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Pablo Neruda: "Chiedo silenzio" - Una riflessione poetica sull'essenza della vita. Recensione di Alessandria today
Un viaggio nei sentimenti più profondi del poeta cileno, tra amore, natura e rinascita.
Un viaggio nei sentimenti più profondi del poeta cileno, tra amore, natura e rinascita. Poesia:Ora, lasciatemi in pace.Ora, abituatevi alla mia assenza.Io chiuderò gli occhie dirò solo cinque cose,cinque radici preferite.Una è l’amore senza fine.La seconda è vedere l’autunno.Non posso vivere senza che le foglievolino e tornino alla terra.La terza è il grave inverno,la pioggia che ho amato, la…
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Ottant’anni. Strana età per una rockstar, se non addirittura incongrua rispetto allo stereotipo che vorrebbe eroi sempre giovani, freschi, esuberanti. Ma il signor Bob Dylan non è tipo da farsi condizionare da così banali dettagli anagrafici. I suoi ottant’anni li dimostra tutti, fino in fondo, con segni profondi e cicatrici dell’anima. Ha un volto autentico, da nobile superstite, da sopravvissuto impegnato in una sua particolare forma di resistenza umana. È scontroso, arcigno, irsuto, un nugolo di capelli sgraziati su quel naso adunco che da sei decenni simboleggia il suo spigoloso rapporto con il mondo. Che poi è il suo grande fascino, la sua irresistibile forza.
Poeta laureato, profeta in giaccone da motociclista. Napoleone vestito di stracci. Inafferrabile, come un sasso rotolante. È stato analizzato, classificato, crocifisso, sezionato, ispezionato e respinto, ma mai capito abbastanza.
Entrò nella mitologia nel 1961, con chitarra, armonica e berretto di velluto a coste, metà Woody Guthrie, metà Little Richard. Era il primo folksinger punk. Introdusse la canzone di protesta nel rock. Rese le parole più importanti della melodia e del ritmo. La sua voce, nasale e rauca, che suona «come sabbia e colla», come disse David Bowie, e il suo fraseggio sensuale sono unici. Può scrivere canzoni surreali con una logica interna – come un dipinto di James Rosenquist o come una poesia di Rimbaud – e semplici ballate che piovono dritte dal cuore con la stessa semplicità. Può tirar fuori le tenebre dalla notte e dipingere di nero il giorno.
Definirlo un eroe dei nostri tempi potrebbe essere riduttivo. Più passa il tempo, più la storia della musica popolare si ingarbuglia in miriadi di confusi intrecci, e più la sua figura rifulge, cresce d’importanza.
Oggi possiamo dire che l’opera di Bob Dylan sembra centrale, una sorta di straordinaria e irripetibile sintesi di valori poetici e musicali, di processi sociologici e artistici. Il menestrello di Duluth, infatti, non è stato soltanto il pifferaio della contestazione pacifista. È stato anche questo, non c’è dubbio, ma è stato molto di più. In quegli stessi anni, la stagione della protesta giovanile, in quel decennio infuocato in cui la sua figura e alcune sue canzoni (Blowin in the wind su tutte) si saldarono in modo inestricabile con le vicende sociali e politiche del tempo, Dylan riuscì anche a essere il cantore del lato oscuro del sogno americano. Più che cantare la speranza, e l’ottimismo adolescenziale, creò una galleria di eroi perdenti, amari, maciullati dall’“american way of life”. È una vera e propria galleria di antieroi, da Emmett Till a John Brown, da George Jackson fino al pugile Hurricane.
Più in generale si può dire che Dylan è stato il primo intellettuale della storia del rock. Prima di lui non si era abituati a conferire ai musicisti popolari, se non ai folksinger più impegnati, un rilevante valore intellettuale. Prima di lui Elvis Presley e gli altri eroi degli anni Cinquanta erano dei grandi talenti, dotati di intuito, di un selvaggio e contagioso istinto. Ma non c’era ancora la coscienza e la consapevolezza del proprio ruolo. Elementi che irrompono impetuosamente, invece, con l’avvento di Dylan, l’artista che ha portato la musica rock dall’innocenza primitiva delle origini alla profonda coscienza dei decenni successivi.
Robert Allen Zimmerman, che nel 1962 ha legalmente cambiato il suo nome in Bob Dylan, ha anche un altro enorme merito. Un po’ come a Louis Armstrong viene riconosciuto il grande pregio di aver in qualche modo portato a una prima compiuta definizione il linguaggio del jazz, che certamente non ha inventato, ma che ha rafforzato, evoluto, sintetizzato. Dylan ha compiuto qualcosa di analogo, prendendo il materiale folk ereditato dalla grande stagione degli hobo e lo ha velocemente condotto a maturazione, estendendo la portata, gli orizzonti e la potenza della canzone popolare tradizionale. Al di là delle apparenze, è lui il più grande innovatore, come dimostrò a più riprese con tutti i suoi capolavori elettrici degli anni Sessanta e Settanta.
Fin dai primi album, Dylan introduce un linguaggio complesso, preso in prestito dalla letteratura, dal cinema, dalla lingua quotidiana, da visioni sempre più surreali e audaci. Con lui la canzone diventa un prodotto artistico maturo, del tutto autonomo, capace anche di creare per la prima volta nella storia un alto livello di massa. Realtà che qualcuno comprese anche all’epoca, come John Lennon che nel 1965 dichiarò che a mostrare la strada era proprio Bob Dylan. Altri, come i membri dell’Accademia Reale Svedese, che gli assegneranno il Premio Nobel per la Letteratura, ci arriveranno molto più tardi, precisamente nel 2016.
Il mistero Dylan, grazie a una irripetibile coincidenza di valori artistici ed epocali, significò anche che, per la prima volta, musiche dichiaratamente non commerciali divennero incontenibili successi di vendita. Da quel momento l’industria discografica, costretta dagli eventi, aprì le porte al nuovo, senza più temere l’originalità e l’innovazione, consentendo l’afflusso di forze e di idee completamente nuove. Da allora la musica rock è cambiata, ma da allora è costantemente cambiato anche Bob Dylan, il primo nemico del suo stesso mito, deciso sempre a metterlo in discussione, ad osteggiarlo, a concedere poco alla platea.
Questo gli ha consentito di sopravvivere al suo tempo, di raggiungere il traguardo degli ottant’anni in modo vitale, inquieto, come un artista al quale la maturità non è servita da alibi per smettere di interrogarsi e provocare domande. Segno di una coscienza che il rock di oggi farebbe bene a recuperare. Per progredire e ritornare al passo con i tempi.
Intanto si preparano i festeggiamenti: Patti Smith, che nel 2016 andò a Stoccolma a ritirare il Nobel a suo nome – e si impappinò, commossa, mentre cantava A hard’s rain a-gonna fall – celebrerà Dylan il 22 maggio allo Spring Festival del Kaatsbaan Cultural Park nello stato di New York. Festa anche a Duluth, dove Dylan nacque il 24 maggio 1941, mentre nella vicina Hibbing, dove la famiglia si trasferì dopo che il padre Abram Zimmermann, colpito dalla polio, aveva perso il lavoro, i piani per un monumento nel cortile del liceo dove Bob (“Zimmy”) si diplomò nel 1959 sono tuttora “caduti nel vento”. Al centro delle celebrazioni anche la pubblicazione di tre nuovi libri e una riedizione: “You Lose Yourself You Reappear” di Morley, mentre il biografo Clinton Heylin tornerà a esaminare gli anni formativi in “The Double Life of Bob Dylan” e “Bob Dylan: No Direction Home” del 1986 del giornalista del New York Times e amico Robert Shelton (che nel frattempo è morto) verrà aggiornata e ripubblicata.
Elusivo come sempre, Dylan è bloccato nella casa di Point Dume a Malibu da quando un anno fa il Covid gli ha impedito di andare in Giappone per una nuova tappa del “Never ending tour”, ma non di fermarsi nel suo lavoro. Durante il lockdown ha composto un nuovo album e venduto per 300 milioni di dollari il suo catalogo musicale a Universal Music. Tra un anno poi l’apertura dell’archivio segreto affidato al miliardario del petrolio George Kaiser: il Bob Dylan Center sorgerà a Tulsa, Oklahoma, dove già, in un gemellaggio simbolico, sono custodite le carte del suo idolo Woody Guthrie. E, nel frattempo, il “grande vecchio” del rock prepara il suo ritorno sul palco nel 2022.
#Bob Dylan#Taormina#Never Ending Tour#Hotel Timeo#Etna#crooner#Autumn leaves#Once upon a time#mister Tambourine man#Malibu#rockstar#1961#Woody Guthrie#Little Richard#folksinger punk#David Bowie#James Rosenquist#Rimbaud#Duluth#Blowin in the wind#american way of life#Emmett Till#John Brown#George Jackson#Hurricane#folk singer#Elvis Presley#Robert Allen Zimmerman#Louis Armstrong#hobo
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一百天𝟷𝙾𝙾𝚁𝙴𝙰𝚂𝙾𝙽𝚂𝚆𝙷𝚈𝙸𝙲𝙷𝙾𝙾𝚂𝙴𝚈𝙾𝚄。
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𝒔𝒄𝒆𝒍𝒈𝒐 𝒕𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́…
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1. il tuo animo buono mi fa sentire una persona migliore.
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2. il tepore che trapela dai tuoi confini aurei mi fa sentire giusta per la prima volta.
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3. il tuo sorriso è l'arma più potente al mondo contro ogni traccia di negatività.
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4. il suono della tua risata è il battito d'ali di un lepidottero: laddove sopraggiunge, dall'altra parte del mondo cessano le catastrofi naturali.
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5. i solchi che si riuniscono per amare la cima del tuo naso e si stringono attorno ai tuoi dolci occhietti per scaldare i loro astri sono uno spettacolo perpetuo e senza precedenti.
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6. la forma perfetta dei tuoi denti potrebbe rammentare due file di perle vere e proprie; pregiate e da baciare.
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7. il cuore che si cela sulla superficie della bocca tua dichiara l'esistenza degli angeli. amanti e totalmente gentili da intimarmi di baciarti un'infinità di volte.
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8. l'arco di cupido, invece, conferma quel lato tuo apollineo, onirico, d'incredibili e dolci perimetri divini che tanto mi ricordano eros e le conseguenze del suo amore.
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9. l'avvallamento che prende il nome di prolabio: casa affidabile per i miei polpastrelli, fedeli abitanti della conca d'amore.
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10. i tuoi magnifici baci… vertiginosi sino a farmi mancare l'aria ed incrementare lo spirito di dipendenza nei tuoi confronti. più ne ho, più ne desidero.
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11. il modo in cui quello sprazzo di cicatrice, parvenza di ricordi passati, si ristringe e si distende uniformandosi alla perfetta forma dei tuoi sorrisi; delle parole che intraprendono le tue splendide labbra.
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12. i tuoi zigomi, giacigli prediletti dei miei piccoli palmi, totalmente bisognosi di porgervi la solidità che necessitano.
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13. quelle piccole e fresche orecchie su cui le mie falangi planano per esser rinfrescate in estate e per scaldarne le increspature in inverno.
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14. le stesse orecchie che continuano ad ascoltare le mie perpetue ripetizioni, le mie lamentele, i miei problemi; coloro che mai smetterò di ringraziare abbastanza.
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15. il neo che mi solletica le labbra tra quelle magiche increspature rosee: talmente piccolo, eppure infinitamente pregno d'amore e di significato per me.
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16. l'ennesimo pigmento castano che saluta chiunque dalla sua posizione privilegiata, baciando di tanto in tanto il delicato naso che tanto amo.
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17. il morbido promontorio che divide perfettamente in due il tuo viso divino, quello che tanto discrimini ma che io non posso far a meno di contemplare.
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18. le melliflue scintille che scaturisce quando si bacia col mio ed i nostri respiri s'infrangono.
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19. i docili battiti che vivono nelle tue narici a forma di cuore ogni volta che espiri ed inspiri.
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20. i delicati lineamenti del tuo nasino, calda dimora dei miei respiri.
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21. la maniera in cui i pensieri tuoi sì raggrumano sulla fronte e tra le sopracciglia dalla perfetta forma, esprimendo silenziosamente ciò che non vuoi dire o non riesci ad esprimere.
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22. sul tuo collo potrei scrivere interi poemi: le mani giacciono su quelle delicate sfumature cerulee e il pulsar del cuore si propaga tra le mie venature. ne bacerei le pulsazioni e seminerei infiniti papaveri.
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23. l'avvallamento che connette le tue clavicole ㅡ è perfetto per posarvi le mie labbra.
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24. gl'intervalli tra le tue costole, laddove scorgo lo sfarfallare dei nostri lepidotteri d'amore ed amo riporre i miei scarlatti papaveri.
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25. il piccolo neo che si staglia a lato del tuo cuore.
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26. … ed anche quello appena sotto il tuo ombelico.
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27. amo sapere di esser l'unica a conoscere questi e molti altri.
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28. i fluidi movimenti della tua gabbia toracica. al suo svuotarsi, io mi nutro. al suo riempirsi, io ti amo.
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29. accostare le orecchie al tuo petto mi fa sentire la protagonista del capolavoro meglio riuscito di tutti i tempi: gli scalpitii del cuore, il suono del respiro. li amo immensamente.
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30. l'ombelico stesso, centro del mio mondo. berrei da lì: renderebbe pregiato lo champagne più economico, sebbene a te verran dedicati quelli più costosi. perché la tua perfezione è l'amore che mi lega a te non ha prezzo.
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31. le pernacchie che ti farei, proprio su quell'addome birichino! mi farei perdonare coi baci, però, non temere.
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32. dovrei farci quattro chiacchiere, col signor pancino: spesso è impulsivo e ti riempie di pizzicotti fino a farti del male! però… però amo anche lui, da impazzire.
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33. i tuoi abbracci, yoon jeonghan, sanno di vita.
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34. le tue braccia sono il sentiero preferito delle mie, di braccia… della bocca mia, delle unghiette, dei dentini.
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35. le tue braccia sono il mio porto sicuro.
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36. le tue mani. quelle mani che terrei tra le mie perpetuamente, senza mai cederle per nemmeno un istante.
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37. creano talmente tanti capolavori da farmi innamorare continuamente del loro e del tuo talento, sempre di più.
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38. le tue falangi che si frappongono alle mie sin dal ventidue aprile.
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39. le tue belle dita tra i miei capelli, sul mio nasino, sul sottile collo mio, sui polsi, sul mio grembo.
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40. ti ho già detto che mi emozionano i tuoi palmi sui miei? sul mio ombelico? la differenza delle nostre sagome è l'ennesimo motivo per cui ti amo.
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41. doni le più calorose e belle carezze del mondo.
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42. oh, e sai bene come usarle… non potevo non accennarlo, mio dolce principe. sei sempre impeccabile ed io altrettanto alla tua completa mercé.
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43. amo quando le vedo incastrate tra le mie ginocchia; in macchina, a letto, sul divano… in pubblico.
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44. amo stare sul palmo della tua mano, perché è così che mi tratti! ed io non mi sdebiterò mai abbastanza, amore mio…
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45. amo, amo baciarti i polpastrelli, le unghie, le nocche, i loro avvallamenti; i solchi della vita, i nei microscopici che questi celano; il dorso, il polso, il gomito ed il suo interno.
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46. amo carezzare le pellicine, per non fartele mordicchiare via.
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47. amo quando, la notte, cercano la mia esile figura per attirarmi a te e mi stringono con quella forza di chi teme di perdere le speranze.
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48. interruzione pubblicitaria per rammentarti che sei tu, solo tu, la mia unica speranza.
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49. amo il modo in cui reggono la mia nuca quando ci baciamo, quando ci amiamo, spiritualmente e carnalmente.
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50. le amo sui miei fianchi, sulle mie anche, sulla mia schiena, sulle mie… zampette!
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51. amo la nostra intimità… è così poetica e unica da essere fuori dal comune.
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52. e le attenzioni che riservi alla mia intera anima e alla mia persona ne sono la prova, assieme al modo in cui ami i miei piccoli piedini.
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53. chissà se riesco a restituire la tua stessa tenerezza baciando quei piedi che sorreggono la miglior creature del cosmo.
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54. amo prendermene cura in ogni modo, lo sai?
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55. hai il neo più carino e piccolo della storia, proprio all'interno del mignolino destro. come si può non amarlo?
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56. la forma delle tue gambe è mozzafiato.
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57. le tue ginocchia sono il miglior trono che io potessi desiderare, jagiya.
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58. giacere tra le tue gambe, con la nuca sulla fedelissima anca, è una delle posizioni che più mi fanno sentire al sicuro.
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59. quant'è splendido aggrapparmi alle tue gambe?
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60. … e mordicchiartele, sbaciucchiarle, riempirle di nontiscordardimé e spennellate varie di sfumature tiziane.
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61. amo ritrovarle tra le mie, di gambe. magari nel bel mezzo della notte, per scaldarci durante le ore più fresche… o semplicemente per star più vicini.
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62. amo perfino quando m'immobilizzano nei momenti d'intenso solletico!
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63. amo il tuo esser agguerrito e determinato, indipendentemente dal contesto e dagli avversari.
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64. amo come le caviglie precipitano a strapiombo nelle tue scarpe come le più curate delle opere marmoree di antonio canova.
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65. amo le fossette dietro le ginocchia che mi salutano quando le lasci respirare. bacerei anche quelle, costantemente.
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66. amo i tenui lineamenti delle tue anche e di quell'opera statuaria che spesso tendi a sottovalutare. se non l'amassi, non tenterei costantemente di addentarla, frr…
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67. amo quando per scherzo ti siedi addosso a me ed io ti pizzico ovunque, piccolo furfante!
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68. incastrare i polpastrelli sulle tue fossette di venere è pura poesia.
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69. in realtà, credo che la tua spina dorsale sia un pentagramma colmo di note da suonare coi più delicati dei baci e le più aggraziate delle falangi. ed io spero di essere adatta a tale mansione, perché vorrei essere l'unica ㅡ eternamente.
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70. le insenature che gli dei dell'olimpo hanno scolpito su tutta la tua schiena: hai mai visto quanti capolavori crei solamente flettendola? cammina più spesso senza maglietta, jagi. non mi dispiacerebbe, sebbene potesse essere logorante per il mio povero, buon senso!
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71. al suo inarcarsi, io ti desidero ancora di più. desidero solleticarti, compiacerti e soddisfare i tuoi desideri. dai più superficiali, ai più reconditi.
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72. le tue folte ali: mi fai toccare l'iperuranio con ambi i palmi. mi fai raggiungere lande inesplorate di felicità, sensazioni e amore. mi fai vivere. mi rendi tanto felice da farmi sentire volare, mio angelo.
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73. la perseveranza con cui continui a scegliermi giorni dopo giorno, la perseveranza con cui continui ad amarmi, nonostante tutto.
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74. i tuoi timori, anch'essi specchi dei miei. non annichilirò mai la loro comparsa né li scaccerò mai via. piuttosto, m'impegnerò ad amarli allo stesso modo in cui amo te. proverò a spegnerli ogni volta che si presenteranno e da lì ci daremo un bacio.
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75. i tuoi messaggi del buongiorno poetici. colmi di sentimento e commoventi sin dalle prime luci del mattino. non fai altro che sbalordirmi, mattina dopo mattina. mai avrei creduto di poter meritare tanto affetto, tanta dedizione da parte di qualcuno.
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76. amo le tue vulnerabilità. amo da impazzire anche la tua tendenza all'addormentarti quando capita. mi fa battere il cuoricino, vederti così vulnerabile, lo sai? mostrati vulnerabile a me, ogni volta che ne senti il bisogno.
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77. i nostri baci assonnati.
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78. i nostri “ti amo” assonnati.
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79. la costanza con cui continuiamo a dedicarci le 00:03 e le 00:52 come se fossero ancora i primi giorni di relazione.
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80. la tua costanza, niente di più, niente di meno.
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81. la tua pazienza. non fai altro che rassicurarmi, star dietro al mio perpetuo farneticare… amarmi. ci vuole davvero tanta pazienza, con me.
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82. la tua forza è sconfinata. sei talmente forte da riuscire a sollevare tutte le negatività dalle mie spalle. sei addirittura in grado di farmi pensare al futuro, senza mai guardarmi alle spalle.
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83. sei sempre così deciso nelle tue scelte, quando si tratta di noi, di me. mi ami con decisione ed io ti amo altrettanto con decisione.
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84. la nostra infinita complicità.
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85. la devozione reciproca che ci connette.
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86. la costanza con cui ci amiamo.
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87. giorno dopo giorno mi fai realizzare che ormai, amore mio, so amare. ho ancora tanto da amare, ma la certezza d'esserne consapevole mi fa venir voglia di urlarti che ti amo consapevolmente.
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88. la tua infinita attenzione ai dettagli. è sempre stata una qualità che apprezzavo, ma… tu me la fai amare ancor di più. quando credevo non esistesse nessuno con tanta sensibilità nell'indole, sei arrivato tu e m'hai fatta ricredere. ho ripreso le speranze nel genere umano e sono certa di aver trovato la mia anima gemella.
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89. amo guardare film, cartoni, serie e programmi stupidi insieme a te.
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90. e perché no, amo anche spettegolare! non lo faccio mai, perché non mi piace immischiarmi o parlare a sproposito. ma con te sorge naturale commentare qualsiasi cosa. questo… fa di noi due partners in crime?
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91. il precedente motivo si lega strettamente al mio perpetuo bisogno di confidarmi con te, volente o nolente. spero accada la stessa cosa anche a te.
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92. so di potermi fidare di te. ti fidi di me?
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93. sentire il tuo profumo sui miei vestiti.
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94. avere i vestiti che sanno dello stesso ammorbidente m'inebria a tal punto da trasferirmi in una delle nostre future case, quando saremo marito e moglie accerchiati da un numero spropositato di bagigini.
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95. il nostro regno! credevo nessuno avrebbe mai condiviso questa mia piccola pazzia del mondo immaginario. però tu… tu lo rendi concreto, vita mia. con la tua dedizione, la tua voglia di rendermi partecipe delle tue giornate.
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96. vogliamo parlare della nostra affinità? della similarità tra i nostri gusti? sono stata graziata da qualche incantesimo divino, perché sennò non riesco proprio a trovare una spiegazione a tanta fortuna.
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97. amo persino il nostro essere indecisi sulle cose da fare insieme. non fa altro che denotare il nostro reciproco senso d'amore, il nostro continuo bisogno di far una miriade di cose insieme.
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98. il coraggio con cui affronti la vita. quello con cui hai affrontato la mia famiglia, mettendo alle spalle le tue insicurezze, riuscendo sin da subito a farti accettare e adorare da ogni suo componente. il coraggio con cui mi hai donato questo splendido e prezioso anello d'ametista.
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99. la tua infinita fantasia, il tuo talento nella scrittura, nella danza e nel canto. ammiro ognuna delle tue sfaccettature e ciò è addirittura riduttivo. vorrei essere come te, vorrei sapermi esprimere come fai tu. desidero scrivere con te, leggere con te, cantare con te, ballare con te. fare ognuna di queste cose per te. migliorare insieme a te. migliorare per te.
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100. ti amo perché sei tu. ed è assurdo vedere che cento ragioni annichiliscono il mio amore sconfinato per te. continuerei all'infinito e non scherzo. avrei potuto togliere qualche motivo più piccolo per far rientrare tutti i miei pensieri in questa lista, ma ho deciso di lasciarli lì e dimostrarti quotidianamente gli altri. e comincio dal prossimo motivo…
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Le 12 Scene Cult Del Cinema Di Federico Fellini
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Un ricordo del regista riminese, nell'anno del centenario della nascita, attraverso scene memorabili dei suoi capolavori Federico Fellini nasce il 20 gennaio 1920 e quest'anno ricorre il centenario della sua nascita. In questa occasione, per celebrarlo, vogliamo ripercorrere la sua filmografia attraverso una serie di scene che sono entrate nell'immaginario collettivo e rimarranno indelebili nella storia del cinema.
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Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi, Gradisca in Amarcord sono alcuni esempi di scene indimenticabili. Ma il cinema di Federico Fellini è ricchissimo di momenti memorabili. Istanti che conservano intatto il potere dell'affresco di un'epoca e del sogno con visioni di un'umanità dolente e giocosa, che in pochi attimi manifesta la firma del genio. LEGGI ANCHE... Il Cinema Di Woody Allen In 10 Scene Indimenticabili
I VITELLONI (1953)
Sordi spaccone, che sbeffeggia i "lavoratori della malta" con pernacchia e gesto dell’ombrello. Poi la macchina si fermerà e lui dovrà darsela a gambe di fonte agli operai decisamente arrabbiati. Ma la scena, simbolo del film sui cinque nullafacenti di provincia, scritto da Federico Fellini, insieme a Ennio Flaiano, entra nella storia del cinema. E pure in quella del costume. https://youtu.be/jD45TQIfcoo Moraldo (Franco Interlenghi), il più giovane della combriccola dei cinque vitelloni, sceglie davvero di partire, di andare non si sa dove: "Non lo so! Debbo partire. Vado via". Alla stazione Guido (Guido Martufi), il giovanissimo ferroviere, interroga Moraldo sul motivo della sua decisione. Ma quest’ultimo non risponde, è evasivo. Nemmeno lui conosce le sue sorti, sa solo che dalla provincia bisogna andarsene: per cercare fortuna, per crescere, o magari, semplicemente, per combattere contro quei sentimenti asfittici, respirati per tanti anni, gli stessi che soffocano qualsiasi aspirazione, che piegano l’io senza possibilità di differenziarsi. Da un lato v’è dunque il Fellini delle partenze, colui che avrà bisogno della città, della grande metropoli per creare e comprendere. Dall’altro, invece, permane il Fellini della provincia, colui che saprà trasformare il luogo da cui più si è distanziato in inesauribile fonte d’ispirazione. Scena memorabile con il treno che parte e idealmente attraversa, come in un sogno, le camere dei suoi amici, quasi fosse un saluto onirico. https://youtu.be/I_vbmK75STg
LA STRADA (1954)
I finali erano una delle specialità di Fellini, e la spiaggia ovviamente è un elemento altamente simbolico per il regista riminese. Per questo il pianto disperato, e quasi redentore, della "bestia" Zampanò (Anthony Quinn) avviene proprio in riva al mare di notte, dopo che ha saputo della morte di Gelsomina (Giulietta Masina). La strada vinse l’Oscar come miglior film straniero e lanciò Fellini a livello internazionale. https://youtu.be/aIQ_h90BO0k
LE NOTTI DI CABIRIA (1957)
Quando Cabiria sembra non farcela a risollevarsi dall’ennesimo colpo basso della vita e pensa di suicidarsi, lungo una strada di campagna, incontra un gruppo di ragazzi che canta e suona in allegria e che le restituisce la gioia e la fiducia nel futuro. Giulietta Masina, compagna di vita e di set di Federico Fellini, non dice una parola, fa tutto con lo sguardo. E il resto lo fa Nino Rota con la sua musica. Secondo Truffaut, "il finale del film è un prodigio di potenza e di forza, nel senso più nobile del termine". Altro giro, altro finale e altro Oscar. https://youtu.be/u0rqhdx1154
LA DOLCE VITA (1960)
La scena simbolo del film, che è stata definita anche la scena simbolo del cinema italiano del XX secolo, e nella top ten di quello mondiale, è quella del bagno nella fontana di Trevi di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. La celeberrima e sensualissima scena, di un tre minuti circa, è entrata di diritto nell’immaginario popolare italiano e nel nostro patrimonio culturale. Si narra che, durante le riprese della celebre scena nella fontana di Trevi, Anita Ekberg non ebbe problemi a restare in acqua per ore, mentre Mastroianni, d’accordo con Fellini, per sopportare il freddo dovette indossare una muta sotto i vestiti e bere una bottiglia di vodka prima di girare. https://youtu.be/7_hfZoe9FHE Sì, ok, la scena della fontana con la fotonica Anita Ekberg, "Marcello, come here!" e tutto il resto. Ma il finale della Dolce Vita è uno dei più amaramente simbolici e poetici del cinema: l’occhio della manta gigante (il pesce mostro nasce da un ricordo di Fellini ragazzo) che guarda Marcello e, oltre il canale, la voce dell’innocenza che lo richiama, ma che lui non comprende, facendosi trascinare via dalla sua vita vuota. Memorabile. Ancora una volta, un finale sulla spiaggia. https://youtu.be/pIkFea5aO1g
8½ (1963)
La rumba della Saraghina (l’attrice americana Eddra Gale) sulla spiaggia è l’educazione sessuale del maestro da piccolo: i bambini scappati dal collegio pagano la prostituta perché si spogli. L’opposizione tra la sua figura – amore, sesso vissuto in libertà – e la Chiesa – repressione e limitazione – sta tutta in questa scena: tra la danza morbida della Saraghina e la rigidità dei due preti che arrivano a castigare il protagonista. https://youtu.be/_n2s5i2i2Jg
GIULIETTA DEGLI SPIRITI (1965)
Sandra Milo sull’altalena con il mitico costume creato per lei da Piero Gherardi, nel bel mezzo di un numero tra cavalli ed elefanti, apice barocco e visionario di Fellini. Nel ricordo raccontato da Giulietta, è la ballerina con cui il nonno della protagonista era fuggito. Ma la Milo incarna tutte le versioni della voluttà nel film che racconta la crisi del matrimonio secondo il maestro. https://youtu.be/63y30JttflE
ROMA (1972)
Roma, magnifico e visionario ritratto della Città Eterna visto attraverso gli occhi di un giovane riminese, è pieno di momenti cult – l’ultima apparizione sullo schermo di Anna Magnani, che chiude la porta in faccia a Fellini al grido di: “A Federi’, va a dormi’ va’”, oppure Mastroianni a cena, in una scena che è stata tagliata dal cut americano – ma noi scegliamo la sfilata di moda del clero davanti a un cardinale tronfissimo, mentre due suore all’organo accompagnano con musiche para ecclesiastiche rivisitate con sarcasmo da Nino Rota. Praticamente The Young e The New Pope, ma negli anni ’70. https://youtu.be/SS5RZqZXhiU
AMARCORD (1973)
Ciccio Ingrassia questo film non voleva nemmeno farlo: quello dello Zio Teo, il ruolo del parente matto che si arrampica su un olmo a gridare “Voglio una donnaaa!”, gli sembrava troppo marginale. E invece la scena dell’albero segnò la memoria degli spettatori nel film più autobiografico di Fellini e questo cameo di culto aprì definitivamente a Ingrassia le porte cinema d’autore. Durante una lunga pausa di lavorazione, la troupe si dimenticò dell’attore mentre stava appollaiato sui rami, in attesa del ciak. https://youtu.be/_dn63mQeO4E Nell’ampio catalogo delle ossessioni femminili di Federico Fellini, la "Gradisca", interpretata da Magali Noel in "Amarcord", rappresenta la bella di provincia, quella che avanza compiaciuta lungo il corso principale della città, scatenando fremiti di desiderio e, soprattutto, mostrandosi pronta a soddisfarli. Da qui il soprannome, diventato quasi aggettivo, per indicare uno stereotipo di donna universale, diffuso ovunque, ben oltre i limiti della provincia riminese. La scena clou del film era quella in cui, cappotto rosso e basco in testa, improvvisava da sola uno spogliarello, restava in sottoveste nera e fili di perle, poi entrava in un grande letto candido e, rispettosamente, si offriva alla massima autorità di passaggio in paese: "Signor Principe, gradisca". https://youtu.be/KfmwmEYP77A
LA VOCE DELLA LUNA (1990)
“Dopo aver tanto cercato, ho ritrovato Pierino. Proprio lui: leggero, buffissimo, lunare, misterioso, ballerino, mimo, che fa ridere e piangere. Ha il fascino dei personaggi delle fiabe, delle grandi invenzioni letterarie. Rende credibile qualunque personaggio e tutti può abitarli. Amico degli orchi e delle principesse, dei ranocchi che parlano. È come Pinocchio e Giovannin senza paura”, aveva detto Federico Fellini di Roberto Benigni nella sua ultima intervista. Per il suo canto del cigno ha voluto lavorare con lui (e Paolo Villaggio): “Questo film è anche il suo testamento sulla nostra società, sul nostro mondo di adesso. Fa vedere il nostro rimbecillimento, la volgarità, e addirittura la nostra fine. Era un amarissimo commento sui nostri tempi, ma fatto con la sua solita bellezza stilistica”, ha ricordato Benigni. https://youtu.be/opvLX71dBWM Un consiglio. Guardatevi i film interamente. Assaporerete verità e leggerezza ma anche sogno e fantasia. Qualità che si trovano sicuramente nel genio di Federico Fellini. Buona visione.... da Tommaso!! Vieni a visitarci sulla nostra pagina Facebook e Metti il tuo MiPiace! Salva Read the full article
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“Nel penetrare quella scrittura tenebrosa…”: catabasi nell’enigma Malraux (ovvero, dialogo con Stefania Ricciardi)
C’è qualcosa di radioso nella tenebra – certamente di ipnotico. Nel 1933 il Nobel per la letteratura va a Ivan Bunin, raffinatissimo scrittore russo emigrato a Parigi – ed è proprio quello l’anno in cui André Malraux, autore di romanzi lancinanti e lanciati – I conquistatori, La via dei re – mette un riflettore sul ceffo screziato della Storia, usando il coltello pubblica La condizione umana, e vince il Goncourt. Quel romanzo. Un manifesto dell’individualismo feroce, della fede nell’amicizia, del tradimento della Storia – sopra la linea di galleggiamento di un Asia fluorescente, livida, bizantina. L’epica della contraddizione in un linguaggio che lambisce l’esplosione, varca gli estremi, i chiaroscuri, come se Malraux usasse una penna caravaggesca, costellasse di candele la trama, un Georges de La Tour che anticipa i tremori postumani di Philip K. Dick. “Trasformò il viso: bocca serrata e tirata verso il mento, occhi socchiusi, come un samurai da Carnevale. E come se l’angoscia che le parole non bastavano a tradurre si esprimesse direttamente in tutta la sua potenza, cominciò subito a fare smorfie: eccolo tramutarsi in una scimmia, in un idiota, in un tipo spaventato, in un viso tumefatto, in tutte le maschere del grottesco che un volto umano può esprimere”: eccolo lì, l’autoritratto di Malraux, l’uomo dalle mille facce, il romanziere e l’ambizioso, l’ambivalente seduttore, l’ambiguo truffatore, il bandito e l’uomo politico, lo zerbino di De Gaulle e il sodale di Picasso, l’avventuriero e il diplomatico, l’uomo che ha vissuto troppo incarnando un inquieto senso di morte, l’antitutto. Ma uno scrittore non è questo, uno che si inscrive nella vita e che resta, inossidabilmente, inafferrabile? Ridotto a quel romanzo pazzesco, La condizione umana, più utile di tanta filosofia da gattabuia esistenzialista, Malraux torna a noi con un linguaggio sgargiante, nella nuova edizione Bompiani del capolavoro, tessuto da Stefania Ricciardi, già traduttrice di Marguerite Yourcenar, di Claude Simon, tra i tanti. Con Stefania siamo d’accordo: occorre ripubblicare – e ritradurre – le Antimemorie, che sono l’autobiografia romanzesca – o il romanzo autobiografico – di Malraux, lo specchio istoriato e ustorio de La condizione umana. Didatta della Storia, allucinato dal proprio ego, dilagante, Malraux teneva sulla lingua l’Asia (“Ho udito i frammenti di tegole mandarine della Città Imperiale quando le volpi sbucavano fra gli astri violetti ai piedi delle muraglie; i frammenti turchesi della Scuola coranica di Isfahan dove le rose crescevano ormai selvatiche dietro porte d’argento; i frammenti di porcellana dei templi siamesi che vengono ancora chiamati pagode…”), nel palmo sinistro l’Occidente e negli occhi la vita, dacché “gli artisti non parlano d’arte che in termini di vita, e la vita delle opere è diventata per loro il maggiore enigma”. Catabasi, dunque, nell’enigma Malraux. (d.b.)
“La condizione umana”: ci dettagli l’importanza di questo romanzo, che è anche l’apice del talento letterario di Malraux, in cui, mi pare, si traccia una ‘terza via’ tra i romanzi assoluti (Joyce, per dire) e quelli ‘di genere’. Cosa la affascina di quel romanzo?
Pubblicata nel 1933 da Gaston Gallimard, che per l’occasione strappa definitivamente Malraux a Grasset, La condizione umana, rappresenta ancora oggi una pietra miliare del Novecento letterario, tanto da figurare al quinto posto nella classifica dei migliori cento libri del secolo stilata da “Le Monde” in collaborazione con la FNAC, precedendo classici come quelli di Céline, Nabokov, Fitzgerald, García Márquez. Per quanto le classifiche siano opinabili, è comunque il segno della sua centralità nell’immaginario comune e nel dibattito contemporaneo non solo francese, se si pensa che Mario Vargas Llosa ha indicato La condizione umana come un’opera maestra, una delle più folgoranti della nostra epoca. Credo che il tempo continui a conferire grandezza a questo romanzo incentrato sull’uomo di fronte al proprio destino, con gli eventi storici che, lungi dall’essere un semplice sfondo, si riflettono nella coscienza dei personaggi. Al di là della profezia – tutto sommato facile – dell’ascesa dell’Oriente nello scacchiere politico mondiale, Malraux ha saputo cogliere il vertiginoso divenire dell’uomo novecentesco e credo che sia questa sua capacità premonitrice a costituire la grandezza della Condizione umana attraverso il tempo.
Ciò detto, mi sembra opportuno ricordare le profonde innovazioni sul piano stilistico e tematico che hanno contribuito al successo dell’opera, coronata dal Prix Goncourt. Malraux, strutturando il testo sulle tecniche del cinema, ha cambiato il modo di scrivere, sulla scia di altri capolavori dell’epoca come Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald ma soprattutto Manhattan transfert di John Don Passos, entrambi del 1925. Il confronto tra il manoscritto e l’edizione Gallimard del 1933 – passando per la versione apparsa in anteprima, da gennaio a giugno, sulla “Nouvelle Revue Française” – mostra il montaggio di scene scritte in momenti diversi e assemblate come sequenze di una messinscena narrativa. Nell’ottica tematica, La condizione umana introduce una novità di rilievo nella letteratura francese: perno del plot non è più l’introspezione o la psicologia – soprattutto amorosa – dei personaggi, ma la situazione dell’uomo nella Storia e nell’universo, un’esperienza non meno importante ma di sicuro meno esplorata.
Sul piano strettamente personale, il fascino del romanzo ha più volti: è il brivido che percorre Chen prima d’infilzare il coltello nella sua vittima dormiente, è l’immensità del dono di Katow che si accolla sofferenze atroci risparmiandole a due giovani semisconosciuti, è il viso “da morta” di May respinta dall’uomo che ama e che la ama, è il dolore per la perdita di una persona cara. Sono pagine toccanti perché mostrano l’animo umano non solo nell’eroismo, ma anche nella percezione della propria limitatezza e negli impulsi più carnali come il rancore, la gelosia, la vendetta.
La lingua di Malraux, ovvero: la fatica del traduttore. Come ha fatto ingresso nel linguaggio di Malraux, che strategie ha usato?
Come sempre, mi accosto all’opera da tradurre tendendo innanzitutto l’orecchio. È fondamentale: cerco di cogliere il ritmo, l’intonazione – che avvicina all’intenzione del testo. La prosa sfrondata, sincopata, della Condizione umana non facilita l’approccio. La “resistenza della carne al coltello” che perseguita il giovane Chen anche dopo l’omicidio si è come riflessa nella resistenza che avvertivo nel penetrare quella scrittura tenebrosa, a tratti criptica, straniante, ma con repentini, significativi squarci di luce: non a caso nel manoscritto, a margine, compaiono parole come éclairage e lumière. Il “disegno” delle scene narrate non è stato complicato. La difficoltà maggiore è consistita nell’applicare il chiaroscuro: gli effetti di luce, che Malraux dosa con parsimonia sortendo esiti tra i più poetici, e le gradazioni d’ombra, marcate da un’allusività variamente declinata. Credo che alcune scene non proprio nitide – e la foschia e la nebbia sono una costante nel romanzo –, certi ritratti sfumati, le parole sottintese, se da un lato confermano l’aura di mistero che cinge ogni essere umano, dall’altro invocano la partecipazione del lettore e alimentano la sua fantasia nel riempire quei vuoti, nel mettere a fuoco un’immagine. Ho trovato affascinante anche questo aspetto. L’edizione originale della Bibliothèque de la Pléiade, con l’apparato critico e le molteplici varianti tra le diverse edizioni fino a quella definitiva del ’46, mi ha aiutato a orientarmi nelle zone più oscure. È evidente, poi, che non si è trattato di entrare solo nel linguaggio di Malraux, ma anche nel contesto storico e culturale della Cina e della rivolta operaia di Shanghai nel 1927, il che ha richiesto un notevole lavoro documentale.
Qual è il tema sotterraneo della “Condizione umana”, che idea di mondo, di vita, tra azione e lacerazione, appare?
L’idea di una grande labilità: se non si agisce con efficacia e tempismo, tutto può crollare da un momento all’altro, un impero finanziario come l’ideale politico. Anche il potere è effimero, illusorio e, nella fattispecie, addirittura in balia degli umori femminili: l’insuccesso più cocente per Ferral, il presidente della Camera di commercio francese e del Consorzio franco-asiatico, è la beffa inflittagli dall’amante, non il fallimento delle proprie imprese. Di durevole restano l’amicizia e la fraternità, e l’adesione a valori comuni ha un tale spessore da prevalere sull’esito concreto dell’azione. Eppure il potere ha attentato alla condizione umana, perché ha trasformato quasi tutti gli uomini in bestie. Significativa la riflessione di Kyo in carcere: “Quegli esseri indistinguibili che brulicavano dietro le sbarre, inquietanti come i crostacei e i colossali insetti dei suoi incubi infantili, non erano più umani del carceriere. Solitudine e umiliazione totali”. Ecco, il tema sotterraneo del romanzo credo risieda proprio nell’idea di solitudine, spesso accompagnata dall’umiliazione, che pervade i personaggi a livelli diversi. Sfuggire a questa situazione è difficile se non impossibile. C’è chi s’impegna nell’azione, chi si rifugia nell’oppio, chi si crea un mondo alternativo. È il caso di Clappique, l’estroso personaggio che incarna quel tratto di stramberia onnipresente in Malraux, forse per compensare la gravità della meditazione metafisica.
In Malraux, sappiamo, vita immaginata e vissuta, biografia e romanzo si confondono. Penso, per questo, che le ‘Antimemorie’ siano il suo vero capolavoro, l’emblema di un intellettuale ‘anti-’, pur essendo stato fautore della cultura nella Francia ‘gollista’. È d’accordo?
A mio parere il capolavoro di Malraux è La condizione umana, ma le Antimemorie reggono egregiamente il confronto. Anche in questo caso Malraux ha cambiato il modo di scrivere un genere, l’autobiografia, tradizionalmente fondata sulla verità fattuale. Ponendo le memorie della propria vita all’intersezione con quella tendenza che dieci anni dopo, nel 1977, Serge Doubrovsky avrebbe definito autofiction, vale a dire la “finzione di eventi e fatti strettamente reali”, Malraux ha rinnovato il canone delle opere non inventate scritte in prima persona: il ricordo non è più da cercare dietro di sé, ma davanti a sé. Nella retrospezione, dunque, e nel futuro prospettico, perché il vissuto di un individuo è fatto anche di fantasie inconfessate, di desideri inappagati, di attese. È un concetto espresso peraltro dal Clappique della Condizione umana: “Non contava né il vero né il falso, ma il vissuto”; “Bisogna introdurre i mezzi dell’arte nella vita, mio caro, non per farne arte, ah! Buon Dio, no!, ma per una vita più ricca”. Per l’elevato valore di testimonianza narrativa, mi auguro che Bompiani ristampi le Antimemorie, dopo averle pubblicate nel ’68.
Provo una fatale affinità. La Yourcenar e Malraux sono scrittori entrambi affascinati dalla Storia e dalle culture ‘altre’. La differenza del loro linguaggio cela anche una differenza di personalità, penso. Chiedo a lei, che li ha tradotti entrambi, di tracciarla.
Tra Malraux che ha fatto delle bugie una forma d’arte e Yourcenar che ha improntato la propria vita alla ricerca della verità non può esserci distanza maggiore, riflessa tutta nelle rispettive opere. Malraux era ossessionato dall’azione. Nella Condizione umana si legge: “Un uomo è la somma delle sue azioni. Di ciò che ha fatto, di ciò che può fare. Nient’altro”. Anche lo stile di vita è in palese contrasto. Al rigore anche espressivo di Yourcenar, al riserbo più assoluto e alla fuga dai riflettori, alle battaglie ecologiche, pacifiste e salutiste, si contrappone la leggendaria mitomania di Malraux, l’atteggiarsi a dandy, l’esistenza fuori dal comune, modellata sul mito, con frequenti incursioni nell’alcol e nella cocaina. La passione comune per i viaggi, per l’Oriente e per la Storia sottende implicazioni diverse. Se l’autrice delle Memorie di Adriano era stata educata ai viaggi sin dall’infanzia, e il richiamo dell’Oriente era anzitutto culturale (settantacinquenne, aveva deciso di studiare il giapponese) e filosofico, religioso, legato al buddismo, i primi viaggi di Malraux, in particolare quello con la moglie Clara in Indocina, per ritagliare alcuni bassorilievi e rivenderli a qualche ricco collezionista europeo o americano, avevano uno scopo materiale, e il desiderio d’Oriente rappresentava il fascino dell’avventura esotica, comune a tanti giovani intellettuali. Riguardo alla Storia, per Yourcenar era una fonte preziosa di conoscenza per andare alle radici del mondo e di se stessa, mentre per Malraux era l’occasione di lanciarsi nell’azione: la guerra di Spagna, la Resistenza francese. Si tratta di due personalità originali che nutrivano sogni altrettanto originali: Malraux voleva diventare Dio, Yourcenar desiderava morire “ad occhi aperti”.
Non mi pare che Malraux, che pure ha scritto libri vertiginosi – penso ai saggi su Picasso, l’idea del ‘Museo immaginario’ – goda di grande successo in Italia, rispetto ad autori come Camus e la Yourcenar. Come mai, secondo lei?
Camus e Yourcenar sono romanzieri di maggiore impatto, sia per i temi trattati che per la scrittura. Non so poi fino a che punto la poliedricità della figura di Malraux – critico d’arte, oratore, uomo d’azione, ministro in due governi de Gaulle – abbia condizionato il giudizio sulla sua opera letteraria, considerata perlopiù “politica” e legata a un contesto ben preciso.
Da esperta: che cosa andrebbe tradotto in Italia della letteratura francese, che cosa, ora, vorrebbe tradurre?
François Bon, classe ’53, meriterebbe l’attenzione del pubblico italiano: Sortie d’usine, Paysage fer, Daewoo sono pregevoli narrazioni tra fiction e nonfiction, il terreno più fecondo della letteratura attuale. Infine, ho riletto di recente un bellissimo romanzo ambientato a Barcellona, La marge, dello scrittore surrealista André Pieyre de Mandiargues. Prix Goncourt 1967, è stato pubblicato da Feltrinelli nel ’68, con la traduzione di Antonio Porta. Ecco, mi piacerebbe ritradurlo. È un altro romanzo da riportare in libreria, insieme alle Antimemorie, naturalmente.
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L'avvocato genio della musica italiana
L’avvocato genio della musica italiana
Paolo Conte: “Napoli è la patria di capolavori musicali e poetici trascendentali” Antonio Lamorte PAOLO CONTE Paolo Conte ha deposto il testo di Azzurro, che scrisse per Adriano Celentano, nella bara di sua madre. La madre, leggendone le parole, aveva pianto. “Mia madre diceva che questa canzone era antica e moderna insieme. L’antico era soprattutto nella musica, come una tenerezza d’altri…
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Racconti scelti di Rainer Maria Rilke
Racconti scelti di Rainer Maria Rilke
Rainer Maria Rilke. Un gigante della poesia tedesca. Un profondo e tormentato scrittore che produsse capolavori poetici come la raccolta Leben und lieder (1894). Tuttavia, in questo post mi occuperò del Rilke narratore, del Rilke che scrisse diversi racconti nel corso della sua vita. La buona occasione per addentrarmi nella prosa del poeta tedesco è stata la lettura di un volumetto del 2016…
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Certo, i Sixties erano stati imbattibili: Beatles & Stones, Beach Boys, Dylan, Hendrix, CSN&Y, Leonard Cohen, Who, VU, The Doors, Led Zeppelin, The Band, Aretha Franklin, Otis Redding, Sam Cooke, Marvin Gaye, etc. Non capiterà mai più. Ma la musica degli anni Novanta, dopo quel decennio, è la stata la prima e l’unica ad averci offerto in così poco tempo così tanti capolavori, regalandoci una di quelle combinazioni felici che accadono di rado nella vita. Perché? Che cosa c’era nell’aria? Come hanno fatto a ritrovarsi, tutti insieme appassionatamente in un pugno di annate, Radiohead, Pearl Jam, Nirvana, Blur, Oasis e a raccontarci qualcosa che valeva la pena di ascoltare? A loro, naturalmente, si affiancarono Springsteen, gli U2, i Depeche Mode, Bowie, gli Stones, i Cure, Tom Waits, Nick Cave, i R.E.M., Paul Weller, i Red Hot Chili Peppers, etc. ma, seppur magnifici come sempre, non erano marchiati “anninovanta”. Non erano (più) giovani. Noi sì. E certamente, se quel decennio lo abbiamo respirato a pieni polmoni sarà stato anche perché avevamo in tasca i nostri vent’anni. La sofferenza era uno stato di grazia. Amavamo soffrire. Volevamo essere poetici. Cercavamo nuove forme di romanticismo, lontane dalla melassa degli stereotipi. Più struggenti. La sofferenza era bella. Era cinematografica. Ci portava al centro del palco. E avevamo un bisogno disperato di una nostra colonna sonora. Fino a quel momento non c’era. Eravamo orfani di una musica che ci doveva appartenere (e l’isteria-tecno-ottanta strideva con i nostri umori).
Perché gli anni Novanta hanno prodotto tanta bella musica - Piero Trellini @uds a te la palla per un commento per me gli anni migliori furono quelli a cavallo tra il 1997 e il 1999, poi miseramente il nulla
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Atri, gli studenti dello Zoli intervistano la scrittrice Anna Kauber
Atri, gli studenti dello Zoli intervistano la scrittrice Anna Kauber
Il prossimo 9 Febbraio, gli studenti dell’Istituto Tecnico Agrario “Adone Zoli” di Atri intervisteranno in diretta streaming su Facebook Anna Kauber, scrittrice, paesaggista e regista esperta di capolavori poetici ed antropogici, alla scoperta di un mestiere sorprendentemente “in rosa”: le donne pastore. Uno straordinario dibattito in cui la registra, da subito entusiasta di confrontarsi con…
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Attraverso i capolavori poetici che i secoli ci hanno lasciato riesce assai problematico arguire se l'uomo medio, l'uomo della strada, fosse in altri tempi meno isolato, meno solitario dell'uomo del Novecento.
Eugenio Montale
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La danza della neve di Ada Negri: Poesia e silenzio. Recensione di Alessandria today
Un viaggio nella delicatezza e nella profondità della natura attraverso i versi di Ada Negri.
Un viaggio nella delicatezza e nella profondità della natura attraverso i versi di Ada Negri. Introduzione La poesia “La danza della neve” di Ada Negri è un capolavoro che cattura la bellezza della natura e la trasforma in un momento di riflessione intima. Con una semplicità straordinaria e un linguaggio evocativo, la poetessa invita il lettore a osservare la magia della neve, simbolo di purezza…
#Accademia d’Italia#Ada Negri#Ada Negri poesia#Alessandria today#Armonia#armonia nella poesia#Autrici italiane#Bellezza della natura#biografia Ada Negri#capolavori della letteratura#capolavori poetici#Cultura italiana#descrizioni naturalistiche#Fatalità#Google News#introspezione#introspezione letteraria#Introspezione poetica#italianewsmedia.com#La danza della neve#letteratura italiana#lettura consigliata#lettura poetica#meditazione poetica#neve nella poesia#pace interiore#Pier Carlo Lava#poesia classica#poesia e natura#poesia evocativa
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Anime 010: Inosensu
"Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg (Oshii Mamoru, 2004)
"Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg" è il sequel del capolavoro di Mamoru Oshii, "Ghost in the Shell" A distanza di nove anni Oshii Mamoru riporta sul grande schermo la mitica Sezione Nove che molti interrogativi aveva lasciato e tanti cuori aveva infranto attraverso la sua eroina, il Maggiore Kusanagi Motoko. Il gruppo è ancora capitanato dall’astutissimo Aramaki, un apparentemente innocuo vecchietto con i capelli orizzontali, l’atletico Batou e la recluta Togusa, l’unico quasi umano della squadra che di sintetico ha solo una espansione del cervello. Siamo nel 2034 e la struttura si occupa delle stesse delicatissime faccende che già ci erano note ai tempi del Maggiore. Maggiore che è ufficialmente dispersa/latitante, libera nella Matrice dopo essersi fusa con il Signore dei Pupazzi, una Intelligenza Artificiale che è anche senziente. Il Maggiore è sparita con cose che non le appartengono, a cominciare da quella macchina da guerra che è il suo corpo cibernetico ma soprattutto l’hard disk che rappresenta la sua memoria e quindi la storia stessa di questa struttura top secret.
Un nuovo caso è al vaglio di Aramaki. Le Ginoidi, cyborg femminili "dotati di organi non necessari" (quelli necessari al sesso insomma), invece di “una botta e via” hanno ammazzato i loro clienti e chiunque si fosse trovato nei paraggi.Comprendendo la lista uomini politici e di pubblica sicurezza, c’è il rischio che si tratti di terrorismo, competenza della Sezione Nove. Batou e Togusa partono con le indagini che presto conduce ai responsabili, con una velocità e una astuzia che insospettisce il giovane Togusa al quale sale il dubbio che Batou sia guidato da qualcuno. E su chi sia quel qualcuno si fa presto un’idea.
Oshii gira il sequel di un capolavoro evitando di cadere nelle facili trappole dell’auto-celebrazione e del didascalismo; così questo secondo capitolo si integra col primo e si completa, a cominciare dal cambio di punto di vista il cui testimone passa dalla bella Motoko al pragmatico Batou. Dopo tutto, i due episodi del film non sono altro che una storia d’amore non dichiarato tra due macchine che, peggio degli umani, parlano due lingue totalmente diverse. Oshii ha avuto anche la felicissima idea di lasciare la briglia sciolta al compositore Kawai Kenji la cui colonna sonora prende spesso le redini del gioco e costruisce con le animazioni di Oshii dei piccoli capolavori in formato videoclip. Prova ne è
l’arrivo dei due detective alla Frontiera Nord
, vista prima dall’alto in uno scenario post-apocalittico e solcata da frotte di gabbiani per poi far abbassare l’inquadratura che segue in plongée una sorta di processione carnescial-religiosa introdotta da un elefante riccamente bardato cui seguono maschere, vascelli, guerrieri, demoni e ballerini che procedono con lentezza davanti una folla muta e incappucciata. È una sequenza totalmente gratuita, di "tono" e non di "trama", che si può espungere senza creare buchi nella sceneggiatura ma che si lascia lì dov’è semplicemente perché rende l’idea, mostrandola anziché dicendola. Il tratto di Oshii è molto netto e la palette cromatica addirittura esplosiva. Tali inserti, disseminati lungo tutto il film, vanno a bilanciare le visioni oggettive dell’occhio cibernetico di Batou, le immagini a media-bassa definizione dei filmati di sorveglianza, le radiografie degli scanner piazzati un po’ ovunque, insomma tutto quel corredo di visioni fredde e geometriche cui fanno da contraltare queste immagini di un mondo non più a colori ma già colorato e dalle forme sinuose anziché regolari. Prova ne è il cane di Batou, un cameo quasi onnipresente di Gabriel, il Basset Hound di Oshii, con le lunghe orecchie, la tendenza alla pinguedine che risalta sulle sue gambette corte e l’indole perennemente impigrita, insomma l’antitesi stessa delle dinamiche slanciate e potenti degli organismi cibernetici. Le messe in quadro di Oshii sono molto profonde e riccamente dettagliate sicché non stupisce che i tempi di realizzazione dei suoi film siano molto lunghi. Se il soggetto apparente del film è il (cyber)sesso, sottotraccia scorre una storia d’amore, struggente perché mai confessata neanche a se stessi, quella tra Batou e Kusanagi che nei loro dialoghi danno l’impressione di dover squarciare un velo troppo resistente prima di potersi comprendere appieno. Ce lo mostra lo sguardo imprevedibile, quasi irrazionale, del Maggiore che spalanca gli occhi azzurrissimi mentre la telecamera si avvicina in un primissimo piano che mette in evidenza la ghiera del loro obiettivo svelando così la loro natura artificiale. È lo stesso velo che in altri contesti e in altri tempi i poeti frammettevano tra il loro ardore e la donna e che poco si differenzia da questa frase detta in uno dei dialoghi: "Le ginoidi sono costruite a immagine e somiglianza non della donna ma della sua idealizzazione". Allora restano i segni "ottusi", irriducibili ma sostanzialmente marginali, potenti di implosione: quando Batou mette un giacchino sul corpo nudo di Kusanagi (una scena già vista nel primo episodio) riusciamo a percepire questo focolaio di amore che Batou si nega e Kusanagi si impegna a disconoscere. Dopotutto, se la scena iniziale del primo episodio è la genesi del Maggiore,
in questo secondo sono due i cyborg che nascono e infine si baciano
. Le visioni post-apocalittiche con le dominanti cromatiche nero-bianco-dorato esploso, ricordano molto da vicino la palette di Dalì cui si rende omaggio anche attraverso "La donna in fiamme", la cui sensualità è rappresentata dai cassetti che ci fa vedere
nelle ginoidi dilaniate dalle armi potentissime di Batou
.
"Ghost in the Shell 2: Inosensu" (tradotto abbastanza arbitrariamente in "L’attacco dei cyborg") tocca temi poetici e filosofici, quando è messa in crisi ogni operazione di reminiscenza in quanto spesso fallace (nel film è un’arma di intrusione nei ricordi dei nostri eroi) ma è attraverso la prima, la poesia, che Batou e il Maggiore si rincontrano: per trovare scampo gli uccelli salgono in alto nei cieli e i pesci si calano nella profondità del mare. Lì, memore di come Kusanagi metteva alla prova se stessa e la sua discussa umanità, lasciandosi andare come un sommozzatore col rischio di non riuscire a più riemergere, che la ritroverà anche se lei, tutto sommato, era sempre stata accanto a lui. L’ultima sequenza sembra un arrivederci e, trattandosi dell’amore, scorre anche un brivido: Togusa torna a casa dopo la missione e porta alla figlioletta una bambola. Essa ha lo stesso sguardo del maggiore Kusanagi Motoko.
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Nuovo evento pubblicato http://eventicatanzaro.it/event/teatro-di-calabria-poiesis-fuori-programma-marca/
TEATRO DI CALABRIA - Poiesis Fuori Programma Marca
POIESIS – ciclo di incontri su Teatro, Arte, Letteratura e Musica a cura del Teatro di Calabria con il patrocinio della Fondazione Rocco Guglielmo e della Provincia di Catanzaro.
*****DOPPIO FUORI PROGRAMMA*****
In attesa della chiusura dell’edizione 2016/2017 della rassegna, il Teatro di Calabria propone al pubblico un doppio fuori programma all’insegna del divertimento e della passione declinati attraverso musica, teatro e poesia.
SABATO 20 MAGGIO – ALL’IMPROVVISO…. COMMEDIA!”
A grandissima richiesta, viene riproposto il recital brillante che nel mese di Febbraio ha registrato il “tutto esaurito” al Marca! Di nuovo, un tuffo nel mondo e nella storia della Commedia, il genere teatrale forse più amato dal pubblico e certamente il più osteggiato nei secoli dalla critica. Ripercorreremo il viaggio entusiasmante che ha visto la nascita, la crescita ed il pieno sviluppo della Commedia: da Plauto, a Machiavelli, fino ad arrivare a Molière e Goldoni, i padri della Commedia moderna. Servi scaltri, generali vanitosi, innamorati capricciosi, frati furbi, borghesi naif e locandiere intraprendenti ci faranno compagnia in un appassionante e divertentissimo viaggio nel tempo, all’insegna del divertimento brillante e mai scontato!
DOMENICA 21 MAGGIO “LE VOCI DI NAPOLI”
Per la prima volta, debutta al MARCA un nuovo recital firmato TdC e dedicato interamente alle voci ed alle melodie della città partenopea, emblema assoluto di Poesia e Passione meridionali nel mondo. Cuore pulsante della serata sarà ovviamente la parte musicale, curata dal M. Giulio De Carlo e da Oreste Sergi Pirrò, accompagnati da alcuni elementi del coro Polifonico “Singing Cluster”. Verranno riproposti alcuni dei più grandi capolavori della canzone napoletana (da “A vucchella”, a “Voce ‘e notte”), con alcuni intermezzi poetici a cura del Teatro Di Calabria. Amore, leggerezza, nostalgia, ironia e quel misto di sofferenza sorridente ci accompagneranno nel corso del recital, facendoci riascoltare le “Voci di Napoli”.
INGRESSO (per ogni spettacolo) € 5,00
Prevendite disponibili presso InfoPoint MARCA (Lun/Dom ore 10:00-12:30 // 16:30 -19:30)
Info: 3383800703
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"Sogno" di Giovanni Pascoli: un viaggio poetico tra nostalgia e dolcezza. Recensione di Alessandria today
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