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"Il Giardino dei Ciliegi" di Čechov al Teatro Vascello di Roma. Un viaggio nell’anima umana tra tradizione e innovazione
L’opera di Čechov torna in scena con la regia di Leonardo Lidi
L’opera di Čechov torna in scena con la regia di Leonardo Lidi Dal 3 all’8 dicembre 2024, il Teatro Vascello di Roma ospita la terza tappa del Progetto Čechov con una nuova interpretazione de “Il Giardino dei Ciliegi”, l’ultima opera del grande drammaturgo russo. La regia di Leonardo Lidi, accompagnata dalla traduzione di Fausto Malcovati, si propone di portare il pubblico in un mondo di…
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Laura Betti
«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».
Laura Betti è stata un’attrice talentuosa, vivace e intensa. La cattiva per antonomasia delle grandi dive del cinema italiano.
Ha recitato in circa settanta film, diretta dai più grandi registi e registe del Novecento come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, i fratelli Taviani, in capolavori come La dolce vita, Teorema, Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Il grande cocomero e molti altri ancora.
Tra le interpretazioni più memorabili c’è sicuramente quella in Novecento di Bertolucci (1976) in cui ha interpretato Regina, personaggio dall’aria sinistra, quasi stregonesca, amante del fascista Attila, interpretato da Donald Sutherland.
Sul suo modo di esprimersi con le parole, il linguaggio, la voce roca e impastata, la fisicità, ci sono stati anche diversi studi accademici.
Artista a tutto tondo, ha recitato a teatro, cinema, televisione e lavorato a lungo come doppiatrice.
Soprannominata giaguara per la sua vitalità aggressiva e incontenibile associata a un passo felpato, quello con cui entrava in un film con un ruolo non da protagonista, per poi rubare la scena a tutti gli altri.
Nata col nome di Laura Trombetti a Casalecchio di Reno, Bologna, il 1º maggio 1927, ha esordito come cantante jazz, per poi passare al cabaret con Walter Chiari ne I saltimbachi.
Nel 1955 ha debuttato in teatro ne Il crogiuolo di Arthur Miller, con la regia di Luchino Visconti, seguito poi da spettacoli storici come il Cid di Corneille, in coppia con Enrico Maria Salerno e I sette peccati capitali di Brecht e Weill.
Il recital Giro a vuoto, del 1960, realizzato in collaborazione dei più grandi talenti letterari dell’epoca che amavano riunirsi nella sua casa romana, a Parigi venne recensito positivamente dal fondatore del movimento del surrealismo, André Breton.
Al cinema ha esordito nel 1956, in Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico. Le prime parti importanti sono state in Labbra rosse di Giuseppe Bennati, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, e soprattutto ne La dolce vita di Federico Fellini, dove interpretava una giovane saccente che nella scena finale della festa si vede rovesciare un bicchiere d’acqua in faccia da Marcello Mastroianni.
Fondamentale è stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini, che l’ha diretta in diverse opere teatrali e cinematografiche, tra cui svetta Teorema, che le è valso la Coppa Volpi come miglior attrice al Festival del Cinema di Venezia.
È stata la sua musa, definita da lui “una tragica Marlene Dietrich, una vera Greta Garbo che si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda”. Meglio di chiunque, è riuscito a sfruttare la sua capacità di caratterizzare i personaggi con la sua fisicità intensa, il forte segno caratteriale, spesso aspro, e la sua voce dal timbro pastoso.
A partire dagli anni ’70 ha cominciato a interpretare soprattutto ruoli da cattiva, scomodi e sgradevoli che, seppur secondari, restavano impressi nella memoria del pubblico.
Dopo la morte di Pasolini, nel 1975, ha tentato in tutti i modi di fare giustizia all’amico, sporse anche denuncia contro la magistratura per come erano state svolte le indagini sull’omicidio, le cui cause ancora oggi, restano oscure.
Ha continuato a farlo vivere, ricordandolo, scrivendone, dirigendo documentari su di lui.
Con Giovanni Raboni, ha pubblicato, nel 1977 Pasolini cronaca giudiziaria, persecuzione, morte seguito, due anni dopo, dal romanzo Teta Veleta il cui titolo è un riferimento a uno scritto giovanile del grande intellettuale.
Nel 1983 ha ideato e diretto il Fondo Pier Paolo Pasolini che per oltre vent’anni ha avuto la sede a Roma, poi spostato a Bologna, quando, nel 2003, ha creato il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, con oltre mille volumi e altro materiale relativo alle opere dello scrittore e regista.
Nel 2001, con Paolo Costella, ha diretto il documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
È stata anche la protagonista del libro di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto, che evidenzia come lei sia stata la vera erede spirituale di Pasolini e incontrarla è come incontrare lo scrittore, perché rimasta plasmata e posseduta dalla sua vivida presenza.
In Francia, paese che l’ha adorata e riverita molto più dell’Italia, nel 1984 è stata nominata Commandeur des Arts et Lettres.
Laura Betti si è spenta a Roma il 31 luglio 2004.
Dopo la sua morte, il fratello, ha donato al Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini anche tutti i documenti personali della carriera della sorella, raccolti sotto il nome Fondo Laura Betti, inoltre la sua città di origine, Casalecchio di Reno, nel 2015, le ha intitolato il Teatro Comunale.
Del 2011 è il documentario La passione di Laura, diretto da Paolo Petrucci, in cui viene ripercorsa la carriera dell’attrice raccogliendo anche le testimonianze di registi e intellettuali come Bernardo Bertolucci, Francesca Archibugi, Giacomo Marramao e Jack Lang. Il film è stato candidato ai Nastri d’Argento del 2012 tra i migliori documentari.
Laura Betti ha concentrato la sua esistenza nella ricerca della verità. Nell’arte, nella vita, tra la poesia che ha frequentato, nella sua recitazione.
Aveva carisma e fascino, sapeva sperimentare e aveva uno straordinario dinamismo dell’intelletto.
Ha avuto ruoli fuori dai canoni e per questo è stata difficilmente inquadrabile.
Ha saputo intrecciare linguaggi differenti come il cabaret, la canzone, il teatro, il cinema, la rivista.
Dipinta con tratti alterni, di sicuro ha saputo lasciare la sua impronta decisa e precisa nella storia della cultura italiana.
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Milano, toponomastica. L'Assessore Sacchi intitola piazzetta Adelaide "Lilla" Brignone e Passaggio Mario Achille Severgnini. Inaugurato anche il mosaico dedicato a Rosa Genoni
Milano, toponomastica. L'Assessore Sacchi intitola piazzetta Adelaide "Lilla" Brignone e Passaggio Mario Achille Severgnini. Inaugurato anche il mosaico dedicato a Rosa Genoni. Si è tenuta il 25 marzo, alla presenza dell'assessore alla Cultura Tommaso Sacchi, la cerimonia di intitolazione di due nuovi luoghi cittadini (tra via Porlezza e via Giulini): piazzetta Adelaide "Lilla" Brignone e Passaggio Mario Achille Severgnini. "Questi due luoghi – è così intervenuto l'assessore Sacchi – sono accomunati da un filo invisibile: due storie di eccellenza professionale, generosità e impegno sociale legano le personalità di Severgnini e Brignone alla nostra comunità e queste intitolazioni sono il nostro tributo tangibile e significativo al loro lavoro e alla loro vita". Mario Achille Severgnini, nato 80 anni fa e cresciuto in un ambiente ricco di storia e impegno sociale, ha contribuito a promuovere la cultura finanziaria tra le famiglie italiane e quindi lo sviluppo economico del Paese, distinguendosi per la sua visione lungimirante e lo sguardo precursore nel campo della tecnologia e degli investimenti. Cittadino attivo e altruista, alla sua famiglia appartengono figure illustri come Luigi Vittorio Bertarelli, fondatore del Touring Club Italiano, e Achille Bertarelli, noto collezionista di stampe che furono donate al Comune di Milano nel 1925 per istituire la Civica raccolta delle stampe Bertarelli che ha ancora oggi sede presso il Castello Sforzesco. Lilla Brignone, attrice considerata tra le più importanti interpreti del teatro italiano del secondo dopoguerra, ha lungamente collaborato con il Piccolo Teatro, soprattutto nei primi anni della sua fondazione, oltre che con le più rinomate compagnie teatrali dell'epoca. Decisivo l'incontro con Giorgio Strehler, recita in numerosi capolavori teatrali e contribuisce a far conoscere e amare il teatro anche attraverso la prosa televisiva e gli sceneggiati cui partecipa. Al successo teatrale si affianca quello cinematografico che la vede interprete in diversi film tra gli anni '30 e gli anni '70. Nel 1981 riceve l'onorificenza per meriti artistici di Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana. All'evento presenti il Presidente del Municipio 1 Mattia Abdu, promotore delle intitolazioni, la consigliera comunale Diana De Marchi e il Direttore del Piccolo Teatro Claudio Longhi. Ha partecipato la figlia di Mario Achille, Leslie Severgnini. Proprio alla famiglia Severgnini si deve la donazione che ha reso possibile il mosaico dedicato a Rosa Genoni, inaugurato contestualmente alle due intitolazioni: l'omaggio alla memoria dell'imprenditrice, designer di moda e protagonista dell'emancipazione femminile, è stato realizzato dall'associazione Progetto Persona e svelato alla presenza della nipote di Rosa Genoni, Raffaella Podreider.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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L'Edipo re con la regia di De Rosa in prima all'Astra di Torino
Debutta in prima nazionale l’8 marzo al teatro Astra di Torino l’Edipo re, uno dei capolavori teatrali più celebri di tutti i tempi . La nuova regia di Andrea De Rosa, che torna per l’occasione a lavorare con Fabrizio Sinisi dopo la fortunata collaborazione sul testo di Processo Galileo, si inserisce nel programma della stagione Tpe 2023/24, che si intitola Cecità e indaga sulle verità che non…
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Commedie napoletane: patrimonio artistico e culturale inestimabile
Le commedie napoletane sono un tesoro della cultura popolare italiana, amate e celebrate in tutto il mondo per la loro vitalità, umorismo e autenticità. Queste opere teatrali, scritte in dialetto napoletano, riflettono la ricca tradizione e la storia di Napoli, offrendo uno sguardo unico sulla vita quotidiana, le tradizioni e le dinamiche sociali della città. "Napoli Milionaria!" di Eduardo De Filippo tra le più famose commedie teatrali napoletane Considerata una delle più grandi opere del teatro napoletano e italiana, "Napoli Milionaria!" è stata scritta da Eduardo De Filippo nel 1945. La commedia racconta la storia di una famiglia napoletana durante la Seconda Guerra Mondiale e le complesse relazioni tra i suoi membri. La pièce affronta temi sociali e politici in modo brillante e ironico, offrendo una profonda riflessione sulla condizione umana. "Natale in Casa Cupiello" di Eduardo De Filippo Un'altra opera celebre di Eduardo De Filippo, "Natale in Casa Cupiello" è una commedia natalizia ambientata in una casa napoletana durante il periodo natalizio. La trama si concentra sulla famiglia Cupiello e sulle dinamiche complesse tra i suoi membri. La commedia offre uno sguardo affettuoso e divertente sulla famiglia e sulla tradizione natalizia a Napoli. "Questi Fantasmi!" di Eduardo De Filippo Questa commedia teatrale, scritta da Eduardo De Filippo nel 1946, è diventata un classico del teatro napoletano. La trama ruota intorno a Pasquale Lojacono. "Questi Fantasmi!" è una commedia brillante e surreale che mescola il mondo reale e quello soprannaturale con ironia e umorismo. "Il Sindaco del Rione Sanità" di Eduardo De Filippo Questa commedia di Eduardo De Filippo, scritta nel 1960, è una delle più famose commedie dell'autore teatrale napoletano. La storia è ambientata nel quartiere Sanità di Napoli e segue le vicende di Antonio Barracano, soprannominato il Sindaco, che si trova coinvolto in intrighi e vendette. La pièce è un mix di commedia e dramma, con riflessioni profonde sulla giustizia e sulla moralità. "Miseria e Nobiltà" di Eduardo Scarpetta Questa commedia di Eduardo Scarpetta, scritta nel 1888, è un classico intramontabile del teatro napoletano. La trama ruota intorno a una famiglia di straccioni napoletani che si fingono nobili. La commedia è una satira pungente sulla società e sulle sue dinamiche sociali, e continua a essere rappresentata e amata dal pubblico di tutto il mondo. L'eredità di questi capolavori Le commedie napoletane hanno lasciato un'impronta indelebile nella cultura italiana e internazionale. Le opere di autori come Eduardo De Filippo e Eduardo Scarpetta sono considerate opere maestose del teatro, e il loro impatto artistico e culturale si riflette nell'affetto e nell'ammirazione del pubblico di ogni generazione. Queste commedie, intrise di umanità e di una profonda comprensione della natura umana, continuano a essere portate in scena e a essere amate per la loro capacità di far ridere, riflettere e commuovere. Foto di David Mark da Pixabay Read the full article
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Scruton e la Bellezza
Personalmente, penso che stiamo rischiando di perdere la bellezza. E vi é il pericolo che, con questa, perderemo anche il senso della vita”. Così si esprime uno degli ultimi filosofi puri del Vecchio Continente, l’inglese Roger Scruton, il quale ha pubblicato un saggio assai impegnativo e molto politicamente scorretto su un tema di perenne attrazione – l’idea di bellezza – (R. Scruton, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita & Pensiero, Milano, Euro 16,00) che pur partendo da orientamenti di partenza ‘altri’ (Scruton è anglicano) arriva, da non cattolico, a sposare i contenuti nella migliore tradizione estetica cattolica rispolverando classici d’annata e antiche lezioni d’autore. Il risultato è un testo formidabile, etichettato ovviamente già come fuori moda dalla cultura egemone, perchè vi compaiono – e anzi vi dettano letteralmente lo spartito – termini ormai scottanti come ‘verità’, ‘ragione’, ‘vita’ e ‘morte’. Già la premessa metodologica è quantomai provocatoria per un pubblico tendenzialmente relativista: il filosofo è convinto infatti che “la bontà e la verità non si contrappongono mai e la ricerca dell’una é sempre compatibile con il giusto rispetto dell’altra” (pag. 12) il che vuol dire essenzialmente due cose, tutt’altro che scontate al giorno d’oggi. Anzitutto che il bene e il vero esistono sul serio e non sono concetti filosofici immaginari o termini vuoti del vocabolario, quindi, in secondo luogo, che è possibile ad ognuno comprenderli e realizzarli personalmente.
Riguardo alla bellezza, evocando sullo sfondo San Tommaso d’Aquino, l’Autore aggiunge che la sua esperienza, come il giudizio che essa determina, rappresentano “una prerogativa degli esseri razionali” (pag. 35) dal momento che solo gli esseri razionali nutrono interessi estetici: d’altra parte, un’osservazione attenta al reale non dovrebbe fare molta fatica a cogliere che la razionalità degli uomini “é coinvolta dalla bellezza [almeno] come lo é dal giudizio morale e dalla convinzione scientifica” (pag. 39). Se siamo onesti con noi stessi, riflettendo sulle scelte piccoli e grandi del nostro quotidiano, anche senza avere studiato tomi enciclopedici, ci accorgiamo immediatamente che “in una vita realmente vissuta il gusto é una componente fondamentale” (pag. 57). Insomma, checché ne pensi l’ultimo critico d’arte che va in tv ad elargire sciocche filastrocche prese per oro colato e condite da applausi in quantità (del tipo “non é bello ciò che é bello ma è bello ciò che piace”), l’argomentazione seria di Scruton si fonda sul fatto (un fatto, non un’idea) che la bellezza di per sé costituisca un valore reale e universale, profondamente radicato nella nostra natura razionale (solo l’uomo giudica il bello e ne prova piacere).
Inoltre, per il filosofo britannico “nella nostra esperienza il bello e il sacro sono contigui [e] i nostri sentimenti per l’uno si riversano costantemente sul territorio rivendicato dall’altro” (pag. 73). Questo é forse il punto più delicato in assoluto dello studio e il campo oggi più minato perché associare il bello direttamente al sacro é quanto di più anti-moderno e contemporaneamente contro-rivoluzionario si possa fare. Tuttavia, per il non-cattolico Scruton le cose stanno davvero così. Anzi, il fatto che il sacro sia stato di fatto espulso dall’arte contemporanea alla fine spiegherebbe logicamente anche come mai il brutto, l’osceno e persino l’orrido e l’indecente siano diventati così comuni nelle tele dei pittori e nelle rappresentazioni teatrali. Tuttavia, “il punto non é solo che gli artisti, i direttori, i musicisti e altre figure che hanno a che fare con l’arte sono in fuga dalla bellezza. Ci troviamo davanti al desiderio di sciupare la bellezza, con atti di iconoclastia estetica. Ovunque la bellezza ci tenda un agguato, può intervenire il desiderio di prevenirne l’attrattiva, facendo sì che la sua esile voce non sia udibile dietro le scene di dissacrazione” (pag. 148). Tutto questo è paradossale, se non proprio assurdo, dal momento che invece “l’esperienza della bellezza ci spinge anche ad andare al di là di questo mondo, in un ‘regno di fini’ in cui il nostro desiderio ardente di immortalità e di perfezione trova finalmente una risposta.
Come affermavano sia Platone, sia Kant, quindi, il sentimento nei confronti della bellezza é prossimo alla mentalità religiosa, poiché emerge da un senso umile del vivere con imperfezioni pur aspirando all’unità suprema con il trascendente” (pag. 149). Illuminanti tal proposito le considerazioni senza peli sulla lingua rivolte all’irreligiosa cultura di massa postmoderna, talvolta violentemente anti-cristiana, e alla banalizzazione che essa veicola continuamente dell’amore umano e del suo fine. “La forma umana é sacra per noi perchè reca il segno dell’incarnazione. La profanazione intenzionale della forma umana, attraverso la pornografia del sesso o la pornografia della morte e della violenza, é diventata, per molti, una sorta di compulsione. E, questa profanazione, che sciupa l’esperienza della libertà, é anche una negazione dell’amore. Si tratta di un tentativo di rifare il mondo come se l’amore non ne facesse più parte. Questa é certamente la caratteristica più importante della cultura postmoderna […] una cultura senza amore, che ha paura della bellezza perché é turbata dall’amore” (pagg. 151-152). Per questo, insiste Scruton, “chiunque abbia a cuore il futuro dell’umanità dovrebbe studiare il modo di infondere nuova vita nell”educazione estetica’, come la definiva Schubert, che ha come scopo l’amore della bellezza” (pag. 158).
Il punto centrale è che in un’epoca in cui la fede va declinando (alcuni sociologi per la verità parlano già, abbastanza esplicitamente, di un Europa post-cristiana) l’arte con il suo semplice e silenzioso esserci “rende duratura testimonianza della fame spirituale e dell’ardente desiderio di immortalità della nostra specie […] perciò, l’educazione estetica conta oggi più che in qualsiasi periodo storico precedente” (pag. 159). Eppure, ciononostante, il degrado dell’arte, sotto gli occhi di tutti, non é mai stato più evidente. Lontano da schematismi, interpretazioni di maniera, correnti e canoni manualistici, la battaglia decisiva, ancora una volta, pare allora giocarsi nel cuore umano di ognuno, attore o spettatore che sia. Viene in mente qui l’indimenticabile Fëdor Dostoevskij, la sua finissima metafisica in prosa e i Fratelli Karamazov quando lo scrittore russo fa dire a Dmitrij Karamazov quelle parole celebri, letterarie, insieme metaforiche e sempre valide: “La Bellezza é una cosa terribile. E’ la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore”. Difficile ribattere che stesse parlando a vanvera uno che non se intendeva. D’altra parte, basta dare un’occhiata ai capolavori oggettivi di sempre dell’arte slava (e non solo) per comprendere come mai, a partire dall’artista stesso, realizzare un’opera d’arte volesse dire quasi sempre cercare d’illuminare con luci, riflessi e colori, conferendogli un’attrattiva inedita pro populo, le pagine più ardue della teologia cristiana.
Per concludere, insomma, “la vera arte é un appello alla nostra natura superiore, un tentativo di affermare l’altro regno, quello in cui prevale l’ordine morale e spirituale […] Ecco perché l’arte conta. Senza la ricerca consapevole della bellezza, rischiamo di cadere in un mondo di abituale dissacrazione e di piaceri che generano dipendenza, un mondo in cui il valore dell’esistenza umana intesa come esperienza che vale la pena vivere non é più percepibile con chiarezza […[ La bellezza sta scomparendo dal nostro mondo perchè viviamo come se fosse priva di importanza; e viviamo così perchè abbiamo perso l’abitudine al sacrificio e cerchiamo sempre, con ogni mezzo, di evitarlo.
La falsa arte del nostro tempo, macchiata di kitsch e dissacrazione, ne é un segno. Fare riferimento a questo aspetto della nostra condizione non significa sollecitare la disperazione. E’ un segno distintivo degli esseri razionali il fatto che essi non vivono solo – o nient’affatto – nel presente. Essi hanno la libertà di disprezzare il mondo che li circonda e di vivere in maniera diversa. L’arte, la letteratura e la musica della nostra civiltà ce lo ricordano, e, inoltre, indicano la strada che é sempre aperta davanti a loro: la strada che permette di uscire dalla dissacrazione alla volta di ciò che é sacro e sacrificale. E ciò, in poche parole, é quello che ci insegna la bellezza” (pagg. 162-164). La prossima pubblicazione di Scruton, in uscita per D’Ettoris, è la traduzione di ‘How to be a conservative’ un manifesto ragionato del conservatorismo come pensiero, gusto e modo di vivere. Da non perdere.
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p.s Roger Scruton è morto a gennaio 2020.
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L’Italia è forse il paese al mondo con la maggior concentrazione di bellezza, di arte, di storia e di cultura. Che si tratti di un borgo, una città, un museo, un sito archeologico o una chiesa, in Italia esistono manciate di luoghi che sarebbe davvero un peccato non visitare almeno una volta nella vita. Di seguito abbiamo provato a elencare i monumenti più importanti d’Italia, undici monumenti italiani unici al mondo più uno, la Basilica di San Pietro in Vaticano. Più uno perché il Vaticano tecnicamente non è Italia, ma poco ci manca. Il Duomo di Milano Se si considera che la Basilica di San Pietro si trova nel territorio della città del Vaticano, il Duomo di Milano, la basilica cattedrale di Santa Maria Nascente, è la chiesa più grande d’Italia e la quarta nel mondo per superficie. Un progetto mastodontico di arte neogotica e tradizione lombarda cominciato sul finire del Quattrocento e terminato definitivamente nel 1892. La celebre Madunina in rame dorato realizzata da Giuseppe Perego trova la sua inconfondibile collocazione sulla guglia maggiore nel 1774 e, da allora, come i celebri versi della canzone popolare a lei dedicata, domina incontrastata su Milano. Da visitare assolutamente l’interno, dove nel 1805 Napoleone fu incoronato re d’Italia, ricco di capolavori assoluti dell’arte rinascimentale e barocca, e le suggestive terrazze che si aprono tra le guglie e il loro panorama mozzafiato sulla città. Viste le grandi folle che il Duomo di Milano richiama potrebbe essere utile dotarsi preventivamente di un ingresso prioritario oppure prendere parte a un tour organizzato. La Mole Antonelliana Con i suoi 167,5 metri di altezza, è uno degli edifici più alti d’Italia, nonché la costruzione in muratura più alta d’Europa. L’ascensore panoramico installato al suo interno nel 1961, permette di raggiungere il tempietto, dal quale si gode di un’impareggiabile vista sulla città di Torino. Dal 2000 la mole ospita il museo Nazionale del Cinema, uno dei più visitati d’Italia, che raccoglie nei suggestivi spazi interni di questo curioso edificio numerose macchine pre-cinematografiche e altrettanti oggetti provenienti dal mondo del cinema (film, libri, manifesti, stampe, locandine ecc.). La maggior parte dei tour di Torino comprendono la visita al museo, nonché l’accesso all’ascensore panoramico della Mole. La Basilica di San Marco Simbolo indiscusso di Venezia, dell’arte veneta nonché di tutta la cristianità, la storica basilica cattedrale di Venezia, dedicata a San Marco patrono cittadino, è spesso chiamata anche chiesa d’Oro, per via del tesoro e le reliquie del Santo custodite all’interno e per i preziosi dettagli dorati che ornano i suoi magnifici mosaici duecenteschi e trecenteschi, presenti sia in facciata sia all’interno. La chiesa è accessibile liberamente, ma vista la consueta folla di persone può venire in aiuto acquistare preventivamente un accesso prioritario magari accompagnati da una guida. L’Arena di Verona Lo storico anfiteatro romano che impreziosisce il centro storico di Verona, patria dell’immortale e tragico amore di Romeo e Giulietta, si può sicuramente annoverare tra quei monumenti simbolo dell’Italia nel mondo. Grazie a sistematici restauri eseguiti sulla struttura a partire già dal Cinquecento, l’arena di Verona è uno degli anfiteatri romani meglio conservati del mondo e risale probabilmente al I secolo d.C. Negli ultimi decenni l’Arena di Verona, oltre a essere uno dei monumenti più visitati d’Italia, è diventata la straordinaria cornice di eventi, spettacoli teatrali, opere liriche, concerti e trasmissioni televisive. Si può decidere, come gli altri monumenti presentati, di esplorarla autonomamente o con l’aiuto di una guida. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze, è di certo una delle chiese più famose d’Italia. Apoteosi dell’arte rinascimentale fiorentina, con la sua cupola a pianta ottagonale riconoscibile a km di distanza e l’elegante decorazione a bande di marmi policromi che ne avvolge l’esterno, è davvero uno dei fiori all’occhiello della città di Firenze. L’interno, sobrio e decisamente austero, custodisce tra numerose opere d’arte alcuni capolavori di Donatello, Lorenzo Ghiberti, Luca della Robbia, Paolo Uccello e del Poliziano. Anche qui non sarebbe male prenotare un tour guidato o prioritario per evitare inutili code. La Torre di Pisa La Torre pendente di Pisa, simbolo della città toscana, non è altro che il campanile della cattedrale di Santa Maria situato nella celebre piazza del Duomo, detta anche piazza dei Miracoli, oggi patrimonio Unesco. Alto circa 57 m e costruito tra la fine dell’XI e il XIV secolo, nel 2007 la sua pendenza ha sfiorato i 4° rispetto all’asse verticale. Un capolavoro di arte rinascimentale che può essere percorsa sino in cima per ammirare uno splendido panorama della città e delle colline che fanno da cornice a Pisa. Piazza dei Miracoli, con la torre, il Duomo e il Battistero costituiscono un unicum architettonico di rara bellezza che merita sicuramente di essere visitato nella sua completezza, magari con il supporto di una guida. Il Colosseo In un articolo sui monumenti più importanti d’Italia non può di certo mancare l’intramontabile Colosseo di Roma, simbolo della capitale ma anche icona internazionale del nostro paese e patrimonio dell’umanità Unesco dal 1980. L’anfiteatro Flavio è il più grande anfiteatro del mondo, nonché il più imponente romano giunto sino a noi. La sua struttura inconfondibile ha più di mille anni di storia e recentemente è stato inserito tra le nuove sette meraviglie del mondo. La storia dell’antica Roma rivive letteralmente passeggiando tra le sue arcate, oltre le quali si sfidavano i celebri gladiatori provenienti dalle più remote province dell’impero. Il circuito archeologico di Colosseo, Foro Romano e Palatino è insieme al Pantheon tra i siti più visitati d’Italia e, vista l’enorme affluenza di pubblico in ogni periodo dell’anno, anche qui è consigliabile ottenere quantomeno un ingresso prioritario, se non addirittura una visita guidata. Castel del Monte La fortezza sveva di Castel del Monte, voluta da Federico II e risalente alla metà del Duecento circa, è uno dei monumenti italiani più visitati e celebri del mondo, dal 1996 patrimonio Unesco, sito nell’area delle murge occidentali in Puglia, nei pressi della cittadina di Andria. La perfetta pianta ottagonale dell’edificio, eretto su di una collina isolata a circa 500 m di altezza, permette al castello di essere visibile da km di distanza e, a sua volta, di controllare vaste porzioni di territorio circostante. Ogni angolo della struttura è occupato da una torretta, a sua volta ottagonale, alta circa 23 m. All’interno la fortezza, disposta su due piani comunicanti tra loro mediante scale a chiocciola in muratura, si presenta in tutta la sua semplicità e perfezione architettonica. Vale davvero la pena visitarlo, magari organizzando un tour con la luce del tramonto, momento in cui la candida pietra calcarea e il marmo bianco di cui è composto si accende di calde tinte che variano dal rosa, al bianco e al giallo. La reggia di Caserta La reggia di Caserta, dal 1997 patrimonio dell’Unesco insieme all’acquedotto del Vanvitelli e il complesso di San Leucio, è la residenza reale più grande al mondo per volume, fortemente voluta da Carlo di Borbone verso la metà del Settecento e disegnata dal celebre architetto napoletano Luigi Vanvitelli. Apoteosi, nonché ultimo grande capolavoro, del barocco italiano, la reggia di Caserta fu definitivamente terminata un secolo dopo coprendo un’area di circa 47 mila mq. Da non perdere il magnifico scalone reale a doppia rampa immortalato in numerosi film tra i quali in ben due episodi della saga di Guerre Stellari, la cappella Palatina, la sala del Trono e lo stupefacente parco che si sviluppa alle spalle della reggia per circa 3 km di lunghezza. La reggia può essere visitata autonomamente oppure con tour guidati comprensivi di transfert privato da Napoli. Il teatro di Taormina Il teatro greco-romano di Taormina, al pari dell’arena di Verona, è una delle cornici più apprezzate per grandi eventi dal vivo, musicali e non tra cui la cerimonia di premiazione del David di Donatello, e inoltre rappresenta uno dei simboli culturali d’Italia. Risalente al III secolo a.C. la tribuna è stata scavata direttamente della roccia e l’intero complesso ha come sfondo la suggestiva cartolina del mar Ionio e dell’Etna. Dei 10 mila spettatori che poteva accogliere in età augustea, oggi ne può contenere circa 4500 ed è una delle tappe fondamentali di qualsiasi tour della splendida città di Taormina. Il villaggio nuragico di Su Nuraxi Nei presso di Barumini, in Sardegna, si erge il più grande nuraghe che sia mai stato eretto, dal 1997 fa parte del patrimonio Unesco e vi si accede solo accompagnati da una guida. Numerosi tour del nuraghe di Barumini partono inoltre da Cagliari e possono coinvolgere l’antichissimo territorio circostante, detto della giara di Gesturi. La suggestiva e imponente struttura quadrilobata, alta 18 m circa e completamente visitabile anche all’interno, risale al XVI-XIV secolo a.C., mentre il vasto villaggio nuragico che si sviluppa ai suoi piedi è sorto tra il XIII e il VI secolo a.C. La Basilica di San Pietro in Vaticano La Basilica di San Pietro, cuore della città del Vaticano e del mondo cattolico, sebbene non sia compreso nel territorio nazionale è certamente da annoverare tra i monumenti italiani più visitati. Questa enorme chiesa raccoglie infatti la massima espressione artistica che l’Italia ha lasciato al mondo e all’umanità intera, ovvero quella meraviglia di ingegno e di estro artistico che è stato il Rinascimento. A partire dalla struttura della chiesa, l’ambizioso progetto di papa Giulio II, cominciato nel 1506, culmina nell’immensa cupola disegnata da Michelangelo, sotto alla quale si celano alcuni tra i capolavori assoluti dell’arte italiana, come la Pietà di Michelangelo (1499) e il monumentale Baldacchino di Gian Lorenzo Bernini (1624-1633), realizzato con il bronzo del pantheon romano e le quattro inconfondibili colonne tortili che riprendono direttamente il tempio di Salomone. Bernini è anche l’artefice, tra il 1657 e il 1667, della monumentale piazza e il relativo colonnato che introduce la basilica, come se fosse un lungo e simbolico abbraccio. La visita della basilica e la salita alla cupola di San Pietro possono essere tranquillamente svolte in totale autonomia. Il consiglio, vista l’enorme quantità di turisti che in ogni momento dell’anno affollano la chiesa, è quello di preordinare i biglietti con ingresso dedicato o addirittura prenotare un tour guidato, magari abbinato alla visita dell’adiacente e celebre cappella Sistina con il Giudizio Universale di Michelangelo. @Shutterstock https://ift.tt/2W0Y6Db I più importanti monumenti d’Italia L’Italia è forse il paese al mondo con la maggior concentrazione di bellezza, di arte, di storia e di cultura. Che si tratti di un borgo, una città, un museo, un sito archeologico o una chiesa, in Italia esistono manciate di luoghi che sarebbe davvero un peccato non visitare almeno una volta nella vita. Di seguito abbiamo provato a elencare i monumenti più importanti d’Italia, undici monumenti italiani unici al mondo più uno, la Basilica di San Pietro in Vaticano. Più uno perché il Vaticano tecnicamente non è Italia, ma poco ci manca. Il Duomo di Milano Se si considera che la Basilica di San Pietro si trova nel territorio della città del Vaticano, il Duomo di Milano, la basilica cattedrale di Santa Maria Nascente, è la chiesa più grande d’Italia e la quarta nel mondo per superficie. Un progetto mastodontico di arte neogotica e tradizione lombarda cominciato sul finire del Quattrocento e terminato definitivamente nel 1892. La celebre Madunina in rame dorato realizzata da Giuseppe Perego trova la sua inconfondibile collocazione sulla guglia maggiore nel 1774 e, da allora, come i celebri versi della canzone popolare a lei dedicata, domina incontrastata su Milano. Da visitare assolutamente l’interno, dove nel 1805 Napoleone fu incoronato re d’Italia, ricco di capolavori assoluti dell’arte rinascimentale e barocca, e le suggestive terrazze che si aprono tra le guglie e il loro panorama mozzafiato sulla città. Viste le grandi folle che il Duomo di Milano richiama potrebbe essere utile dotarsi preventivamente di un ingresso prioritario oppure prendere parte a un tour organizzato. La Mole Antonelliana Con i suoi 167,5 metri di altezza, è uno degli edifici più alti d’Italia, nonché la costruzione in muratura più alta d’Europa. L’ascensore panoramico installato al suo interno nel 1961, permette di raggiungere il tempietto, dal quale si gode di un’impareggiabile vista sulla città di Torino. Dal 2000 la mole ospita il museo Nazionale del Cinema, uno dei più visitati d’Italia, che raccoglie nei suggestivi spazi interni di questo curioso edificio numerose macchine pre-cinematografiche e altrettanti oggetti provenienti dal mondo del cinema (film, libri, manifesti, stampe, locandine ecc.). La maggior parte dei tour di Torino comprendono la visita al museo, nonché l’accesso all’ascensore panoramico della Mole. La Basilica di San Marco Simbolo indiscusso di Venezia, dell’arte veneta nonché di tutta la cristianità, la storica basilica cattedrale di Venezia, dedicata a San Marco patrono cittadino, è spesso chiamata anche chiesa d’Oro, per via del tesoro e le reliquie del Santo custodite all’interno e per i preziosi dettagli dorati che ornano i suoi magnifici mosaici duecenteschi e trecenteschi, presenti sia in facciata sia all’interno. La chiesa è accessibile liberamente, ma vista la consueta folla di persone può venire in aiuto acquistare preventivamente un accesso prioritario magari accompagnati da una guida. L’Arena di Verona Lo storico anfiteatro romano che impreziosisce il centro storico di Verona, patria dell’immortale e tragico amore di Romeo e Giulietta, si può sicuramente annoverare tra quei monumenti simbolo dell’Italia nel mondo. Grazie a sistematici restauri eseguiti sulla struttura a partire già dal Cinquecento, l’arena di Verona è uno degli anfiteatri romani meglio conservati del mondo e risale probabilmente al I secolo d.C. Negli ultimi decenni l’Arena di Verona, oltre a essere uno dei monumenti più visitati d’Italia, è diventata la straordinaria cornice di eventi, spettacoli teatrali, opere liriche, concerti e trasmissioni televisive. Si può decidere, come gli altri monumenti presentati, di esplorarla autonomamente o con l’aiuto di una guida. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze, è di certo una delle chiese più famose d’Italia. Apoteosi dell’arte rinascimentale fiorentina, con la sua cupola a pianta ottagonale riconoscibile a km di distanza e l’elegante decorazione a bande di marmi policromi che ne avvolge l’esterno, è davvero uno dei fiori all’occhiello della città di Firenze. L’interno, sobrio e decisamente austero, custodisce tra numerose opere d’arte alcuni capolavori di Donatello, Lorenzo Ghiberti, Luca della Robbia, Paolo Uccello e del Poliziano. Anche qui non sarebbe male prenotare un tour guidato o prioritario per evitare inutili code. La Torre di Pisa La Torre pendente di Pisa, simbolo della città toscana, non è altro che il campanile della cattedrale di Santa Maria situato nella celebre piazza del Duomo, detta anche piazza dei Miracoli, oggi patrimonio Unesco. Alto circa 57 m e costruito tra la fine dell’XI e il XIV secolo, nel 2007 la sua pendenza ha sfiorato i 4° rispetto all’asse verticale. Un capolavoro di arte rinascimentale che può essere percorsa sino in cima per ammirare uno splendido panorama della città e delle colline che fanno da cornice a Pisa. Piazza dei Miracoli, con la torre, il Duomo e il Battistero costituiscono un unicum architettonico di rara bellezza che merita sicuramente di essere visitato nella sua completezza, magari con il supporto di una guida. Il Colosseo In un articolo sui monumenti più importanti d’Italia non può di certo mancare l’intramontabile Colosseo di Roma, simbolo della capitale ma anche icona internazionale del nostro paese e patrimonio dell’umanità Unesco dal 1980. L’anfiteatro Flavio è il più grande anfiteatro del mondo, nonché il più imponente romano giunto sino a noi. La sua struttura inconfondibile ha più di mille anni di storia e recentemente è stato inserito tra le nuove sette meraviglie del mondo. La storia dell’antica Roma rivive letteralmente passeggiando tra le sue arcate, oltre le quali si sfidavano i celebri gladiatori provenienti dalle più remote province dell’impero. Il circuito archeologico di Colosseo, Foro Romano e Palatino è insieme al Pantheon tra i siti più visitati d’Italia e, vista l’enorme affluenza di pubblico in ogni periodo dell’anno, anche qui è consigliabile ottenere quantomeno un ingresso prioritario, se non addirittura una visita guidata. Castel del Monte La fortezza sveva di Castel del Monte, voluta da Federico II e risalente alla metà del Duecento circa, è uno dei monumenti italiani più visitati e celebri del mondo, dal 1996 patrimonio Unesco, sito nell’area delle murge occidentali in Puglia, nei pressi della cittadina di Andria. La perfetta pianta ottagonale dell’edificio, eretto su di una collina isolata a circa 500 m di altezza, permette al castello di essere visibile da km di distanza e, a sua volta, di controllare vaste porzioni di territorio circostante. Ogni angolo della struttura è occupato da una torretta, a sua volta ottagonale, alta circa 23 m. All’interno la fortezza, disposta su due piani comunicanti tra loro mediante scale a chiocciola in muratura, si presenta in tutta la sua semplicità e perfezione architettonica. Vale davvero la pena visitarlo, magari organizzando un tour con la luce del tramonto, momento in cui la candida pietra calcarea e il marmo bianco di cui è composto si accende di calde tinte che variano dal rosa, al bianco e al giallo. La reggia di Caserta La reggia di Caserta, dal 1997 patrimonio dell’Unesco insieme all’acquedotto del Vanvitelli e il complesso di San Leucio, è la residenza reale più grande al mondo per volume, fortemente voluta da Carlo di Borbone verso la metà del Settecento e disegnata dal celebre architetto napoletano Luigi Vanvitelli. Apoteosi, nonché ultimo grande capolavoro, del barocco italiano, la reggia di Caserta fu definitivamente terminata un secolo dopo coprendo un’area di circa 47 mila mq. Da non perdere il magnifico scalone reale a doppia rampa immortalato in numerosi film tra i quali in ben due episodi della saga di Guerre Stellari, la cappella Palatina, la sala del Trono e lo stupefacente parco che si sviluppa alle spalle della reggia per circa 3 km di lunghezza. La reggia può essere visitata autonomamente oppure con tour guidati comprensivi di transfert privato da Napoli. Il teatro di Taormina Il teatro greco-romano di Taormina, al pari dell’arena di Verona, è una delle cornici più apprezzate per grandi eventi dal vivo, musicali e non tra cui la cerimonia di premiazione del David di Donatello, e inoltre rappresenta uno dei simboli culturali d’Italia. Risalente al III secolo a.C. la tribuna è stata scavata direttamente della roccia e l’intero complesso ha come sfondo la suggestiva cartolina del mar Ionio e dell’Etna. Dei 10 mila spettatori che poteva accogliere in età augustea, oggi ne può contenere circa 4500 ed è una delle tappe fondamentali di qualsiasi tour della splendida città di Taormina. Il villaggio nuragico di Su Nuraxi Nei presso di Barumini, in Sardegna, si erge il più grande nuraghe che sia mai stato eretto, dal 1997 fa parte del patrimonio Unesco e vi si accede solo accompagnati da una guida. Numerosi tour del nuraghe di Barumini partono inoltre da Cagliari e possono coinvolgere l’antichissimo territorio circostante, detto della giara di Gesturi. La suggestiva e imponente struttura quadrilobata, alta 18 m circa e completamente visitabile anche all’interno, risale al XVI-XIV secolo a.C., mentre il vasto villaggio nuragico che si sviluppa ai suoi piedi è sorto tra il XIII e il VI secolo a.C. La Basilica di San Pietro in Vaticano La Basilica di San Pietro, cuore della città del Vaticano e del mondo cattolico, sebbene non sia compreso nel territorio nazionale è certamente da annoverare tra i monumenti italiani più visitati. Questa enorme chiesa raccoglie infatti la massima espressione artistica che l’Italia ha lasciato al mondo e all’umanità intera, ovvero quella meraviglia di ingegno e di estro artistico che è stato il Rinascimento. A partire dalla struttura della chiesa, l’ambizioso progetto di papa Giulio II, cominciato nel 1506, culmina nell’immensa cupola disegnata da Michelangelo, sotto alla quale si celano alcuni tra i capolavori assoluti dell’arte italiana, come la Pietà di Michelangelo (1499) e il monumentale Baldacchino di Gian Lorenzo Bernini (1624-1633), realizzato con il bronzo del pantheon romano e le quattro inconfondibili colonne tortili che riprendono direttamente il tempio di Salomone. Bernini è anche l’artefice, tra il 1657 e il 1667, della monumentale piazza e il relativo colonnato che introduce la basilica, come se fosse un lungo e simbolico abbraccio. La visita della basilica e la salita alla cupola di San Pietro possono essere tranquillamente svolte in totale autonomia. Il consiglio, vista l’enorme quantità di turisti che in ogni momento dell’anno affollano la chiesa, è quello di preordinare i biglietti con ingresso dedicato o addirittura prenotare un tour guidato, magari abbinato alla visita dell’adiacente e celebre cappella Sistina con il Giudizio Universale di Michelangelo. @Shutterstock L’Italia è ricca di arte e cultura e non mancano i monumenti storici da visitare assolutamente per il loro immenso patrimonio storico e artistico.
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“In Gold We Trust”: dialogo con Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre. Ha portato 11 milioni di persone davanti a Van Gogh, Vermeer, Monet…
L’arte è il racconto della vita e lui Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre, emotività, pop e management ha passato la sua raccontare l’arte. Organizzando esposizioni, portando in Italia capolavori, scrivendo saggi, allestendo spettacoli teatrali. Maestri celebri, opere-icona, impressioni, Impressionisti e code impressionanti. Ogni mostra, un successo. Anni fa su Facebook spuntò un gruppo denominato «Quelli che vogliono diventare Marco Goldin». Alcuni critici contestano le sue scelte mainstream, ma lui tira dritto sulla sua linea, quella che parte da Treviso, dove è nato, nel 1961, e passa dalla laurea all’Università Ca’ Foscari di Venezia con tesi su Roberto Longhi scrittore e critico d’arte (110 e lode), lungo 400 esposizioni curate dal 1984 a oggi, attraversa la sua società di produzione di mostre – «Linea d’ombra» a là Conrad – e arriva dove vuole. Alla fine Goldin è l’unico che può ottenere certe opere da musei stranieri e certi finanziamenti dai privati. Di lui si fidano sindaci, direttori, collezionisti, prestatori, sponsor e pubblico. In «Gold» we trust.
Lui ha creduto nella passione e nelle arti-star. E unendole ha creato, a suo modo, un capolavoro. Portare tutti a vedere le sue mostre. Perché prima di essere le mostre su Van Gogh, su Gauguin, su Monet, le mostre curate da Goldin sono un modo di presentare se stesso attraverso i quadri di Van Gogh, di Gauguin, di Monet… Non sono mostre su. Ma mostre di. Marco Goldin. Uno che ti vien voglia di dirgli come Dino Risi a Nanni Moretti spostati, e fammi vedere la mostra.
Lei, le mostre d’arte, vorrebbero che le vedessero tutti.
Mi piace immaginare che le opere d’arte debbano essere appannaggio di un pubblico largo. E sono convinto che la cultura sia prima di tutto racconto e emozione, abbinati all’erudizione.
I suoi avversari storcono il naso davanti alle «emozioni».
Non è una guerra. Non ci sono avversari. Qualcuno separa scientificità e popolarità. Invece per me stanno insieme. Perché una mostra non può fare 300mila visitatori? Perché – invece che allineare uno dopo l’altro dei quadri – non creare un racconto?
Con le sue mostre ha raccontato i grandi temi del viaggio, dello sguardo, del paesaggio e della notte. Cosa sceglie?
Forse il paesaggio. Sono una grande sportivo, da quando avevo 15 anni. Mi alleno molto. Ciclismo, sci d’alpinismo, fondo. Discipline che ti preparano alla fatica e che ti permettono di stare a contatto con la natura. Amo talmente tanto stare all’aperto da ricercarlo anche al chiuso. Ho una passione per la raffigurazione della Natura. Ecco perché ho curato tante mostre sul paesaggio. Collego lo spirito e il lavoro.
Quando inizia per lei il racconto dell’arte?
Mia nonna dipingeva. A otto anni facevo il modello nel suo atelier, in un’altana veneziana di Treviso. Sono cresciuto respirando olio e trementina.
Da allora è stata una linea retta?
No, al liceo i miei interessi erano di tipo letterario. Scrivevo, leggevo poesia. Poi, iscritto a Lettere a Ca’ Foscari misi nel piano di studi Storia dell’arte contemporanea perché all’epoca con quell’esame potevi insegnare alle superiori, non si sa mai. Lì incontrai Giuseppe Mazzariol. Un professore molto particolare: entrava in aula un quarto d’ora dopo e andava via un quarto d’ora prima, ma le sue lezioni erano indimenticabili.
Il tipo di insegnante che ti affascina raccontando.
Ecco. Il suo corso era su Paul Klee, artista che peraltro oggi non amo particolarmente. Ma è lì che è iniziato tutto. Poi ho cominciato a scrivere per un settimanale di Treviso, città dove negli anni ’80 c’erano moltissime gallerie private: ogni settimana s’inaugurava una mostra. Ho iniziato così, frequentando i vernissage e i pittori. Poi ho cambiato piano di studi.
E la vita.
Sì, anche se in quel momento non lo sapevo. Comunque da allora l’arte è vita, passione, lavoro.
E business.
Nel mio lavoro ha avuto qualche successo, certo. In ogni caso non sono mancate perdite, anche pensati a volte.
Prima mostra curata?
Ottobre 1984, avevo 23 anni. In 35 anni di attività ho curato 400 mostre, cioè 11-12 all’anno, una al mese. Ma la media è così alta perché quando ero più giovane e lavoravo soprattutto sulla pittura italiana del ’900 tenevo un ritmo di 30-35 mostre all’anno, contemporaneamente su più sedi, pubblicando anche il catalogo. Me ne rendo conto: era una follia. Da tempo ne faccio una, al massimo due all’anno.
Curriculum?
Dal 1988 al 2002 ho diretto la Galleria comunale di Palazzo Sarcinelli a Conegliano. Dal 1988 al 2003 ho curato molte esposizioni per la Casa dei Carraresi di Treviso. Dal 1998 ho iniziato un ciclo di grandi esposizioni nel Veneto, Torino, Brescia, Bologna, in particolare sulla pittura francese dell’Ottocento. Ho insegnato allo IULM di Milano. Dal ’91 al ’95 ho scritto recensioni per il Giornale, con Montanelli e con Feltri.
Nel 1996 fonda «Linea d’ombra».
È la mia società che si occupa di organizzare mostre sia di ambito nazionale che internazionale.
Quanti visitatori, da allora?
In 23 anni 11 milioni di persone in tutto. Ho ottenuto prestiti da 1.200 fra musei, Fondazioni e collezioni private di tutti i cinque Continenti, per un totale di oltre 10mila opere portate in Italia, di 1.054 artisti diversi. Per nove anni una delle mie mostre è stata la più visitata d’Italia. E per quattro volte si è classificata tra le prime dieci più viste al mondo.
Numeri record, ma che non le sono stati perdonati.
Invidia? Chissà, qualcuno mi ha fatto passare come quello che ha banalizzato l’arte, ma ci sono in giro tante mostre pessime eppure nessuno ha avuto critiche così feroci.
Ci soffre?
No. Mai fatto mostre per calcolo, solo quelle che mi piacevano.
Il suo secolo d’elezione è il ’900.
In ambito italiano sì. Ma le più note restano quelle su Monet, gli Impressionisti, Van Gogh…
Alla Gran Guardia a Verona ha appena inaugurato “Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky”.
È l’esempio di quanto la passione prevalga sul business. Così come quella su Rodin lo scorso anno. Organizzare una mostra su Giacometti è antieconomico. Produrre questa mostra costa due milioni. C’è uno sponsor privato, che abbassa il rischio di impresa, pagando un quinto dei costi. Il resto dovrebbe arrivare dai biglietti di ingresso. Ci perderò…
Perché?
Perché tradizionalmente le mostre sulla scultura non funzionano. La gente ama guardare i quadri, non le statue.
Però la fa lo stesso.
È una mostra che sognavo da quando andavo all’università. Giacometti è il primo artista internazionale del ’900 che ha attirato la mia attenzione. È stato uno dei miei primi “amici” artisti, fin dagli anni dell’università quando giravo i musei di tutta Europa, e vedevo i suoi disegni prima ancora che le sue sculture. Di lui mi ha sempre colpito la sua forza della verità. Lui diceva: “L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più”.
Cosa significa?
Che prima devi essere una persona vera di fronte alle persone, agli oggetti, al paesaggio che vuoi ritrarre. E dopo, verso l’arte. Il risultato sono le sue sculture uniche. Le guardi, eccole qui: la Grande femme debout, L’Homme qui marche. Quella è la Femme de Venise che fu esposta nel 1956 alla Biennale di Venezia e che riscosse un successo incredibile.
Di critica. Ma perché al grande pubblico le sculture non piacciono?
Perché la gente ama il colore. E nelle sculture non c’è. Tutto qui. È il motivo per cui Van Gogh è stra-amato dal grande pubblico e Giacometti nonostante le valutazioni stellari resta poco conosciuto. Da una parte un colore urlato, dall’altra una forma che fa pensare. Tra le due cose, dal punto di vista dell’empatia dello spettatore medio, non c’è gara.
E infatti nel 2020 farà un’altra mostra su Van Gogh.
A Padova, su Van Gogh e il suo tempo. Per farle capire come si può intercettare l’interesse del pubblico prima di aprire una mostra, le racconto questo. Sulla pagina Facebook di Linea d’ombra stiamo postando alcune foto delle opere che porteremo in mostra. Bene. L’autoritratto col cappello di feltro, stranoto, è stata la prima immagine pubblicata. Poi abbiamo messo in rete un paesaggio di Arles con i mandorli in fiore. La seconda opera ha avuto il doppio dei like rispetto alla prima. Cosa significa? Che tra un ritratto, anche iconico, e un paesaggio, suscita più emozioni il paesaggio.
È per questo che gli Impressionisti fanno sempre boom?
Certo. Perché gli Impressionisti hanno dipinto il paesaggio al suo grado massimo di bellezza.
“L’impressionismo e l’età di Van Gogh” del 2003 a Treviso totalizzò 600mila visitatori. Un record.
Nel 2005 presentai poi 80 Van Gogh e 70 Gauguin tutti insieme, una cosa da Metropolitan. Risultato: 541mila biglietti. A Brescia…
Per fare una mostra di successo cosa serve?
Primo: studiare.
Secondo?
Le relazioni internazionali. Spesso servono più dei soldi».
La sua prima conoscenza “giusta”?
Tanti anni fa. Un giovane curatore del Musée d’Orsay di Parigi, conosciuto qui in Italia, Radolphe Rapetti, che poi andò a lavorare a Strasburgo. Fu lui a presentarmi il direttore dell’Orsay, Henry Loyrette. Io stavo organizzando una mostra dedicata a Roberto Tassi, un grande critico dell’arte e grande scrittore, al pari di Longhi e Testori. Avevo in mente una grande mostra, con prestiti internazionali: tra l’altro Tassi, morto nel 1996, era molto apprezzato in Francia. Quando spiegai a Loyrette il progetto, mi disse: cosa ti serve? Prendi questo, un Cézanne, e questo, un Degas, e questo, un Monet… Tutti artisti sui quali Tassi aveva scritto molto. E così, io, piccolo provinciale di Treviso, me ne andai dal museo d’Orsay con in tasca la promessa di prestiti eccezionali. Successivamente Loyrette divenne direttore del Louvre…
E visto il successo della mostra su Tassi, fu più facile ottenere altri prestiti anche da lì.
All’estero ti giudicano anche sui numeri che fai. Portare a una mostra 200mila visitatori non è come portarne 50mila. Per i musei è un investimento in termine di immagine.
Eravamo arrivati al secondo fattore di successo. Il terzo?
Assolutamente la qualità delle opere: a volte si annunciano mostre con nomi altisonanti ma con quadri modesti.
E poi?
Certo, i grandi nomi aiutano, quelli che la gente riconosce. Monet, Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Renoir, Degas, Manet, Courbet… O Picasso, o Vermeer…
Vermeer. Goldin è «quello» che portò “La ragazza con orecchino di perla” in Italia.
Grazie alle relazioni internazionali costruite negli anni. Era il 2011. Mi chiama il direttore del museo Kröller-Müller di Otterlo, con il quale ho rapporti di amicizia da vent’anni. Mi dice: Lo sai che chiudono il museo Mauritshuis all’Aia per restauri? Per due anni faranno viaggiare una selezione delle opere in giro per il mondo. Ti interessa? Immaginati se non mi interessava! Faccio di tutto. Vado all’Aia. Mi dicono che la Ragazza andrà solo in Giappone e negli Usa. Occasione persa, mi dico. Poi però nel 2012 il direttore del Mauritshuis mi ricontatta dicendomi che hanno deciso di aggiungere una tappa, ma le richieste sono tantissime, però ricordandosi che ero stato il primo a farsi avanti mi offre la possibilità, a patto che la città fosse importante. E mi dà tre giorni di tempo. Sufficienti per accordarmi con Bologna. Dove l’ho portata.
A Palazzo Fava, nel 2014. Fu la «mostra delle mostre».
Battuto ogni record. In media abbiamo avuto 3200 entrate al giorno, e mai un giorno sotto i 2mila, nemmeno al lunedì. Fu la mostra più visitata nel 2014 con 342mila visitatori in soli cento giorni. E sì che gli ingressi erano contingentati per via delle dimensioni di Palazzo Fava.
Qualità, grandi nomi. E Il resto?
Il resto è comunicazione.
Campo in cui Lei è il numero uno.
Non lo sono, davvero. Però ho capito presto che la sola comunicazione istituzionale non basta. L’arte va raccontata al pubblico, e le mostre ai giornalisti.
Lei è stato il primo a non fare le conferenze stampa seduto, ma nelle sale con la stampa al seguito.
Se è per quello nel 2001 e 2002 per due mostre alla Casa dei Carraresi a Treviso noleggiai un aereo e portai cento giornalisti nei musei di Oslo e Edimburgo per vedere le collezioni da cui sarebbero arrivate alcune delle opere esposte. Da allora lo faccio spesso. Prima di aprire la mostra su Van Gogh a Padova, l’anno prossimo, porto tutti a Otterlo, in Olanda, al museo Kröller-Müller dove si trova una delle maggiori collezioni di Van Gogh al mondo.
Ripeteranno che sarà la solita mega mostra blockbuster. Molto d’effetto e poco scientifica.
E io ripeterò che invece si possono tenere insieme emozione e scientificità. Tra me e un erudito l’unica differenza è il modo in cui raccontiamo la stessa materia. E comunque, prima di criticare senza avere visto, meglio vedere e poi parlare. A Padova si vedranno prestiti assolutamente sorprendenti, altro che mostra blockbuster.
Dicono che Lei si prepara in maniera maniacale sia per curare una mostra sia per scrivere un saggio.
Per questa mostra su Giacometti ho preso centinaia di pagine di appunti. E poi vado sempre nei luoghi in cui gli artisti hanno creato, per provare a capirli meglio, per vedere le cose come le vedevano loro, per cercare un’empatia. Mentre preparavo la mostra sono stato al passo del Maloja tra la Val Bregaglia e l’Engadina: volevo camminare sui sentieri sui quali aveva passeggiato Giacometti, guardare i paesaggi che ha dipinto: il Lago di Sils, il ghiacciaio del Forno, i picchi coperti di abetaie… Solo se vedi quegli alberi snelli e slanciatissimi capisci da dove arrivano gli uomini e le donne filiformi delle sculture di Giacometti. È con questo spirito che nasce la mostra. E che la rende diversa da tutte le altre.
Oggi invece dicono che le mostre siano tutte uguali. Anzi: che l’Italia è diventata un mostrificio.
Un po’ è vero. E poi negli ultimi anni la qualità si è abbassata decisamente. Gli enti pubblici hanno sempre meno soldi, gli sponsor privati sono in fuga, portare grandi opere e grandi nomi in Italia costa troppo, si offre sempre meno, si fanno esposizioni con cinque opere belle e 50 modeste, il pubblico è meno invogliato, si riduce il numero di biglietti e l’intero circuito delle mostre va in crisi.
La sua mostra più bella?
Forse “America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo” al Museo di Santa Giulia a Brescia, 2007-08. Tre anni di lavoro, venti viaggi negli Usa: per raccontare il mito della Frontiera, degli spazi immensi, della vita degli indiani e dei cowboy, esposi 250 quadri prestati da 40 musei americani, più altrettanti pezzi fra fotografie d’epoca e oggetti rituali dei nativi. Una cosa mai fatta prima da noi. A una settimana dall’apertura della mostra c’erano già 80mila prenotazioni. Abbiamo chiuso a 205mila. La Tate di Londra e Amsterdam, sullo stesso tema, erano arrivati a 100mila biglietti.
Allora lei attivò una micidiale macchina di eventi per attirare pubblico: reading, film, concerti, testimonial: Mike Bongiorno, Dan Peterson, Battiato, Salvatores, Volo…
La comunicazione è importante. Ma non puoi comunicare il niente. Se hai qualcosa di bello, lo devi raccontare al meglio, tutto qui.
Luigi Mascheroni
*La presente intervista è la versione integrale di quella apparsa il 16 dicembre 2019 su ‘il Giornale’, in quel caso tagliata per ragioni di spazio, e pubblicata col titolo: “Posavo per mia nonna pittrice. Ora curo mostre da record”.
L'articolo “In Gold We Trust”: dialogo con Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre. Ha portato 11 milioni di persone davanti a Van Gogh, Vermeer, Monet… proviene da Pangea.
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“Anima inquieta” è l’esordio discografico di Maria Giulia, un arcobaleno di note per ritrovare e abbracciare tutte le cromie del proprio cuore
Con la sua vocalità ipnotica e cristallina, dopo aver incantato e stupito nell’esecuzione di alcune cover di capolavori della musica italiana, tra cui “La Differenza” di Gianna Nannini, Maria Giulia, la brillante cantautrice italiana di origini filippine, pubblica “Anima Inquieta”, il suo primo singolo ufficiale.
Ascolta su Spotify.
Apripista e title track del suo debut album di prossima uscita, il brano è uno scrigno di emozioni e sentimenti, una carezza sull’anima nata da una profonda immersione in se stessi, un viaggio interiore guidato dalla luce della conoscenza, la conoscenza del proprio Io più autentico, la cui meta è la presa di consapevolezza delle peculiarità soggettive, di ogni sfumatura che caratterizza e contraddistingue la nostra straordinaria unicità, quel meraviglioso «dipinto confuso su tela e spray», che ciascuno di noi porta dentro sé.
Scritto dalla stessa artista e avvolto in un delicato abbraccio sonoro, “Anima Inquieta” è un autoritratto intenso e viscerale, che invita l’ascoltatore a prendere per mano le proprie fragilità, quelle «linee spezzate» tra pensieri ed emozioni che la nostra dimensione più razionale e pragmatica tende a giudicare, deplorandone i fini e cercando di mutarne i tratti, portandoci spesso a dimenticare che «tutti siamo un quadro da guardare, osservare», ma soprattutto, da «capire».
Una comprensione che non necessita di discernimento, ma, al contrario, si scontra con la ragione – «quando cerco di capire è lì che mi confondo» -, che troppo spesso annebbia il percorso del cuore ed offusca il suo tracciato – «mi perdo nella logica in un nanosecondo» -; un cammino che va ritrovato ritrovando se stessi, dando fiducia e credito al proprio istinto che «non giudica mai», perché è solo assecondando la scintilla insita in noi, che potremo davvero conoscerci e apprezzarci – «seguo l’istinto e tutto va bene, poi inizio a pensare e tutto va a puttane» -, colorando il mondo di una personalissima, e per questo eccezionale, impronta cromatica e tenendo sempre a mente che il giudizio, per quanto possa apparire la strada più facile e celere, non è mai la via giusta, perché ciascuno di noi è prezioso per quello che è, nella sua incredibile singolarità – «gli stili sono tanti, i pittori un corteo, siamo tutti esposti nello stesso museo» -.
«”Anima Inquieta” – dichiara Maria Giulia – è una profonda introspezione, attraverso cui mi espongo senza pizzi e merletti, una cognizione della mia natura. È un brano intimo, in cui mi metto a nudo e racconto il mio Io più sincero. Anche per questo motivo, l’ho scelto come anticipazione del mio primo album e come titolo del disco stesso; vorrei che il pubblico mi conoscesse poco a poco per quella che sono davvero, brano dopo brano».
Un esordio in grado di catturare l’attenzione per l’eleganza interpretativa di Maria Giulia, che giunge dritta al cuore senza l’ausilio di un abito sonoro sfarzoso, ma, semplicemente, con la dolce potenza della sua voce, che come un dardo prezioso fa centro sin dal primo ascolto, mitigando e rasserenando le tempeste interiori, tutti i tumulti di un’ “Anima Inquieta”.
Biografia. Maria Giulia è una cantautrice nata a Manila e cresciuta in Italia. Sin da piccola, si appassiona alla musica, studiando clarinetto prima e pianoforte poi. Si innamora del canto e collabora con diverse compagnie teatrali, potando in scena, attraverso il dolce incanto della sua voce, svariati spettacoli a scopo benefico. Dopo essersi fatta notare e apprezzare dal pubblico mediante la reinterpretazione di alcuni capolavori della discografia italiana, nel 2022 pubblica “Anima Inquieta”, il suo primo singolo ufficiale, un viaggio interiore guidato dalla luce della conoscenza, la conoscenza del proprio Io più autentico, la cui meta è la presa di consapevolezza delle peculiarità soggettive, di ogni sfumatura che caratterizza e contraddistingue la nostra straordinaria unicità, apripista e title track del suo debut album di prossima uscita. Intensa, raffinata e dotata di un magnetismo vocale di raro riscontro, Maria Giulia giunge dritta al cuore senza l’ausilio di un abito sonoro sfarzoso, ma, semplicemente, con la delicata potenza della sua voce, che, come un dardo prezioso, fa centro sin dal primo ascolto, mitigando e rasserenando tumulti e tempeste interiori.
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source https://www.ilmonito.it/anima-inquieta-e-lesordio-discografico-di-maria-giulia-un-arcobaleno-di-note-per-ritrovare-e-abbracciare-tutte-le-cromie-del-proprio-cuore/
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Orlando: la visione di Andrea De Rosa al Teatro Astra di Torino. Un viaggio nell’identità ispirato al capolavoro di Virginia Woolf
Un classico che esplora il tema dell’identità
Un classico che esplora il tema dell’identitàDal 6 al 15 dicembre 2024, il TPE Teatro Astra di Torino presenta in prima nazionale lo spettacolo “Orlando”, un’interpretazione unica del capolavoro di Virginia Woolf firmata dal regista Andrea De Rosa. Lo spettacolo, che si inserisce nella stagione “Fantasmi”, approfondisce il tema dell’identità come entità fluida e mutevole, capace di attraversare…
#Alessandria today#Andrea De Rosa#ANNA DELLA ROSA#Anna Della Rosa Premio Duse#biglietti Teatro Astra#capolavori teatrali#dialogo culturale#drammaturgia ispirata#Drammaturgia italiana#evoluzione identitaria#Fabrizio Sinisi#fantasia e identità#Fondazione TPE#Google News#identità#inclusione e diversità#innovazione scenica#italianewsmedia.com#Nadia Fusini#narrazione teatrale#Orlando#Pier Carlo Lava#premi teatrali#rappresentazione identitaria#recitazione d’eccellenza.#scrittori britannici#spettacoli dicembre 2024#spettacoli Torino#spettacolo Orlando#Stagione teatrale 2024
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Mary Blair
Mary Blair, artista, designer e illustratrice di libri per l’infanzia, è nota soprattutto per il suo lavoro con la Walt Disney per cui ha disegnato capolavori come Dumbo, Lilli e il Vagabondo, Alice nel paese delle meraviglie, Peter Pan, Cenerentola e molti altri.
Per prima ha portato l’arte moderna all’interno dell’animazione.
Eclettica e talentuosa, ha anche disegnato pubblicità, packaging, biglietti di auguri e scenografie teatrali.
La sua impronta stilistica è ancora oggi inconfondibile, i colori elettrici, esagerati, spesso dissonanti fra loro, che rappresentano il suo marchio di fabbrica, venivano utilizzati in aree di tinte piatte e forme eccezionalmente innovative per i suoi tempi.
Nata col nome di Mary Browne Robinson a McAlester, Oklahoma, il 21 ottobre 1911, aveva vissuto con la famiglia in Texas e poi in California.
Si era laureata al Chouinard Art Institute di Los Angeles nel 1933, facendosi apprezzare come pittrice di acquerelli.
Negli anni ’30 ha fatto parte dell’innovativa California Water-Color Society.
Nel 1934 ha sposato Lee Everett Blair, artista da cui ha preso il cognome. Insieme sognavano di aprire una galleria d’arte, ma sfumato il progetto a causa della Depressione, ha ripiegato sul lavoro di colorista nell’industria dell’animazione per la Metro-Goldwyn-Mayer.
Nel 1940 ha iniziato a lavorare nei Walt Disney Animation Studios, il suo compito principale era quello di creare i tableaux delle produzioni già in corso, che all’epoca venivano eseguiti a mano. Ma invece di eseguire le istruzioni, cambiava la produzione secondo il suo stile.
Le tensioni con i colleghi, dovute al suo carattere ribelle e i ritardi nelle consegne, sfociarono, nel 1941, nella decisione di lasciare il lavoro.
Walt Disney in persona, però, che ne apprezzava il grande talento, volle riammetterla nel team e le chiese di accompagnarlo, insieme a pochi altri artisti, in un tour di ricerca in Sud America.
Durante questo viaggio le si pararono davanti i colori abbaglianti dell’America Latina che hanno influenzato la sua produzione, diventando il suo marchio di fabbrica.
Era partita da colori leggeri, eseguiti soprattutto all’acquarello, per poi evolversi in una direzione molto più plastica, con l’utilizzo di pastelli e acrilico.
Nonostante continuasse a non essere molto amata a causa del suo carattere tempestoso e i suoi alti standard di esecuzione, Walt Disney le diede carta bianca mettendola a capo della produzione di capolavori come Cenerentola, Alice nel paese delle meraviglie e Peter Pan e a supervisionare i lungometraggi animati Saludos Amigos e The Three Caballeros.
Intorno agli anni ‘50 ha lasciato gli Studios per concentrarsi su progetti di grafica e illustrazione di libri per l’infanzia, collaborando come libera professionista a importanti campagne pubblicitarie.
Nonostante non fosse più interna, Disney ha continuato a commissionarle lavori come i murales dipinti o realizzati con piastrelle che sono stati esposti nei parchi divertimenti, negli hotel e in altre attrazioni del brand, dalla California alla Florida. Ha anche progettato il murale per la sala d’attesa della chirurgia pediatrica dell’Eye Institute presso l’Università della California e per la Tomorrowland Promenade e realizzato i biglietti di auguri per Hallmark.
Ha avviato la progettazione di base per Disneyland e il padiglione dedicato al Messico nel parco divertimenti di Epcot, in Florida. È stata responsabile artistica dell’attrazione It’s a Small World alla Walt Disney Imagineering, società di ricerca e sviluppo del gruppo.
Nel 1968 è stata color designer nel film How To Succeed In Business Without Really Trying.
Nel 1991 è stata inserita tra le Disney Legends.
È morta a Soquel, California, il 26 Luglio 1978, a causa di un’emorragia cerebrale.
Mentre la sua arte al di fuori della Disney è poco conosciuta, il suo utilizzo audace e innovativo del colore è ancora fonte di ispirazione nel mondo del design e dell’animazione.
Ancora oggi si effettuano lavori ispirandosi alla sua tecnica e al suo talento, come la sigla di Monsters en Co., omaggio alle sue tecniche plastiche e colorative.
Nel 2017 la casa editrice con cui ha tanto collaborato, la Simon&Schuster, le ha dedicato una biografia illustrata.
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Siracusa presenta la terza edizione di Cine Oktober Fest , dal 6 al 31 ottobre all'Urban Center e al Biblios Cafè.
Siracusa presenta la terza edizione di Cine Oktober Fest , dal 6 al 31 ottobre all'Urban Center e al Biblios Cafè. È stato presentato ieri alla Stampa Cine Oktober Fest, edizione 2023. La manifestazione – giunta alla sua terza edizione, ed unica nel suo genere – si svolgerà a Siracusa dal 6 al 31 ottobre all’Urban Center, in via Nino Bixio 1 e al Biblios Cafè, in via del Consiglio Reginale 11. Alla presentazione ha partecipato l’assessore alla Cultura Fabio Granata. “Così come nella migliore tradizione del ‘900, i fermenti culturali nascono dai caffè letterari – ha dichiarato Granata - Mi sembra questa la cifra più significativa del Cine Oktober Fest, che è un evento colto rivolto agli amanti del cinema ma anche costruito in maniera aggregativa per l’intera comunità non soltanto giovanile della città. L’Urban Center, che l'amministrazione comunale mette a disposizione, è lo spazio perfetto per garantire il connubio tra una manifestazione che nasce in un locale privato di intrattenimento ma che di proietta come evento pubblico. Quindi, complimenti agli autori di questa sapiente miscela che vede il cinema protagonista ma attorno a esso mette assieme anche altre linguaggi artistici come la letteratura, la recitazione e la grafica.” L’evento cinematografico siracusano, ideato e diretto da Giuseppe Briffa – presidente Post Cinema APS ( Associazione promozione sociale) e da Ludovico Leone – vice presidente e project manager generale – è patrocinato dal Comune di Siracusa in partnership con Siracusa Città Educativa, Urban Center Siracusa e Biblios Cafè Ortigia. L’evento - lo sottolinea il presidente Post-Cinema, Giuseppe Briffa - “ è orgogliosamente un unicum senza precedenti a Siracusa, volto a creare una rinascita nel panorama socio-culturale e artistico, oltre a diventare elemento propulsivo per la creazione di nuove modalità espressive e fare dialogare tra loro le varie realtà culturali siracusane nell’attesa della quarta stagione. In cantiere, infatti – ha annunciato Briffa – mostre d’arte cine-pittoriche, video-filmiche ed esposizioni vintage”. “L’associazione Post-Cinema – ha dichiarato Ludovico Leone - nasce nel luglio 2023, ma esisteva già come movimento culturale dal 2021. L’obiettivo primario è diffondere la cultura cinematografica e le arti a essa connesse a 360°, proponendo un nuovo modello di fruizione che fondi conferenza, proiezione, musicazione dal vivo e teatro con una facile replicabilità a tutte le fasce d’età in ogni luogo e contesto con l’ausilio di pochi mezzi, attraverso la collaborazione con sempre nuovi enti e associazioni.” L’edizione 2023 del festival si articola lungo quattro linee direttrici: Scandinavian, Anniversary, Silent ImAge e Post Horror Wave. Nel dettaglio: Scandinavian, dedicata a opere cinematografiche scandinave inedite, dimenticate o da riscoprire, uscite nell’ultimo decennio. Anniversary è la sezione dedicata alla proiezione di grandi classici della storia del cinema che nel 2023 compiono l’anniversario di uscita; dall’animazione all’autorato scandinavo, fino al cyberpunk e al body horror degli anni ottanta. Silent ImAge, per celebrare i grandi capolavori del cinema muto di matrice espressionista, con cine-concerti creati su misura. Fra gli altri, il Faust di Murnau del 1926. La sezione dedicata alla Post-Horror Wave parlerà di film indipendenti premiati in tutto il mondo negli ultimi vent’anni, di stampo autoriale e dalle venature orrorifiche, destinati a un pubblico adulto e dalla indiscussa valenza estetica. Nel corso della manifestazione verranno proposte conferenze introduttive alle proiezioni, letture teatrali di brani dei romanzi da cui sono stati tratti alcuni dei film in programma, con musicazione dal vivo a cura di Ludovico Leone. Il direttivo è composto dal presidente Giuseppe Briffa, dal vicepresidente Ludovico Leone e dal segretario Valerio Zanghi. Al direttivo si affiancano i soci collaboratori Claudio Pavia (grafico), Gianandrea Cama (fundraiser) e Davide Carnemolla (recensore). G. Briffa, esperto in filmologia, videoeditor, videomaker, art-director per associazioni culturali siciliane, curatore di rassegne cinematografiche fra cui “In the mood for Biblios”, per il Biblios Cafè di Siracusa. È stato direttore artistico del Nuovo Museo del Cinema di Siracusa “Remo Romeo”. L. Leone, vicepresidente, responsabile del progetto grafico e musicista, si occupa degli inserti musicali dal vivo nel corso degli eventi. Graphic designer e regista indipendente, ha al suo attivo quattro cortometraggi, diverse opere letterarie, poetiche e saggistiche; è inoltre curatore della rassegna “Post-Cinema: Imagination, Exploration, Experimentation”. V. Zanghi, segretario, ingegnere elettronico specializzato in ecologia, è coordinatore di eventi a tematiche ambientali legate alla transizione ecologica. Collabora al progetto con Post Cinema e partecipa alla manifestazione anche l’associazione V.A.N. (Verso Altre Narrazioni), per promuovere la divulgazione teatrale mediante gli strumenti cinematografici, creando un’ingegnosa collaborazione tra cinema e teatro. Il CineOktoberFest 2023 si terrà in due sedi, il Biblios Cafè in Ortigia, Via del Consiglio Reginale 11 e presso l’Urban Center in Via Nino Bixio 1. Programma Sezioni dei contenuti: Intro Cartoons • Betty Boop Dark Show • Disney Horror Silly Symphonies • Looney Tunes USA War Propaganda • Felix The Black Cat Prima Serata (Urban Center) Anniversary Scandinavian Silent ImAGE Special Prima Serata (Biblios Cafè) / Seconda Serata (Urban Center) Post-Horror Wave URBAN CENTER SIRACUSA 6 Ottobre: Disney Horror Silly Simphonies BABES IN THE WOODS by Burt Gillet (1932) Betty Boop Dark Show SNOW-WHITE by Dave Fleischer (1933) Anniversary (85 anni) BIANCANEVE by David Hand (1938) Post-Horror Wave GRETEL E HANSEL by Oz Perkins (2020) 7 Ottobre: Betty Boop Dark Show THE MAN AND THE OLD MOUNTAIN by Dave Fleischer (1933) Scandinavian IL SOSPETTO by Thomas Vinterberg (2012) Post-Horror Wave IT FOLLOWS by David Robert Mitchell (2014) 8 Ottobre: • Disney Horror and Silly Simphonies DER FUEHRER'S FACE by Jack Kinney (1943) Silent I• mAGE FAUST by W. F. Murnau (1929) • Post-Horror wave BABADOOK by Jennifer Kent (2014) 20 Ottobre: • Disney Horror and Silly Simphonies HELL'S BELLS by Ub Iwerks(1929) • Anniversary (50 anni) THE EXORCIST by William Friedkin (1973) • Post-Horror wave A GHOST STORY by David Lowery (2017) 21 Ottobre: • Betty Boop Dark Show MINNIE THE MOOCHER by Dave Fleischer (1932) film – Anniversary (40 anni) VIDEODROME by David Cronemberg (1983) • Post-Horror wave COME TRUE by Anthony Scott Burns (2021) 22 Ottobre: • Felix The Black Cat SWITCHES WITCHES by Otto Messmer (1927) • Silent ImAGE HÀXAN by Benjamin Christensen (1922) • Post-Horror wave THE WITCH by Robert Eggers (2014) • Selezione ragionata di letture tratte da Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe) trattato pubblicato nel 1487 dai frati Heinrich Kramer e Jacob Sprenger a cura di V.A.N. Verso Altre Narrazioni 27 Ottobre: • Betty Boop Dark Show POOR CINDERELLA by Dave Fleischer (1934) • Scandinavian UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL'ESISTENZA by Roy Anderson (2015) • Post-Horror wave THELMA by Joachim Trier (2017) 28 Ottobre: Disney Horror and Silly Simphonies THE SKELETON DANCE by Walt Disney (1929) Anniversary (55 anni) L' ORA DEL LUPO by Ingmar Bergman (1968) • Selezione ragionata di letture tratte da La Lanterna Magica di Ingmar Bergman a cura di V.A.N. Verso Altre Direzioni 29 Ottobre: • Betty Boop Dark Show HA HA HA ! by Dave Fleischer (1934) • Silent ImAGE LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO by Carl Theodor Dreyer(1922) • Post-Horror wave MIDSOMMAR by Ari Aster (2019) 31 Ottobre • SPECIAL THE CINEMA OF JOHN CARPENTER Un excursus video-musicale in occasione dell'anniversario (45 anni dall'uscita statunitense ) del film di culto, celebrato in tutto il mondo, Halloween - La notte delle streghe (1978). Il programma prevede nell'ordine: una digressione ragionata dell'intera filmografia di Carpenter, con contributi videografici realizzati ad hoc per l'occasione con accompagnamento musicale dal vivo (synth, basso, chitarra) delle colonne sonore che hanno caratterizzato le opere dell'autore in questione, poiché egli stesso è stato ed è compositore. In seconda serata la proiezione del film • Anniversary (45 anni) HALLOWEEN by John Carpenter (1978) BIBLIOS CAFÉ ORTIGIA ciclo conferenze CineOktoberFest POST-HORROR WAVE "L'ultima avanguardia della storia del cinema" 10 Ottobre SWALLOW by Carlo Mirabella-Davis (2020) 11 Ottobre THE NEON DEMON by Nicholas Refn (2017) 12 Ottobre HEREDITARY by Ari Aster (2015) 13 Ottobre A GIRLS WALKS HOME ALONE AT NIGHT by Ana Lily Amipour (2014) 14 Ottobre MOTHER! by Darren Aronofsky (2017) 17 Ottobre A CLASSIC HORROR STORY by Roberto De Feo, Paolo Strippoli (2021) 18 Ottobre FAVOLACCE by Fratelli D'Innocenzo (2020) 19 Ottobre SICILIAN GHOST STORY by Fabio Grassadonia, Antonio Piazza (2017) Nelle giornate del 17, 18 e 19 ottobre avremo l'onore di ospitare Carmelo Maiorca per un breve excursus storico sulla criminalità organizzata ('ndragheta calabrese, criminalità romana suburbana, mafia siciliana). 24 Ottobre THE LIGHTHOUSE by Robert Eggers (2019) 25 Ottobre IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO by Yorgos Lanthimos (2017) 26 Ottobre UNDER THE SKIN by Jonathan Glazer (2013)... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Un racconto completamente random su Beyond Birthday
Camminava a testa bassa per le strade della sua città, incurante di ciò che le succedeva intorno. Voci ostili continuavano ad invaderle i pensieri.
Le lacrime scivolavano lente sulle guance della ventenne e cadevano, fino a terra. Avrebbe voluto portassero via la rabbia, avrebbe voluto si trascinassero dietro la sua anima fino alla bianca e soffice coltre di neve, avrebbe voluto sciogliersi al sole mattutino e dimenticarsi del mondo.
Era ingiusto, crudo, orrendo. Piccoli dettagli bastavano a rovinare un'esistenza. Bastava poco per essere esclusi da quella parte della società che sembrava avere il diritto di sopprimere il diverso.
Diversa.
Era una delle parole con cui si era sentita additare.
Diversa.
A nessuno era dato sapere da cosa
Sbatté contro qualcosa di imprecisato. Si allontanò e notò del tessuto nero davanti al suo viso. Alzò lo sguardo. Il volto che le si parò davanti era pallido, magro. La luce del lampione si rifletteva nelle iridi rosso sangue del ragazzo. Marta, a quella vista, non reagì in alcun modo, se non scusandosi per l'urto.
«Mi scusi, non guardavo avanti» mormorò
Lui non diede segno di voler rispondere, le guardava curioso gli occhi e lei guardava i suoi. Dopo qualche secondo le porse un fazzoletto. La mano sembrava appesa al polso, il pezzo di carta tenuto solo dall'indice e dal pollice. Lei gli sorrise e lo prese ringraziando
«Perché piange?» chiese piatto.
«Niente, nulla di che»
«Scusi, dopotutto non vedo perché dovrebbe aprirsi con una persona che ha incontrato da pochi secondi» le sorrise lievemente «Venga, una cioccolata calda dovrebbe farla stare meglio» le fece cenno di seguirlo verso un bar.
Tentennò. Di solito non si dà fiducia al primo tizio con gli occhi particolari che si incontra, ma voleva sfogarsi con qualcuno che la capisse, che avesse il suo stesso problema.
Lo seguì.
La ragazza osservò lo sconosciuto. I capelli corvini gli ricadevano sul volto e contrastavano con la sua carnagione bianca come carta. Si chiese come mai avesse gli occhi di quel colore così particolare. Di solito le avevano gli albini: a causa della mancanza di melanina si vedevano i vasi sanguigni al di sotto dell'iride, ma non sarebbe stato il caso del ragazzo, a mano che non si fosse tinto i capelli.
Decise di non fare domande, sapeva quanto dessero fastidio.
Si limitò ad osservare il suo perdersi nei suoi pensieri, con le mani in tasca, lo guardo fisso in avanti, quasi annoiato.
Entrarono nel piccolo caffè, presero delle bevande e si sedettero su un tavolo lì vicino.
«Scusi, non mi sono nemmeno presentato, Beyond Birthday»
Non le tese la mano. Lei non ci fece nemmeno caso, inizialmente.
«Marta Venturi. Lei è inglese? Parla un italiano perfetto»
«Sì, vengo da Winchester. Credo di aver capito perché piangeva, ora che siamo in un posto più illuminato. A me i suoi occhi piacciono» disse sorridendo lievemente
«Grazie, anche i suoi sono bellissimi, sa? Il rosso è un colore meraviglioso»
Bevve un sorso della bevanda bollente «Allora, me ne parli un po', la scherniscono spesso, vero?»
«Almeno una volta a giorno»
«Colleghi, compagni?»
«Colleghi. Faccio la commessa in un negozio di abbigliamento, non ha idea di quanto odi il mio lavoro. La gente arriva e non fa che guardare male me e i miei occhi, non li sopporto. Per non parlare del fatto che io di vestiti non ne capisca praticamente un cavolo»
«Ah, quanto la capisco. Cinque minuti prima che la incontrassi un signore mi ha maledetto perché gli ho fatto prendere un colpo a causa dei miei occhi nel buio e ha detto che gli uomini non dovrebbero indossare lenti colorate, specie di colori innaturali»
«A me invece dicono che dovrei metterle, ma non me ne curo minimamente. Solo perché a loro non piaccio non significa che debba cambiare»
«Giusta filosofia. Ma se la pensa così, allora perché piange?»
«Vede, tra il cambiare e il sopportare c'è differenza. Chi cambia lo fa perché è debole d'animo, perché vuole essere come gli altri, essere accettato a far parte della monotona normalità. Io ho sopportato. Ma alla fine ci si stanca anche di quello»
«Concordo. Da piccolo vivevo in un orfanotrofio, a Winchester. Ricordo che ero molto preso in giro. Dicevano che nessuno mi avrebbe adottato, a causa dei miei "demon's eyes", così li chiamavano loro»
Lei non disse "mi dispiace". Non disse "deve essere stato difficile". Non disse nulla riguardo all'orfanotrofio. Dalla perdita di suo padre imparò fondamentalmente una cosa: le condoglianze danno fastidio e sono inutili. Per quanto una persona abbia passato un evento simile ad una determinata morte, nessuno ha lo stesso grado di attaccamento. Nessuno reagisce in ugual modo. Nessuno può capire l'altro davvero in fondo. Quindi perché si dice "Passerà"? Cosa ne sa la gente di come e quando passerà il dolore? "Mi spiace" solo perché è un tuo parente che, nella maggior parte dei casi, il consolatore nemmeno conosceva. Potrebbe non fregare niente a nessuno. Nemmeno a chi dovrebbe essere triste.
«Non sono per forza occhi di demone. Il rosso non è solo il colore della malvagità. Significa anche voglia di fare, di vincere, significa passione, fiducia in sé stessi, orgoglio. Io vedo solo gli occhi di una persona gentile che sta aiutando una ragazza con le sue stesse difficoltà»
«Viola... nel Medioevo, durante la Quaresima, erano vietati gli spettacoli e le rappresentazioni teatrali. Ciò causava una profonda crisi economica per gli attori, che attribuirono al viola, il colore della veste del prete in quel periodo, il dolore, la tristezza, il tormento. E in effetti non mi sembra molto felice, adesso. Ma, se vuole il mio parere, una ragazza che sopporta le derisioni quotidiane, il non essere accettata da una madre e la perdita di un padre deve essere molto più che forte»
Lei sgranò gli occhi e guardò il corvino meravigliata dalla sua esatta deduzione «Come ha fatto?»
«Ha una medaglia al collo, c'è scritto "A Marco", intuisco sia stata di un familiare morto, forse un nonno o un padre, ma escludo il nonno, l'argento non si è ossidato col tempo e non sembra così lucente da essere stato pulito nell'arco di dieci anni. Riguardo alla madre, me l'ha detto praticamente lei, ha un lavoro che odia. Se sua madre tenesse a lei probabilmente le darebbe un aiuto economico, cosa che non fa, considerate le occhiaie, causate probabilmente dalle ore di straordinario che ha fatto. Dico bene?»
Lei annuì stupita dall'intelligenza del ragazzo «È spettacolare, sa? Come ha messo in piedi una deduzione simile, intendo»
«Esiste di meglio, mi creda»
Lui tirò fuori una penna e scrisse qualcosa su un tovagliolo. La mano affusolata si muoveva lentamente e la grafia era ordinata, sembrava quasi uno di quei capolavori da esporre in un museo. Le porse il pezzo di carta «È il mio numero, chiami quando vuole, se ne ha bisogno. È ora di ritornare a casa. La sua coinquilina sarà preoccupata, non crede?»
«Come...»
«Fa la commessa, non potrebbe pagare l’affitto o anche solo le tasse autonomamente, non per un appartamento di medie dimensioni a Milano. Ha un libro, nella borsa, e sembra proprio un testo universitario, a maggior ragione non avrebbe nemmeno la possibilità di pagarsi gli studi, senza qualcuno con cui dividere le spese»
«Sì, ha ragione. Ed è stupefacente, ancora una volta. Spero di non averle recato disturbo, Beyond»
«Affatto, Marta. Mi ha fatto soltanto piacere poter essere un suo sfogo»
«Buona serata, allora»
Il giovane sorrise «Non penserà che io intenda farla tornare da sola nel bel mezzo della notte con i malviventi che se ne vanno in giro ubriachi! La accompagno io»
«Non è necessario, veramente...»
«Si figuri, è il minimo»
«Non ridendo dei miei problemi ha già fatto molto, Beyond, mi creda»
«Vorrei fare di più allora. E mi può dare del tu, se non le dispiace»
«No, anzi. Può darmelo anche lei, a me non cambia nulla»
Uscirono dal bar. La coltre di neve, spessa più o meno cinque centimetri, faceva congelare i piedi di entrambi e di chiunque la calpestasse. Le luci dei lampioni illuminavano qualche panchina vuota o qualche uomo che camminava di fretta. Il mondo sembrava essersi fermato per quei due ragazzi. Continuavano a parlare, guardandosi reciprocamente gli occhi e sorridendo lievemente al pensiero di aver trovato qualcuno di simile, qualcuno che capisse il modo in cui ci si sentiva quando la gente pensava fossi sbagliato.
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“Non piangere, non è niente morire”: indagine dentro “La coscienza di Zeno”, il romanzo più rivoluzionario (e sapienziale) della letteratura italiana
Il più grande romanzo del Novecento italiano è stato scritto da un autore che non parlava italiano. E questo è soltanto uno dei paradossi che accompagnano la nascita della «Coscienza di Zeno» e la vita di Ettore Schmitz, lo scrittore triestino che volle ribattezzarsi con lo pseudonimo di Italo Svevo. La lingua, dunque. La sfida che, a differenza di tutti gli altri scrittori del mondo, lo scrittore italiano si è trovato ad affrontare ogni volta che ha progettato un romanzo è stata questa: come lo scrivo? In che lingua? L’italiano è, infatti, come si sa, un’invenzione tutta letteraria. Basti pensare al travaglio linguistico che accompagnò per decenni Manzoni nella stesura dei «Promessi sposi», che aveva appunto sottesa un’unica, inesausta domanda: «In che lingua lo scrivo»? Per non parlare di quell’altro capolavoro che è «I malavoglia» di Verga (o «Quer pasticciaccio» di Gadda, o «Il partigiano Johnny» di Fenoglio). Come se ogni romanzo italiano, per essere grande davvero, avesse dovuto inventarsi una propria lingua, o meglio una propria personale soluzione alla perenne «questione della lingua».
Per molto tempo l’italiano di Svevo (un cognome scelto per dimidiare, non a caso, la propria nazionalità e cultura) è stato giudicato approssimativo: un «italiano fortuito e avventizio» secondo la celebre definizione di Giacomo Debenedetti. Ettore Schmitz, difatti, l’italiano non lo parlava mai: come Zeno Cosini usava solo il «dialettaccio» triestino, quello «strano e personale dialetto intimo» che lo stesso Debenedetti notava nei suoi personaggi, prima di venire alla luce come lingua tradotta in toscano. Ma l’italiano di Svevo – un italiano tecnico, commerciale, pratico, perfino burocratico a volte – è la dimostrazione che si possono scrivere capolavori anche senza infiorettare la lingua, senza specchiarvici dentro, senza ammirarsi nel bello scrivere, senza formalismi dannunziani, senza slanci lirici e descrittivi, ma semplicemente rendendo la propria lingua prensile, facendola aderire alle cose, ai fatti e ai pensieri. In tal senso l’anomalia sveviana è figlia del suo dilettantismo: totalmente estraneo alle conventicole e alle scuole letterarie, Schmitz lavora come impiegato di banca per diciotto anni (dal 1880 al 1898), durante i quali pubblica due romanzi che passano sotto silenzio, benché il secondo, «Senilità», sia già di livello altissimo. Dopo il matrimonio, deluso dal fallimento di pubblico e critica delle sue opere, decide di abbandonare la letteratura e dedicarsi anima e corpo all’amministrazione dell’azienda del suocero, un’importante società produttrice di un colorante anticorrosivo per gli scafi delle navi. Ma in realtà Svevo continuò a sopravvivere a Schmitz, e seguitava a redigere i suoi diari, a prendere appunti, a stendere lavori teatrali e racconti. E soprattutto a progettare il romanzo più importante e rivoluzionario della letteratura italiana del Novecento.
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Una volta, da ragazzi, un mio caro amico mi disse una frase che non ho più dimenticato: «La vita è un compromesso con la mediocrità». Me la disse, questa frase, mentre eravamo in Vespa, lui avanti e io dietro, vagando per la città senza una meta precisa, come si fa spesso da giovani, e non ricordo più parlando di che cosa. Fu una frase che mi colpì come una sferzata. Certo era inadeguata e inaccettabile per la nostra età (non avevamo ancora diciott’anni all’epoca) e soprattutto per me, che ero tutto teso verso l’assoluto e il rifiuto sdegnoso di ogni compromesso. Ma avevo già letto e amato «La coscienza di Zeno», un romanzo anch’esso totalmente inadeguato alla gioventù, il romanzo senile per eccellenza, la cui grandezza si riesce a comprendere in maniera direttamente proporzionale al passare dei nostri anni. E per questo subito colsi in quella frase un accento sveviano. Certo Zeno Cosini sostiene che «la vita non è né brutta, né bella, ma originale!», eppure nel dichiarare che in quel compromesso con la mediocrità si nasconde l’essenza della vita, il mio caro amico fece sfoggio di un’ironia degna di Zeno, ovvero l’inetto più amabile della letteratura italiana (e forse mondiale) del Novecento. In una lettera a Valerio Jahier del dicembre 1927, Svevo scriveva: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del Superuomo come ci è stata gabellata». Ecco, dunque, che in quell’inettitudine, in quell’inerzia, in quella mediocrità, proprio come l’uomo senza qualità di Robert Musil, vi è nascosta una vitalità sotterranea, una protesta, appunto. Di fronte ai ridicoli vaneggiamenti sul Superuomo dannunziano, Zeno Cosini (in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci appare vicino e fraterno e adorabile. Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche lui. Quando muore il suo rivale antagonista Guido Speier, si accoda al funerale sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta (quell’U.S. che comincerà a scrivere ovunque nei suoi appunti di diario). Perfino la scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un ridicolo errore, e di un forzato accomodamento con la mediocrità. Zeno è un personaggio agito (in questo profondamente freudiano), un uomo che non ha più in mano il suo destino, ma che si lascia trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma è proprio così? O in questo naufragio (che egli chiama malattia) riesce a trovare la sua – e la nostra – salvezza?
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Dopo aver ascoltato la lettura di ‘The Dead’ la moglie di Italo Svevo, Livia Veneziani, commossa, andò a raccogliere dei fiori per James Joyce…
In fondo Aron Hector Schmitz è un italiano per caso. Nasce a Trieste nel 1861 da famiglia ebraica, padre tedesco e madre italiana, nell’allora impero austro-ungarico. Studia in Baviera, parla il tedesco, legge Nietzsche, Schopenhauer, più tardi Freud. Del tradizionale letterato italiano non ha nulla. Né la lingua, né la cultura, né l’istruzione. Non ha nemmeno un diploma liceale. Proprio per questo il suo ultimo romanzo, scritto a quasi sessant’anni, cadrà come un meteorite sul panorama letterario nazionale, sconquassando il suo ecosistema. A scoprirlo, come si sa, fu James Joyce. Il giovane scrittore irlandese si trovò per caso a dare lezioni di inglese, nel 1907, mentre viveva a Trieste, a questo maturo amministratore di una importante società internazionale. Svevo ne aveva bisogno per facilitare i suoi rapporti di affari con lo stabilimento che l’azienda aveva aperto nei pressi di Londra e cominciò a prendere lezioni tre volte alla settimana nella fabbrica di Servola, alla periferia di Trieste, da questo geniale «mercante di gerundi», come lo soprannominò, che ancora doveva pubblicare i «Dubliners», ma che lasciò a bocca aperta il suo allievo e la moglie quando gli lesse un giorno il suo racconto «The dead» appena finito, al punto che Livia Veneziani, la signora Schmitz (alla cui bionda chioma Joyce si sarebbe ispirato per un celebre passo del «Finnegan’s Wake») scese nel giardino della sua villa, che sorgeva accanto alla fabbrica, raccolse un mazzo di fiori e lo portò in omaggio allo scrittore irlandese. Si sa che Ettore Schmitz fu uno dei principali modelli per il Leopold Bloom dell’«Ulysses» (oltre che fonte della maggior parte delle informazioni sul mondo ebraico che Joyce utilizzò nel suo capolavoro). Ciò spiega la somiglianza, e l’amabilità, di Poldy e Zeno. Così era Schmitz: cordiale e semplice con tutti, con gli amici e anche in fabbrica con i suoi operai, e ai ricevimenti sapeva essere sempre al centro dell’attenzione senza protagonismi, facendosi semplicemente ammirare per la sua ironia, che rivolgeva soprattutto verso se stesso, segno inequivocabile di grande intelligenza. Così quando Svevo pubblicò «La coscienza di Zeno» nel 1923, scoraggiato dall’ennesimo fiasco cui stava andando incontro il libro, scrisse all’amico Joyce per dirgli che aveva capito d’aver commesso una sciocchezza, per giunta a un’età in cui non è decoroso fare brutte figure. Ma Joyce, che stava leggendo il romanzo, lo incoraggiò: «Perché si dispera? – gli rispose – È di gran lunga il suo miglior libro». Due cose della «Coscienza» avevano colpito Joyce: il tema del fumo e il trattamento del tempo. In effetti il tema freudiano dell’incapacità di dominare il proprio inconscio, sviluppato in quel modo così semplice e apparentemente banale come l’incapacità di smettere di fumare, era nuovo. Così come rivoluzionario era l’uso del tempo: i riferimenti cronologici sono sparsi nel romanzo con apparente casualità, dal 1870 al 1916, e il tempo viene così polverizzato, disarticolato in un tempo misto, che è poi quello della coscienza: gli stessi avvenimenti non esistono più come struttura di un intreccio tradizionale, ma come semplici reperti della nevrosi, e a differenza di Proust, che attraverso la letteratura recupera il tempo perduto, Svevo dissipa continuamente il presente. Nel romanzo tutto è già avvenuto, e Zeno è come imprigionato in un tempo circolare. Tutto ciò impressionò favorevolmente Joyce al punto che il già celebre scrittore volle farsi promotore del romanzo a Parigi: parlò di Svevo al poeta e romanziere Valéry Larbaud, collaboratore della prestigiosa NRF e a Benjamin Crémieux, critico italianista che morirà nel lager di Buchenwald, definendolo l’unico scrittore italiano moderno che lo interessasse. La risposta positiva dei due intellettuali francesi fece scoppiare il «caso Svevo» anche in Italia, complice Bobi Bazlen che lo consigliò a Eugenio Montale. Nel 1926 la rivista francese «Le navire d’argent» dedicò allo scrittore un intero fascicolo. E nel marzo del 1928 a Parigi, in una riunione del Pen Club, Svevo venne festeggiato con una serata in suo onore, alla presenza di importanti scrittori, come Isaak Babel’ e G.B. Shaw (e naturalmente lo stesso Joyce). Ma la gloria fu quasi postuma. Con un paradosso tipicamente sveviano, Ettore Schmitz riuscì per poco tempo a godersi quel successo che la vita gli aveva fin lì negato, perché il 12 settembre di quello stesso anno fu coinvolto in un incidente stradale a Motta di Livenza, e morì 24 ore dopo in ospedale, a 67 anni. Poco prima, consolò la figlia dicendo: «Non piangere, Letizia, non è niente morire». Poi vide il nipote accendersi una sigaretta e chiese di poterne fumare una. «Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta», disse, con un’estrema, folgorante battuta.
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«La Coscienza di Zeno» è un capolavoro di letteratura sapienziale, uno di quei libri, cioè, che ci insegnano ad accettare i limiti della natura umana. Come Shakespeare e Cervantes, come Montaigne e Goethe, come Proust e Freud, anche Svevo ci mostra la saggezza con cui affrontare la vita. E lo fa attraverso un’ironia – retaggio di un ebraismo abiurato – traboccante di umanità: un’ironia che è la valutazione distaccata dello scarto che esiste tra la realtà e la nostra coscienza, e del necessario compromesso che dobbiamo trovare tra i due estremi. Un compromesso con la mediocrità, appunto. Nel senso di un’aurea via di mezzo, perché nella mediocrità, nei meandri della medietà, l’umanità vibra più che altrove, ed è più riconoscibile. Zeno Cosini non ambisce a rappresentare alcunché, se non la propria sconfitta, il suo fallimento di uomo precipitato nella casualità della vita, in una contingenza senza redenzione né dannazione. Senonché, come Freud ci ha insegnato, il caso non esiste. La saggezza più profonda del libro è allora nascosta nei fatti, laddove tutte le scelte apparentemente casuali o perdenti di Zeno si rivelano, a ben guardare, vincenti: la moglie che è stata l’ultima scelta obbligata dopo il rifiuto dell’amata sorella Ada e della seconda sorella Alberta, si rivela la donna giusta per lui, quella che riesce ad accoglierlo maternamente e ad amarlo con tutte le sue debolezze, mentre Ada con gli anni si imbruttisce, affetta dal morbo di Basedow. Il rivale e cognato Guido a cui Zeno sembra soccombere per tutta la vita, si rivela invece un fallito e finisce suicida per sbaglio. E in generale la nevrosi predispone Zeno a una condizione di disponibilità che i cosiddetti sani non hanno, irrigiditi nelle loro convinzioni. L’inettitudine del protagonista (evidente maschera autobiografica dello scrittore) è, dunque, tale solo in apparenza: o meglio, diventa strumento di indagine e di analisi che procura uno scacco della conoscenza ma non della coscienza. Una coscienza della debolezza che si fa forza.
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Il mio caro amico, che mi disse quella frase sveviana quel giorno di tanto anni fa, durante un giro in Vespa, era stato cacciato da più scuole perché apparentemente inadatto allo studio. Nessuno avrebbe scommesso su di lui, ma poi ha superato esami e concorsi, e oggi è diventato un professionista ricco e affermato, dimostrando così che la predisposizione al fallimento può trasformarsi in successo, che la consapevolezza della propria malattia può rivelarsi salute. Non che abbia superato le nevrosi della sua psiche o risolto i suoi conflitti, ma chi ci riesce? Io, comunque, non ho mai dubitato della sua intelligenza, delle sue capacità, e soprattutto della sua umanità. Un’umanità che è la sua vera ricchezza. La vita è un compromesso con la mediocrità, quasi per tutti, certo, adesso che ho rinunciato all’assoluto lo capisco molto meglio che a vent’anni, ma è un compromesso nel quale possiamo adattarci anche bene, se vogliamo. La lettura di Svevo, e la saggezza profusa nella «Coscienza di Zeno», un libro dalle profondità inaspettate, a cui ancora continuo ad attingere, mi ha aiutato in questo difficile percorso verso la maturità. Forse, anzi ne sono sicuro, anche il mio amico potrebbe dire oggi, alla fine dei conti, che «la vita non è né brutta né bella, ma originale!».
Fabrizio Coscia
L'articolo “Non piangere, non è niente morire”: indagine dentro “La coscienza di Zeno”, il romanzo più rivoluzionario (e sapienziale) della letteratura italiana proviene da Pangea.
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I classici riassunti – Amleto di William Shakespeare
Riassunto semiserio: AMLETO di William Shakespeare La mia debolezza per Shakespeare mi è quasi fatale. D’altronde, completamente in linea con le sue opere. Tragedie. Finiscono tutte a schifìo, come direbbe Montalbano di Camilleri. Scritta fra il 1600 e il 1602, The tragedy of Hamlet, Prince of Denmark (già dal titolo potete notare che l’autore mette le mani avanti) è una delle opere drammaturgiche più famose al mondo, vantando innumerevoli rappresentazioni teatrali. In effetti, i capolavori shakespeariani sono stai ideati per il palcoscenico, risultando immediatamente più comprensibili se visti da spettatore. Non avendo io doti interpretative, vi dovete accontentare di questo breve riassunto. Dove, quando e cosa Danimarca, castello di Elsinore, XVI secolo. Posto cupo, umido da morire (portiamoci ancora avanti), c’è una perenne nebbia sia fuori che dentro, l’ambiente è insalubre, i personaggi pure. In poche parole: tira una brutta aria. Dopotutto il Re è appena morto, la Regina si porta avanti pure lei sposando il fratello del re morto, il figlio – principe Amleto – non la prende benissimo.
Dal film: Hamlet, 1996 Chi è chi Re Claudio – nuovo Re di Danimarca dopo l’improvvisa morte del fratello. Anche nuovo marito di Gertrude, la Regina vedova del re morto. Subdolo, strisciante e complottista, si abbina benissimo all’ambiente. Infatti è lui che ha ucciso il fratello, versandogli veleno nell’orecchio mentre dormiva in giardino. Quindi state attenti dove vi addormentate. Serpente. Regina Gertrude – madre di Amleto, principe di Danimarca, ama teneramente il figlio e si sente in colpa di aver sposato Claudio appena dopo aver seppellito il marito, ma si sa: la carne è debole. Vorrebbe che tutti andassero d’amore e d’accordo. Vedova allegra. Amleto – (molto più virile in lingua originale: Hamlet) principe di Danimarca, cupo e ombroso come le paludi che circondano il castello, potrebbe essere anche bello non fosse per il pallore mortale (lo so) che gli immalinconisce il viso e quella luce oscura che ha nello sguardo – ma forse questo lo rende solo più affascinante. Principesco. Orazio – fedele amico di Amleto, lo sostiene sempre dimostrandosi all’altezza del suo ruolo. Leale. Polonio – consigliere del Re, uomo di sani principi ma privo di spirito, pensa di consigliare sempre per il meglio, mentre altro non fa che velocizzare l’avvicinarsi della catastrofe. Praticamente, dopo Shakespeare, sta al secondo posto per istigazione all’omicidio. Impiccione. Ofelia – aah, dolce Ofelia, figlia di Polonio, simbolo di purezza, bellezza, giovinezza (ahimè, non posso aggiungere gaiezza), dolce fanciulla dall’animo delicato come un fiore di loto che poco si adatta a paludi così velenosamente miasmose come quelle di Elsinore. Vagamente corteggiata da Amleto, spera ma non crede, vuole ma non può. Ondina. Laerte – figlio di Polonio e fratello di Ofelia, è il classico tipo che si trova nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Messo in mezzo non per propria volontà, affronta da uomo il suo destino. Manipolato. Rosencrantz e Guildenstern – uomini di corte, ex compagni di università di Amleto, vengono utilizzati dal Re e dalla Regina per cercare di capire quale male affligge il tenebroso principe rendendolo così vicino alla pazzia. Carne da macello. Chi fa cosa Orazio viene chiamato da una delle due guardie che fanno il turno di notte per assistere a una strana apparizione: nei pressi del castello uno spettro fluttuante fa gelare il sangue nelle vene. Ma Orazio non è uomo da farsi intimidire da un fantasma, anzi, esige spiegazioni. Dallo spettro sì, che assomiglia sospettosamente al Re morto. Lo spettro sta quasi per parlare, ma il gallo canta: il fantasma-cenerentola deve rientrare.
Perplesso, Orazio racconta ad Amleto l’accaduto e i due decidono di montare di guardia la notte successiva. Detto fatto, passata una certa, lo spettro riappare: è proprio il deceduto Re, avvolto da nebbie e rabbia repressa. Fa segno ad Amleto di seguirlo. Un pochino intimiditi dall’aria poco benevola dello spettro, Orazio e le due guardie provano a dissuadere il principe. Ma Amleto sfodera la spada: o voi o io! Va bene, tu. Amleto segue dunque il padre morto che, cavernosamente e talmente a fatica da sembrare d’oltre tomba, rivela al figlio che il proprio fratello lo ha fatto fuori per usurpare due piccioni con una fava, cioè trono e moglie. Ora, capite che sono cose da farti rigirare nella tomba, quindi si esige vendetta. Sconvolto, Amleto ritorna fra i vivi, senza far parola con nessuno dell’accaduto e medita il da farsi. In effetti, già di suo è un tipo meditabondo, ora però vaga per le stanze del palazzo sempre più pallido, sempre più cupo, facendo a se stesso domande come la famosa: “Essere o non essere, questo è il dilemma...” anche se in verità medita molto di più (a voce alta), ma questa è la cosa più comprensibile che dice, ecco perché la ricordano tutti. Ah, e NON ha un teschio in mano, quella è un’altra scena che si svolge più tardi in un cimitero. Ovviamente medita anche in quell'occasione e non posso esimervi da almeno uno di questi suoi pensieri. Immaginate dunque Amleto nel cimitero, sul bordo di una fossa fresca di vanga, i piedi affossati nella terra umidiccia e il teschio in mano: “Ci si è dati tanta pena per allevare e nutrir quest’ossa soltanto perché potessero servire a giocarci a bocce? Le mie ossa dolgono solo a pensarci.”
Torniamo alla storia, che fra un po’ canta il gallo. Re e Regina, preoccupati (per ragioni differenti) per lo stato mentale di Amleto, cercano in tutti i modi di capire la causa di tale sofferenza. Da una parte mandano Rosencrantz e Guildenstern a indagare, dall’altra – consigliati da Polonio che sospetta ragioni di cuore – organizzano una trappola in cui coinvolgono Ofelia. Entrambi gli stratagemmi falliscono l’intento, facendo però innescare fatali eventi. Il primo – il tentativo dei due amici di far confidare il principe – viene subito mascherato e i due tentano di ripiegare su una più innocua proposta di svago che allieti un poco la tormentata anima del loro amico: una compagnia teatrale sta arrivando in città, quindi coinvolgono Amleto nell’organizzare una rappresentazione. Il secondo – un timido sforzo fatto dall’eterea Ofelia di far palesare ad Amleto i suoi sentimenti per lei mentre il Re e Polonio ascoltano di nascosto – finisce ancora peggio. Amleto, col cuore impietrito dal dolore dopo la rivelazione del padre morto, rinnega qualsiasi amore o speranza di matrimonio e anzi, esorta la bella Ofelia a chiudersi in convento: “Dico che non ci saranno più matrimoni. Quelli che sono già sposati, tranne uno, vivranno. Gli altri resteranno come sono. In convento! Va!” Vi segnalo le parole tranne uno, sottile minaccia che non passa inosservata al Re, che inizia a capire che Amleto sospetti qualcosa. Ofelia è afflitta, il Re trama di mandare Amleto in Inghilterra, Polonio si convince che il principe sia pazzo, Amleto organizza una pièce teatrale, il tutto mentre alle porte di Danimarca un certo Fortebraccio spiega le truppe norvegesi per assaltare il regno. Serata a teatro. Gli attori, seguendo le istruzioni di Amleto, interpretano L’assassinio di Gonzago, un dramma rivisitato per mettere in scena l’assassinio del Re morto e smascherare il Re vivo. Il Re vivo si risente moltissimo, la Regina è sconvolta, insomma: la serata è un vero successo. La Regina, consigliata dall’immancabile Polonio – che si nasconde dietro a una tenda per poter riferire al Re – esige una spiegazione da Amleto. Lui esegue, con parecchio slancio direi. Chi ama chi Il Re – ama la Regina. Ma di più il trono: più solido, dà più certezze e soddisfazioni. La Regina – ama un pò tutti. Non abbastanza da poterlo chiamare amore, è una Regina sterile, attenta alla forma e poco alla sostanza. Infatti resterà con un pugno di mosche. Amleto – i pareri sono contrastati. Ama Ofelia / non sa cosa sia l’amore / è gay / ha il complesso di Edipo (sapete di cosa sto parlando, no? C’è questo Edipo che da piccolo s’innamora della madre, arrivando a odiare il padre fino a ucciderlo, per poi sposare la madre – le famiglie sono sempre incasinate, lo so), anche se, secondo me, nel caso di Amleto c’è più una fissazione per il padre. Fatto sta che qualche complesso ce l’ha davvero, ma chi siamo noi per giudicare e, soprattuto: chi siamo noi per non avere complessi? Ofelia – ama teneramente Amleto, così come un agnellino ama la primavera. Infatti è lei l’agnello sacrificale di tutta questa storia, d’altronde Pasqua cade in primavera.
Chi uccide chi Qui tocca fare davvero attenzione a non perdersi i pezzi. Perché è vero che andrà tutto a pezzi, ma ci vuole un certo metodo nella follia. Partiamo dal confronto chiarificatore che la Madre Regina ha con Amleto. Dopo l’allegra serata a teatro, il principe, furibondo, spiattella tutto alla madre, accusandola di incesto, di aver sposato un omicida e quant’altro. Mentre dà di matto di fronte alla Regina nota un movimento del tendaggio: senza se e senza ma, gridando “un topo, un topo!” tira fuori la spada e infilza con slancio (ve l’ho avevo detto) la sagoma nascosta. Immagina sia il Re, è solo Polonio, colpevole di troppa sollecitudine. Exit Polonio. Il Re inizia a preoccuparsi seriamente: per punizione spedisce Amleto in Inghilterra dove dovrà essere fatto fuori appena arriva. La Regina non sta capendo più niente (ma quando mai?), Ofelia, già distrutta dal rinnegato amore, prende malissimo la morte del padre e perde del tutto il senno. Laerte, l’altro figlio di Polonio, torna furente dall’estero (dove era andato per diventare uomo – qualsiasi cosa voglia dire), minaccia vendetta sul sangue versato e giustizia fatta da sé. Ma il Re non è mica l’ultimo arrivato: racconta una variante diversa della storia, persuadendo Laerte che l’unico colpevole è solo Amleto, reo di avergli ucciso il padre e fatto impazzire la sorella. Nel frattempo giunge al castello una lettera che avvisa l’inaspettato ritorno di Amleto in patria: la sua nave è stata assalita dai pirati e lui fatto prigioniero, ma alla luce di “Voi non sapete chi sono io”, il principe viene liberato dietro la promessa di cospicuo rimborso. Il Re organizza le truppe: fomenta Laerte contro Amleto, convincendolo di sfidarlo al duello e, per essere sicuro di certa vendetta, gli fa avvelenare la punta della spada. Persuade la Regina sul duello pacificatore fra i due, la scena è pronta, il dado è tratto. Ah, questa era un’altra storia. Mentre i nostri eroi tramano cose poco piacevoli, per non essere da meno, Ofelia si fa trovare galleggiando nel fiume, i capelli sciolti, le vesti fluttuanti. Exit Ofelia.
Foto: Dorota Gorecka Amleto torna giusto in tempo per assistere allo scavo della fossa di Ofelia, la cosa lo turba, ma non più del dovuto. Va al castello, accetta il duello, bacia la madre, impugna la spada. Il Re brinda a lui, sul vassoio una coppa di vino avvelenato è il piano B.
Dal film: Hamlet, 1996 Il duello fra Amleto e Laerte è quello che di più spettacolare potete immaginare ( potete farvi un’idea dal web: Hamlet, film con un biondissimo e non abbastanza alto Kenneth Branagh, davvero superlativo insieme a un cast da paura – ne riconoscerete di certo alcuni. Anche quello con Mel Gibson non è niente male, lo sguardo da pazzo gli viene benissimo), i due volteggiano, rimeggiano, armeggiano stupendamente nella grande sala del castello. Laerte colpisce a tradimento Amleto con la spada avvelenata, Amleto s’infuria e cerca il riscatto, aggredisce furiosamente Laerte che perde la spada, il principe gli tende la sua, cambio di spade, continua il duello, Amleto sopraffà Laerte e lo tocca con la sua stessa spada avvelenata, la Regina si sente male, prende da bere, la coppa è avvelenata. In punto di morte Laerte spiffera tutto, con le ultime forze Amleto traffigge il Re con la spada che lui stesso ha manomesso e, tanto per star tranquilli, lo obbliga a bere anche il veleno dalla coppa. La scena è da macello, per rendersi partecipe Orazio afferma di sentirsi più romano che danese e vuole bere le ultime gocce di veleno dalla coppa. Amleto, ormai più di là che di qua, gli impone di non farlo, per un pelo ci perdevamo pure Orazio. Exeunt Laerte, la Regina, il Re e Amleto. Anche perché abbiamo finito i personaggi. Finale Appena in tempo per godersi il finale, il nemico della Danimarca Fortebraccio fa la sua entrata al palazzo, pronto a sguainare armi e spiegare truppe. Resta deluso, è arrivato tardi: i danesi hanno fatto tutto da soli, un pensiero in meno. Il fedele Orazio informa Fortebraccio sulle ultime volontà del deceduto principe: Pigliati tu tutto!
Dal film: Hamlet, 1996 Speriamo che a lui regnare porti più fortuna. Morale Non si riesce mai a liberarsi dai problemi della propria famiglia. Annabelle Lee Read the full article
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“L’ISPETUUR” SPETTACOLO TEATRALE SABATO 9 NOVEMBRE ORE 21,00 TEATRO DELLA CORTE
Al Teatro della Corte, dopo la partenza dei laboratori per grandi e piccini, riparte anche la stagione teatrale, che con il Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Castellanza, quest’anno vede sul palco gli allievi dei laboratori teatrali per gli adulti tenuti da Michela Cromi.
Il primo appuntamento è per sabato 9 novembre alle 21, con replica domenica 10 alle 16.30. In scena lo storico gruppo Senior che negli ultimi mesi ha lavorato all’allestimento di una commedia in dialetto lombardo L’ispetuur di Alfredo Caprani, liberamente ispirata all’Ispettore generale di Nikolaj Gogol, opera satirica scritta nel 1836, considerata uno dei capolavori dello scrittore russo.
E’ un’esilarante e attualissima satira sul corrotto mondo politico che governa una città di provincia con protagonisti il Sindaco e la sua giunta, che Gogol scolpisce con ironica partecipazione come profittatori, affaristi e sfruttatori pronti a tutto.
Questa la trama: si sparge la voce che, per controllare l’amministrazione locale, è in arrivo un alto funzionario del Ministero romano. La notizia porta un evidente scompiglio tra i corrotti protagonisti, i quali si risvegliano improvvisamente dalla loro quotidianità di normale e disonesta prevaricazione e maldestramente cercano di far fronte alle loro malefatte, aggravando le loro posizioni.
La paura dei politici aumenta quando si crede che l'ispettore generale, in incognito, sia già arrivato in città. In realtà è un agente di commercio in cerca di contratti per la sua azienda e, non si sa se approfittando della situazione oppure per ingenuità, invitato a casa del Sindaco, accetta la cerimoniosa e generosa accoglienza dei padroni di casa e degli Assessori.
Una commedia degli equivoci divertente e purtroppo molto attuale, che ha come bersaglio l’abitudine alla corruzione e all’imbroglio, qui messa efficacemente alla berlina.
Gli spettacoli sono riservati ai soci del Teatro della Corte, ma tesserarsi è molto semplice.
Basta contattare per tempo il Teatro al 3349131397 o via mail [email protected], compilare il modulo con i propri dati e si riceve la tessera annuale.
Il costo della tessera associativa è di 3 euro. Il costo del biglietto d’ingresso per i saggi è di 5 euro.
Gli allievi del Teatro hanno diritto a tessera e ingresso omaggio.
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