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Il morire non è grande ferita: La poesia di Emily Dickinson tra vita e morte. Recensione di Alessandria today
Un’analisi profonda di una delle poesie più emblematiche della grande poetessa americana
Un’analisi profonda di una delle poesie più emblematiche della grande poetessa americana Emily Dickinson, una delle voci più intense e innovative della letteratura americana, affronta in questa poesia il tema universale della vita e della morte. Il componimento esprime la sofferenza dell’esistenza, rappresentando il morire non come una ferita insuperabile, bensì come un passaggio verso un…
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Affinché un parassita della chiesa cattolica possa vivere nella nostra società, godendo del privilegio di non lavorare, di compiere pure atti di pedofilia indisturbato, è necessario che molti, fin da bambini, perdano l'intelligenza: perdano la capacità di maturare empatia.
L'indottrinamento religioso è una violenza psicologica fatta ad arte: il plagio religioso serve a comprimere la capacità di sapersi vedere dal di fuori, non riuscendo più a cogliere il senso del ridicolo che noi avremmo se ci vedessimo parlare (pregare) all'aria inconsistente e non ad una persona.
Il nostro cervello è capace di riconoscere che cosa è reale e che cosa non è reale, attraverso anche la speculazione che avviene nel riuscire a vedersi dal di fuori: l'autoironia è la capacità del nostro cervello di riuscire ad avere un'immagine di noi stessi, senza uno specchio.
Il nostro cervello ce lo dice continuamente, in tutte le salse, per principi fisiologici di buona autoconservazione, che è l'essere felici il modo migliore di vivere: non il fare sacrifici, non provare dolore, non diventare martiri di una causa; non diventare schiavi di qualcosa.
Il nostro cervello ce lo dice, anche quando ci costringono ad andare a messa, che stiamo facendo qualcosa di sbagliato per la nostra vita, perché il cervello capisce che all'interno di una messa religiosa lui non ha parola; che la religione è sottomissione, non libertà.
Un dio buono, benevolo, non perderebbe mai il suo tempo a farsi scorticare su una croce; per poi morire e resuscitare. Un mito divino benevolo inventato non entra mai in contrasto con l'idea di felicità (soffrendo), ma aiuta l'uomo a vivere la felicità, seminandola ovunque.
La paura è in grado, qualora tu sia fragile, di farti fare le cose più assurde: come credere che da un pezzo di pane azzimo, su cui un ridicolo sciamano della chiesa cattolica fa un rito magico, si possa ottenere una salvezza, un conforto, un miglioramento della nostra vita.
Il dolore, la sofferenza, non sono episodi della vita quotidiana da cui si può imparare qualcosa di buono: gli unici in grado di imparare qualcosa dalla sofferenza e dal dolore umano, sono i medici, e tutte le persone che lavorano affinché la sofferenza umana sia debellata.
Persino il lavoro di un medico, di un ricercatore, può essere dettato da un profondo amore per gli altri: dalla profonda comprensione di quanto le persone diano il meglio di sé quando sono felici; per questo, alcuni, investono la propria vita chiusi a lungo dentro laboratori.
In qualsiasi latitudine e longitudine del nostro pianeta, il clero religioso usa il dolore altrui per ottenere dei vantaggi personali; la scienza, al contrario, studia il dolore altrui per limitarlo, per curarlo. La scienza è l'unica amica fedele della felicità.
Le divinità, per definizione e invenzione, sono onniscienti e onnipresenti, pertanto non hanno bisogno di una casa specifica dove risiedere (tempio, chiesa), e nemmeno di essere umani, mitologicamente inferiori alle divinità, che facciano da tramite.
Per confessare i nostri ipotetici peccati ad una divinità, non è necessario un tramite: lo puoi fare direttamente, se credi in certe cose (nella presenza di spiriti nel mondo); le divinità, per definizione, sono onnipresenti e onniscienti.
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Terreno glaciale o flusso lavico?
L’ambiente geologico e la latitudine suggeriscono che si tratta di una colata glaciale (ricca di ghiaccio), ma la superficie è spezzata in placche come molte colate di lava su Marte. Qui è stata scattata un’immagine per ottenere un’immagine migliore. Alla risoluzione su scala di un metro di HiRISE, vediamo una superficie umida con massi e crateri e alcune forme di terreno spazzate dal vento che…
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Il GAL Hassin
Il GAL Hassin
Vortici.it torna a parlare di Astronomia. Non tutti lo sanno, ma il cielo delle Madonie costituisce un vera e propria ricchezza ambientale, il motivo vi stupirà sicuramente.
L'osservatorio astronomico Isnello, noto come "Gal Hassin", Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche, situato a soli 20 km dalla cittadina di Cefalù, è una struttura preziosa.
Si tratta di uno strumento per osservare e vivere il territorio in modo diverso dal solito. Le Madonie sono uno dei siti migliori per ammirare le stelle. Il cielo che si può ammirare da questo luogo va considerato una risorsa ambientale a tutti gli effetti. Per questo motivo, il Parco Astronomico Gal Hassin di Isnello rappresenta un’esperienza unica e un’occasione per vivere il territorio siciliano in modo davvero inusuale. Non dimentichiamo che questo complesso montuoso rappresenta un’oasi naturalistica e paesaggistica ed è dopo l’Etna, il più alto dell'isola. La storia del Gal Hassin: La storia di Gal Hassin, il Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche di Isnello, inizia poco dopo la metà del secolo scorso. L’astronomia italiana pensò di dotarsi di un Telescopio Nazionale della classe di 3 metri di diametro e avviò la ricerca di una località italiana per costruire l’Osservatorio Nazionale. La scelta cadde sulla Sicilia: la sua latitudine, infatti, consente una migliore visione del cielo australe e, inoltre, essendo in mezzo al Mediterraneo, le perturbazioni, che si spostano prevalentemente da nordovest a sudest, scorrono velocemente con un moto laminare. Ci si orientò dunque verso le Madonie. Nella seconda metà degli anni Novanta il CIPE e la Regione Siciliana finanziarono uno studio di fattibilità per realizzare una struttura dedicata alla divulgazione dell’Astronomia, da realizzare sulle Madonie. Non vennero però reperiti i fondi necessari e il progetto fu messo in stand-by. Fu poi ripreso dal sindaco di Isnello Giuseppe Mogavero e subì un cambio radicale. Si pensò di suddividere il centro in due aree: una didattico - divulgativa e una esclusivamente scientifica. Venne fatta una proposta al CIPE, che accettò. Non mancarono le traversie dal punto di vista burocratico, ma alla fine si riuscì a realizzare ciò che vediamo oggi. Nel corso dell’ultimo decennio, Isnello ha visto fiorire un grande interesse per l’Astronomia. La qualità del progetto ha sollecitato le attenzioni della comunità scientifica astronomica Nazionale e Internazionale. Hanno espresso formalmente il loro interesse a riguardo: l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), l’Action Team on Near-Earth Objects (ONU), il Near-Earth Object Program Office (JPL-NASA), l’Istituto di Astronomia e Astrofisica della Eberhard Karls-Universitat di Tübingen (Germania) e il Dipartimento di Matematica, Gruppo di Meccanica Spaziale dell’Università di Pisa. Il centro d’importanza mondiale ha alle spalle un investimento di 13 milioni di euro. Dotato di apparecchiature all’avanguardia(con telescopi capaci di individuare gli asteroidi potenzialmente pericolosi per la Terra e di scovare i cosiddetti detriti spaziali), il centro è diventato uno dei più importanti Osservatori Europei oltre ad essere un polo didattico divulgativo aperto al pubblico e alle scuole. Dotato di un planetario digitale con una cupola di 10 metri di diametro, di una terrazza osservativa con copertura mobile e di due laboratori (uno astronomico all’aperto e uno solare), prevede anche spazi espositivi, aule didattiche e una struttura ricettiva da 60 posti, a tutto vantaggio delle scolaresche. Nello specifico, si tratta di un ampio complesso che comprende: • una stazione osservativa con telescopio riflettore a grande campo, che ha reso questo luogo la stazione osservativa più alta d’Italia a 1865 metri sul livello del mare; • una stazione operativa per il controllo remoto del telescopio con laboratori ottici ed elettronici che si occupano delle attività di ricerca astronomica; • una struttura destinata alla divulgazione e alla didattica presso il comune di Isnello, in Contrada Fontana Miri. Il Polo didattico - divulgativo: Il Polo, nei pressi di Isnello in Contrada Fontana Miri, è costituito da: • un planetario digitale con cupola di 10 m di diametro; • una terrazza osservativa a copertura mobile con 12 strumenti di osservazione; • una struttura museale e aule didattiche; • un radiotelescopio; • un laboratorio solare e un set di spettroscopia; • un laboratorio astronomico all’aperto con diversi orologi solari(es. meridiana equatoriale, rosa dei venti), parabole acustiche e un mappamondo monumentale. Certamente si tratta di un’esperienza unica e imperdibile da vivere all’interno del Parco delle Madonie, per conciliare la ricerca scientifica alla moderna divulgazione delle scienze astronomiche e godere della vista delle stelle a cielo aperto, immersi nella natura incontaminata del luogo. Infine un’ultima curiosità GAL sta per Galassia mentre Hassin è l’antico nome che gli arabi, ai tempi della loro dominazione, dettero a Isnello: significa torrente freddo. Immagine di copertina: - Osservatorio Astronomico GAL Hassin (Siciliante) Read the full article
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Storia Di Musica #142 - Midnight Oil, Diesel And Dust, 1987
Il viaggio che più ho nel mio cuore fu quello quando me ne sono andato in Australia, da solo. Non potevo non sottrarmi dal cercare qualche band australiana che non fossero gli AC\DC, e il tipo del negozio di dischi di Darlinghurst, un quartiere molto bello di Sydney, non ebbe dubbi a dare un consiglio ad un “dutchman” (non ci credeva che fossi italiano): i Midnight Oil sono il più grande gruppo del rock australiano. Mi consigliò il disco di oggi, ma ci arriviamo tra poco. I Midnight Oil prendono il nome da un verso di una canzone della Jimi Hendrix Experience, Burning Of The Midnight Lamp, e nascono a metà anni ’70 quando Peter Garrett risponde ad un annuncio messo dal batterista Rob Hirst, dal bassista Andrew James e dal tastierista/chitarrista Jim Moginie, che formavano i The Farm: cercavano un nuovo cantante. Garrett si trasferì da Canberra a Sydney, dove completò una brillante carriera universitaria di studi in legge, e iniziò a cantare con gli altri 3. In breve tempo, grazie alla solidità delle loro esibizioni dal vivo, i Midnight Oil iniziarono a farsi un nome nei locali della Baia di Sydney. Lo stile era un ruvido punk rock senza compromessi, proprio in linea con la scena internazionale. Nel 1977 si aggiunge un’altra chitarra, quella di Martin Rotsey e una figura fondamentale, Gary Morris, manager del gruppo. Morris è un grande mago delle collaborazioni, dei contratti e delle “sponsorizzazioni” tanto che grazie all’aiuto della stazione radio di Sydney Triple J, registrano il primo disco, Midnight Oil nel 1978: la critica è piuttosto delusa perché il disco non cattura la forza della band dal vivo, ma diviene un piccolo successo ed entra in classifica australiana. Morris fonda la Powderworks, la casa discografica della band, e nel 1979 esce Head Injuries, prodotto dall'ex membro dei Supercharge Laszek Karski: già meglio in qualità, con vene di progressive, nel 1980 raggiunse la 36ª posizione della classifica e vinse un disco d'oro. La band è una piccola realtà, e va in Inghilterra per registrare nuove cose: Andrew James lascia per motivi di salute, sostituito da Peter Gifford, e Place Without A Postcard, pubblicato nel novembre 1981 dalla CBS Records, fu registrato nel Sussex con l'aiuto del mitico produttore inglese Glyn Johns. Tuttavia la band non fu soddisfatta del lavoro di Johns, e nonostante un contratto per un altro disco in Inghilterra ritorna in Australia. Dove inizia un percorso di profonda immersione nella realtà locale, e nelle sue contraddizioni. Nel 1982 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1 è il disco che li fa sfondare in Australia, con i primi classici come Power And The Passion e Read About It. Iniziano i concerti e l’impegno per l’ecologia, il rispetto dell’ambiente e le minoranze. Red Sails In The Sunset del 1984 rende i Midnight Oil delle superstar autentiche in Australia, l’unica e autentica pub band dell’isola oceanica. Tra il 1985 e il 1986 intraprendono un lungo tour nell’outback australiano presso le riserve aborigene, insieme a due gruppi rock aborigeni, Warumpi Band e Gondwanaland, constatando le condizioni di miseria e di emarginazione in cui vivono quelle comunità. Ne esce fuori una riflessione in musica che prende vita nel 1987, quando esce Diesel And Dust. C'è meno in termini di potenza sonora, di hard rock, favorendo la melodia, il songwriting della band (che, a dire il vero, era sempre lì) e smuove alcuni dei bordi più aspri del gruppo per arrivare a più persone possibili. Di conseguenza, Diesel and Dust non è un album per i fan più accaniti degli Oils (come vengono chiamati dai tanti fans) e per molti è il “naturale” svendersi al mercato (critica abitudinaria che travalica ogni latitudine, è proprio il caso di dirlo), con un risvolto davvero imprevisto: è stato il primo vero successo mondiale del gruppo, diventando disco di platino in America e riscuotendo successo in tutto il mondo. Un singolo di grande successo entra nelle classifiche dovunque, Beds Are Burning, che parla della condizione degli aborigeni (How can we dance when our earth is turning?\How do we sleep while our beds are burning?), perle come Artic World (sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi delle zone artiche, nel 1987 una causa pioneristica), l’esoterica Sell My Soul, l’ossessionante The Dead Heart, la bella e epica Dreamworld: sin dai titoli c’è come la voglia di far vedere e far capire cosa davvero ci sia da fare per rispettare la Terra con un occhio alla situazione degli indigeni australiani (come in Warakurna e nella storica Bullroarer, che prende il nome dall’antico strumento del rombo, tipico come il didgeridoo nelle tribù australiane). E come sempre, non c'è stato alcun compromesso nella forte posizione politica della band: trattando apertamente le questioni dei diritti degli aborigeni i Midnight Oil chiedevano esplicitamente riparazioni per i popoli indigeni portando con Beds Are Burning la questione in cima alle classifiche di tutto il mondo. Una canzone, Sometimes, ne diviene l’inno sostenendo che:"A volte sei picchiato fino in fondo / A volte sei messo al muro / Ma non ti arrendi”. Garrett e soci continueranno a scrivere musica, in tutto 11 dischi fino al 2002, quando accadde questo: Garrett, che ci aveva provato già anni prima ricevendo 200 mila preferenze, viene eletto nella fila del Partito Laburista Australiano nella Camera dei rappresentanti per la sede di Kingsford Smith dall'ottobre 2004 all'agosto 2013. Nel 2007, dopo che il suo partito ha vinto le elezioni, è stato nominato ministro dell'ambiente da Kevin Rudd. Ha proseguito in questo incarico nel 2010 con la presidenza di Julia Gillard diventando ministro poi dell'infanzia e dell'educazione scolastica, ruolo che ha ricoperto fino al giugno 2013. Non si è ricandidato alle elezioni del 2013. Diesel And Dust vinse ben 3 ARIA, i Grammy Australiani ed è stato nominato miglior disco di sempre dal libro 100 Best Australian Albums: rimane un grande esempio della forza politica che la musica può avere e il negoziante di Darlinghurst non mi disse una fesseria.
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Cosa dice la scienza sugli incendi in Australia?
Dieci punti spiegati da un ricercatore forestale (me).
1) Quanto territorio è in fiamme?
Gli incendi hanno percorso a oggi circa 9 milioni di ettari di territorio - una superficie doppia a quella degli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia combinati, e pari ai quattro quinti di tutte le foreste italiane. In sole quattro annate negli ultimi 50 anni la superficie bruciata in Australia ha superato un milione di ettari, e oggi ha quasi raggiunto il triplo della seconda annata più drammatica (il 1974 con 3.5 milioni di ettari percorsi). Non siamo che all'inizio dell'estate (le stagioni infatti in Australia sono spostate di sei mesi rispetto alle nostre, quindi ora è come se fosse l'inizio di luglio), perciò queste cifre saliranno ancora, potenzialmente fino a 15 milioni di ettari percorsi dal fuoco. L'Australia è grande 769 milioni di ettari, quindi non possiamo dire che stia "bruciando un continente". Per contro, l'area coperta da "foreste" (vedi sotto) è 134 milioni di ettari, quindi ne potrebbe bruciare oltre il 10%. Per confronto, nel 2017 le fiamme percorsero circa il 2% delle foreste italiane (0.2 milioni di ettari su 11), peraltro senza distruggerle permanentemente come spesso di crede.
2) Quale vegetazione sta bruciando?
Si tratta soprattutto di foreste di eucalipto e del "bush", una savana arida con alberi sparsi, fatta soprattutto di erbe e arbusti e simile alla macchia mediterranea. Si tratta di una vegetazione che è nata per bruciare: il clima dell'Australia centrale è stato molto arido negli ultimi 100 milioni di anni (da quando l'Australia ha compiuto il suo viaggio dall'Antartide alla posizione che occupa attualmente), e gli incendi causati dai fulmini sono stati così frequenti da costringere le piante a evolversi per superarli nel migliore dei modi: lasciarsi bruciare! Il fuoco infatti, se da un lato distrugge la vegetazione esistente, dall'altro apre nuovi spazi perché le piante si possano riprodurre e rinnovare. Molte specie del bush contengono oli e resine molto infiammabili, in modo da bruciare per bene e con fiamme molto intense quando arriva il fuoco. Poiché i semi di queste specie sono quasi completamente impermeabili al fuoco, questo stratagemma è l'unico modo per "battere" la vegetazione concorrente e riprodursi con successo sfruttando le condizioni ambientali avverse a proprio vantaggio. Tuttavia, questa volta le condizioni di siccità sono così estreme che sono in fiamme anche ecosistemi forestali tradizionalmente più umidi e raramente interessati dal fuoco.
3) Cosa ha causato le accensioni?
In AUstralia, metà delle accensioni sono causate da fulmini, e metà dall'uomo per cause sia colpose che dolose (in Italia invece il 95% è di cause antropiche, prevalentemente colpose). Gli incendi più grandi tendono tuttavia a essere causati dai fulmini, perché interessano le aree più remote e disabitate, dove è meno probabile che arrivino le attività umane (con la possibile eccezione degli incidenti alle linee elettriche, che sono state responsabili anche dei devastanti incendi in California del 2017 e 2019). Secondo Ross Bradstock, dell'Università di Wollongong, un singolo incendio causato da fulmine (il Gospers Mountain Fire) ha già percorso da ottobre a oggi oltre 500 000 ettari di bush, e potrebbe essere il più grande incendio mai registrato nel mondo in tempi storici.
4) Cosa sta causando il propagarsi delle fiamme?
Il 2019 è stato in Australia l'anno più caldo e più secco mai registrato dal 1900 a oggi. Nell'ultimo anno le temperature medie sono state 1.5 gradi più alte rispetto alla media 1961-1990, le massime oltre 2 °C in più, ed è mancato oltre un terzo della pioggia che solitamente cade sul continente. Un'ondata d calore terrestre e marina ha fatto registrare nel Paese temperature record a dicembre (42 °C di media nazionale, con punte di 49), mentre la siccità si protrae ormai da ben due anni. Quando l'aria è calda e secca, la vegetazione evapora rapidamente acqua e si dissecca. Più la siccità è prolungata, più grandi sono le dimensioni delle parti vegetali che si seccano. Quando anche le parti più grandi (fusti e rami) perdono acqua, cosa che avviene molto raramente, gli incendi possono durare più a lungo proprio come in un caminetto, i "pezzi" piccoli sono quelli che fanno accendere il fuoco, e quelli grandi sono quelli che bruciano per più tempo. I combustibili forestali vengono infatti classificati come "combustibili da un'ora", "da dieci ore", "da cento" o "da mille ore" a seconda della loro dimensione e di quanto a lungo possono sostenere una combustione. Quello che diffonde le fiamme, invece, è il vento, che spinge l'aria calda generata dalla fiamma sulle piante vicine. Normalmente, gli incendi più vasti si verificano infatti in giornate molto ventose. Incendi molto grandi e intensi sono addirittura in grado di crearsi il vento da soli: l'aria calda sale così rapidamente da lasciare un "vuoto": per riempirlo, accorre violentemente altra aria dalle zone circostanti. Il risultato è una firestorm, il "vento di fuoco", con il quale l'incendio si auto-sostiene fino all'esaurimento del combustibile disponibile.
5) Come mai gli incendi non si riescono a spegnere?
Per estinguere un incendio è necessario eliminare il combustibile. L'acqua e il ritardante lanciati dai mezzi aerei possono solo rallentare la combustione (raffreddando il combustibile o ritardando chimicamente la reazione di combustione), ma per eliminare il combustibile servono le squadre di terra. Incendi di chioma intensi come quelli che si stanno sviluppando in Australia possono generare fiamme alte decine metri, procedere a velocità superiori a dieci chilometri orari (la velocità di corsa di un uomo medio) e produrre un'energia di centomila watt per metro lineare di fronte. Le squadre di terra non possono operare in sicurezza già con intensità di 4000 kW per metro (25 volte inferiore a quella degli incendi più intensi).
6) Quali sono gli effetti degli incendi?
Il bush Australiano è un ambiente che desidera bruciare con tutte le sue forze, e bruciando migliora il suo stato di salute e la sua biodiversità - con i suoi tempi, rigenerandosi nel corso di anni o decenni. Anche gli animali conoscono il pericolo e sanno rispondere: la stima di mezzo miliardo di animali coinvolti (o addirittura un miliardo) rilanciata dai media è una stima grossolana e un po' allarmista, che considera ad esempio anche gli uccelli - che ovviamente possono volare e allontanarsi dall'area (https://www.bbc.com/news/50986293). Chiaramente, gli animali più piccoli possono effettivamente non riuscire a fuggire, e questi habitat saranno radicalmente modificati per molti anni a venire - molti animali on troveranno più condizioni idonee, molti altri invece ne troveranno addirittura di migliori. E' un fenomeno noto in Australia quello per cui alcuni falchi sono in grado di trasportare rametti ardenti per propagare attivamente gli incendi su nuove aree, liberando così la visuale su nuovi territori di caccia (https://bioone.org/journals/journal-of-ethnobiology/volume-37/issue-4/0278-0771-37.4.700/Intentional-Fire-Spreading-by-Firehawk-Raptors-in-Northern-Australia/10.2993/0278-0771-37.4.700.short). Gli incendi invece possono creare forti minacce alle specie rare di piante (come il Pino di Wollemi: https://www.abc.net.au/radio/programs/pm/fears-for-worlds-only-wild-wollemi-pines-in-bushfires/11823740) e sono soprattutto molto problematici per l'uomo: già 25 vittime per un totale di 800 morti dal 1967 a oggi, il fumo che rende l'aria pericolosa da respirare, proprietà e attività distrutte per miliardi di dollari di danni. In più, gli incendi rischiano di rendere a loro volta ancora più grave la crisi climatica sia a livello globale, contribuendo all'aumento della CO2 atmosferica, che locale, depositando i loro residui sui ghiacciai neozelandesi che, resi così più scuri, rischiano di fondersi con maggiore rapidità.
7) Cosa c'entra il cambiamento climatico?
La straordinaria siccità australiana è stata generata da una rara combinazione di fattori. Normalmente il primo anello della catena è El Nino, un riscaldamento periodico del Pacifico meridionale che causa grandi cambiamenti nella meteorologia della Terra, ma quest'anno El Nino non è attivo. Si è invece verificato con una intensità senza precedenti un altro fenomeno climatico, il Dipolo dell'Oceano Indiano (IOD) - una configurazione che porta aria umida sulle coste Africane e aria secca su quelle Australiane. E' dimostrato che il riscaldamento globale può triplicare la frequenza di eventi estremi nell'IOD (https://www.nature.com/articles/nature13327.epdf). A questo si è sovrapposto, a settembre 2019, un evento di riscaldamento improvviso della stratosfera (oltre 40 gradi di aumento) nella zona Antartica, anch'esso straordinario, per cause "naturali", che ha portato ulteriore aria calda e secca sull'Australia. Il terzo fenomeno è stato uno spostamento verso nord dei venti occidentali (o anti-alisei), i venti che soffiano costantemente da ovest a est tra 30 e 60 gradi di latitudine sui mari dei due emisferi terrestri. Lo spostamento verso nord degli anti-alisei (Southern Annular Mode) porta aria secca e calda sull'Australia, e sembra venga favorito sia dal climate change che, pensate un po', dal buco dell'ozono (https://www.nature.com/articles/ngeo1296). Il cambiamento climatico quindi c'entra eccome, sia nella sua azione diretta (l'aria Australiana si è riscaldata mediamente di almeno un grado nell'ultimo secolo) sia indirettamente attraverso le sue influenze sulle grandi strutture meteorologiche dell'emisfero sud.
8) Cosa c'entra la politica australiana?
Molte critiche si sono concentrate sul governo Australiano, responsabile di non impegnarsi abbastanza per raggiungere i già modesti impegni (riduzione delle emissioni del 28% dal 2005 al 2030) che il Paese aveva contratto volontariamente agli accordi a Parigi. Il problema principale è che l'economia dell'Australia è fortemente basata sull'estrazione e l'esportazione di carbone (soprattutto verso Giappone - 40% dell'export -, Cina e India), un combustibile fossile la cui estrazione non è compatibile con il raggiungimento degli obiettivi di Parigi per contenere il riscaldamento della Terra al di sotto di 1.5 °C rispetto all'epoca preindustriale. L'industria del carbone impiega quasi 40 000 lavoratori australiani ed è fortemente sussidiata dal governo. L'attuale governo conservatore, come in altre parti del mondo, è tendenzialmente restio a decarbonizzare l'economia nazionale. Tuttavia non occorre confondersi:ogni nazione è connessa a ogni altra. Gli incendi in Australia non sono solo responsabilità del PM Morrison o di chi l'ha eletto, ma di tutte le attività che nel mondo continuano a contribuire all'aumento della CO2 atmosferica - produzione e consumo di energia (30%), trasporti (25%), agricoltura e allevamento (20%), riscaldamento e raffrescamento domestico (15%) e deforestazione (10%) - tutte cose di cui sei responsabile anche tu che leggi, e anche io che scrivo (sì, anche la deforestazione tropicale).
9) Si poteva prevedere o evitare?
Tutti gli ultimi report dell'IPCC concordano nel segnalare un aumento del pericolo incendi in Australia a causa del cambiamento climatico, con grado di probabilità "virtualmente certo". Anche l'arrivo di configurazioni meteorologiche di grande pericolosità è monitorato e conosciuto con un buon anticipo. Gli allarmi sono stati diramati e le evacuazioni correttamente effettuate, a quanto mi è dato di sapere. Ma la sfida dei servizi di lotta agli incendi, valida anche in Italia, è come mantenere operativo un sistema che ha bisogno di attivarsi su vastissima scala solo una volta ogni decennio. L'altro strumento per evitare gli incendi è la prevenzione, che viene svolta su grandi estensioni con la tecnica del "fuoco prescritto", che elimina il combustibile utilizzando una fiamma bassa e scientificamente progettata (un tipo di intervento approvato anche da molti ecologisti australiani, e praticato da quarantamila anni dalle popolazioni aborigene). Nel 2018-2019 sono stati soggetti a questo trattamento 140 000 ettari di territorio, la cui applicazione è però severamente limitata dalla mancanza di fondi e, sempre lui, dal cambiamento climatico, che riduce il numero di giorni con condizioni meteorologiche idonee ad effettuarlo. C'è da dire che l'intensità della siccità e degli incendi in corso avrebbe messo probabilmente in difficoltà anche i servizi e le comunità più preparate.
10) Cosa possiamo fare?
Ridurre le nostre emissioni con comportamenti collettivi e ad alto impatto. Sforzarci di vedere l'impronta del climate change e delle nostre produzioni e (soprattutto) dei nostri consumi in quello che sta succedendo, senza farci distrarre dai poveri koala che bruciano e senza pacificare la coscienza con un semplice versamento in denaro che non risolve il problema alla radice. Per chi vive a contatto con un bosco, informarsi sul pericolo di incendio e sulle pratiche di autoprotezione necessarie a minimizzare il rischio alla vostra proprietà: gli incendi colpiranno di nuovo anche in Italia, con sempre più intensità, e possibilmente in luoghi in cui non ve li aspettereste. Sapersi proteggere è estremamente importante.
Fonti:
Sintesi sul New York Times - https://www.nytimes.com/2020/01/01/world/australia/fires.html
Clima in australia - https://www.abc.net.au/news/2020-01-02/2019-was-australias-hottest-and-driest-year-on-record/11837312
Foreste australiane: https://www.agriculture.gov.au/abares/forestsaustralia/australias-forests
Firestorm: https://scijinks.gov/firestorm/
Indian Ocean Dipole: https://www.abc.net.au/news/2019-05-16/positive-indian-ocean-dipole-bad-news-for-drought-crippled-areas/11120566
Riscaldamento globale e IOD: https://www.nature.com/articles/nature13327.epdf
Sudden Stratospheric Warming: https://www.abc.net.au/news/2019-09-06/rare-weather-event-over-antarctica-drives-hot-outlook/11481498
Southern Annular Mode: https://www.abc.net.au/news/2018-08-14/southern-annular-mode-and-how-it-affects-our-weather/10106134
Climate change e cambiamenti meteorologici in Australia: https://www.cawcr.gov.au/projects/Climatechange/impact/science/climate-variability/
Stima degli animali colpiti dagli incendi: https://www.bbc.com/news/50986293
Politiche climatiche in Australia: https://www.bbc.com/news/world-australia-50869565
Prevenzione incendi in Australia: https://www.theguardian.com/australia-news/2020/jan/05/explainer-how-effective-is-bushfire-hazard-reduction-on-australias-fires
Giorgio Vacchiano - fb
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Non (...) può esistere la democrazia diretta in senso assoluto, il ridicolo concetto per cui “uno vale uno” non può realizzarsi per il banale motivo che anche solo provando ad arrivare vicini al risultato il sistema collassa (...). Il sistema democratico a suffragio universale e persino la (vera) democrazia diretta, (quella) svizzera, non realizzano e neppure hanno lo scopo di realizzare l’ideale di governo (...) dei “social media”. La democrazia a suffragio universale, rispetto ad altre forme di selezione della classe dirigente, ha l’unico pregio di essere maggiormente resiliente all’autoritarismo (...) anche se non è affatto detto che (...) non collassi nello statalismo ( che è la versione dell’autoritarismo nei regimi democratici). Quindi per prima cosa, sfatiamo un mito: la democrazia a suffragio universale è (solo) un sistema di scelta della élite. Per seconda cosa facciamoci una domanda: perchè è necessaria una élite che abbia il potere sulla maggioranza che l’ha eletta (...)? Perché la maggioranza della gente, dalla notte dei tempi e a ogni latitudine, è una merda e produce orrore, sofferenza e distruzione se messa in grado di avere voce in capitolo. Esiste un esempio classico e ampiamente studiato a supporto di questa tesi: l’assemblea di condominio . (...) la Democrazia a suffragio universale è stata un valore in se per qualche secolo, e continua ad esserlo, tuttavia di fronte ad alcuni social media, disegnati per attirare e orientare il consenso -e tanto per essere chiari parlo di Facebook in particolare- alcune democrazie più deboli in termini sociali sono messe a rischio proprio sull’unico punto che le rende desiderabili: la resistenza all’autoritarismo. (...).
http://funnyking.io/archives/2931
Quindi ricapitolando: da un lato gli uno!uno!uno! messi tutti assieme e dotati di potere fanno merda: è come dare il potere al bar sport o al tifo organizzato; dall’altro lato la (tradizionale) democrazia liberale a suffragio universale non è un fine ma un (utile e potente) mezzo di selezione e soprattutto di ricambio delle élite. In quanto meccanismo e non ideale non è certo perfetto (il suo cancro si chiama STATALISMO CENTRALISTA, infatti gli Stati dove si vive meglio e si prospera sono quelli con più anticorpi rispetto al socialismo), ma è pur sempre il migliore a disposizione sinora.
Con buona pace sia di quelli che 1!1!1! che dei peggio, quelli che il voto andrebbe riservato agli “intelligenti” - che per definizione sarebbero quelli che la pensano come loro. AYE (approvo).
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Una vacanza inutile
Esistono e purtroppo non è la mia prima. Non posso dire di non aver imparato niente da nessuna, ma purtroppo quando non ti lasciano niente di positivo, puoi tranquillamente archiviarle come “inutili”.
Eravamo partiti con i migliori presupposti. Un gruppo di nove persone per Madeira con Viaggi e Avventure nel mondo. La mia esperienza dell’anno scorso non era stata priva di bassi, ma c’erano stati molti alti e delle connessioni (seppur temporanee) anche abbastanza intime con alcune persone (solo a livello mentale, non state già a pensar male). In ogni caso, quasi tutti ne siamo venuti via con una forte nostalgia e dell’affetto gli uni per gli altri (non unanime ovviamente, sono viaggi mica miracoli). Pure nel primo viaggio in realtà era stato così.
Nonostante la prima “avventura” del riuscire ad arrivarci a Madeira (grazie TAP, ma la prossima volta un aereo di riserva tienilo in qualche hangar, eh), non eravamo troppo scoraggiati. Abbiamo perso la prima giornata di trekking, che sarà mai no? Andremo in giro per Funchal e in un lido lì vicino.
A-ah.
Purtroppo non avevamo messo in conto una cosa. Vedete, il successo di un viaggio con Viaggi e Avventure ha bisogno banalmente su due cose: un coordinatore capace e la disponibilità del gruppo in generale ad adattarsi. La seconda forse c’era, la prima...
Era solo il primo giorno e avevamo già camminato per un’ora sotto il sole implacabile dell’atlantico latitudine Marocco, quando la coordinatrice decide di fermarsi al lido e basta. Niente votazioni, niente “cosa ne pensate”, io entro e vado. Ciao. O meglio, “io e il mio moroso entriamo e andiamo, voi fate quel che volete”. Io ero anche abbastanza disponibile ad entrare ma vedete, su nove persone due erano coppie, il che lasciava cinque di noi a fare da “terzi incomodi” (perché la seconda coppia aveva detto “anche no” e se ne era andata per i fatti suoi). Ero insomma legata agli altri quattro, che data un’occhiata al ‘lido’ (i madeiregni tra una ventina d’anni si accorgeranno di aver spalmato cemento come se fosse semente e qualcuno comincerà a chiamarli “orrori architettonici” ma niente più potranno farci) e chieste un paio di informazioni all'ingresso, hanno deciso che ‘forse’ sdraiarsi sul cemento non era esattamente l’idea di ‘lido’ e magari no grazie. Non dopo che con qualche minuto di ricerca su google si era scoperto che a meno di 10 minuti di bus pubblico da lì c’era una spiaggia sabbiosa vulcanica (eh). Una roba che potevamo raggiungere in venti minuti dalla piazza principale invece che in un’ora di camminata fino al cemento (si, eravamo partiti con l’idea di andare al lido...).
Qualcuno dirà “che sarà mai? vi siete poi solo separati”. Sì, ma cari, una separazione il primo giorno a opera principale della coordinatrice che sparisce prima che il gruppo possa aver deliberato una decisione, è una cosa che non sta né in cielo né in terra in un gruppo di Viaggi e avventure. Possono avvenire a metà vacanza, alla fine, ma non all’inizio. A malapena avevamo memorizzato i nostri nomi e lei scompare, a fare quello che sarà poi il primo leitmotif del viaggio suo: pomiciare con il moroso (e stiamo parlando di una donna di 40 anni, non 20).
“E quindi? Avete legato voi single, vi sarete fatti gruppo voi, no?”. Anche lì, errore. Vedete, il primo giorno di scuola media il bidello entrò in classe in un momento di assenza del professore e ci diede forse una delle mie lezioni di vita più importanti: “La prima settimana è fondamentale per la prima impressione, comportatevi bene la prima settimana e sarete sempre l’alunno ben educato, comportatevi male e non sarete altro che il combina guai per il resto dei tre anni”. Aveva ragione e sapete una cosa? E’ estendibile al resto della vita, ma non solo per le impressioni, anche per i legami. Vedete, con un viaggio del genere hai solo 10 giorni da spendere insieme, quindi i primissimi sono fondamentali. Per tutta la vacanza la nostra coordinatrice non è stata altro che quella che doveva fare il “check limone” in un posto, così come noi non siamo stati altro che il gruppo di “brutte persone malpensanti” (autodefiniteci). E dopo il terzo giorno è stato anche peggio.
Fino al terzo giorno abbiamo allegramente preso in giro tra noi sette (l’altra coppia alla fine si è unita al gruppo) l’atteggiamento da fidanzatini in viaggio di nozze della coordinatrice e del suo moroso (che avremo sentito parlare tipo due volte, a fine vacanza saranno poi cinque), ma è il terzo giorno che l’abbiamo bollata come incapace egoista, quando a momenti non mi faceva ammazzare su Pico de Ruivo.
Vi dico due cose su Pico de Ruivo: è alto, molto alto, pieno di scalini manco fosse una costruzione Maya con la montagna da una parte e il vuoto dall'altra (quando il vuoto non l’hai in entrambi i lati o di fronte o dietro) e la parte da cui siamo partiti è classificata EE, per escursionisti esperti. Vi dico anche un’altra cosa: nessuno di noi tranne la coordinatrice sapeva di tutto ciò prima di affrontarlo.
Ora, io sono cresciuta in montagna e ho le idee piuttosto chiare su come classificare un percorso montano. Se nella scheda del viaggio c’è scritto “trekking facili” so cosa aspettarmi. Quello non era un trekking facile, manco per u’ cazzo, per dirla alla francese. Era il mio primo giorno di ciclo, e lei lo sapeva. Glie l’avevo detto il giorno prima, chiedendole quanto fosse impegnativo perché avrei dovuto prepararmi anche chimicamente. Lei disse ma sì che ce la fai. Nessuno di noi ha visto niente di quella escursione, perché eravamo troppo impegnati a tenerci alle balaustre su scarpate a scalini troppo ripide per osservare altro che i nostri piedi e, io, a non svenire dalla fatica. Credo si sia resa conto della sua cazzata solo quando, a un paio di centinaia di metri (in salita ancora) dal rifugio, si sono fermati tutti ad aspettarmi e a quanto pare avevo la faccia della morte. Dopo ha anche cercato di convincermi che il motivo per cui mi ero sentita così male poteva derivare da tante cose, sai il sole, l’altitudine, l’aria e io non so quale dio mi ha tenuta, ma sono riuscita a non mandarla a fanculo e a buttarla giù dalla scarpata successiva (ma la faccia c’era). Ha anche contestato la classificazione del percorso. Peccato che lei faccia sci d’alpinismo e ogni domenica si arrampichi sui monti. Grazie al cazzo che per lei è stato facile (sempre per dirla alla francese).
Da quel momento in poi come gruppo abbiamo fatto solo due cose: parlare male di lei e lamentarci dei luoghi. Niente andava bene, ma era una cosa che stavo notando anche già prima di Pico de Ruivo. Niente era abbastanza spettacolare, bello, pulito, gustoso, comodo, facile. Le spiagge non erano belle o non si potevano considerare spiagge (andate alla spiaggia pubblica del Lido di Venezia e poi ne riparliamo del vostro concetto di spiaggia). Troppo aglio nel cibo (ed ero anche d’accordo, ma invece di prenderla a ridere era ormai una cosa su cui mettere la croce sopra i madeiregni). Troppo vento. Troppo freddo. Troppo cemento. Troppa strada. Troppo.
E io che ho fatto? Dopo il mio sclero con Migliore Amica riguardo alla negatività di cui ero circondata e piangendo per tipo 4 giorni sui miei poveri polpacci e quadricipiti sfiancati dal Pico, mi sono adattata. Perché eravamo solo in nove, due erano in viaggio di nozze e gli altri sei erano già sintonizzati. Che potevo fare? Sono diventata una brutta persona pure io. Non che non lo sia già di base, ma di solito cose come “minima decenza umana”, “educazione” e “magari teniamo bassa la cresta che mica sono chissà quale esempio di perfezione manco io” mi tengono a bada (a pensar male è così facile che vedete, vi piglio in fallo tutti, non mettetevi a giudicare).
La cosa più tragica di tutto ciò però, è che nel momento dei saluti non c’è stata commozione. Erano estranei che si erano uniti sulla base di un sentimento di odio e disprezzo comune e come si erano trovati si erano lasciati. Ci ho sofferto, ci sto soffrendo ancora e non mi piace. Anche perché la mia parte nel tentativo di aprirmi ho cercato di farla, ma credo sia andata totalmente a vuoto, come un sasso lanciato da una scogliera di cui non puoi raggiungere il bordo, che non sai nemmeno se ha incontrato l’acqua o altra roccia. E pensavo anche che qualcosa da almeno un paio di persone in cambio di fosse, e invece no.
E abbiamo probabilmente fatto del male a una nostra compagna di gruppo, che è il motivo principale per cui se nessuno lo proporrà, non sarò di certo io a istillare l’idea di una reunion. Ora c’è solo questa sensazione di spreco e smarrimento e di essere stata truffata. Se del mio tempo, denaro o energie o tutto non lo so, ma stavo meglio prima e questo non va bene.
Per favore, se volete fare i coordinatori, fatelo per bene. I viaggi per sposini fateli da soli.
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Questi racconti-reportage di Kapuscinski hanno tutti per oggetto campagne, cittadine, piccoli villaggi della Polonia degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta. Descrivono una realtà che appare esotica tanto quanto quella dei paesi del terzo mondo di altri suoi libri, se non di più: la realtà ora scomparsa della stabilizzazione comunista dopo lo sfacelo della guerra. Protagonista ne è gente per lo più umile: due vecchie tedesche fuggite da una casa per anziani che tornano in quelle che erano le loro terre; uno zatteraio che trasporta legname su un lago; lavoratori che vivono alla giornata e cambiano mestiere di continuo. Ma ci sono anche professionisti, ingegneri, professori, un campione del mondo del lancio del disco, dei soldati di leva. Kapuscinski esamina frammenti di esistenza, dettagli di vita quotidiana, rintracciando quei fattori che ci accomunano in quanto uomini, a ogni latitudine: il desiderio di una vita migliore, la ricerca dell'amore, la speranza di cambiare il mondo, di lasciare una traccia di sé, nonché la costante presenza del male. Il brano che dà il nome alla raccolta si svolge in Ghana: qui il reporter tenta di spiegare sé e la Polonia ad alcuni indigeni. Non sarà soddisfatto del risultato, ma il suo compito di reporter è proprio quello di descrivere le cose e spiegare i fatti, in un linguaggio comprensibile a tutti, a individui cresciuti in tempi e culture differenti. . . . . . #ryszardkapuściński #kapuscinski #giunglapolacca #libro #libri #libros #book #books #bookstagramitalia #bookstagram #buch #livre #libreria #consiglidilettura #librodaleggere #libroconsigliato #librodelgiorno #storia #reportage #nonfiction #scrittore #autore #reporter #giornalista #polonia (presso Warsaw, Poland) https://www.instagram.com/p/CSgfepNg-2a/?utm_medium=tumblr
#ryszardkapuściński#kapuscinski#giunglapolacca#libro#libri#libros#book#books#bookstagramitalia#bookstagram#buch#livre#libreria#consiglidilettura#librodaleggere#libroconsigliato#librodelgiorno#storia#reportage#nonfiction#scrittore#autore#reporter#giornalista#polonia
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I&f Comunica
"Marchio Italia"
di Riccardo Rescio
Il Brand di una nazione, il suo marchio di riconoscibilità, d’identificabilità può essere facilmente paragonato a quello di una qualsiasi altra marca di prodotto o di servizio comunemente commercializzato.
I fattori che determinano la forza del Brand sono certamente molteplici, ma quelli che contribuiscono in modo sostanziale all’affermazione di un Brand di un Paese, sono senza dubbio riscontrabili nel sistema dei valori che quella stessa nazione riesce a esprimere, nella qualità della vita, nelle possibilità di far business, nel Patrimonio Territoriale, Culturale, Artistico. Determinante sarà soprattutto la capacità degli stessi Stati di creare, realizzare e utilizzare strategie adeguate alla promozione delle proprie specifiche peculiarità.
Il Brand di una nazione sarà la risultante di un sapiente mix tra i punti di forza posseduti, che trovano la loro sintesi comunicativa nel proprio Marchio, che contribuisce concretamente a dare forte identità allo stato di cui è simbolo. Identità, appartenenza, riconoscibilità.
Se le prerogative, le peculiarità, le caratteristiche di uno Stato fossero, in un regime autarchico ad esclusivo uso degli stessi abitanti, molto probabilmente non sarebbe così tanto necessario creare un marchio d’identità nazionale. In tutti gli altri casi, nella stragrande maggioranza delle nazioni, la realizzazione o il rafforzamento di un “Country Brand”, è assolutamente indispensabile. Le specifiche peculiarità, le varietà attrattive del singolo Paese, la massima diffusione delle informazioni, la semplice accessibilità e il facile uso delle stesse, costituiranno il presupposto indispensabile per la diffusione, la conoscenza, l’apprezzamento, di un Brand nazionale.
Valutare la forza di un Marchio è questione complessa, capire come, quanto e cosa sia percepito all’estero, della nostra variegata diversità territoriale, storico/culturale, agroalimenta e Vitivinicola, implicherebbe indubbiamente uno studio analitico molto approfondito. Si può comunque invece sottolineare quanto poco sia stato fatto per far conoscere, accreditare e promuovere, l’Italia nella sua complessa vastità. Si può riscontrare quanto poco si sia fatto per promuovere tutte le innumerevoli straordinarietà, che caratterizzano e individuano le “Terre Uniche”, delle nostre 20 incantevoli Regioni, con le tante località, belle, affascinanti e altrettanto poco conosciute. Quell’immenso patrimonio, che rende tutta la “Penisola delle Meraviglie” un Luogo straordinario, particolare, di origini lontane e antiche consuetudini, tramandate, conservate, ma non del tutto valorizzare. L’Italia è il più grande giacimento di Bellezza e il maggiore concentrato di Storia, Arte, Territori, pertanto il Brand Nazionale dovrà esprimere tutto quello che ci identifica e che nessun altro Paese al mondo può vantare di avere.
L’Italia, unica e indivisibile, la grande nazione in cui tutti noi ci riconosciamo, senza riserva alcuna, è nella sua forma istituzionale una Repubblica, ma si voglia o no, nella sostanza, soprattutto sotto il profilo degli originali retaggi, per Tradizioni, per Cultura, Arte e Territorio, è una vera e propria confederazione di piccolissimi stati, identificabili nelle nostre 20 straordinarie Regioni, con Territori ben definiti ricchi di specifiche valenze.
Da 150 anni uniti sotto un’unica bandiera, questi Territori definiti e identificabili da tempo immemorabile, custodiscono immensi patrimoni e inestimabili tesori, molto spesso poco conosciuti, sia in Italia che all’estero.
La considerazione e la preferenza fino ad ora accordata all’Italia sono una piccola cosa in confronto a ciò che si potrebbe realmente ottenere se si riuscisse a far conoscere al mondo quanto il nostro Paese veramente vale e quanto realmente merita.
La condivisione di tutto questo deve avvenire attraverso una maggiore e migliore divulgazione dell’Italian Brand, attraverso una comunicazione Promozione Istituzionale completa, diffusa, mirata e soprattutto più facilmente accessibile al grande pubblico, utilizzando nuove strade, nuove tecnologie, innovative attività di Marketing Territoriale, mirate e dirette, per rendere il “Marchio Italia” il mezzo attraverso il quale il nostro Paese possa essere maggiormente conosciuto, apprezzato, amato e valorizzato nel mondo. La presunzione che l’Italia sia talmente conosciuta da non avere alcun bisogno di ulteriori promozioni comunicazionali, contrasta fortemente con la reltà, poichè non esiste cosa alcuna che sia talmente conoscita da rimanere per sempre nella memoria collettiva, a maggiore conferma di questo, i due più famosi Brand al mondo, come quello della Ferrari e della Coca Cola, sono di parere diverso, visto che il primo continua a far correre le proprie monoposto sui circuti internazionali e il secondo continua la comunicazione della propria bevanda su tutti i Media di ogni latitudine del mondo, al solo scopo di promuovere i rispettivi prodotti.
“Chi non comunica scompare”
citazione da StrateCo http://www.chinoncomunicascompare.it
Riccardo Rescio Presidente Assaggia l’Italia ApS Associazione di Promozione Sociale #comunichiamoalmondolitalia #tuttoilbelloeilbuonochece #sistemaitalia #nessundorma
Pubblicato da italia&friends su WordPress aprile maggio 6, 2020
Sistema Italia, Turismo&Territorio
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La Colombia è uno paese davvero sorprendente, uno di quelli in cui il tempo non basta mai e dove ogni giorno scopri di voler fare qualcosa di nuovo. Io vi ho viaggiato per circa 5 settimane, e decisi di volerlo visitare durante una notte di luna piena in Amazzonia, presa dai racconti sensazionali di un altro backpacker. Ancora oggi si associa spesso questo paese alla violenza, alla guerrilla e al narcotraffico, anche se la minaccia è finita da anni per fortuna. Parafrasando una pubblicità nazionale di qualche anno fa l’unica paura che devi avere è che non vorrai più andartene. Per viaggiare sicuri in Colombia bisogna semplicemente fare attenzione a non camminare da soli di notte, specialmente nelle grandi città, non accettare droga durante le feste e non attraversare il confine con l’Ecuador con un trasporto notturno. Se tenete a mente questi 3 punti andrà tutto benissimo. I colombiani sono davvero molto ospitali e disponibili, come tutti i popoli latini del resto, ma in alcune città come Bogotà e Medellin li ho trovati anche molto simili a noi culturalmente il che ti permette di avere un’esperienza più ravvicinata durante il viaggio. Molte persone associano il viaggio in Colombia solamente alla costa e alla parte caraibica, a mio parere sarebbe un grave errore limitarsi solamente a quello, anche perché a mio parere le vere unicità si trovano nell’interno. Per quanto riguarda la questione clima, considerate che la nostre estate è la stagione delle piogge, questo non significa che non si possa viaggiare, ma è davvero sconveniente fare trekking perché spesso i sentieri sono molto fangosi e le vostre giornate ai Caraibi potrebbero interrompersi in maniera repentina. La stagione migliore per visitare la Colombia è senza dubbio l’inverno, se siete molto festaioli allora è sicuramente consigliato andarvi a febbraio durante il periodo del carnevale, un’esperienza che non dimenticherete facilmente. Ricordate che la Colombia è un paese andino, moltissima parte del territorio si trova sopra i 3000 mt di altitudine quindi portatevi vestiti caldi e copritevi a strati. Itinerario di viaggio in Colombia: Bogotà: la sua fredda capitale merita certamente una visita. Iniziate dalla Candelaria il suo bellissimo centro storico, decine di vicoletti coperti da murales coloratissimi, che si aprono su piazze enormi e spaziose come la Plaza Bolivar e la sua cattedrale barocca. Dopo aver cercato i segni dell’epoca coloniale nel centro, vi consiglio di dedicare una mattinata alla salita del Cerro Monserrate, la collina che sovrasta la capitale. Partite presto, è dura ma si può raggiungere a piedi, è interessante e meditativo, l’alternativa è farlo in funicolare o funivia, che consiglio di usarle per scendere a valle. Non potete lasciare la città senza visitare il Museo Botero (anche se è più bello quello di Medellìn) e il Museo dell’oro, uno dei più belli che io abbia mai visto, dove sono conservati i tesori delle civiltà precolombiane. La notte di Bogotà è molto attiva sia nella Candelaria sia nella Zona G, io mi sono sempre divertita tantissimo, ma ricordatevi di tornare sempre in taxi o in Uber anche se non alloggiate molto distante. Se il vostro itinerario di viaggio si orienta verso nord vi consiglio di prevedere una sosta di una o due notti a Villa de Leyva un bellissimo paesino coloniale completamente bianco, si trova in una zona perfetta per chi ama camminare su sentieri poco complicati, pensate di fare anche un salto a Barichara e magari mangiare un chivo asado (il capretto) e comprare un paio di sandali di cotone tipici. Per gli amanti dello sport e dell’avventura una tappa obbligata è San Gill, il paesino più frequentato dagli sportivi, qui a prezzi davvero vantaggiosissimi si può fare parapendio, rafting, caving, kayak, torrentismo. È un paesino molto animato da tantissimi viaggiatori, ma anche molti colombiani in vacanza, io suggerisco di provare almeno uno sport mai fatto prima. Se si vuole raggiungere la costa caraibica consiglio un bus notturno per Santa Marta, ma ricordatevi di coprirvi davvero bene perché di notte la temperatura è davvero bassissima, non so come mai ma in Colombia c’è la tendenza ad impostare l’aria condizionata nei bus notturni intorno ai 10 gradi! Per scoprire al meglio la costa caraibica iniziate da Cartagena, con il suo forte e il suo porto, centro nevralgico del commercio fino a pochi secoli fa ora è il baricentro della salsa, vita notturna, divertimento e ristoranti sperimentali. Un luogo meraviglioso per scattare foto e divertirsi, per un tuffo dove l’acqua è più blu scegliete le isole del Rosario. La zona costiera nasconde 3 tesori davvero unici al mondo: la Ciudad Perdita: il trekking più iconografico della Colombia, si cammina a piedi nella giungla per 5 giorni per raggiungere l’antica città precolombiana che la leggenda narra sia El Dorado. Il trekking è abbastanza impegnativo, il paesaggio stupendo e considerate che se non avete voglia di portare sulle spalle il vostro zaino potete sempre “affittare” un mulo! Il Parque Tayrona: uno dei parchi naturali sul mare più belli del Sudamerica, lo si può esplorare solo a piedi campeggiando tra una spiaggia e l’altra, ci sono alcuni campeggi statali se non avete la vostra tenda, ma il numero degli accessi è limitato. La Penisola della Guajira: la punta più estrema del continente sudamericano, quella specie di indice di terra che si vede nella cartina. È una località davvero isolata, molto difficile da raggiungere, che confina con il Venezuela ed è abitata da un’etnia protetta. Arrivare in maniera indipendente è piuttosto complesso, è pi§ facile con un tour organizzato che comunque sarà molto essenziale. Io ho dormito in amaca sotto le stelle, ma è stata un’esperienza che difficilmente dimenticherò, ci sono infinite dune di sabbia che si tuffano nel mare e spiagge paradisiache. Medellin: in sé la città non è bellissima, se escludiamo il Museo Botero che toglie il fiato, ma c’è molta energia, molta voglia di riscattarsi dopo gli anni bui che ha vissuto all’epoca di Pablo Escobar. Negli ultimi anni moltissime persone ci vanno per ritrovare le tracce della famosa serie televisiva, diciamo che è interessante capire nel dettaglio quanto il delirio di un solo uomo abbia distrutto per sempre la vita di moltissime persone. Invece di limitarvi ai tour tematici, parlate con le persone del popolo, chiedete loro come si viveva negli anni 80, ognuno ha una storia incredibile. Da Medellin si arriva in giornata al paesino di Guatapé che merita sicuramente una visita perché la famosa Roca del Peñol, salendo mille scalini si ha una vista sensazionale su di un lago artificiale costellato di piccole isolette verdi. Due luoghi meravigliosi da non perdere tra Medellin e Bogotà: El Eje Cafetero: ossia la zona del caffè meglio noto come triangolo del caffè perché ruota intorno alle cittadine di Manizales Pereira e Armenia. Sono città molto ricche, con un buon stile di vita, molti giovani e c’è anche l’università. Intorno al caffè ruota una fiorente economia, il modo migliore per immergersi in questa atmosfera profumata è dormire in una azienda produttrice, meglio ancora se storica. Ovviamente si potrà visitare la proprietà, vi spiegheranno come si coltiva e come si produce il caffè. L’atmosfera e i paesaggi sono magici. Il caffè cresce a circa 1500mt di altitudine che a questa latitudine permette un clima mito e temperato, di giorno ci sono circa 25C e la sera rinfresca, secondo me la temperatura migliore del paese. El Valle de Cocora: un parco naturale meraviglioso poco distante dal bellissimo paesino di Salento. È famoso per le sue uniche palme da cera ossia delle palme altissime, che raggiungono i 60mt di altezza che possono resistere ad una altitudine insolita per questa varietà, infatti ci troviamo sopra i 1500mt. Il paesaggio è meraviglioso, centinaia di sfumature di verde. Il Parco si può percorrere a piedi o a dorso di cavallo, i sentieri non sono mai troppo complessi, è adatto anche a chi non è un abile camminatore. Se siete alla ricerca di altri itinerari colombiani poco battuti avete due opzioni o scendere verso sud attraversando la bianca Popayan, Pasto, il sito archeologico di San Augustin fino a terminare con la famosissima chiesa di Ipiales che si trova proprio al confine con l’Ecuador. L’altra opzione è prendere un aereo interno e dirigersi verso le magnifiche isole di San Andrés e Providencia, immerse nel mar dei Caraibi, sicuramente il punto con il mare più bello del paese e anche splendide immersioni. https://ift.tt/2JOvyq5 Viaggiare in Colombia in solitaria La Colombia è uno paese davvero sorprendente, uno di quelli in cui il tempo non basta mai e dove ogni giorno scopri di voler fare qualcosa di nuovo. Io vi ho viaggiato per circa 5 settimane, e decisi di volerlo visitare durante una notte di luna piena in Amazzonia, presa dai racconti sensazionali di un altro backpacker. Ancora oggi si associa spesso questo paese alla violenza, alla guerrilla e al narcotraffico, anche se la minaccia è finita da anni per fortuna. Parafrasando una pubblicità nazionale di qualche anno fa l’unica paura che devi avere è che non vorrai più andartene. Per viaggiare sicuri in Colombia bisogna semplicemente fare attenzione a non camminare da soli di notte, specialmente nelle grandi città, non accettare droga durante le feste e non attraversare il confine con l’Ecuador con un trasporto notturno. Se tenete a mente questi 3 punti andrà tutto benissimo. I colombiani sono davvero molto ospitali e disponibili, come tutti i popoli latini del resto, ma in alcune città come Bogotà e Medellin li ho trovati anche molto simili a noi culturalmente il che ti permette di avere un’esperienza più ravvicinata durante il viaggio. Molte persone associano il viaggio in Colombia solamente alla costa e alla parte caraibica, a mio parere sarebbe un grave errore limitarsi solamente a quello, anche perché a mio parere le vere unicità si trovano nell’interno. Per quanto riguarda la questione clima, considerate che la nostre estate è la stagione delle piogge, questo non significa che non si possa viaggiare, ma è davvero sconveniente fare trekking perché spesso i sentieri sono molto fangosi e le vostre giornate ai Caraibi potrebbero interrompersi in maniera repentina. La stagione migliore per visitare la Colombia è senza dubbio l’inverno, se siete molto festaioli allora è sicuramente consigliato andarvi a febbraio durante il periodo del carnevale, un’esperienza che non dimenticherete facilmente. Ricordate che la Colombia è un paese andino, moltissima parte del territorio si trova sopra i 3000 mt di altitudine quindi portatevi vestiti caldi e copritevi a strati. Itinerario di viaggio in Colombia: Bogotà: la sua fredda capitale merita certamente una visita. Iniziate dalla Candelaria il suo bellissimo centro storico, decine di vicoletti coperti da murales coloratissimi, che si aprono su piazze enormi e spaziose come la Plaza Bolivar e la sua cattedrale barocca. Dopo aver cercato i segni dell’epoca coloniale nel centro, vi consiglio di dedicare una mattinata alla salita del Cerro Monserrate, la collina che sovrasta la capitale. Partite presto, è dura ma si può raggiungere a piedi, è interessante e meditativo, l’alternativa è farlo in funicolare o funivia, che consiglio di usarle per scendere a valle. Non potete lasciare la città senza visitare il Museo Botero (anche se è più bello quello di Medellìn) e il Museo dell’oro, uno dei più belli che io abbia mai visto, dove sono conservati i tesori delle civiltà precolombiane. La notte di Bogotà è molto attiva sia nella Candelaria sia nella Zona G, io mi sono sempre divertita tantissimo, ma ricordatevi di tornare sempre in taxi o in Uber anche se non alloggiate molto distante. Se il vostro itinerario di viaggio si orienta verso nord vi consiglio di prevedere una sosta di una o due notti a Villa de Leyva un bellissimo paesino coloniale completamente bianco, si trova in una zona perfetta per chi ama camminare su sentieri poco complicati, pensate di fare anche un salto a Barichara e magari mangiare un chivo asado (il capretto) e comprare un paio di sandali di cotone tipici. Per gli amanti dello sport e dell’avventura una tappa obbligata è San Gill, il paesino più frequentato dagli sportivi, qui a prezzi davvero vantaggiosissimi si può fare parapendio, rafting, caving, kayak, torrentismo. È un paesino molto animato da tantissimi viaggiatori, ma anche molti colombiani in vacanza, io suggerisco di provare almeno uno sport mai fatto prima. Se si vuole raggiungere la costa caraibica consiglio un bus notturno per Santa Marta, ma ricordatevi di coprirvi davvero bene perché di notte la temperatura è davvero bassissima, non so come mai ma in Colombia c’è la tendenza ad impostare l’aria condizionata nei bus notturni intorno ai 10 gradi! Per scoprire al meglio la costa caraibica iniziate da Cartagena, con il suo forte e il suo porto, centro nevralgico del commercio fino a pochi secoli fa ora è il baricentro della salsa, vita notturna, divertimento e ristoranti sperimentali. Un luogo meraviglioso per scattare foto e divertirsi, per un tuffo dove l’acqua è più blu scegliete le isole del Rosario. La zona costiera nasconde 3 tesori davvero unici al mondo: la Ciudad Perdita: il trekking più iconografico della Colombia, si cammina a piedi nella giungla per 5 giorni per raggiungere l’antica città precolombiana che la leggenda narra sia El Dorado. Il trekking è abbastanza impegnativo, il paesaggio stupendo e considerate che se non avete voglia di portare sulle spalle il vostro zaino potete sempre “affittare” un mulo! Il Parque Tayrona: uno dei parchi naturali sul mare più belli del Sudamerica, lo si può esplorare solo a piedi campeggiando tra una spiaggia e l’altra, ci sono alcuni campeggi statali se non avete la vostra tenda, ma il numero degli accessi è limitato. La Penisola della Guajira: la punta più estrema del continente sudamericano, quella specie di indice di terra che si vede nella cartina. È una località davvero isolata, molto difficile da raggiungere, che confina con il Venezuela ed è abitata da un’etnia protetta. Arrivare in maniera indipendente è piuttosto complesso, è pi§ facile con un tour organizzato che comunque sarà molto essenziale. Io ho dormito in amaca sotto le stelle, ma è stata un’esperienza che difficilmente dimenticherò, ci sono infinite dune di sabbia che si tuffano nel mare e spiagge paradisiache. Medellin: in sé la città non è bellissima, se escludiamo il Museo Botero che toglie il fiato, ma c’è molta energia, molta voglia di riscattarsi dopo gli anni bui che ha vissuto all’epoca di Pablo Escobar. Negli ultimi anni moltissime persone ci vanno per ritrovare le tracce della famosa serie televisiva, diciamo che è interessante capire nel dettaglio quanto il delirio di un solo uomo abbia distrutto per sempre la vita di moltissime persone. Invece di limitarvi ai tour tematici, parlate con le persone del popolo, chiedete loro come si viveva negli anni 80, ognuno ha una storia incredibile. Da Medellin si arriva in giornata al paesino di Guatapé che merita sicuramente una visita perché la famosa Roca del Peñol, salendo mille scalini si ha una vista sensazionale su di un lago artificiale costellato di piccole isolette verdi. Due luoghi meravigliosi da non perdere tra Medellin e Bogotà: El Eje Cafetero: ossia la zona del caffè meglio noto come triangolo del caffè perché ruota intorno alle cittadine di Manizales Pereira e Armenia. Sono città molto ricche, con un buon stile di vita, molti giovani e c’è anche l’università. Intorno al caffè ruota una fiorente economia, il modo migliore per immergersi in questa atmosfera profumata è dormire in una azienda produttrice, meglio ancora se storica. Ovviamente si potrà visitare la proprietà, vi spiegheranno come si coltiva e come si produce il caffè. L’atmosfera e i paesaggi sono magici. Il caffè cresce a circa 1500mt di altitudine che a questa latitudine permette un clima mito e temperato, di giorno ci sono circa 25C e la sera rinfresca, secondo me la temperatura migliore del paese. El Valle de Cocora: un parco naturale meraviglioso poco distante dal bellissimo paesino di Salento. È famoso per le sue uniche palme da cera ossia delle palme altissime, che raggiungono i 60mt di altezza che possono resistere ad una altitudine insolita per questa varietà, infatti ci troviamo sopra i 1500mt. Il paesaggio è meraviglioso, centinaia di sfumature di verde. Il Parco si può percorrere a piedi o a dorso di cavallo, i sentieri non sono mai troppo complessi, è adatto anche a chi non è un abile camminatore. Se siete alla ricerca di altri itinerari colombiani poco battuti avete due opzioni o scendere verso sud attraversando la bianca Popayan, Pasto, il sito archeologico di San Augustin fino a terminare con la famosissima chiesa di Ipiales che si trova proprio al confine con l’Ecuador. L’altra opzione è prendere un aereo interno e dirigersi verso le magnifiche isole di San Andrés e Providencia, immerse nel mar dei Caraibi, sicuramente il punto con il mare più bello del paese e anche splendide immersioni. Un itinerario di viaggio attraverso la Colombia, tra la sua natura, la sua musica e le sue feste. Consigli su come poterci viaggiare da soli e in sicurezza.
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1) Quanto territorio è in fiamme? Gli incendi hanno percorso da ottobre a oggi circa 8 milioni di ettari di territorio tra New South Wales, Victoria, Sud Australia e Queensland – una superficie doppia a quella degli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia combinati, e pari ai quattro quinti di tutte le foreste italiane. In sole quattro annate, negli ultimi 50 anni, la superficie bruciata in New South Wales ha superato un milione di ettari, e oggi ha quasi raggiunto il doppio della seconda annata più drammatica (il 1974 con 3,5 milioni di ettari percorsi).
Un altro aspetto inedito è la simultaneità dei fuochi su territori enormi, che di solito si alternano nell’essere soggetti a incendi. E non siamo che all’inizio dell’estate (le stagioni in Australia sono spostate di sei mesi rispetto alle nostre, quindi ora è come se fosse l’inizio di luglio), perciò queste cifre saliranno ancora, potenzialmente fino a 15 milioni di ettari percorsi dal fuoco. L’Australia è grande 769 milioni di ettari, quindi non possiamo dire che stia “bruciando un continente”. Inoltre, nelle savane del centro-nord bruciano in media 38 milioni di ettari di praterie (il 20 per cento del totale) ogni anno nella stagione secca, che in quella parte di paese è aprile-novembre. Ma si tratta di un ecosistema completamente diverso da quello che ora è in fiamme.
2) Quale vegetazione sta bruciando? Si tratta soprattutto di foreste di eucalipto e del bush, una savana semi arida con alberi bassi, fitti o sparsi, fatta soprattutto di erbe e arbusti e simile alla macchia mediterranea. Si tratta di una vegetazione che è nata per bruciare: il clima dell’Australia centrale è stato molto arido negli ultimi 100 milioni di anni (da quando l’Australia ha compiuto il suo viaggio dall’Antartide alla posizione che occupa attualmente), e gli incendi causati dai fulmini sono stati così frequenti da costringere le piante a evolversi per superarli nel migliore dei modi: lasciarsi bruciare! Il fuoco infatti, se da un lato distrugge la vegetazione esistente, dall’altro apre nuovi spazi perché le piante si possano riprodurre e rinnovare. Molte specie del bush contengono oli e resine molto infiammabili, in modo da bruciare per bene e con fiamme molto intense quando arriva il fuoco. Poiché i semi di queste specie sono quasi completamente impermeabili al fuoco, questo stratagemma è l’unico modo per “battere” la vegetazione concorrente e riprodursi con successo sfruttando le condizioni ambientali avverse a proprio vantaggio. Tuttavia, questa volta le condizioni di siccità sono così estreme che sono in fiamme anche ecosistemi forestali tradizionalmente più umidi e raramente interessati dal fuoco.
3) Cosa ha causato le accensioni? In Australia, metà delle accensioni sono causate da fulmini, e metà dall’uomo per cause sia colpose che dolose (in Italia invece il 95 per cento ha cause antropiche, prevalentemente colpose). Gli incendi più grandi tendono tuttavia a essere causati dai fulmini, perché interessano le aree più remote e disabitate, dove è meno probabile che arrivino le attività umane (con la possibile eccezione degli incidenti alle linee elettriche, che sono state responsabili anche dei devastanti incendi in California del 2017 e 2019). Secondo Ross Bradstock, dell’Università di Wollongong, un singolo incendio causato da fulmine (il Gospers Mountain Fire) ha già percorso da ottobre a oggi oltre 500.000 ettari di bush, e potrebbe essere il più grande incendio mai registrato nel mondo in tempi storici.
Stanno circolando notizie relative all’arresto di presunti incendiari. In parte sono state dimostrate essere notizie false diffuse per negare il problema del clima. Inoltre non si tratta di piromani, in inglese la definizione di arson include sia il dolo che la colpa. Tuttavia è evidente che qui il problema non è cosa accende la fiamma, ma cosa la fa propagare una volta accesa – sono due fasi diverse e ben distinte.
4) Cosa sta causando il propagarsi delle fiamme? Il 2019 è stato in Australia l’anno più caldo e più secco mai registrato dal 1900 a oggi. Nell’ultimo anno le temperature medie sono state 1,5 gradi più alte rispetto alla media 1961-1990, le massime oltre 2°C in più, ed è mancato oltre un terzo della pioggia che solitamente cade sul continente. Un’ondata di calore terrestre e marino ha fatto registrare nel paese temperature record a dicembre (42°C di media nazionale, con punte di 49), mentre la siccità si protrae ormai da ben due anni. Quando l’aria è calda e secca, la vegetazione perde rapidamente acqua per evaporazione e si dissecca. Più la siccità è prolungata, più grandi sono le dimensioni delle parti vegetali che si seccano. Quando anche le parti più grandi (fusti e rami) perdono acqua, cosa che avviene molto raramente, gli incendi possono durare più a lungo proprio come in un caminetto: i “pezzi” piccoli sono quelli che fanno accendere il fuoco, e quelli grandi sono quelli che bruciano per più tempo.
I combustibili forestali vengono infatti classificati come “combustibili da un’ora”, “da dieci ore”, “da cento” o “da mille ore” a seconda della loro dimensione e di quanto a lungo possono sostenere una combustione. Quello che diffonde le fiamme, invece, è il vento, che spinge l’aria calda generata dalla fiamma sulle piante vicine. Normalmente, gli incendi più vasti si verificano infatti in giornate molto ventose. Incendi molto grandi e intensi sono addirittura in grado di crearsi il vento da soli: l’aria calda sale così rapidamente da lasciare un “vuoto”: per riempirlo, accorre violentemente altra aria dalle zone circostanti. Il risultato è una firestorm, il “vento di fuoco”, con il quale l’incendio si auto-sostiene fino all’esaurimento del combustibile disponibile.
5) Come mai gli incendi non si riescono a spegnere? Per estinguere un incendio è necessario eliminare il combustibile. L’acqua e il ritardante lanciati dai mezzi aerei possono solo rallentare la combustione (raffreddando il combustibile o ritardando chimicamente la reazione di combustione), ma per eliminare il combustibile servono le squadre di terra. Incendi di chioma intensi come quelli che si stanno sviluppando in Australia possono generare fiamme alte decine metri, procedere a velocità superiori a dieci chilometri orari (la velocità di corsa di un uomo medio) e sviluppare una potenza di centomila kW per metro di fronte (!!). Le squadre di terra non possono operare in sicurezza già con intensità di 4.000 kW per metro (25 volte inferiore a quella degli incendi più intensi).
6) Quali sono gli effetti degli incendi? Il bush australiano è un ambiente che desidera bruciare con tutte le sue forze, e bruciando migliora il suo stato di salute e la sua biodiversità – con i suoi tempi, rigenerandosi nel corso di anni o decenni. Anche gli animali conoscono il pericolo e molti sanno rispondere: la stima di mezzo miliardo di animali coinvolti (o addirittura un miliardo) rilanciata dai media è una stima grossolana e un po’ allarmista, che considera ad esempio anche gli uccelli – che ovviamente possono volare e allontanarsi dall’area – con l’importante esclusione dei piccoli e delle uova. Gli animali più piccoli e meno mobili (koala, ma anche anfibi, micromammiferi e rettili) possono effettivamente non riuscire a fuggire, e questi habitat saranno radicalmente modificati per molti anni a venire – molti animali non troveranno più condizioni idonee.
Altri, in compenso, ne troveranno addirittura di migliori. È un fenomeno noto in Australia quello per cui alcuni falchi sono in grado di trasportare rametti ardenti per propagare attivamente gli incendi su nuove aree, liberando così la visuale su nuovi territori di caccia.
Gli incendi invece possono creare forti minacce alle specie rare di piante (come il pino di Wollemi) e sono soprattutto molto problematici per l’uomo: già 25 vittime per un totale di 800 morti dal 1967 a oggi, il fumo che rende l’aria pericolosa da respirare, proprietà e attività distrutte per miliardi di dollari di danni. In più, gli incendi creano erosione, aumentano il rischio idrogeologico e rischiano di rendere a loro volta ancora più grave la crisi climatica sia a livello globale, contribuendo all’aumento della CO2 atmosferica (306 milioni di tonnellate emesse finora secondo la NASA, quasi pari alle emissioni di tutto il paese nel 2018), che locale, depositando i loro residui sui ghiacciai neozelandesi che, resi così più scuri, rischiano di fondersi con maggiore rapidità.
7) Cosa c’entra il cambiamento climatico? La straordinaria siccità australiana è stata generata da una rara combinazione di fattori. Normalmente il primo anello della catena è El Niño, un riscaldamento periodico del Pacifico meridionale che causa grandi cambiamenti nella meteorologia della Terra, ma quest’anno El Niño non è attivo. Si è invece verificato con una intensità senza precedenti un altro fenomeno climatico, il Dipolo dell’oceano Indiano (IOD) – una configurazione che porta aria umida sulle coste africane e aria secca su quelle australiane. È dimostrato che il riscaldamento globale può triplicare la frequenza di eventi estremi nell’IOD.
A questo si è sovrapposto, a settembre 2019, un evento di riscaldamento improvviso della stratosfera (oltre 40 gradi di aumento) nella zona antartica, anch’esso straordinario, per cause “naturali”, che ha portato ulteriore aria calda e secca sull’Australia. Il terzo fenomeno è stato uno spostamento verso nord dei venti occidentali (o anti-alisei), i venti che soffiano costantemente da ovest a est tra 30 e 60 gradi di latitudine sui mari dei due emisferi terrestri. Lo spostamento verso nord degli anti-alisei (Southern Annular Mode) porta aria secca e calda sull’Australia, e sembra venga favorito sia dal climate change che, pensate un po’, dal buco dell’ozono. Il cambiamento climatico quindi c’entra eccome, sia nella sua azione diretta (l’aria australiana si è riscaldata mediamente di almeno un grado nell’ultimo secolo) sia indirettamente attraverso le sue influenze sulle grandi strutture meteorologiche dell’emisfero sud.
8) Cosa c’entra la politica australiana? Molte critiche si sono concentrate sul governo australiano, responsabile di non impegnarsi abbastanza per raggiungere i già modesti impegni (riduzione delle emissioni del 28 per cento dal 2005 al 2030) che il paese aveva contratto volontariamente agli accordi a Parigi. Il problema principale è che l’economia dell’Australia è fortemente basata sull’estrazione e l’esportazione di carbone (soprattutto verso Giappone – 40 per cento dell’export –, Cina e India), un combustibile fossile la cui estrazione non è compatibile con il raggiungimento degli obiettivi di Parigi per contenere la temperatura della Terra al di sotto di 1.5 °C rispetto all’epoca preindustriale.
L’industria del carbone impiega quasi 40mila lavoratori australiani ed è fortemente sussidiata dal governo. L’attuale governo conservatore, come in altre parti del mondo, è tendenzialmente restio a decarbonizzare l’economia nazionale. Tuttavia non occorre confondersi: ogni nazione è connessa a ogni altra. Gli incendi in Australia non sono solo responsabilità del primo ministro Morrison o di chi l’ha eletto, ma di tutte le attività che nel mondo continuano a contribuire all’aumento della CO2 atmosferica – produzione e consumo di energia (30 per cento), trasporti (25 per cento), agricoltura e allevamento (20 per cento), riscaldamento e raffrescamento domestico (15 per cento) e deforestazione (10 per cento) – tutte cose di cui sei responsabile anche tu che leggi, e anche io che scrivo (sì, anche la deforestazione tropicale).
9) Si poteva prevedere o evitare? Tutti gli ultimi report dell’IPCC, delle istituzioni di ricerca australiane sull’ambiente, e dello stesso governo, concordano nel segnalare un aumento del pericolo incendi in Australia a causa del cambiamento climatico, con grado di probabilità “virtualmente certo”. Anche l’arrivo di configurazioni meteorologiche di grande pericolosità è monitorato e conosciuto con un buon anticipo. Gli allarmi sono stati diramati e le evacuazioni correttamente effettuate, a quanto mi è dato di sapere. Ma la sfida dei servizi di lotta agli incendi, valida anche in Italia, è come mantenere operativo un sistema che ha bisogno di attivarsi su vastissima scala solo una volta ogni decennio.
L’altro strumento per evitare gli incendi è la prevenzione, che viene svolta su grandi estensioni con la tecnica del “fuoco prescritto”, che elimina il combustibile utilizzando una fiamma bassa e scientificamente progettata (un tipo di intervento approvato anche da molti ecologisti australiani, e praticato da quarantamila anni dalle popolazioni aborigene). Nel 2018-2019 sono stati soggetti a questo trattamento 140mila ettari di territorio, la cui applicazione è però severamente limitata dalla mancanza di fondi e, sempre lui, dal cambiamento climatico, che riduce il numero di giorni con condizioni meteorologiche idonee ad effettuarlo. C’è da dire che l’intensità della siccità e degli incendi in corso avrebbe messo probabilmente in difficoltà anche i servizi e le comunità più preparate.
10) Cosa possiamo fare? Ridurre le nostre emissioni con comportamenti collettivi e ad alto impatto. Sforzarci di vedere l’impronta del climate change e delle nostre produzioni e (soprattutto) dei nostri consumi in quello che sta succedendo. Il problema più grande che abbiamo è questo. I koala sono colpiti duramente, ma domani toccherà ancora ad altri animali, altri ecosistemi… altri uomini. E forse anche a noi.
Per chi vive a contatto con un bosco, informarsi sul pericolo di incendio e sulle pratiche di autoprotezione necessarie a minimizzare il rischio alla vostra proprietà: gli incendi colpiranno di nuovo anche in Italia, con sempre più intensità, e possibilmente in luoghi in cui non ve li aspettereste. Sapersi proteggere è estremamente importante.
Bibliografia, in inglese:
Una sintesi di ciò che sta succedendo in Australia del New York Times.
Il clima australiano nel 2019.
Come sono fatte le foreste australiane.
Cos’è un firestorm.
Cos’è il Dipolo dell’oceano Indiano.
I legami tra il riscaldamento climatico e il Dipolo dell’oceano Indiano.
L’evento di riscaldamento improvviso della stratosfera di settembre 2019.
Cos’è il Southern Annular Mode.
La variabilità del meteo australiano e il cambiamento climatico.
Stima degli animali colpiti dagli incendi.
Le politiche riguardo al cambiamento climatico dell’Australia.
Come funziona la prevenzione degli incendi in Australia.
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Fare Spazio, il libro di Battiston che parla di "space economy"
Molto interessante la recensione fatta da La Stampa sull’ultimo libro di Roberto Battiston “Fare spazio” (La nave di Teseo, 290 pagine, 15 euro). Battiston, già presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana dal 2014 al 2018, sulla “space economy” ha dedicato un interessantissimo capitolo. Oggi lo spazio vale 350 miliardi di dollari l’anno. Il 37 per cento del fatturato riguarda i servizi via satellite. Quattro quinti dei servizi satellitari sono rappresentati dalle telecomunicazioni e dal mercato televisivo: nel 2018 gli utenti tv erano due miliardi ma importanti sono anche Internet e la telefonia via satellite. Fondamentali sono e saranno i servizi di geolocalizzazione e navigazione, sorveglianza dallo spazio, telerilevamento di risorse, meteorologia.
Gran parte dei quattromila satelliti in orbita intorno alla Terra hanno rilevanza economica, solo una minoranza è al servizio della scienza pura. Ricordate Telstar, segna la “space economy” storica. Il Telstar 1 lanciato da Cape Canaveral il 10 luglio del 1962, è stato il primo satellite che abbia reso possibili trasmissioni in mondovisione. Oggi Telstar fa tenerezza: era una sfera di 88 centimetri e 35 chilogrammi che conteneva 1064 transistor, poteva ospitare 1200 canali telefonici o, in alternativa, un canale televisivo. In orbita ellittica tra 952 e 6000 chilometri, funzionò a intermittenza per sei mesi, fino al febbraio 1963. Vantaggi e rischi di uno spazio privatizzato Al seguito dell'impiego di denaro pubblico Battiston osserva che se oggi si può parlare di “space economy” lo dobbiamo agli enormi investimenti che le agenzie spaziali statali hanno fatto con costanza per più di cinquant’anni, in particolare la Nasa, ma anche l’Agenzia Spaziale Europea e agenzie nazionali minori, Italia inclusa. Senza i contributi delle agenzie russa, giapponese e canadese la Stazione Spaziale Internazionale non sarebbe quella che è, una specie di ONU in orbita. Il razzo Falcon 9 di Musk e il denaro pubblico hanno spianato la strada alla nascente economia dello spazio. E’ normale che sia così: il capitale privato per definizione corre dei rischi, ma non rischi troppo grandi, come quelli che ha dovuto affrontare l’astronautica nei suoi primi sviluppi: basti pensare che le missioni Apollo assorbivano il 4 per cento del Pil degli Stati Uniti e avevano soltanto una probabilità su due di successo. Anche le attività spaziali private americane hanno collezionato i loro insuccessi, ma adesso sembra che abbiano raggiunto la maturità. È stato impressionante vedere il primo stadio del Falcon 9 di Musk partire dalla rampa 39 A di Cape Canaveral (quella del Saturno 5 e dello Shuttle), portare in orbita geostazionaria un satellite per telecomunicazioni e rientrare a terra posandosi in verticale sulla sua piattaforma. I vettori recuperabili stanno inaugurando davvero una nuova era dell’astronautica che avrà grandi riflessi sulla “space economy”. Il turismo spaziale perseguito da Branson rimarrà a lungo limitato dai costi e dai rischi. E’ realistico pensare a voli suborbitali che portino dei ricchi passeggeri a 80-100 chilometri dalla superficie terrestre, il confine convenzionale raggiunto il quale si può ottenere un certificato da astronauta. Saranno esperienze brevi e costose: circa un’ora alla tariffa di centomila dollari. E’ probabile che queste esperienze diventino gradualmente meno esclusive, a prezzi più accessibili, e che si arrivi a soggiorni in orbita di alcuni giorni. E’ remota, invece, e forse irrealistica, la prospettiva di un turismo che abbia come meta la Luna o una stazione in orbita lunare, per non parlare di Marte. Il libro di Battiston descrive in dettaglio tutta la storia dell’Italia spaziale. L’esordio fu con Gaetano Arturo Crocco, che calcolò l’orbita più economica per una missione a Marte, e Aurelio Robotti, del Politecnico di Torino, con i suoi pionieristici lanci di piccoli razzi nella Valle di Susa e poi in Sardegna a Perdasdefogu. Da questi precursori rilevò il testimone Luigi Broglio, originario di Ivrea, che con il suo team dell’Università di Roma nel 1964 lanciò il “San Marco 1” facendo dell’Italia il terzo paese, dopo Russia e Stati Uniti, a mettere in orbita un proprio satellite. Broglio fu poi il fondatore del Centro spaziale San Marco in Kenya: due piattaforme ex-petrolifere al largo di Malindi (Kenya), una per il lancio, l’altra per la sala di controllo, più i servizi su terraferma. La posizione geografica di questo poligono di lancio, 3 gradi di latitudine sud, permette di sfruttare pienamente la velocità di rotazione della Terra in prossimità dell’equatore, con la conseguente minore esigenza di spinta per il razzo vettore. Sotto questo aspetto il Centro San Marco rimane il più favorevole al mondo, meglio della stessa Kourou nella Guyane francese. Da qui, tra il 1967 e il 1988, Broglio mise in orbita otto satelliti scientifici. La sua passione e la sua capacità di realizzare grandi imprese con pochi mezzi – il piccolo razzo Scout americano e il supporto del nostro esercito – rimangono leggendari, ed è doloroso che Broglio non abbia avuto in vita il giusto riconoscimento, anzi sia stato avversato da politici e burocrati che a parole lavoravano per dare alle attività spaziali italiane una struttura più solida e meno personale. A tardiva riparazione, il Centro di Malindi porta il suo nome, e la struttura di terraferma compie ancora servizi di telemetria. L'ASI Nel 1988, la nascita dell’ASI, Agenzia Spaziale Italiana. L’ASI oggi ha una presenza riconosciuta nel contesto europeo e collaborazioni dirette sia con gli Stati Uniti sia con la Russia. Quanto all’ESA, Agenzia spaziale europea, pur destinando solo il 10 per cento dei suoi investimenti alla ricerca scientifica, ha realizzato missioni di esplorazione del sistema solare di grande rilievo come Giotto e Rosetta verso comete e asteroidi, e altre per lo studio del Sole, di Marte e ora di Mercurio. Nella sorveglianza da satellite spicca la flotta dei satelliti Copernicus e nella geolocalizzazione il programma Galileo, che sta diventando operativo e promette una precisione migliore del GPS americano, con tutti i vantaggi applicativi che gli deriveranno dall’essere pensato esclusivamente per uso civile. Il pericolo degli sciami satellitari La privatizzazione dello spazio apre la strada a sciami di migliaia di satelliti piccolissimi ma inquietanti per il pericolo di impatti e dannosi alla ricerca astronomica fatta da osservatori terrestri. Servirà una regolamentazione internazionale che tenga conto dei cinquant’anni trascorsi dal Trattato sullo spazio extraatmosferico del 1967. 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La sicurezza dell’open source, le valutazioni di Red Hat
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La sicurezza dell’open source, le valutazioni di Red Hat
Mike Bursell, chief security architect, Red Hat, pone l’accento sulla sicurezza dell’open source; un importante fattore da considerare in fase di scelta in ambito IT.
In un recente sondaggio sul software open source in azienda, il 29% degli intervistati ha indicato “Miglior sicurezza” quale principale motivo della scelta, a pari merito con “Accesso alle più recenti innovazioni”, secondi solo dopo a “Minor total cost of ownership” (33% del campione).
Nulla di nuovo, sappiamo che il software open source ha conquistato l’azienda e data l’importanza della sicurezza per le imprese di qualunque dimensione e latitudine, questa risposta non dovrebbe sorprendere. Ma, per essere chiari: non è che il 29% degli intervistati ritiene che la sicurezza del software open source sia superiore a quella del software proprietario, ma che la miglior qualità rappresenta un vantaggio chiave dell’open source.
La sicurezza dell’open source
Quello che sorprende, tuttavia, è quello che gli intervistati hanno indicato come principale limite all’uso dell’open source in azienda: la sicurezza. Sì, avete letto bene: la security è uno dei principali benefici, ma anche una delle principali limitazioni (38%).
Ma quindi le imprese ritengono che la sicurezza open source sia inadeguata? Non sembra: la risposta circa i vantaggi punta chiaramente verso un’altra direzione. Il motivo sottostante è più sottile.
Sappiamo che ci sono preoccupazioni in azienda circa i rischi per il business, e come la sicurezza possa contribuire a mitigarli. I top manager – CISO, CFO, ecc – sono sempre più consapevoli della necessità di valutare i rischi associati alla supply chain, e questo è particolarmente importante per il software.
Quando si ha un vendor di software proprietario vecchio stile, è facile puntare a quella che sembra un’unica entità, e dire “hanno una buona reputazione sul mercato e finché chiediamo informazioni sulle practice di sviluppo che adottano, possiamo essere certi che il rischio sia minimo”.
La sicurezza dell’open source
Non è il modo corretto di vedere il mondo: sembra assumere che i vendor di software proprietario siano self-contained, e non abbiano dipendenze. Oltre a non tenere conto della qualità dell’implementazione stessa – un’area in cui è evidente (dal 29% sopraccitato) che l’open source è considerato superiore.
Il punto è che coloro che considerano i rischi associati alla supply chain vedono la possibilità per chiunque di contribuire al software open source, e partono dal presupposto che sia questo “prodotto grezzo” a essere consumato dall’enterprise. Se le organizzazioni decidono di adottare progetti open source e usarli direttamente dalla fonte questa potrebbe essere una valida preoccupazione.
Le aziende che hanno sufficienti risorse ed expertise in house per gestire e supportare questa tipologia di modello possono entrare in contatto diretto con la community che può fornire vantaggi significativi, I rischi devono, ovviamente, essere valutati attentamente.
Noi qui però parliamo di “enterprise open source”, quello che offre i benefici aggiunti che ci si aspetta da qualunque software enterprise. Vantaggi che comprendono supporto e service level agreement; documentazione; un ciclo di vita lungo e prevedibile e molto altro ancora tra cui certificazioni rispetto a determinati standard, training e servizi di integrazione.
In breve, se si decide di optare per l’enterprise open source, si sceglie un prodotto, non un progetto. Nessuno dei benefici sopraccitati è legato esplicitamente alla security ma il vero vantaggio dell’enterprise open source software è che il vendor che offre – e supporta – il prodotto ne risponde in termini di qualità e sicurezza.
Non bisogna però pensare che il software open source sia automaticamente più sicuro rispetto a quello proprietario – ma il contributo della community significa poter accedere a un pool di talenti molto superiore a quello di cui possono disporre i vendor proprietari.
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Forza verde
Il verde ‘omnicomprensivo’ (detto anche greenery, ovverosia ‘verzure’) è stato il colore Pantone dell’Anno, nel 2017.
(Per la cronaca, nel 2018 c’è stato l’aubergine, altrimenti detto color mulignama, per taluni di cattivo augurio. In effetti...)
Per il 2019 dobbiamo ancora attendere. Tuttavia, sommessamente io riproporrei il greenery.
Se in ambito estetico/grafico/modaiolo il verde medio (un po’ vellutata di piselli) è già démodé, da un punto di vista socio-politico è la prossima tendenza. O, se volete, la migliore proposta.
Vi ricordate che un paio di settimane fa ci sono state le elezioni in Baviera? E che i Grünen hanno fatto un grosso balzo in avanti? Riconoscete - d’altro canto - che la Baviera, nell’intera Germania, è il Land più avanguardista, imprime tendenze e anticipa soluzioni?
Non vi sarà sfuggito che in Baviera l’inclusione (perché l’integrazione è limitante) degli immigrati sub-sahariani e medio orientali è ben governata e che invece di chiudersi in casa o invocare trincee di sbarramento all’invasione, i Bavaresi si son rimboccati le maniche e hanno fatto spazio per tutti?
Se così non fosse, più che preoccuparsi per l’ambiente, il futuro climatico e produttivo, i Bavaresi avrebbero tranquillamente fatto stravincere AfD (Alternative für Deutschland), l’ultra-destra xenofoba. Invece, forza Verdi! Anzi, forza Greenery.
Eh già, perché sono gli ambientalisti - a mio parere - i veri eredi della socialdemocrazia e della sinistra, tutti assieme in un verdolino universale, il greenery, appunto.
I Verdi (attributo-apposizione che vorrei utilizzare poco, perché richiamano un più dannoso verde padano) sono la vera alternativa che potrebbe unificare - almeno conciliare - tutte le aspirazioni progressiste, ambientaliste, democratiche (ambiente e clima riguardano tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, ad ogni latitudine, occupati e disoccupati, tutti i sessi e tutte le età), pacifiste, finanche un po’ egalitarie che da sempre contraddistinguono le istanze di sinistra.
Il ragionamento è piuttosto semplice ed ha a che fare con una delle strategie di problem solving, nel combinato disposto della Teoria dei Giochi.
Nello scontro politico tra le parti (e spesso anche all’interno della stessa parte, come è successo a sinistra), la regola è una strategia win-lose, ovvero mors tua vita mea. Chi vince prende tutto, in un gioco a somma zero, com’è - d’altronde - anche la regola fondante dell’economia capitalistica. La politica è un match in cui difficilmente si pareggia (perché si ricorrerebbe sempre a nuove elezioni, quindi, ad altri match).
Le parti politiche (in ogni Paese) si fanno la guerra tra loro usando come armi i problemi (e talvolta le diverse proposte di soluzione), più che considerarli l’oggetto del problem solving. Lo scopo di ciascuna parte è solo vincere nello scenario del problem setting, minacciando apocalissi ovvero eden, alla bisogna.
Vale anche per il governo italiano in carica: promettere molto eden (in un contesto molto problematico, quasi apocalittico) per vincere le elezioni. Però i problemi restano tutti: povertà, decrescita infelice, pensioni, disoccupazione, welfare, industria.
La migliore strategia di problem solving è orientarsi sul problema, che è terzo rispetto alle proprie convinzioni politiche: la disoccupazione non è di destra o di sinistra (non è creata dalla destra, né dalla sinistra, cioè), è solo un gravissimo problema e basta. Possono esserci strategie di soluzione di destra o di sinistra, indubbiamente, ma il problema è neutro e trasversale.
Al pari, l’inquinamento è un problema senza colore politico: è un altro gravissimo problema, che tra l’altro crea i nubifragi cui stiamo assistendo da qualche tempo nel nostro Paese del sole. Idem per il dissesto idrogeologico: costruire meno o meglio, dare attenzione ai boschi e ai bacini idrogeologici sono soluzioni ai problemi appartenenti a chiunque, a prescindere dalle tendenze ideologiche.
I Verdi-ecologisti (per distinguerli dai Verdi leghisti), slegati da logiche partitiche tradizionali, vogliono occuparsi globalmente dell’ambiente: cambiando metodi di produzione industriale, nonché di produzione e consumazione dell’energia; intervenendo sull’urbanistica delle città e sui sistemi di trasporto pubblico; reinventando organizzazioni urbane; migliorando il benessere generale per garantire migliore salute a tutti.
Sono problemi che possono essere affrontati (e si spera risolti o quanto meno ridotti) mediante soluzioni che incidono soprattutto sui sistemi economici dei Paesi, cambiando le tipologie di lavori, incrementando alcuni settori (agricoltura, energie rinnovabili, turismo, industria alimentare, ma anche automotive, nonché istruzione e formazione tecnica e tecnologica).
Ecco perché a mio modesto parere il Nuovo Verde che avanza (quello che ho definito Greenery) può essere la più autentica, originale, sensata risposta alle crisi partitiche, economiche e sociali, da noi come in tutto il resto del mondo.
Pensate, per esempio, ad un’Italia che diventi leader nella razionalizzazione dell’agricoltura in Africa, più che insistere sull’estrazione (pericolosissima) del petrolio in Libia. Potremmo convertire o migliorare il know how dei nostri tecnici, avremmo una nuova mission e staremo tutti meglio, qui come in Africa.
Immaginate che la nostra edilizia possa rifondarsi sulla sostenibilità totale, in un Paese per giunta a rischio sismico elevato, migliorando le tecniche di costruzione a basso impatto (ho visto bellissime case costruite con le balle di fieno impermeabilizzate).
Ovviamente, ciò non significa che dobbiamo evitare il progresso, tutt’altro. (Il progresso non è obbligatorio: è inevitabile.) Neanche significa che essere/diventare verdi favorisca l’ineluttabilità degli integralismi, tipo vegetariani, vegani, fruttariani, respiriani, altrimenti il movimento si autoeliminerà nello spaccare l’atomo, come è successo nel PCI.
Non deve esserci un verde più verde: ecco perché è più consono il greenery.
© Orticalab
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