, fa male, voglio che la smetta.
«Chiudi gli occhi», gli ordino.
Mi obbedisce, non si chiede perché.
Lo fa e basta.
Questo mi soddisfa, il piacere che ne deriva mi sfrigola in pancia.
Lo incito, «mi piaci con gli occhi chiusi», lo prendo in giro. Non se ne accorge, è perso. Aumenta la velocità, assesta colpi con smanioso desiderio di concludere.
I suoi baci umidi puzzano e lasciano una patina bavosa, appiccicosa, sul mio collo.
Allungo la mano verso la statuetta, la impugno saldamente.
Oscilla, sferza l’aria, la squarcia.
Lo colpisco sul cranio, sulle tempie.
Sussulta.
Non mi fermo.
Una, due, tre volte.
Smetto di contare, è un istinto irrefrenabile. La violenza ha trovato la sua valvola di sfogo e adesso è impossibile arrestare il flusso di determinata, lucida spietatezza.
Materia cerebrale schizza sul soffitto; è sui miei vestiti, sul mio viso, sulla pelle nera del divano, sulla statuetta della Venere, mia Venere di salvezza.
Il sangue, denso e caldo, e il suo odore metallico sono richiami ferali.
Mi libero del suo peso, scalcio via da me la creatura morta ed estinta; lo osservo adesso, supino, il cranio fracassato.
Il mio ragazzo con un occhio solo.
Il suo volto trasformato e simile al mio, sono la sua Madre Natura.
L’ho modellato, l’ho riformato, convertito nella mia replica, con il suo occhio sinistro mancate, maciullato.
Mi lascio andare ad una risata folle, isterica.
Sono ricoperta di sangue e cervello e rido.
Anche la sua bocca ora muta, spalancata e storta, sembra che stia ridendo con me.
Non riesco a frenare questo eccesso, me lo porto dietro anche mentre penso a cosa fare.
Potrei costituirmi alla polizia, con gli storpi è difficile fare i cattivi, i mal pensanti, penseranno sia stato un atto di legittima difesa.
Sono pronta per le conseguenze?
Potrei lasciare l’appartamento e andarmene come se niente fosse mai successo, come se non fossi mai stata qui, ma le mie impronte mi tradirebbero, sono ovunque, ed in quel caso neanche il mio occhio mancante e il mio viso sfuggente potrebbero fare da attenuante.
Non saprei neanche come disfarmi della Venere, incrostata di sangue, pelle e capelli.
Rido, rido fino a farmi scoppiare i polmoni, il mio stomaco implora pietà, i nervi e i muscoli sono tesissimi.
Mi sento come un elastico lasciato in pericolosa trazione, le fragili mani che mi tengono sospesa potrebbero stancarsi e allora cadrei, precipiterei.
Lo guardo ancora una volta, la sua forma sgraziata, nudo, sconcio e ricoperto di sangue come il giorno in cui è venuto al mondo, in modo da poter elaborare un piano.
Prendo atto della crudezza del momento, faccio permanere questo senso di disagio ed inevitabile rovina, sarà questo a spingermi ad agire, lo so, lo sento, ma non riesco a smettere di ridere.
Lacrime affiorano sulla mia pelle, sono copiose, sono acide, salate, bruciano, si mischiano al sudore che imperla mento e collo.
Incerta, zoppa, claudicante mi avvicino al carrellino dei liquori, poco distante.
È uno sforzo enorme.
Vado alla ricerca di qualcosa con cui stemperare l'isterismo. Anche le mani tremano, mentre afferrano la bottiglia che contiene liquido ambrato, riesco ad avvertire il suo calore anche prima di stapparla e bere grandi sorsi.
Grazie tante.
L'effetto calmante e soporifero dura per poco, l’adrenalina continua a farmi ridere.
E ridere.
E ridere.
Cado sulle ginocchia, la vista appannata dall'alcol e da qualcosa di più sinistro che preme contro la gabbia toracica, un presagio, un avvertimento che non riesco a decifrare.
Mi trascino fin tra le gambe dell'uomo che ho ucciso.
Potrei chiamare un’ambulanza, simulare un atto di aggressione, ladri che sono entrati in un particolare momento della nostra intimità di coppia nascente.
Ma non c’è nessun segno di effrazione, realizzo subito dopo, nessun segno di intrusione, l’appartamento è perfettamente, dannatamente in ordine, come se io, l’uomo che morto continua ad accogliermi tra le sue cosce grosse, il liquore che sbatte e ribatte nel mio stomaco, la statua della Venere, fossimo solo dei fantasmi.
Sto impazzendo.
E forse me lo auguro.
Sto impazzendo perché mi sembra di scorgere un rapido movimento alla mia destra.
Lo ignoro, do la colpa alla perenne risata, all’alcool forte.
Perché non può essere vero.
Perché adesso vedo le dita dei suoi piedi muoversi, si arricciano, piccolo accenno e prosecuzione del mancato orgasmo.
Si ritrae da me, si alza, lo vedo brandire la statuetta, lo vedo colpirmi in viso, nello stomaco, sulla schiena, sul collo.
Eppure io sto ferma.
Eppure lui è ancora fermo.
Siamo due e siamo uno. Siamo divisi. Brandelli di spazio e di tempo sconnessi, che scorrono alla rinfusa, disordinati, che cercano un appiglio, un piccolo angolo in cui disporsi in ordine.
Scampoli di anime condannate.
È il terrore, è l'orrore di ciò che ho fatto.
Mi colpisce e mi penetra, in un confuso marasma che mi sfugge, che non vuole farsi comprendere.
Ogni atomo è in fibrillazione, tremo e sussulto, vomito.
Lo sforzo mi è fatale.
Mi irrigidisco, l’ombra di un sorriso bruscamente smorzato mi aleggia sul viso.
Lui davanti a me, l’ultima cosa che vedo.
Senza un occhio, rotto, fracassato, spezzato.
Ed io qui, interrotta. A metà.
Sorpresa nella morte, dalla morte.
La sua ragazza con un solo occhio.
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topicsfromatoz · 20 days
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1 SEGRETI OSCURI SVELATI, GLI ESPERIMENTI DI INNESTO OSSEO NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
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Durante la Seconda Guerra Mondiale, furono condotti esperimenti di innesto osseo per affrontare le numerose lesioni ossee subite dai soldati sul campo di battaglia. Questi esperimenti miravano a innovare e migliorare le tecniche per la riparazione e la ricostruzione delle ossa danneggiate, cruciali per la guarigione dei soldati feriti. I ricercatori esplorarono una varietà di materiali per innesti, tra cui ossa di donatori, materiali sintetici e persino ossa animali, nella loro ricerca dei metodi più efficaci per la rigenerazione ossea. Sebbene questi esperimenti siano stati spesso condotti in circostanze eticamente discutibili, incluso l'uso di soggetti umani senza il consenso adeguato, hanno svolto un ruolo significativo nell'avanzamento della conoscenza medica. I risultati di questi studi hanno gettato le basi per la chirurgia ortopedica moderna e le procedure di innesto osseo, che continuano ad essere cruciali nel trattamento delle lesioni e delle deformità ossee oggi.
#SecondaGuerraMondiale #InnestoOsseo #RicercaMedica #ChirurgiaOrtopedica #RigenerazioneOssea #MedicinaMilitare #EticaMedica #ProgressoMedico #StoriaDellaMedicina #LesioniOssee
innesto osseo nella Seconda Guerra Mondiale, esperimenti medici in tempo di guerra, trattamento delle lesioni ossee, tecniche di ricostruzione ossea, innesti ossei da donatore, materiali ossei sintetici, innesti ossei animali, etica medica nella Seconda Guerra Mondiale, progressi nella chirurgia ortopedica, storia dell'innesto osseo, innovazioni nella medicina militare, ricerca sulla rigenerazione ossea, studi medici nella Seconda Guerra Mondiale,
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Buongiorno cucciolo e buone vacanze! Immergiti nella natura, l'unica che ad oggi ancora resiste e demolisce l'abietta deformità di questo circolo di degradazione in cui oggi siamo costretti a vivere. Immergiti in essa, affonda nella sua solennità, niente è più sacro e più esemplare degli alberi, dell'acqua che scorre, delle rocce... Senti dentro di te la grazia dell'esistenza, e riaffiora da te stesso più rinvingorito di prima in concordanza ed armonia con il tuo essere. Fatti ispirare!
Grazie mille!!! Buone vacanze anche a te 😄
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scontomio · 4 months
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queerographies · 4 months
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[Il poeta e il suo mostro][Furio Bordon]
Oscar Wilde e l’Uomo Elefante: Un Incontro Inaspettato tra Genio e Deformità Titolo: Il poeta e il suo mostroScritto da: Furio BordonEdito da: Sellerio Editore PalermoAnno: 2024Pagine: 160ISBN: 9788838946608 La trama di Il poeta e il suo mostro di Furio Bordon Oscar Wilde incontra Joseph Merrick, l’uomo deforme conosciuto come Elephant Man che sostiene di aver recentemente interpretato il…
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turkaesthetic · 5 months
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La chirurgia maxillo-facciale in Turchia
La chirurgia maxillo-facciale in Turchia è una procedura eseguita da uno specialista nel Dipartimento di Chirurgia, con l’obiettivo di trattare malattie, lesioni e deformità che si verificano sui tessuti della bocca, del viso e delle mascelle, al fine di ottenere un aspetto più armonioso.
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ginogirolimoni · 5 months
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E' morto Vincenzo Agostino, il 5 agosto del 1989 morirono in un agguato vicino a casa sua dove si stavano recando il figlio Antonino (agente della Polizia di stato), sua moglie Giovanna Ida Castelluccio (che era incinta).
Non si è mai fatta piena luce su questo torbido omicidio, forse non ci fu solo l'impronta della mafia, ma anche quella dei servizi, forse Antonino era qualcosa di più di un semplice agente e aveva scoperto (o era sul punto di scoprire) qualcosa di sensibile nell'intera organizzazione politico-mafiosa che dominava la Sicilia e l'Italia intera in quel periodo.
Le forze che erano intenzionate a mettere a tacere allora Antonino perdurano ancora adesso, visto che non si è fatto un solo passo in avanti nelle indagini, se non individuare un possibile esecutore materiale dell'agguato, a causa di una vistosa deformità fisica (era noto come "faccia di mostro).
Faccia di mostro era appartenuto anche lui alla Polizia di Stato, navigava in quel mondo di mezzo fra polizia, servizi segreti e criminalità organizzata e non è mai stato arrestato.
Vincenzo giurò che si sarebbe fatto crescere la barba finché non avesse ottenuto giustizia ... è morto con la barba.
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errantepagina69 · 5 months
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Davide Bregola (Lettera agli amici sulIa bellezza)
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Secondo la filosofia classica noi bramiamo Bellezza perché la nostra anima ha un vago ricordo della Bellezza che esisteva quando potevamo essere vicini agli dèi. Noi tutti pronunciamo giudizi intorno a "Bello" e "Brutto", pur intuendo quanto labili e mutevoli siano i criteri su cui poggiano. Il concetto di "Bello" parte da un'ideale Bellezza oggettiva per poi disgregarsi progressivamente secolo dopo secolo. Dal paradigma armonico di un perfetto ordine cosmico, che collega il bello al vero e al bene, si giunge in età moderna all'espe- rienza del molteplice, dell'individuale e dell'inclassificabile e quindi, a partire dal Settecento, a una netta rivincita del "brutto". Ma è nel Novecento che si rivendica con forza il valore estetico della deformità, della dissonanza e del caos come generatore di ordini sconosciuti. Il bello però continua.
Prima uscita 2008 Editore Liberamente Pagine 99
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scarperunningshoes · 5 months
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Un'analisi completa per comprendere i vantaggi delle scarpe antipronazione
Il mondo si sta muovendo con un forte nodo e con esso gli individui cercano di muoversi con l'oscillazione per adattarsi alla società. Si assumono molti rischi per perseguire il loro progresso nel benessere. Di conseguenza, ignorano il senso della salute e della forma fisica, dimenticano quanto sia importante la salute e cercano sempre di mantenere la forma fisica per avere una mente sana. Inoltre, fornisce consigli da parte di professionisti per il benessere personale delle persone. Durante la pratica del fitness il vero allenamento che facciamo è quello cardiovascolare. Per questo esercizio facciamo uno sprint secondo le prescrizioni dell'allenatore o lo decidiamo noi stessi. Ma quando si osservano queste sessioni nei giorni iniziali, si avverte un vero e proprio dolore ai muscoli, a volte insopportabile. Ecco allora che il nostro lavoro si concretizza nel darvi suggerimenti su alcuni indumenti esterni che resisteranno al dolore e vi faranno muovere liberamente con sicurezza.
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Le scarpe antipronazione sono le preferite dagli atleti perché sono resistenti alla pronazione. Sorge quindi un'altra domanda: che cos'è la pronazione del piede? La pronazione è un fenomeno naturale che si verifica quando il piede tocca il suolo o qualsiasi altro punto quando si cammina o si corre. Se si approfondisce un po', si scoprirà che è la caviglia, insieme all'arco plantare, a inclinarsi leggermente verso l'interno e ad assorbire in modo naturale gli urti quando il piede tocca il suolo dopo il primo passo. Il risultato principale è la quantità di carico che passa attraverso la caviglia e distribuisce lo shock in entrambi i sensi per un effetto minore sul corpo. 
Ma come si manifesta la pronazione? Vediamo le cose in dettaglio. Quando qualcosa supera il suo limite, può causare lesioni al corpo. L'iperpronazione è un fenomeno simile a quello dell'appiattimento dell'arco plantare. Dipende completamente dal ciclo dell'andatura, cioè dal modo in cui si cammina o si corre regolarmente, che mette a dura prova i muscoli e i legamenti del corpo che sostengono l'arco plantare, i quali perdono la loro tenerezza e appiattiscono i piedi. Allora i piedi piatti possono creare problemi al corpo? La risposta è sì. I piedi piatti possono causare instabilità della caviglia e deformazione del piede. Quindi, il risultato è che non si tratta di piedi piatti; i piedi piatti sono un esempio di molti problemi causati dall'eccessiva pronazione. I preparatori atletici o gli atleti suggeriscono sempre di indossare scarpe antipronazione per tenere sotto controllo le deformità.
Le caratteristiche magiche delle scarpe antinfortunistiche illustrate di seguito sono:
1) Sostegno dell'arco plantare, come abbiamo detto sopra, e creazione di una forza di resistenza contro la deformazione.
2) Rinforzo dei talloni per controllare l'eccessivo movimento dei piedi e impedire l'eccessivo spostamento verso l'interno.
3) Le scarpe antipronazione sono dotate di ampie strutture di protezione nelle zone chiave.
4) La prevenzione degli infortuni è uno dei risultati più desiderabili di queste scarpe.
5) Salute del piede a lungo termine, evitando problemi di iperpronazione.
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In definitiva, possiamo suggerire che investendo in scarpe antipronazione di alta qualità si può garantire la salute del piede a lungo termine. Promuovendo il corretto allineamento della caviglia e riducendo lo stress dei legamenti e degli arti inferiori, queste scarpe agiscono come catalizzatori della salute del piede. Decidete quindi cosa è meglio per voi scegliendo una buona marca di scarpe. Se avete difficoltà, sia nel processo decisionale che alla fine del produttore, siete invitati a contattarci prenotando una consulenza via e-mail a [email protected], e il riposo è assicurato per voi sul nostro sito.
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wdonnait · 6 months
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Sindrome di Binder o Displasia Maxillonasale, rara anomalia dell'osso mascellare e del naso
Nuovo post pubblicato su https://wdonna.it/sindrome-di-binder-o-displasia-maxillonasale-rara-anomalia-dellosso-mascellare-e-del-naso/117372?utm_source=TR&utm_medium=Tumblr&utm_campaign=117372
Sindrome di Binder o Displasia Maxillonasale, rara anomalia dell'osso mascellare e del naso
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La Displasia Maxillonasale rappresenta una condizione medica rara che colpisce lo sviluppo delle ossa del viso, in particolare quelle del massiccio facciale superiore e del naso. Questa patologia può influenzare significativamente l’aspetto estetico del viso e la funzionalità di importanti attività quali la respirazione e la masticazione. Attraverso questo articolo, intendiamo fornire una panoramica completa sulla Displasia Maxillonasale, dai sintomi alle opzioni di trattamento, con l’obiettivo di informare ed educare chi ne soffre o chi desidera saperne di più su questa condizione.
Cos’è la Displasia Maxillonasale?
La Displasia Maxillonasale è un disturbo congenito che si manifesta con una crescita anormale delle ossa del viso. La condizione può variare in gravità, da casi lievi, con pochi sintomi evidenti, a casi severi, in cui l’aspetto e la funzionalità del viso sono significativamente compromessi.
Sintomi e Diagnosi
I sintomi della Displasia Maxillonasale possono includere:
Asimmetria facciale: differenze nella forma o dimensione delle parti del viso.
Difficoltà respiratorie: causate dalla malformazione delle strutture nasali.
Problemi di masticazione e di occlusione dentale: dovuti all’anomala crescita maxillo-facciale.
La diagnosi della Displasia Maxillonasale avviene attraverso esami di imaging, come la radiografia e la tomografia computerizzata (TC), che permettono di valutare l’entità delle malformazioni ossee.
Trattamento e Gestione
Il trattamento della Displasia Maxillonasale dipende dalla gravità dei sintomi e dall’età del paziente. Le opzioni terapeutiche includono:
Interventi chirurgici: per correggere le deformità ossee e migliorare la funzionalità respiratoria o masticatoria.
Terapie ortodontiche: per allineare i denti e migliorare la chiusura della bocca.
Supporto psicologico: essenziale per gestire le implicazioni estetiche della condizione e promuovere il benessere emotivo del paziente.
Importanza del Supporto Familiare e della Consapevolezza
Il supporto della famiglia e degli amici è fondamentale per le persone affette da Displasia Maxillonasale. La consapevolezza e la comprensione della condizione possono aiutare a ridurre lo stigma e a promuovere una maggiore inclusione sociale.
Conclusione
La Displasia Maxillonasale, pur essendo una condizione rara, ha un impatto significativo sulla vita di chi ne è affetto. La conoscenza e la comprensione di questa patologia sono essenziali per garantire una diagnosi tempestiva e un trattamento adeguato. Con il supporto adeguato e le cure appropriate, le persone con Displasia Maxillonasale possono condurre una vita piena e soddisfacente.
Parole chiave: Displasia Maxillonasale, condizione medica rara, sviluppo delle ossa del viso, trattamento, diagnosi.
Questo articolo mira a offrire un’informazione dettagliata sulla Displasia Maxillonasale, migliorando la conoscenza sulla condizione e facilitando la ricerca di informazioni pertinenti per chi ne è interessato o colpito. La consapevolezza e l’educazione sono strumenti potenti nella gestione delle malattie rare, contribuendo significativamente alla qualità della vita dei pazienti.
Statistiche
La Displasia Maxillonasale è considerata una condizione medica estremamente rara, il che rende difficile stabilire statistiche precise sulla sua prevalenza. Le malattie rare, per definizione, colpiscono una piccola percentuale della popolazione: nell’Unione Europea, una malattia è considerata rara quando colpisce meno di 1 persona su 2.000. Data la specificità e la rarità della Displasia Maxillonasale, i casi documentati sono limitati, e le ricerche in campo medico sono in corso per comprendere meglio sia la prevalenza che le cause di questa condizione.
Ricerca e Registri
A causa della scarsità di casi, molte delle informazioni disponibili sulla Displasia Maxillonasale provengono da studi di caso o da piccoli gruppi di pazienti. I registri di malattie rare e le banche dati specializzate in condizioni genetiche forniscono le migliori stime disponibili, ma anche questi possono avere limitazioni dovute al numero di casi riportati e alla variabilità geografica.
Incidenza e Prevalenza
L’incidenza specifica della Displasia Maxillonasale non è ben documentata, ma come per altre malattie rare, si stima che colpisca una frazione molto piccola della popolazione mondiale. Le stime esatte possono variare a seconda della metodologia di raccolta dei dati e della definizione utilizzata per classificare la malattia.
Sfide nella Raccolta dei Dati
Una delle principali sfide nella determinazione della prevalenza della Displasia Maxillonasale è la diagnosi stessa. Essendo una condizione complessa con una vasta gamma di manifestazioni, può essere facilmente confusa con altre malattie craniofacciali. Ciò può portare a sottostime o sovrastime della sua vera incidenza.
Importanza della Ricerca
La ricerca continua è fondamentale per migliorare la comprensione della Displasia Maxillonasale. Studi genetici e epidemiologici possono aiutare a identificare i fattori di rischio, le cause sottostanti e le possibili associazioni con altre condizioni. Questo può, a sua volta, migliorare le strategie di diagnosi precoce e le opzioni di trattamento per chi è affetto.
Conclusione
Sebbene la Displasia Maxillonasale sia una condizione rara con statistiche di prevalenza difficili da determinare esattamente, l’importanza di una maggiore consapevolezza e ricerca rimane indiscutibile. La raccolta di dati più precisa e la condivisione delle conoscenze possono contribuire a migliorare la vita delle persone con questa e altre malattie rare.
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