Tumgik
#autobiografie e romanzo
gregor-samsung · 2 months
Text
“ Nella vecchia casa erano rimasti il piccolo Sebastiano e Peppino (che però l'anno venturo sarebbe sciamato anche lui per gli studi liceali, a Sassari o a Cagliari), e poi trascorreva lunghi periodi Ludovico, che aveva superato la licenza liceale svolgendo il tema Quisque est suae fortunae faber, e sostenendo che non era vero. Del che si era parlato a lungo e ancora si parlava. Purtroppo, dopo lo sforzo, la sua nevrosi si era accentuata, e frequentava poco la facoltà di legge alla quale si era iscritto. Poteva darsi (ma forse anche questo faceva parte della nevrosi) che lo turbasse la vista di quei goliardi sassaresi, che prendevano la vita con tanto impeto e quasi con irrisione, decisi allo studio come alla sbornia, molti dei quali venivano dagli sperduti paesi dell'interno, con l'audacia dei poveri che scoprono il mondo: la sottile trama della sua vita programmata ne restava sconvolta. Fatto si è che passava gran tempo a Nuoro, quasi in un prolungamento di infanzia, e là cominciava a formare, accanto alla letteraria, la biblioteca giuridica, cioè ad acquistare i trattati e le monografie che avrebbe letto quando sarebbe venuta l'ora. Pian piano, per il suo forbito parlare, per la prudenza che mascherava la sua fondamentale incertezza, per le massime eterne attraverso le quali sfuggiva alla pericolosità dell'azione, per la sua stessa precarietà fisica, andava diventando il punto di riferimento nella vita familiare, e lo stesso Don Sebastiano cominciava a consultarlo nelle difficoltà che incontrava, egli che non avrebbe mai chiesto o ascoltato i consigli di uno della famiglia, come ben sapeva nella sua tristezza Donna Vincenza. La quale cullava ancora questo figlio, ansiosa per la sua salute, e astiosa verso Sanna, che non si accorgeva di nulla. “
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, 1979²; pp. 208-209.
0 notes
personal-reporter · 10 months
Text
I migliori libri da leggere per un uomo
Tumblr media
La lettura è un'attività importante per tutti, uomini e donne. Leggere ci aiuta a imparare cose nuove, ad espandere la nostra visione del mondo e a crescere come persone. Ma quali sono i migliori libri da leggere per un uomo? Ecco una lista di alcuni titoli che potrebbero interessare ai lettori maschi: Saggistica "Il Principe" di Niccolò Machiavelli è un classico della letteratura politica che offre una visione spietata del potere e della sua conquista. "L'arte della guerra" di Sun Tzu è un altro classico della letteratura militare che offre consigli pratici per vincere le battaglie. "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley è un romanzo distopico che immagina un futuro in cui la società è completamente controllata dallo Stato. "1984" di George Orwell è un altro romanzo distopico che immagina un futuro in cui il governo controlla ogni aspetto della vita delle persone. "L'uomo che non era mai stato" di Richard Bach è un romanzo filosofico che esplora il tema dell'identità e della libertà. Narrativa "Guerra e pace" di Lev Tolstoj è un romanzo storico che racconta la storia di due famiglie russe durante le guerre napoleoniche. "L'amante di Lady Chatterley" di D.H. Lawrence è un romanzo erotico che racconta la storia d'amore tra una donna sposata e un operaio. "Il cacciatore di squali" di Peter Benchley è un romanzo thriller che racconta la storia di un cacciatore di squali che si trova a combattere contro un pericoloso squalo bianco. "Il mago di Oz" di L. Frank Baum è un romanzo fantasy per bambini che racconta la storia di Dorothy e del suo viaggio nel Mondo di Oz. "Il Signore degli Anelli" di J.R.R. Tolkien è una trilogia fantasy che racconta la storia di Frodo e della sua missione per distruggere l'Anello del Potere. Autobiografie "Vita di Pi" di Yann Martel è un'autobiografia romanzata che racconta la storia di Pi Patel, un ragazzo indiano che sopravvive a un naufragio e si ritrova a vivere per 227 giorni su una zattera con un leone. "Papà, ho ammazzato un uomo" di Norman Mailer è un'autobiografia che racconta la storia di Norman Mailer, un famoso scrittore americano, e del suo coinvolgimento in un omicidio. "Long Way Down" di Anthony Bourdain è un'autobiografia che racconta la storia di Anthony Bourdain, un famoso chef e scrittore, e del suo viaggio in motocicletta da New York a Los Angeles. "Sapiens. Da animali a dèi" di Yuval Noah Harari è un'autobiografia che racconta la storia dell'umanità, dall'alba dei tempi ai giorni nostri. "Perché le cose accadono" di Nassim Nicholas Taleb è un'autobiografia che racconta la storia di Nassim Nicholas Taleb, un matematico e filosofo, e della sua visione del mondo. Questa lista è solo un suggerimento, e ovviamente ci sono molti altri libri che potrebbero interessare agli uomini. La cosa importante è scegliere libri che siano interessanti e stimolanti, e che possano aiutarci a crescere come persone. Ecco alcuni criteri che possono essere utili per scegliere i libri da leggere: Interessi personali: i libri che scegliamo dovrebbero essere in linea con i nostri interessi personali. Se ci piace la storia, potremmo scegliere di leggere romanzi storici o biografie di personaggi storici. Se ci piace la scienza, potremmo scegliere di leggere saggi scientifici o biografie di scienziati. Livello di lettura: è importante scegliere libri che siano adatti al nostro livello di lettura. Se siamo principianti, potremmo scegliere libri più semplici, con un linguaggio più accessibile. Se abbiamo un livello di lettura più avanzato, potremmo scegliere libri più complessi, con un linguaggio più tecnico. Tempo a disposizione: è importante scegliere libri che possiamo effettivamente leggere. Se abbiamo poco tempo a disposizione, potremmo scegliere libri brevi o romanzi di genere. Se abbiamo più tempo, potremmo scegliere libri più lunghi o romanzi impegnativi. La lettura è un'esperienza personale e soggettiva. Non esiste un libro che piaccia a tutti. L'importante è provare diversi libri e trovare quelli che ci piacciono di più. Foto di Pexels da Pixabay Read the full article
0 notes
tarditardi · 3 years
Photo
Tumblr media
Gli EXTRALISCIO presentano il 26 novembre '21 il libro "Una storia punk ai confini della balera"  al Bowling Seventies (Cerasolo - RN)  
Venerdì 26 novembre alle ore 19.00 gli Extraliscio presentano il loro libro "Una storia punk ai confini della balera" al Bowling Seventies di Cerasolo (RN). Info al 328 02 36 22, il locale è in Via Ausa, 101. La serata prosegue al Bowling Seventies con le scuole di ballo Le Sirene Danzanti e Indanza Show Academy che, a partire dalle ore 21:00, condurranno il pubblico nell'atmosfera in puro stile "punk ai confini della balera" con la partecipazione straordinaria del mitico trio.
Gli Extraliscio sono un gruppo formato dallo sperimentatore e polistrumentista Mirco Mariani, dalla star del liscio Moreno Conficconi (alias Il Biondo) e dalla "Voce di Romagna mia nel mondo" Mauro Ferrara. Il gruppo è prodotto da Elisabetta Sgarbi con la sua 'Betty Wrong Edizioni Musicali', fondatrice e Direttrice de La nave di Teseo Editore e del Festival Internazionale La Milanesiana. Il libro "EXTRALISCIO. Una storia punk ai confini della balera" (La nave di Teseo) è disponibile nelle librerie e in digitale. Sull'onda del grande successo che li sta accompagnando nelle varie fasi di un progetto artistico-musicale a tutto tondo - dal film 'Extraliscio. Punk da Balera. Si ballerà finché entra la luce dell'alba" di Elisabetta Sgarbi, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2020, al filmino "La nave sul monte" di Elisabetta Sgarbi che li ha riportati alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021, dal Festival di Sanremo con le canzoni Bianca Luce Nera e Medley Rosamunda contenute nell'album È bello perdersi (2021- Betty Wrong edizioni musicali) all'atteso debutto a Parigi il 15 novembre in occasione de La Milanesiana, dopo 30 tappe del tour estivo e concerti esplosivi giunti dove questo genere musicale eclettico non era mai arrivato - ora il libro chiude un cerchio di suggestioni in parole e note.
Una serata a suon di liscio… anzi di Extraliscio, per i cultori del genere ma soprattutto per tutti coloro che amano la musica e il ballo, che inizia all'ora dell'aperitivo con la presentazione del libro (edito da La nave di Teseo): tre autobiografie che hanno i contorni di un romanzo d'avventura e ripercorrono 70 anni di musica e di storia dell'Italia, da quando non c'erano ancora il liscio e le balere, ai giorni nostri, dall'America al Brasile alla Romagna, da Secondo Casadei a Raoul Casadei, dal Chet Baker di Bologna al Teatro Ariston con il suo Festival di Sanremo. Al termine firmacopie.
Il Libro e i protagonisti
"EXTRALISCIO. Una storia punk ai confini della balera" è stato presentato in anteprima al Salone Internazionale del Libro di Torino. Ha in copertina una foto inedita di Oliviero Toscani che ha immortalato gli Extraliscio nella campagna di Ro Ferrarese, comincia con una prefazione di Ermanno Cavazzoni e prosegue tra aneddoti mai raccontati e foto di archivio.
Mirco Mariani impara a suonare al Chet Baker di Bologna, un palco su cui si esibiscono i migliori jazzisti del mondo. Diventa batterista di Vinicio Capossela e di Enrico Rava. Un giorno è colto da un'illuminazione: la musica della sua vita è il liscio. Un genere che improvvisamente gli si rivela poetico e folle e libero quanto può esserlo soltanto il punk. Così, grazie a Riccarda Casadei, figlia di Secondo, conosce due mostri sacri del liscio, protagonisti di una gloriosa epopea che va dagli anni '60 al terzo millennio. Uno è Moreno Conficconi, sontuoso clarinettista e storico capo orchestra della formazione di Raoul Casadei; l'altro è il cantante Mauro Ferrara (al secolo, Carlini), la voce di Romagna mia, anzi, la voce della Romagna tout-court nei dancing di mezza Italia al fianco dello stesso Casadei. Dalla loro visione-condivisione del liscio nasce un nuovo gruppo che è al tempo stesso il nome di un comune destino: Extraliscio. In tre racconti di fantasia che fanno una storia vera, Mauro, Moreno e Mirco raccontano per la prima volta il sogno del loro Punk da Balera.
http://www.lanavediteseo.eu/item/extraliscio-una-storia-punk-ai-confini-della-balera/
2 notes · View notes
laulilla · 6 years
Text
Il gioco delle coppie
Il gioco delle coppie
recensione del film IL GIOCO DELLE COPPIE
Titolo originale: Doubles vies
Regia: Olivier Assayas
Principali interpreti: Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Christa Théret, Pascal Greggory, Laurent Poitrenaux, Sigrid Bouaziz, Lionel Dray, Nicolas Bouchaud, Antoine Reinartz – 100 min. – Francia 2018.
Il titolo italiano è, al solito, fuorviante, ma il film, se non vi…
View On WordPress
0 notes
queerographies · 2 years
Text
[L'arpa d'erba][Truman Capote]
Da molti considerato il capolavoro di Truman Capote, L'arpa d'erba cattura con sorprendente esattezza inflessioni di voci, sfumature di colore, frammenti di esistenze perdute, in uno sguardo commosso verso il passato e pieno disperanze nel futuro.
Ultimato a Taormina nel 1951, questo romanzo dalle forti tinte autobiografi che arrivò dopo l’enorme successo di Altre voci altre stanze, e spiazzò completamente i lettori per la diversità di stile e di atmosfere. La storia ha inizio quando il giovane Collin Fenwick, rimasto orfano, va a vivere con due lontane parenti nel Sud degli Stati Uniti. Lì il ragazzo impara a prestare la propria voce al…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
Tumblr media
...la lucidità dell'occhio femminile che fotografa la casta degli intellettuali francesi...semplicemente splendido...uno di quei libri che segnano nel profondo l'esistenza...La letteratura per la De Beauvoir è la vita e la vita è letteratura: i suoi libri sono autobiografie corali, un groviglio inestricabile tra la Storia e le storie degli uomini, qui giganti del pensiero...dell'utopia e della penna , perennemente sospesi tra l'immortalità della dimensione pubblica e la precarietà...spesso misera...delle loro vicende private. E' forse questa l'anima del romanzo, una contraddizione che l'autrice non nasconde ma che guarda con disincanto poetico, come quando prende coscienza di come a volte sia più difficile rassegnarsi alla fine di un amore, uno dei tanti di una vita, che al fallimento di un sogno, di un'utopia, fosse pure la più grande... Bellissimo. #instabook #igersravenna #ig_books #libri #instaravenna #consiglidilettura #bookstagram #booklovers #domenicaaperto #simonedebeauvoir (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/CZ3dj5eMgOa/?utm_medium=tumblr
0 notes
mirtart-blog · 7 years
Text
Non scherzare di notte fuori dall’uscio
Non scherzare di notte fuori dall’uscio il vento di scirocco porta profumo di zagara e di mosto, fa cadere le ragazze ferendole alle cosce. E il sentore di mosto spiaccicato sulle carni richiama cento cani Cento cani ti mordono se cadi e una cagna sarai sola additata.
Goliarda Sapienza
Catania 1924 – Roma 1996
  «Goliarda non esiste. Lei è l’esistenza», dicevano di lei, scherzando, alcuni amici per intendere un tratto della personalità che caratterizzava sia la donna che l’artista: mettersi sempre in gioco e sempre con estrema passionalità. Era un tipo di donna che incuteva negli altri desiderio di autenticità. E ancora oggi lo fa: attraverso la sua opera letteraria. Leggere opere come L’arte della gioia (Einaudi), Lettera aperta (Sellerio), Il filo di mezzogiorno(Baldini&Castoldi), L’università di Rebibbia (Rizzoli) e alcune poesie ed opere teatrali rimaste ancora inedite può risultare irritante. Tale è l’insistente e spietato svelamento delle contraddizioni e imperfezioni della «bugia-realtà», in un andirivieni stilistico volutamente incompiuto che punta dritto all’animo di chi legge. Goliarda, attraverso una scrittura politica e intimista al tempo stesso, svela l’estrema problematicità dell’esistenza umana, ma anche la prospettiva di una vita migliore: se si osa contattare ogni parte di sé, senza escludere sofferenze, ambiguità, bugie, contraddizioni, paure, desideri e delitti, simbolici e reali. Continua a leggere la sua biografia dall’enciclopedia delle donne.it
  This slideshow requires JavaScript.
  Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono nè alberi nè case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente.
Incipit de L’arte della gioia 
Opere
Romanzi
L’arte della gioia. Romanzo anticlericale, Roma, Stampa Alternativa, 1998.
Autobiografie
Lettera aperta, Milano, Garzanti, 1967; Palermo, Sellerio, 1997.
Il filo di mezzogiorno, Milano, Garzanti, 1969;
L’università di Rebibbia, Milano, Rizzoli, 1983;
Le certezze del dubbio, Roma, Pellicanolibri, 1987;
Io, Jean Gabin, Torino, Einaudi, 2010.
Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989, Torino, Einaudi, 2011.
La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992, Torino, Einaudi, 2013.
Appuntamento a Positano, Torino, Einaudi, 2015.
Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della gioia, con Angelo Pellegrino, Roma, Edizioni Croce, 2016.
Racconti
Destino coatto, Roma, Empirìa, 2002.
Elogio del bar, Roma, Elliot, 2014.
Poesie
Ancestrale, Milano, La Vita Felice, 2013.
Teatro
Tre pièces e soggetti cinematografici, Milano, La Vita Felice, 2014.
    [Poesia] Goliarda Sapienza Non scherzare di notte fuori dall’uscio Non scherzare di notte fuori dall’uscio il vento di scirocco porta profumo…
2 notes · View notes
violettabellocchio · 7 years
Text
La parte della mia vita dove parlavo solo dei Duran Duran
Premessa: uso questo spazio per raccontare cose a proposito di Sara che poi magari nelle interviste e nella promozione del romanzo non escono, oppure per uscire escono, ma voi le interviste non le vedete. Ah ah ah, e giù le risate (*).
Il 90% di Mi chiamo Sara, vuol dire principessa è ambientato a cavallo tra il 1983 e il 1984. La scelta non è stata casuale, o dettata da qualsiasi nostalgia verso un periodo storico (a torto) individuato come un tempo sereno, senza preoccupazioni: un di là bellissimo dove tutto era ancora possibile. Uh, no. Se ho scelto quel momento è perché ho sempre saputo che quella piccola — ma cruciale — parte della storia umana di Sara era possibile soltanto in quegli anni in particolare: anni in cui la discografia mondiale — e italiana, oh, quanto italiana — faceva fare singoli a chiunque, senza bisogno di tirare in ballo faccende come “il talento” o “l’autenticità”. Tutto era falso e a tutti andava più che bene così.
In breve: ho sempre saputo che Sara era stata una one hit wonder adolescente, che quella parte della sua vita aveva avuto molte luci e molte ombre, e che era stata importantissima alla luce di chi, poi, Sara era diventata.
La questione del periodo storico, però, mi ha tirato in ballo in maniera incredibilmente personale. Da un lato, il biennio 1983/1984 fa parte del passato prossimo, e sembra lontanissimo, se si pensa che il mondo è cambiato ottocento volte nel frattempo (niente cellulari, niente Chi l’ha visto?, niente associazioni a tutela dei minori); dall’altro, io sono nata alla fine del 1977, e quegli anni sono la tappezzeria a tre dimensioni dei miei primi ricordi come essere umano. Io, il 1983, l’ho visto, magari con la coda dell’occhio; ero una bambina, però io c’ero. Le cose si potevano toccare e assaggiare. E molte cose, pensate magari per un pubblico di adulti, finivano in bocca a noi.
Nel dettaglio, decidere di scrivere quella che a tutti gli effetti è “una storia in costume” ha significato fare ricerca su un pezzetto di tempo precisissimo. L’archivio storico del quotidiano La Stampa è diventato il mio migliore amico per un po’. Mi sono smazzata una quantità impossibile di materiale documentario, dai filmati tecnici sulla metropolitana di Milano alle autobiografie prodotte dai principali ragazzi-oggetto del biennio, passando dall’iconografia degli spazi pubblicitari e da una lunga serie di playback commoventi. Questo, in concreto, significa che sono portatrice sana di una quantità invereconda di aneddoti sul conto di Roger Taylor e che per un po’ di tempo nessuno mi reggeva più. (“Oh mio Dio, è come quella volta che i ragazzi hanno suonato in diretta a Live Aid e David Bowie ha mangiato una patatina dal vassoio dell’addetto al missaggio!”. Silenzio.)
E poi, sempre in concreto, cos’altro rimane, a parte la ricerca, il sapere di essersi dati da fare per conoscere un periodo?
Rimane la consapevolezza che il passato non è una terra straniera, dove tutto brilla di colori spaventosi. Non è nemmeno un parco giochi dove si può appoggiare la storia di qualcuno convinti che “l’ambientazione” faccia tutto. La tranche di tempo a cavallo tra ’83 e ’84 è ancora figlia della coda degli anni ’70; la moda che si è soliti associare al decennio in questione stava ancora cominciando, così come l’ondata moralizzatrice che avrebbe portato alcune grandi star dell’epoca a bandire severamente l’uso di droga dalle loro tournée (Prince — sic, Prince — e Madonna furono tra i primi a dettare legge in proposito), e la maggioranza delle persone che, viste dall’esterno, sembravano viversela benissimo erano molto insoddisfatte di come stava andando la loro carriera — vedi alla voce l’arte, dov’è l’arte in quello che stiamo facendo, come lo rendiamo interessante per noi: John Taylor prendeva come una bruciante sconfitta personale le cattive recensioni sul New Musical Express, giornale simbolo delle sue speranze adolescenziali, mentre Roger Taylor era talmente oppresso dalle masse di ragazzine che li seguivano ovunque da mollare il suo gruppo all’indomani del Live Aid. Ci sono più aneddoti sui Duran Duran che stelle nel cielo, e io li so tutti, li so.
Quello che mi premeva, però, al netto di tutta la ricerca e delle domande esistenziali sul senso della narrazione, era rendere il più vera possibile la storia di Sara. E di questo magari parliamo un altro dei giorni che ci separano dall’uscita.
(* la locuzione “e giù le risate” fa parte del mio vocabolario quotidiano da quando ho letto La più amata.)
Tumblr media
1 note · View note
Text
Consigli VIP. I libri preferiti dai famosi
Ma cosa leggono le persone famose, i potenti, quelli che poi prendono decisioni o compiono azioni che influenzano la vita di milioni dei loro simili? Quali sono i loro libri preferiti o meglio, quali libri ci consiglierebbero se potessimo scambiare due parole con loro.
Ecco qualche consiglio davvero VIP per le vostre letture sotto l'ombrellone o per ripartire dopo le vacanze ispirati da chi è riuscito, in un modo o nell'altro, a salire sui gradini più alti della scala sociale.
Per Barack Obama ci sono pochi dubbi. L'ex presidente degli Stati Uniti ha ribadito in più di un'occasione che tra le sue letture predilette figurano Il canto di Salomone dell'afroamericana Toni Morrison e Gilead del premio Pulizer Marilynne Robinson. Due viaggi emozionanti nel cuore dell'identità americana alla ricerca delle radici comuni di una nazione. Esiste una Lista dei [miei] 21 libri preferiti redatta da Bill Clinton nella quale tra parecchi saggi scopriamo un perla di Maya Angelou Io so perché canta l'uccello in gabbia, storia di passione e riscatto nell'America delle lotte per i diritti civili. La moglie Hillary invece raccomanda Un'eredita di avorio e ambra che narra in forma romanzata le vicessitudini europee della famiglia dell'autore, Edmund De Waal. Da Washington a Mosca. Lo zar Vladimir Putin pesca nella ricca letteratura della Grande Madre Russia e scansando gli scontati Dostoevskij e Tolstoj, propone ai lettori l'Ivan Turgenev di Memorie di un cacciatore, quadro vivido dell'Impero Russo di metà ottocento. Neanche Papa Francesco si sbilancia e gioca in casa con Il padrone del mondo, recentemente ristampato da Fazi. Il male sotto mentite spoglie mortali si cela dietro le ideologie progressiste per conquistare il potere mondiale. Un po' datato ma sicuramente interessante. La Cancelliera “di ferro” Angela Merkel interrogata sui libri della giovinezza confessa di non aver ancora dimenticato le pagine della Vita di Madame Curie, scritta dalla figlia Eve Curie.
Tumblr media
E Hollywood? Qualche sorprendente lettura preferita si cela anche tra registi e attori di successo. Angelina Jolie dice di essere stata di recente sedotta da La storia segreta di Dracula e Kate Winslet ha letto con gusto Théresè Raquin di Emile Zola. Come darle torto! Se amate le narrazioni ricche e particolareggiate non ne sarete delusi. A Steven Spielberg è rimasto impresso nella memoria L'ultimo dei Mohicani. Doveva dirigerne il film ma purtroppo per lui si trovava già impegnato su un altro set. Kevin Spacey si diletta con le Lettere a un giovane poeta del sublime Reinardt Maria Rilke mentre Tom Hanks fa sapere ai fan di aver molto apprezzato il capolavoro di Truman Capote A sangue freddo.
Tumblr media
Passiamo quindi agli uomini più ricchi del pianeta. In questa fase del capitalismo non sorprende si contino quasi tutti tra i magnati della Silicon Valley, i nuovi padroni del vapore. Cosa dicono di leggere questi tecnologici Paperon de Paperoni? Bill Gates rimane il più ricco nonchè il più attivo sul fronte dei libri e non si limita a parlarne nel corso di qualche intervista ma sul suo blog “Gatesnotes” ne pubblica una lista di 5 ogni estate. Tra quelli 2017 menzione speciale per Elegia americana del giovane J.D.Vance. Se ancora vi interrogate sui perchè vittoria di Trump in questo romanzo troverete molte risposte. Jeff Bezos, il capo di Amazon, riscopre il classico di Ishiguro Quel che resta del giorno. “Se lo leggerete non potrete far altro che finirlo e pensare: ho appena trascorso 10 ore a vivere una vita alternativa e ho imparato qualcosa sulla vita e sul rimorso”. Parole sue. I fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin dichiarano la loro passione per le autobiografie di grandi scienziati e tra le tante lette incoronano rispettivamente, quella di Nikolaj Tesla Le mie invenzioni e quella del fisico premio Nobel Richard Feynman Sta scherzando Mr. Feynman. Il visionario Elon Musk con i suoi viaggi spaziali e le sue auto a guida autonoma non poteva che suggerirci di immaginare la nascita di un nuova civiltà con La Fondazione di Isaac Asimov. E visto che ci ospita sul suo social network, chiudiamo con Mark Zuckerberg il quale, oltre ad aver scelto la lettura di un libro ogni due settimane come buon proposito del 2015, si è anche sentito in dovere di comunicare al mondo la lista dei 23 libri che tutti dovremmo leggere... Bontà sua! La selezione comunque non è male. Che ne dite di Verso la creatività e oltre firmato Ed Catmull, uno dei fondatori della Pixar?
Tumblr media
Buona lettura!
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
“Chi vuole sovvertire ciò che rimane dei valori tradizionali sono le entità sovranazionali, i moderni imperi come l’Unione Europea”. Ma… esiste una cultura di destra? Dialogo con Francesco Giubilei
Si può sostenere, con una certa plausibilità, l’esistenza di un’egemonia culturale del mondo progressista a discapito del pensiero conservatore? La convinzione che i maggiori scrittori italiani siano, o siano stati, tutti di sinistra, non è una boutade ma una convinzione talmente diffusa che Giovanni Raboni la definì “una sorta di luogo comune”. Di questo, e tanto altro, ho discusso con Francesco Giubilei, editore e scrittore, ritenuto dalla rivista Forbes tra i giovani under 30 più influenti d’Italia.
Quando sento qualcuno lamentarsi della perdurante assenza di una letteratura di destra, penso a quanta ignoranza c’è oggi, chissà se ingenua o malevola, da parte di chi nega visibilità e attenzione ad autori di grande valore quali Mishima, Céline, Pound, d’Annunzio, Gentile, i molto trascurati Leo Longanesi e Giuseppe Prezzolini, l��editore Giovanni Volpe, i contemporanei Marcello Veneziani, Alain de Benoist, e te. È un lungo elenco, e chissà quanti geni non organici del secolo scorso abbiamo perso l’occasione di conoscere.  
Nel corso del Novecento in Italia c’è stata un’intensa attività culturale ascrivibile a un’area che potremmo definire di destra. Sebbene con questa parola si possono identificare idee e correnti tra loro divergenti in numerosi ambiti (politica estera ed economia su tutti) e la visione del mondo di un intellettuale liberale classico (ma non liberal, categoria che non appartiene alla destra) è diversa da chi si definisce di destra sociale, vi sono ancora oggi alcuni punti di contatto tra le diverse anime della destra. Nella società contemporanea il contrasto al politicamente corretto è uno dei principali esempi di collaborazione, esso infatti rappresenta l’evoluzione e l’attualizzazione dell’egemonia culturale teorizzata da Gramsci nei suoi Quaderni. Così, come in passato chi non era di sinistra aveva prelusi spazi e opportunità, lo stesso oggi avviene se si esprimono idee contrarie alla vulgata del politicamente corretto. Il “cordone sanitario” che venne invocato dal professor Pedullà nei confronti delle persone di destra, oggi assume nuove forme e modalità ma continua ad esistere. Eppure, alcune delle principali voci della cultura italiana sono ascrivibili al mondo della destra a partire dalla letteratura con un romanzo conservatore come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ad autori del calibro di Ennio Flaiano, Giovanni Ansaldo, Landolfi, Sgorlon, Piovene, Berto, Pirandello. Lo stesso dicasi per il giornalismo in cui, oltre al grande Montanelli, ci sono state figure come Piero Buscaroli, Gianna Preda, Nino Nutrizio. Non si può dimenticare il contributo alla filosofia italiana di Augusto del Noce o di Ugo Spirito, o l’attività editoriale di Giovanni Volpe, figlio di Gioacchino, di Alfredo Cattabiani, direttore editoriale di Rusconi, e dell’immortale Leo Longanesi. Percorsi che ho cercato di sintetizzare nel libro Storia della cultura di destra e la cui eredità oggi è portata avanti da associazioni, movimenti culturali, battagliere case editrici indipendenti e riviste che promuovono un’intesa attività per cercare di diffondere idee e valori che altrimenti farebbero fatica a trovare spazio. Un operato imprescindibile che deve andare di pari passo con la consapevolezza che è necessaria una destra in grado di aprirsi al dialogo e alla discussione con mondi che ancora oggi vengono osservati con scetticismo (penso al mondo delle imprese, ai ceti produttivi, a certi ambienti nelle relazioni internazionali) ma senza abdicare ai propri valori.
Un intellettuale, in quanto essere pensante, non può ritenersi super partes, e se lo dice sta mentendo. Anch’io, che mi vanto di fare letteratura d’intrattenimento, come uomo ho passioni e pulsioni politiche che inevitabilmente riverso nel mondo circostante attraverso il mio modo di agire, di rapportarmi agli altri, e questo mi caratterizza in un modo forte e preciso che trascende la scrittura. I presunti scrittori ‘equidistanti’ sono degli ipocriti.
Quanto la vita di uno scrittore influenzi la propria opera letteraria non solo in merito alle idee politiche o ideologiche ma anche per gli stili di vita, i luoghi e le persone frequentate, è un tema a lungo dibattuto nella teoria della letteratura. Consiglio la lettura del libro Rituali quotidiani di Mason Currey in cui sono descritte le abitudini, le usanze, i pensieri dei grandi della letteratura, della scienza, della musica e del cinema. È un modo per avvicinarsi alla vita degli artisti e comprendere in modo più completo le loro opere. Ho sempre considerato le biografie un grande genere letterario, nel mondo conservatore ci sono fulgidi esempi, penso al testo su Machiavelli di Giuseppe Prezzolini, alla biografia di Longanesi scritta da Montanelli e Staglieno ma anche alla monumentale biografia di Ernst Jünger di Heimo Schwilk. Un genere ancor più affascinante sono le autobiografie, ho da poco terminato la lettura delle Confessioni di un borghese di Sándor Márai, il principale narratore ungherese in cui descrive il tramonto della Mitteleuropa, uno dei periodi culturalmente più floridi della storia europea. Un’opera scritta poco più che trentenne così come Un uomo finito, l’autobiografia del giovane Papini. D’altro canto il genio non ha età. Le riflessioni degli autori possono lasciarci opere filosofiche profonde come le Confessioni di un impolitico di Thomas Mann. Che dire poi dell’influenza che hanno i luoghi nella vita di uno scrittore? Di recente Neri Pozza, casa editrice che sta svolgendo un raffinato lavoro di pubblicazione di autori ascrivibili a un’area culturale conservatrice (da leggere Vita da editore di Neri Pozza), ha dato alle stampe I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo di Paolo Pagani in cui si raccontano i luoghi dove si sono formati alcuni dei più importanti pensatori al mondo. Tra questi figurano le case degli scrittori che mi hanno sempre affascinato; il Vittoriale di D’Annunzio è senza dubbio l’esempio più noto ma gli esempi sono numerosi. Nella narrativa dannunziana ma anche nel decadentismo di Huysmans, l’estetica è un tema centrale così come la bellezza che caratterizza il pensiero conservatore come ci ricorda Roger Scruton nel suo libro Beauty. La casa museo di Mario Praz a Roma in tal senso è straordinaria. L’autore de La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica ha dedicato un volume alla propria casa pubblicato da Adelphi e intitolato La casa della vita, un testo straordinario da cui emerge il rapporto tra l’arredamento di un raffinato antiquario come Praz e la sua produzione letteraria (da leggere il libro in sua memoria edito da Italo Svevo). Un altro straordinario genere mai troppo considerato sono i diari degli autori (da poco ho acquistato il Diario in tre volumi di Prezzolini edito da Rizzoli), anche in questo caso Papini è un esempio con il suo Diario ma si potrebbero raccontare centinaia di autori che si sono cimentati nella scrittura di diari poi pubblicati postumi. Che dire poi dei carteggi? La teoria della letteratura non sembra aver preso troppo sul serio la scomparsa dei carteggi a causa delle email e delle nuove tecnologie, nel giro di pochi anni è venuto meno un genere letterario fondamentale per ricostruire la vita di un autore, come faranno in futuro i biografi?
Diego Fusaro ritiene che la dicotomia tra destra e sinistra sia obsoleta ma al tempo stesso non si possano cancellare dal dibattito politico quelle idee e quei valori che hanno caratterizzato le due ideologie. Tanto è vero che, nel presentare Vox, il suo nuovo partito sovranista, ha dichiarato di volere trovare una sintesi tra “valori di destra e idee di sinistra”. Una brillante intuizione o solo la speranza, un po’ cattocomunista, di passeggiare a braccetto con Peppone e Don Camillo?
Leggo con interesse le idee di Diego Fusaro con cui intrattengo un ottimo rapporto di discussione intellettuale esplicitato in tante conferenze a cui abbiamo partecipato insieme anche se spesso ho idee diverse dalle sue. Sebbene nell’attuale contesto politico parlare di sinistra e destra con le medesime definizioni del Novecento sia errato, vi sono alcuni elementi che continuano a rappresentare una differenza invalicabile tra le due visioni del mondo. L’errore che si compie quando oggi ci si approccia a queste categorie è fare un’analisi basata solo ed esclusivamente su valutazioni di carattere economico; se è indubbio che si sia creata una nuova divisione tra i critici della globalizzazione e i sostenitori di una società aperta basata su entità sovranazionali, è altrettanto vero che temi etici, visione della religione, concetto di nazione e di identità, rimangono ambiti che dividono in modo netto sinistra e destra. Se poi riteniamo di voler utilizzare termini differenti che possano essere più attuali al posto di destra e sinistra, poco cambia ma i valori che identificano queste due categorie politiche rimangono. C’è poi un ulteriore elemento che non deve trarre in inganno; mentre oggi la sinistra è in crisi, come spiega Luca Ricolfi nel libro Sinistra e popolo, la destra, anche da un punto di vista culturale, sta vivendo un momento particolarmente florido e sarebbe sbagliato negare o cancellare la propria storia in nome di un superamento delle categorie che si possono senza dubbio attualizzare ma senza dimenticare i valori alla base della destra che prescindono un singolo periodo storico.
Credi possa esserci spazio per un nuovo movimento letterario, magari costituito da scrittori che possano ascriversi al pensiero conservatore? E se pure questo spazio ci fosse, esiste la qualità? Credo che il problema principale delle correnti artistiche è, banalmente, l’inadeguatezza del prodotto. Tutti sono capaci di aprire una pagina internet, metterci un logo e lanciare proclami, ma poi, se non c’è la sostanza, la ‘ciccia’ letteraria, ecco che la montagna di buone intenzioni partorisce il topolino. Se ci pensi, l’ultimo movimento letterario capace di incidere nel contesto della sua epoca è stato il Gruppo 63. Era il tempo del primo album dei Beatles!
C’è spazio e necessità di una narrativa che sia in grado di affrontare i problemi della contemporaneità da una prospettiva conservatrice. Narratori che sappiano trattare con lucidità il tema dell’identità, della religione, della nazione non solo in una prospettiva denigratoria. Romanzieri che ambientino i propri romanzi nei borghi del centro Italia, nei piccoli paesi del sud, nelle campagne venete descrivendo ciò che rimane del piccolo mondo antico per parafrasare Fogazzaro. Una narrativa orgogliosamente italiana che sappia raccontare ciò che di positivo si è conservato della nostra tradizione, che vada oltre a scontati e melensi romanzi capaci solo di descrivere i nuovi quartieri multiculturali delle città italiane. Senza dubbio dovrebbe nascere un movimento letterario in grado di raccontarci l’Italia delle vecchie zie come ci direbbe Longanesi se fosse in vita. Ma si sente la mancanza anche della carica rivoluzionaria di un Berto Ricci o dell’esperienza fiumana con gli scritti di un Guido Keller o di un Mario Carli. Salvo rare eccezioni, che trovano voce nelle pagine culturali di alcuni quotidiani, anche la critica letteraria è in preda a un conformismo sconfortante e non è più in grado di proporre firme dello spessore di Ugo Ojetti o di Giovanni Piovene. Che dire poi di esperienze forse irripetibili come le riviste fiorentine dei primi anni del Novecento? Realtà come “La Voce” di Prezzolini, “Lacerba”, “Leonardo”, sono oggi un miraggio. Lo stesso, d’altro canto si potrebbe dire per l’arte, chi sono oggi i Sigfrido Bartolini o gli Ottone Rosai? Chi è in grado di incarnare la multidisciplinarietà di un Mino Maccari o di un Ardengo Soffici? Perché oggi in Italia non abbiamo un Houellebecq o uno Zemmour come in Francia? Eppure i narratori conservatori italiani nel Novecento hanno espresso un livello molto alto. Di recente il critico letterario Andrea di Consoli, che seguo con attenzione, ha pubblicato un elenco dei grandi scrittori italiani “storti, strambi, sulfurei, controvento, maledetti, del sottosuolo”: “Dino Campana, Emanuel Carnevali, Emilio Salgari, Marcello Barlocco, Massimo Ferretti, Giancarlo Fusco, Giuseppe Berto, Curzio Malaparte, Dante Virgili, Marcello Gallian, Dante Arfelli, Luigi Di Ruscio, Salvatore Toma…”. Gli ha fatto eco un altro raffinato critico come Gianfranco Franchi: “manca il portabandiera, Morselli, e manca l’aristocratico Landolfi; leverei Virgili (un bluff), aggiungerei l’esordio del bandito-scrittore Lo Presti”. Infine vorrei porre l’attenzione su un tema in cui ci sarebbe la necessità di un approccio da destra, ovvero la conservazione della natura e l’ambientalismo sottolineando la priorità di una battaglia per l’ambiente alternativa a quella proposta da Greta Thunberg e dall’ambientalismo ideologizzato dei Fridays for Future. Nei prossimi mesi ne scriverò ma c’è bisogno di un lavoro corale e organicizzato.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa famosa frase, da molti attribuita a Massimo D’Azeglio, è quanto mai attuale. Il patriottismo, sentimento di devozione e lealtà per la propria nazione, è visto da molti italiani come un valore di parte o addirittura un retaggio fascista. Gli italiani parlano con orgoglio della propria città, della propria regione, ma sono privi dello spirito unitario tipico di altre nazioni.
Il tema della nazione e dell’identità nazionale diventerà sempre più centrale nel dibattito pubblico nei prossimi anni. In un contesto globale che fino a pochi anni fa sembrava andare nella direzione di entità sovranazionali con un potere sempre più centralizzato nelle mani di poche entità politico-finanziarie, dopo la crisi del 2008 è avvenuto un processo di rallentamento di alcune dinamiche della globalizzazione che sembravano essere ineluttabili. Così stiamo assistendo a un ritorno del concetto di nazione pur nelle singole specificità e differenze che caratterizzano ogni contesto nazionale. Fino al 1789 sono stati i grandi imperi a salvaguardare i valori tradizionali cari al conservatorismo; da una visione gerarchica della società alla difesa dei confini, dalla centralità della religione a una forte identità come collante tra i popoli. Dall’Impero Romano fondato sul mos maiorum al Sacro Romano Impero, dall’Impero Romano d’Oriente con Costantinopoli centro della cristianità ortodossa, fino agli Imperi prussiano e austroungarico, passando per la Russia degli Zar. Dopo la Rivoluzione Francese questo schema viene del tutto sovvertito e i grandi imperi iniziano una lenta ma inesorabile crisi con tentativi di contrasto come la Restaurazione, il Congresso di Vienna del 1815 e l’operato di Metternich. Con la prima guerra mondiale si concretizza la morte degli imperi tradizionali la cui parabola è sintetizzata alla perfezione dall’impero austroungarico e dal finis Austriae. Tra le cause, l’incapacità di promuovere una visione confederata confacente i tempi e l’emergere dei nazionalismi. Oggi succede l’esatto contrario. Chi vuole sovvertire ciò che rimane dei valori tradizionali sono le entità sovranazionali, i moderni imperi come l’Unione Europea, e chi si oppone a ciò sono le nazioni che rappresentano l’ultimo baluardo a difesa dell’identità. Va detto che nell’epoca dei grandi imperi c’è stato un momento storico in cui erano emerse piccole nazioni ante litteram, si trattava delle signorie e i ducati italiani. Anche in questo caso l’Italia aveva anticipato ciò che sarebbe accaduto secoli dopo, esperienze come la Serenissima di Venezia e le signorie dell’Italia centrale erano l’esempio migliore e più virtuoso di splendore culturale pur nella debolezza militare di molti Ducati vista la piccola dimensione. Oggi perciò non si può che essere favorevoli alle nazioni senza però dimenticare il contributo dato alla nostra civiltà dei grandi imperi nei secoli scorsi. L’unica entità nella società contemporanea che mantiene il carattere degli imperi tradizionali è la Chiesa Cattolica con la sua visione universalista che affonda le proprie radici in una storia millenaria che le nazioni europee devono lottare per conservare. Mi affascina molto in questa periodo il mondo dei Balcani, l’est Europa e l’oriente cristiano erede di Bisanzio. La storia dell’Impero romano d’Oriente raccontata magistralmente dallo studioso russo-serbo Ostrogorsky nel libro Storia dell’impero bizantino, così come l’esperienza di Bisanzio sintetizzata da Warren Treadgold in Storia di Bisanzio o le opere di Giorgio Ravegnani che per Il Mulino ha studiato la civiltà bizantina in varie sfaccettature, dal rapporto con Venezia all’Occidente medievale, sono temi che andrebbero approfonditi per conoscere il cristianesimo ortodosso (imprescindibile la lettura di Ortodossia di Evdokimov) ma anche per sottolineare la vocazione dell’Italia in proiezione non solo occidentale ma anche mediterranea e orientale. L’influenza italiana nell’area dei Balcani, il ruolo che possiamo avere all’interno dell’Unione europea verso i paesi dell’est Europa, la possibilità di essere una cerniera tra Stati Uniti e Russia, oltre al ruolo preminente nel Mediterraneo, sono gli elementi su cui deve formarsi una seria politica estera italiana che deve andare di pari passo con la conservazione della nostra storia e cultura, vero collante per un patriottismo italiano. L’Italia nasce dalle antiche civiltà preromane, dagli umbri, dagli etruschi, dai piceni, dai sanniti, dalle colonie della Magna Grecia, accresce la propria forza durante l’Impero romano e consolida l’identità cristiana nel medioevo. Durante il Rinascimento e nell’epoca delle Signorie torna ad essere la culla della cultura mondiale, per poi assumere un ruolo artistico e scientifico nel periodo del Barocco. Nell’Ottocento vive l’epopea risorgimentale, la lotta per l’unità, la formazione di uno stato nazionale, la prima guerra mondiale con la vittoria mutilata e l’irredentismo mai sopito. Poi affronta gli anni del fascismo, i morti della seconda guerra mondiale, il boom economico fino ai problemi della nostra epoca in cui lo spirito nazionale sembra aver abdicato al globalismo. Ma non tutto è perduto.
Francesco Giubilei
L'articolo “Chi vuole sovvertire ciò che rimane dei valori tradizionali sono le entità sovranazionali, i moderni imperi come l’Unione Europea”. Ma… esiste una cultura di destra? Dialogo con Francesco Giubilei proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2VN3ryw
0 notes
gregor-samsung · 2 years
Text
“ L'assenza del padre nella casa è una terribile presenza. Ma io non saprei dare torto, nel giorno del giudizio, a Don Sebastiano, o almeno non gli darei torto del tutto. Tutte quelle cose che si scrivono sui padri e sui figli, tutti quei drammi, sono per me letteratura, e la famosa pedagogia è paternità a freddo; e niente altro. Ciascuno è padre di se stesso e figlio di se stesso, questa è la mia idea. Don Sebastiano aveva sette figli, che sono molto più di un intero popolo per un re: e il suo sogno di laurearli tutti, che l'intelligenza dei figli incredibilmente sembrava favorire, cominciava a realizzarsi con la terribile diaspora dei più grandicelli. Come mi pare di aver detto, per andare avanti negli studi, bisognava correre l'avventura della lontana città, di Sassari o addirittura di Cagliari. Questo voleva dire per Don Sebastiano, mandare ogni mese cento lire per ogni figlio, e per il notaio di Nuoro era una cosa che metteva a dura prova le sue forze. Gli sembrava che fosse venuta fuori una nuova misura della sua ricchezza. Che un ragazzo quindicenne venisse catapultato dalla casa e dal borgo in una città lontana, in una vera città, dove non esistevano amici né conoscenti, se non qualche notaio importante che non era certo il caso di disturbare, e là, arrivato dopo una giornata di viaggio, dovesse arrangiarsi a trovare una pensioncina presso qualche vecchia zitella, privandosi di tutto; che in questo impatto col mondo potesse soffrire, non era cosa che lo preoccupasse e neppure gli passava per la mente. In fondo non era che una posta nella grande partita della sua esistenza, che giocava senza nemmeno avvedersene. La pena era di Donna Vincenza, che vedeva i figli staccarsi dal suo seno, che si alzava prima dell'alba per preparare il viatico (le cose che ciascuno amava o ella credeva che amasse), che sapeva che quello non era un principio ma una fine. A Natale e a Pasqua (il lungo viaggio e la spesa non consentivano ritorni durante l'anno) avrebbe spedito loro quei buoni dolci di mandorla e zucchero, i culurjones di marzapane avvolti in un'ostia e fritti, che essa stessa lavorava con l'aiuto di Peppedda, e di qualche tributaria della casa che si prestava per devota e dolente amicizia: ma sentiva che quando sarebbero tornati, per le grandi vacanze, non sarebbero più stati i suoi figli. Donna Vincenza guardava con amore i libri che i figli raccoglievano con amore, e che essa non avrebbe mai letto. Sebastiano che ancora le saltava in grembo, voleva talvolta leggerle qualche pagina, ma essa gli chiedeva prima se erano 'cose vere': e l'ingenua domanda aveva una sua profondità, perché era l'inconsapevole rifiuto della fantasia. Vi era in questo un punto di contatto con Don Sebastiano, perché anch'egli non viveva che della verità, e il suo mestiere era proprio quello di registrare la verità. E invece la fantasia entrava nella casa austera coi libri, e operava silenziosamente, toccando con la sua bacchetta magica uomini e cose. “
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, 1979²; pp. 64-66.
8 notes · View notes
italianaradio · 5 years
Text
C’era una volta in America: 10 cose che non sai sul film
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/cera-una-volta-in-america-10-cose-che-non-sai-sul-film/
C’era una volta in America: 10 cose che non sai sul film
C’era una volta in America: 10 cose che non sai sul film
C’era una volta in America: 10 cose che non sai sul film
Tra i film più celebri della filmografia di Sergio Leone, e dell’intera storia del cinema, vi è C’era una volta in America, gangster movie dai toni epici che ha consacrato Leone come uno dei massimi autori del cinema mondiale. Malgrado lo scarso successo di pubblico alla sua uscita, con il passare degli anni il film è stato definito unanimemente come uno dei più belli di sempre, posizionandosi quasi sempre nelle classifiche dei film preferiti di pubblico e di critica.
Ecco 10 cose che non sai su C’era una volta in America.
C’era una volta in America: la trama del film
1. Narra l’evoluzione dell’America criminale. La vicende del film si svolgono nell’arco di quarant’anni, e seguono le drammatiche vicissitudini del criminale David “Noodles” Aaronson e dei suoi amici, dal loro progressivo passaggio dal ghetto ebraico all’ambiente della malavita organizzata nella New York del proibizionismo e del post-proibizionismo.
2. È tratto da un romanzo. Il film è tratto dal romanzo The Hoods, pubblicato dallo scrittore Harry Grey nel 1952. Il romanzo è basato sulle esperienze dello stesso Grey, criminale nei primi decenni del Novecento. Questa fu una delle poche autobiografie di un gangster mai pubblicate.
C’era una volta in America: il cast del film
3. Ha un cast di grandi attori e giovani debuttanti. Avendo a disposizione un budget piuttosto elevato, Leone si avvalse di un cast misto, composto da grandi stelle internazionali e da attori debuttanti. Protagonista del film è Robert De Niro, nel ruolo di David Aaronson, a cui si affianca l’attore James Woods nel ruolo di Maximilian Bercovicz. Tra gli attori che conobbero la celebrità con il film si annoverano invece Tuesday Weld, Elizabeth McGovern e Jennifer Connelly. Al film partecipò anche l’attore Joe Pesci in un piccolo ruolo.
4. Pesci si era proprosto per un ruolo più importante. L’attore Joe Pesci, molto amico di De Niro, si era proposto per il ruolo di Maximilian Bercovicz, ma Leone non lo ritenne adatto per la parte. Gli propose così di scegliere un qualsiasi altro personaggio e Pesci scelse così la parte di Frankie, originariamente più ampia nella sceneggiatura e drasticamente ridimensionata nella versione finale del film.
5. Jennifer Connelly divenne celebre grazie al film. L’attrice, giovanissima, fu notata da un addetto al casting di un altro film, il quale sapeva che il regista italiano stava cercando una ragazza da far danzare davanti alle cineprese. Dopo aver visto la Connelly ballare decide di proporla a Leone, che la scritturò immediatamente, avviandola alla carriera cinematografica.
6. De Niro cercò di incontrare un vero boss della malavita. Per preparare e perfezionare al meglio il suo personaggio, De Niro chiese ripetutamente di poter incontrare il boss della malavita Meyer Lansky, ma non ottenne mai una risposta positiva.
C’era una volta in America: la colonna sonora del film
7. La colonna sonora fu affidata ad Ennio Morricone. Leone non ebbe mai dubbi su chi ingaggiare per realizzare la colonna sonora del film, affidando tale ruolo ad Ennio Morricone, collaboratore di lunga data. La musica del film fu commissionata con così largo anticipo che veniva ascoltata, seppur non nella versione orchestrata, sul set durante le riprese.
C’era una volta in America è in streaming
8. Il film è disponibile in streaming. Per rivedere il capolavoro di Leone, è possibile sottoscrivere un abbonamento alle piattaforme su cui questo è disponibile, o in alternativa noleggiare il singolo film. C’era una volta in America è infatti presente sulle piattaforme streaming Rakuten TV, Chili, Now TV e Apple iTunes.
C’era una volta in America: Quentin Tarantino è un fan
9. Tarantino ha omaggiato il film con il suo nuovo lungometraggio. Da sempre noto fan di Leone, il regista Quentin Tarantino ha omaggiato il film del 1984, definito come uno dei suoi preferiti di sempre, con il titolo del suo nuovo lungometraggio, C’era una volta a… Hollywood, distribuito nel 2019 con protagonisti Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie.
C’era una volta in America: le frasi più belle del film
10. Il film contiene numerose frasi divenute celebri. Il film è divenuto celebre anche per le sue numerose frasi entrate nella storia del cinema, che sanno racchiudere il senso e l’atmosfera del film e dei suoi personaggi. Ecco alcune delle frasi più belle.
– Nessuno t’amerà mai come ti ho amato io. C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: “Deborah esiste, è là fuori, esiste!”. E con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me? (Noodles)
– Il tempo non può scalfire. (Noodles)
– A me piace da matti la puzza della strada, mi si aprono i polmoni quando la sento. E mi tira anche di più. (Noodles)
– Ho rubato la tua vita e l’ho vissuta al tuo posto. T’ho preso tutto. Ho preso i tuoi soldi, la tua donna, ti ho lasciato solo 35 anni di rimorso. Per la mia morte. Rimorso sprecato. (Max)
– Noodles, ci rimangono solo dei bei ricordi e se adesso uscirai da quella porta nemmeno quelli ti rimarranno. (Deborah)
– Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni? – Sono andato a letto presto. (Fat Moe e Noodles)
Fonte: IMDb
  Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
C’era una volta in America: 10 cose che non sai sul film
Tra i film più celebri della filmografia di Sergio Leone, e dell’intera storia del cinema, vi è C’era una volta in America, gangster movie dai toni epici che ha consacrato Leone come uno dei massimi autori del cinema mondiale. Malgrado lo scarso successo di pubblico alla sua uscita, con il passare degli anni il film […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Gianmaria Cataldo
0 notes
orsopetomane · 7 years
Text
Non sono mai appartenuto a un gruppo sociale nel vero senso del termine, anche se qualcuno direbbe che sono “di estrazione borghese”. Di sicuro non sono mai stato un uomo del popolo - e chi mi conosce sa che sono a malapena un uomo, come non smetto mai di ripetere.
Eppure ricordo di aver fatto qualche piccola esperienza illuminante, mai di tipo sessuale (purtroppo o per fortuna).
Mi torna in mente il mio vecchio gruppo di arti marziali. Ci allenavamo in una zona poco fuori città, in una palestra sporca da far schifo e ovviamente a piedi nudi.
C’era il maestro, che era un capocantiere di estrema sinistra, e sua moglie venuta dal Messico. I miei compagni di corso, tra cui un carabiniere berlusconiano, un fotografo sessualmente confuso, un operaio bulgaro immigrato con mezzi non del tutto leciti, una ragazza paffuta ma attraente, una ex-velocista frustrata che non mancava mai di criticare noi “giovani” (forse, quando cerchi di convincerti di essere sempre un passo avanti agli altri, è un segnale che stai invecchiando male). E un robusto ragazzo di colore che una sera ha sbarellato e si è messo a tirare calci volanti al maestro. Non ha più fatto ritorno.
Ecco, penso che anche i disadattati bibliofili e cinefili, i finti animali sociali digiuni di realtà come me possano trarre qualcosa di buono da esperienze simili. Perché non sono niente di che, ma per me hanno un valore.
Ed è una considerazione completamente fuori contesto, ma mi fanno ridere gli “eremiti impegnati” che sono i nostri politici, quelli che trasformano un giro in pescheria o una partita a calcio in eventi straordinari da documentare e di cui vantarsi, prove inconfutabili di una comunione profonda con l’umanità.
Le loro autobiografie piene di cazzate ed episodi lacrimevoli inventati di sana pianta, pubblicate non certo grazie al valore di ciò che contengono.
Comincio a pensare che l’anarchia sarebbe preferibile alla realtà in cui viviamo, ma mi rendo conto che solo un pazzo o uno stupido si augurerebbe una cosa simile.
Eppure non credo di essere stupido. E se davvero il mondo andasse fuori controllo, non penso che sopravviverei a lungo. Non sopravviverebbero i miei famigliari, e magari ci capiterebbero cose pure peggiori: finiremmo come in quel romanzo di Ballard, “Condominium”. Ne sono consapevole, ma l’idea suona comunque allettante.
Dunque sono pazzo.
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
“Bisogna vivere senza impostura e dare tutto di sé”. Tanti auguri, Boris Pasternak, il poeta dal candore crudele
Uno scrittore scrive la propria vita per distruggerla. Evoca gli istanti – consapevole che la parola non dice, lacera, non afferma, mente – per mascherarli di sabbia, farne pupazzi, annientarli. Sembra un paradosso ma si scrive la propria vita per dimenticarla.
*
Quest’anno, Boris Pasternak compirebbe 130 anni – il 29 gennaio secondo il calendario giuliano, in uso in Russia, all’epoca, il 10 febbraio secondo il gregoriano. Quest’anno, scoccano i 60 anni dalla morte. Per festeggiarlo, a Torino, dove è impazzito Nietzsche accarezzando un cavallo di bronzo e dove alcuni credono che sia sepolto il Graal, ho comprato la sua Autobiografia. Per l’ennesima volta. In giro esiste, a un prezzo economico. Ma questa, al di là della fattura – in cofanetto, illustrata – e della ricorrenza – è edita da Feltrinelli nel 1958, l’anno in cui Pasternak riceve e rifiuta il Nobel per la letteratura – custodisce qualcos’altro, prezioso. Le ultime poesie di Pasternak, la raccolta Quando rasserena. Il testo autobiografico è tradotto da Sergio D’Angelo; le poesie da Bruno Carnevali, Juri Kraiski, Mario Socrate. Questo mi confonde: Pasternak è passato per il Dottor Zivago, un romanzo che ha pagine immortali ma un romanzo, infine, narrativamente imperfetto, malriuscito. A Pasternak hanno dedicato un ‘Meridiano’ che raccoglie le Opere narrative. Che paradosso: si affannano a pubblicare le prose di un poeta. E le poesie? Al di là della sontuosa (ma molto parziale) antologia di Angelo Maria Ripellino per Einaudi e degli sforzi sporadici e magnifici di Passigli (che ha pubblicato Temi e variazioni, Anch’io ho conosciuto l’amore, Sui treni del mattino, per mano di tre traduttrici diverse: Marilena Rea, Elisa Baglioni, Paola Ferretti), non c’è un libro che raccolga tutte le poesie – con curatela doc – di uno dei poeti decisivi del secolo, di sempre, perché?
*
Quando Pasternak scrive l’ultimo saggio autobiografico lo fa per incendiare tutta la sua opera alla luce di ‘Zivago’, “la mia fatica principale, più importante, l’unica di cui non mi vergogno”. Il libro è un cauto assassinio, fin dalle prime righe, quando Pasternak sconfessa il precedente lavoro autobiografico, Il salvacondotto, pubblicato nel 1931, in realtà un capolavoro dalla scrittura scandita di balzi, di scatti. “Purtroppo il libro è guastato da un inutile manierismo, peccato che in quegli anni era assai comune”, scrive Pasternak, cercando di emendare quella colpa con un altro libro. Un libro che non lesina ferite.
*
Leggetela l’Autobiografia perché Pasternak dopo la scrittura selvatica degli anni Venti e Trenta, l’armonia trovata nei boschi, a sondare la marcia feroce del creato – quella scrittura per cui Ripellino andava in estro – tenta la misura del dio. La scrittura, intendo, è pacificata, paga, da titano; Pasternak non è più dentro le cose, i fatti, come allora, nell’oro della giovinezza, ma è sopra, al di là. Questa superiorità, però, gli permette di essere più crudele.
*
“Cercavo di evitare la teatralità romantica, l’effetto superfluo, l’esteriorità… Io non esprimevo nulla, non rispecchiavo, non raffiguravo, non rappresentavo nulla”, scrive Pasternak della sua poesia di allora, capace di libri memorabili come Mia sorella la vita. Il fatto che Pasternak screditi, quasi dilapidando il talento, la propria opera – un gesto da eresiarca, maledetto – non è il vezzo di un uomo viziato dal narcisismo. Nel suo poema più grande, Le onde, terminato nel 1932, Pasternak scrive che i “grandi poeti” sono “imparentati a tutto ciò che esiste… frequentando il futuro nella vita di ogni giorno”. Il poeta non è protetto dal presente – è proiettato nel futuro. Piroetta in ciò che ancora non c’è. Anche ‘Zivago’ farà la stessa fine: interpellato poco prima di morire, Pasternak dirà di sentire superato, superfluo, quel romanzo a cui ha dedicato anni di vita. Dirà di desiderare un nuovo spazio di innocenza e di candore, inesplorato, per la letteratura: “di fronte a me, ancora vivo, si libera uno spazio, la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite di questa comprensione. E dove posso io prendere le forze per fare questo?”. Che foga stupefacente.
*
Nell’autobiografia Pasternak non parla di sé. Di sé parla attraverso gli incontri che lo hanno formato, le città – autonome e autorevoli, come bestie – in cui ha vissuto. Questo fanno i poeti: parlano degli altri. Cioè, delle loro prede. Cercando di rendere giustizia all’amore che abbiamo provato, ne diamo testimonianza di tradimento. Le parole fanno questo: ammettono un tradimento. Dicono, danno i nomi – e chi scrive è altrove. Questa discrepanza – questa crepa – tra chi scrive e chi descrive è lì, devastante.
*
Pasternak inizia parlando di Mosca, con ingenuo nitore – “Sono nato a Mosca il 29 gennaio 1890, secondo il vecchio calendario, nella casa dei Lyžin, di fronte al seminario ecclesiastico del vicolo Oružejnyj”. Con tratti impressionisti, giungono sul nostro petto gli spettri di Aleksandr Skrjabin, il grande compositore, maestro di musica di Boris (“I ragionamenti di Skrjabin sul superuomo esprimevano l’antichissima tendenza russa verso lo straordinario… L’uomo, l’attività dell’uomo, doveva avere in sé quell’elemento di infinità, che serve per determinare il fenomeno, per dargli un suo proprio carattere”), di Aleksandr Blok (“l’impetuosità di Blok, il suo modo di scrutare ovunque”), Rilke (appena sfiorato, in giovinezza, è il maestro, l’icona, il futuro senza morte di BP), Lev Tolstoj, per cui il padre lavorava, illustrando i romanzi (“Era in un certo senso naturale che Tolstoj avesse trovato pace, si fosse spento in viaggio, come un pellegrino, presso le grandi strade della Russia d’allora, sulle quali continuavano a volare e a turbinare i suoi personaggi e le sue eroine, occhieggiando dai finestrini del treno quella stazioncina da niente, ancora ignari che lì s’erano chiusi per sempre quegli occhi che per tutta una vita li avevano scrutati, compresi e immortalati”).
*
Pasternak è uno scrittore del cosmo: non decritta la città, monumentale e per sempre caduta, ma la crescita vegetale della vita. Così, per dire della Rivoluzione del 1917, racconta il suo viaggio verso Mosca, il bosco. “Vedevo la strada nel bosco, le stelle della notte gelida. Alti mucchi di neve, uno a ridosso dell’altro, avevano reso gibbosa la stretta pista… Il biancore della coltre nevosa rifletteva lo scintillio delle stelle e illuminava il cammino”. Il contrasto è proprio del crudele candore di Pasternak. L’uomo si affanna e il bosco cresce, la Storia disfa e la natura crea, il tempo si misura in minuti e non per stellate, ogni cosa fondata dall’uomo affonda nel sopruso mentre è “biancore” la via per la foresta, scintillio esagerata e obbedienza alla neve.
*
Una poesia definisce l’etica di Pasternak, ed è meravigliosa, sembra un salmo, c’è sapienza animale, scrittura cristallina, futuro:
Essere famoso non è bello, non è questo che eleva. Non si deve tenere un archivio, trepidare per i manoscritti.
Fine della creazione è dare tutto di sé, e non lo scalpore, non il successo. È vergognoso, quando non si è nulla, diventare per tutti una leggenda.
Ma bisogna vivere senza impostura, vivere così che alla fine ci si attiri l’amore degli spazi, che si oda il richiamo del futuro.
E le lacune si devono lasciare nella sorte, e non fra le carte, i passi e i capitoli della vita intera segnando in margine.
E immergersi nell’oscurità e celare lì i propri passi, come nella nebbia si cela una contrada e non si vede più nulla.
Altri sulla viva orma percorreranno palmo a palmo il tuo cammino, ma la sconfitta dalla vittoria non sei tu che la devi distinguere.
E neanche di un attimo devi venire meno all’uomo, ma essere vivo, vivo e nient’altro, vivo e nient’altro fino alla fine.
*
Proprio perché è dedicato al futuro, immerso nella paglia, Pasternak si occupa dei morti. La sua Autobiografia, infine, è un omaggio a Marina Cvetaeva – “mi ci vorrebbe un libro intero, tante furono le esperienze vissute allora da noi due, in un rapido avvicendarsi di gioie e di tragedie” – e a Vladimir Majakovskij, sul cui suicidio si chiude il testo autobiografico. Il suicidio di Majakovskij sancisce la fine di un’era di cui già si era percepito il fetore cadaverico. Pasternak lo dice esplicitamente accennando agli “ultimi anni della sua vita, quando non vi fu più poesia, di nessuno, né sua né di chiunque altro, quando si impiccò Esenin, quando, per dirla più semplicemente, finì la letteratura”. La Storia, a quel punto, aveva macellato il poeta – Pasternak, orientato ai boschi, irredento alle stelle, riuscì a resistere.
*
L’Autobiografia di Pasternak ha per tema, in fondo, il suicidio. Pasternak è ossessionato dal suicidio della Cvetaeva, di Majakovskij, di Esenin e di tanti amici, non finiti nei libri di storia della letteratura, espulsi dal creato. “Chi giunge alla determinazione del suicidio mette su se stesso una croce, volge le spalle al passato, dichiara fallimento, annulla i ricordi. I ricordi non possono più raggiungerlo, salvarlo, soccorrerlo. La continuità dell’esistenza interiore è spezzata, la personalità è finita. Forse, tutto sommato, ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua”. Cercare una ragione al suicidio è ammazzare due volte il suicida, custodito in un terribile incanto. Arpionato al futuro, superiore al fragore del vivere, Pasternak non si è ucciso. Poiché lo dilania una simile ritrosia, le sue autobiografie sono un suicidio – scrivere la propria vita per ammazzarla.
*
“Nella vita, perdere è più necessario che acquistare. Il grano non germoglia se non muore. Bisogna vivere senza stancarsi, guardare avanti e nutrirsi delle riserve vive elaborate dall’oblio in collaborazione con la memoria”. Pasternak non è una creatura del sottosuolo, ci impegna al bosco – lì dove dopo aver espletato il rito arcano in devozione ai morti, in rinuncia alla metropoli e al suo stile, si gettano le pupille, tra le fauci dell’alba, snaturata. (d.b.)
***
Il grano
Per mezzo secolo ammucchi deduzioni, ma non le registri in un quaderno, e, se proprio non sei un idiota, qualcosa dovrai pure aver capito.
Hai capito la gioia del lavoro, la legge e il segreto del successo. Hai capito che l’ozio è maledizione, che non c’è felicità senza imprese.
Che altari attendono e rivelazioni, eroi e figure da leggenda il regno assopito delle piante, quello possente delle fiere.
Che fra le rivelazioni, prima è rimasta, nella successione dei destini, dal capostipite in dono alle generazioni, il grano cresciuto dai secoli.
Che il campo di segale e frumento chiama non solo alla mietitura, che in un tempo remoto questa pagina il tuo antenato ha scritto su te.
Che questa appunto è la sua parola, la sua straordinaria impresa nel ciclo terrestre di pene, di nascite e di morti.
Boris Pasternak
L'articolo “Bisogna vivere senza impostura e dare tutto di sé”. Tanti auguri, Boris Pasternak, il poeta dal candore crudele proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2RsN5sg
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
“Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”: dialogo con Marina Cuollo
Il libro si chiama “A Disabilandia si tromba” ed è edito dalla Sperling & Kupfer. Lei si chiama Marina Cuollo, è napoletana e ha un fratello a cui non piace la mozzarella “Nemmeno quella di bufala. Già, già. Lo so cosa stai pensando: è una disgrazia terribile, e forse è solo pazzo”. Ci siamo incontrati una prima volta in un pub che tutti conoscono per il nome che aveva in precedenza, prima del fallimento della vecchia gestione, ed è come darsi un appuntamento a Istanbul dicendosi “Allora ci vediamo all’ex-Constantinopoli?”. Ha scritto un libro coraggioso, cioè necessario, perché prende un tabù e lo rimodella, come fosse pongo, per apporre la propria impronta su ciò che ti vuole cancellare proiettando su di te la sua ombra. Leggerlo mi ha provocato sorrisi come cicatrici divertenti agl’angoli della bocca. Le ho proposto di parlarne assieme e quella che segue è la nostra conversazione. (a.c.)
Il libro è permeato dall’urlo “Lasciatemi divertire!”. Comunque un urlo.
Un urlo forte. Quando hai dovuto affrontare situazioni che hai fatto fatica a capire, in giovane età chiaramente, l’urlo matura e poi scoppia. L’urlo ha poi davanti a sé molti modi per esprimersi. Io ho scelto l’umorismo, un umorismo che contiene molti altri sentimenti, rabbia compresa. Un umorismo di denuncia.
Quando nasce l’idea di trasformare l’urlo in libro?
Tutto estremamente casuale. Sentivo fosse giunto il momento di esprimermi, di dare via libera alla mia urgenza di comunicazione, ma non sapevo ancora bene come sarei riuscita a farlo. Chi scrive poi, spesso lo fa da molto tempo. Sai come si dice? “Ah, io ho sempre scritto, fin da bambino…”. Ecco, io no. Per me è stata una scoperta. Sono una lettrice forte, quello sì, sin dall’infanzia, ma la scrittura è arrivata molto dopo, circa sei anni fa. Una scoperta totalmente inaspettata. Ho frequentato un corso di scrittura, sai? Pensavo: mollerò subito! E invece… ho scoperto di essere un pesce dopo essere entrata nell’acqua.
Se dico politicamente-corretto tu cosa mi dici?
Due coglioni! Sia chiaro: io non sono contraria al politicamente corretto a prescindere. In determinate circostanze è necessario, è importante, ed è giusto. Però! Quando diventa autocensura, o peggio ancora ipocrisia a buon prezzo, quando cioè le parole servono solo a dire il contrario delle proprie azioni, ne faccio volentieri a meno.
Te lo chiedo perché sull’aletta con le informazioni biografiche c’è scritto “Dottore in processi biologici e biomolecole”.
Ma guarda che dottoressa secondo me sarebbe stato più giusto. Allo stesso modo, fossi stata laureata in giurisprudenza, avrei preferito ci scrivessero avvocata. Non si tratta di politicamente-corretto ma di pari opportunità. Tenere al maschile le parole è una scelta di genere: con questa rivendicazione le donne non vogliono togliere niente agli uomini, ma avere semplicemente gli stessi diritti; se nessuno ha problemi a usare il femminile per professioni come “maestra” o “infermiera”, perché invece dovrebbero averne per “ministra”, “sindaca” o “avvocata”?
Quindi dalla biochimica alla letteratura: tutto sommato, sempre di scrittura della vita si parla, hai solo cambiato alfabeto. Non ricordo niente che si avvicini a un racconto simile a quello che tu fai nel tuo libro, è un territorio non ancora percorso. Oppure mi ero perso io qualcosa?
Su questo tema esistono le autobiografie, poi c’è la letteratura specializzata, scientifica, ma romanzi pochi. Nonostante alcuni dei miei libri preferiti siano autobiografie, io non impazzisco per quel genere. Trovo spesso autoreferenza e poco desiderio di raccontarsi. Per quanto riguarda i libri di formazione o didattica, quello non è il mio campo e di certo non voglio scrivere per gli addetti ai lavori. Disabilandia rientra nella saggistica, ma non è né un testo tecnico né pedagogico. Per me scrivere è stato voler uscire da una dimensione di autoghettizzazione, in parte imposta in parte accettata per quieto vivere. E il mio editore è stato subito d’accordo con me. Dopo aver inviato il libro in casa editrice mi hanno risposto dopo due settimane, con la proposta di contratto, e te lo assicuro: non succede mai! Il titolo ha sortito l’effetto desiderato: A Disabilandia si tromba stai sicuro che non passa inosservato, è un urlo fin dal titolo. E guarda che la mia prima idea di copertina era diversa da quella poi mandata in stampa, che è bella uguale ma forse meno esplicita. Nella copertina originale c’era un pompino in carrozzina.
Il libro è un manuale, ma per dirlo meglio: è una dichiarazione di cittadinanza. I disabili esistono, sanno dire “io” e hanno qualcosa da raccontare, della disabilità per esempio, e di un altro milione di cose. Però quando leggo: “La mia infanzia trascorreva quindi serena tra un’infezione respiratoria e una grave apnea notturna, fino a quando mi fu quasi impossibile respirare”, riportato come si trattasse della gitarella al mare, il passo di un romanzo in prima persona lo sento appieno. 
Il romanzo è sempre il mio primo amore, e in alcuni punti di Disabilandia probabilmente si sente. Ma a proposito del mio modo di comunicare la disabilità, qualche accusa mi è stata mossa, cose come: “L’ironia è una perdita di serietà!”. O se mi riferisco a chi si sposta in carrozzina come a un cingolato, o se scrivo: “Entrambi gli ausili sono facilmente estraibili: i normodotati senza scarpe sono liberi di camminare scalzi, i fuori classe senza carrozzine sono liberi di fare la foca sul tappeto”, molti pensano che utilizzi l’ironia per nascondermi, che non sia in grado di accettare non so quale mia condizione… Non è così, almeno per me è evidente. Se scrivo qualcosa di me e mi permetto di farlo con certe battute, è perché sia chiaro che sto trattando un argomento che conosco bene, che vivo ogni giorno, dopodiché già non m’importa più parlare di me. Se scrivo è perché voglio che agli altri arrivi non il mio essere disabile ma la mia voglia di ridere di tutto.
Leggo pure “l’operatore socio assistenziale, figura a cavallo tra l’unicorno e Padre Pio”. Manca il palco ed è subito stand-up comedian.
Ah, non sai quanto mi piacerebbe scrivere testi per gli stand-up comedian, mi piacerebbe così tanto che sono disposta a diventare una stand-up comedian io per prima. È qualcosa di molto diverso, un altro modo di comporre la frase, di darle il ritmo giusto, è qualcosa che mi piacerebbe tantissimo approfondire. Chi scrive sa che non si smette mai di imparare.
Il Quoque, il Tuttologo, il Ti Stimo&Ammiro, il Punisher, il Diversamente Ipocrita, il Falso Invalido, sono alcuni dei personaggi dei tuoi gironi cuolliani. “Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”. La tua definizione di sguardo normale.
Uno sguardo “bianco”, inteso come sguardo senza preconcetti. Lo sguardo di chi sa aspettare, di chi ascolterà prima di decidere con quali occhi guardarti. Chiaro che è uno sguardo raro, perché poi facciamo tutti così: guardiamo per incasellare, senza aspettare che la persona che abbiamo di fronte ci mostri realmente chi è. Abbiamo paura di quello che non conosciamo, spesso è la paura che ci muove.
Del disabile vorrei-ma-non-posso scrivi: “La sua vita è, di solito, costellata da attacchi di panico e ansie smisurate per cose che non sta per fare”. Il ritratto perfetto dell’uomo-contemporaneo.
Infatti! Io racconto il mondo dal mio punto di vista ma è lo stesso mondo di tutti, Disabilandia non è un luogo esclusivo. Siamo tutti uguali e diversi cioè siamo umani, mica chissaché.
Il tuo umorismo si spinge volentieri nella satira, gli argomenti ci sono tutti: la morte, il sesso, la politica. Nel libro non mancano le staffilate alla religione.
La religione, e siccome siamo in Italia quella cattolica, ha questa declinazione: la sofferenza intesa come una via preferenziale per il paradiso, per te che soffri e per chi si accollerà la tua sofferenza. Sono nata con una disabilità? Che culo! Supererò le file al supermercato e pure quelle per il regno dei cieli. Scherzi a parte, sono atea ma non per questo ho un giudizio sfavorevole sulla fede. Credo che la religione aiuti le persone a stare meglio con sé stesse. Quando però diventa l’occasione per delle insopportabili pratiche pietistiche, masochistiche, meglio lasciar perdere.
Ridere, ho riso tanto leggendo il libro, poi però viene il capitolo “I disabili oggi”. Svolgimento: “Non ci ammazzano più, ma a volte fa male uguale”. Ed è come passare per caso davanti a un monumento alla memoria dell’Olocausto in una città straniera: vuoi non vuoi ti soffermi lo stesso e ti prende un magone che non puoi dire bene cos’è. 
Esiste una relazione molto forte tra scrittura e dolore. Ed esiste una storia. In questo senso per i disabili vale come per molte altre minoranze: non siamo sbarcati da nessuna altra galassia, né siamo apparsi dal nulla soltanto nell’epoca più recente per rompere i coglioni ai poveri contemporanei. Siamo sempre stati qui, anche se nessuno scriveva le nostre storie oppure le scriveva in un modo che lasciamo perdere. Con la letteratura ci prendiamo la cittadinanza che ci spetta; lasciassimo tutto in mano alla società cosiddetta civile staremmo freschi.
Esistono, in ordine sparso: i romanzi rosa, quelli gialli, i noir, gli arcobaleno, i tricolori, e via andare. Qual è la trappola più pericolosa per te ora: diventare la scrittrice disabile o la scrittrice che deve farci ridere? 
La seconda eventualità mi infastidisce ma meno della prima. Non voglio essere considerata una scrittrice che, in quanto disabile, scriverà sempre e soltanto di disabilità, sarebbe l’ennesima etichetta. Io che di mio puoi immaginare quanti pregiudizi debba sopportare mi sono anche scelta un tipo di scrittura che subisce a sua volta molti pregiudizi, quella umoristica, come se l’umorismo fosse un sottogenere, non della vera letteratura. Ah, e facci caso, la maggior parte degli scrittori umoristici riconosciuti a livello letterario sono quasi tutti uomini: Pirandello, Jerome K. Jerome, Alan Bennett, Douglas Adams, per citarne giusto alcuni. E se sono donne il più delle volte o sono autrici Chick-lit, quindi sempre con il cuoricino in mezzo, o sono comiche riconosciute perché sono anche sul palcoscenico. Io non credo che non ci siano state delle umoriste altrettanto degne di essere riconosciute nella storia della letteratura, ma probabilmente, essendo donne non rispettavano il ruolo previsto per il loro genere, quindi: niente contratto. Adesso lentamente qualcosa si muove, ma siamo ancora lontani da una presenza pari a quella maschile, e in ogni caso spero di essermene fatta scappare io qualcuna sotto gli occhi. Quindi, se avete nomi di scrittrici umoristiche fateli subito. Li voglio!
Per concludere: per prepararmi all’intervista ho salvato sul computer un file col nome “A Disabilandia si tromba. Domande”. Se tu fossi della Polizia Postale, che effetto ti farebbe? 
Penserei: vivaddio, mi fa piacere! Non mi preoccuperei più di tanto. Sono altri i titoli che mi preoccupano, e tante volte sono pure i primi della classifica.
Antonio Coda
L'articolo “Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”: dialogo con Marina Cuollo proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/366Pw8a
0 notes
pangeanews · 5 years
Text
Sellerio ripubblica Graham Green: ben fatto! Qui un inedito in cui il sommo scrittore inglese ricorda il suo incontro con Borges: “si fermò sul filo del marciapiede e recitò una poesia di Stevenson per me…”
Ben fatto, Sellerio! Ottima la decisione di rilanciare Graham Greene (1904-1991) col romanzo del 1973 Il console onorario. Una classica storia di quel periodo, tra rapimenti e ricatti a generali, ripassata in salsa argentina per gli amici di Greene di quel periodo, capeggiati dalla generosa matrona letteraria Victoria Ocampo e faceva sdilinquire Garcia Marquez. Prima de Il console c’era stato un più breve romanzo, In viaggio con la zia, che sarebbe bello veder nuovamente disponibile invece nada. Prima di questo la leggenda, Il nostro uomo all’Avana, utilissimo per capire come le invenzioni della scrittura anticipino gli avvenimenti. Il romanzo è del 1958, l’invasione della baia dei porci seguì di lì a tre anni. Questo era il Greene affermato come autore, quello che si fece il piedistallo che non gli serviva con Il fattore umano nel 1978 che si apre e si mantiene nel segno di Conrad, facendoti respirare l’aria di Londra come con la bombola d’ossigeno.
*
Tutti questi racconti si sono obliati nei ‘Meridiani’ Mondadori, precisamente nel secondo dei due volumi. Quanta cura e premura. Sellerio non ha in animo di riprenderli: giustamente. Occorreva rilanciare le cose un po’ meno note, quelle giovanili del primo mattoncino dei ‘Meridiani’: Una pistola in vendita, Il potere e la gloria (traduceva Vittorini per gli aficionados), Il nocciolo della questione (che mandava in visibilio l’ultimo Orwell) e poi Il terzo uomo e L’americano tranquillo, opere che spaziano dal Messico al sudest asiatico passando per la Vienna della prima guerra fredda. Per tutti i gusti. Però sarebbe stato utile avere di nuovo con Sellerio Missione confidenziale e Quinta colonna. Il tempo farà giustizia a Greene, ma siamo a buon punto per il risarcimento.
*
Il suo primo romanzo, L’uomo dentro di me, uscì esattamente novant’anni fa, non è incluso nei Meridiani né Sellerio prevede di ristamparlo. Altra notizia curiosa prima di andare al punto: Greene era molto amico di Mario Soldati che gli dedicò un bestiario di fantasmi, Storie di spettri. Greene passò molto tempo a Capri a scrivere lettere fedifraghe (l’ha raccontato anche un documentario Rai andato in onda poche settimane fa, in seguito a quelli su Dick e Saint-Exupéry). Insomma i legami tra Greene e l’Italia erano tutt’altro che tenui, ma dopo le edizioni ‘storiche’ di Mondadori il nostro ha patito questa marmorizzazione nei Meridiani, cinto da introduzioni alle introduzioni, e buona notte. Chi s’è visto s’è visto. Chi lo leggeva fino a pochi anni fa? Era mai possibile che con una ventina di romanzi, un paio di autobiografie, dei resoconti conradiani di viaggi in Africa e una vita magnetica che attirò le attenzioni del suo biografo inglese (tre volumi in totale) di lui si scrive e si dica poco? Facciamo chiarezza.
*
Greene è un autore. In UK le sue prime edizioni vanno a ruba in tutti i negozi di antiquariato. Piace ancora quella copertina da libro popolare che dopo mezzo secolo ancora tiene. Nel tube di Londra mi capitava di incontrare seduto tranquillo un uomo in giacca di velluto e occhiali di tartaruga il quale leggeva Secret Agent di Conrad: è un buon libro, gli dico uscendo e lui con notevole spocchia (overstatement), con quella sciatta superiorità coloniale, mi risponde lo sto rileggendo. A Londra ci sarà meno nebbiolina che per il passato, ma l’aria è sempre quella della diffidenza e le Carré difficilmente rimpiazzerà i classici Greene e Conrad. E la filosofia degli Inglesi qual è? La menzogna. Soprattutto quella rivolta a se stessi. Se non sai nasconderti la verità, lei scappa e gli altri te la afferrano, ti prendono. Così si capisce meglio la citazione da Conrad che apre Il fattore umano: “Soltanto so che chiunque formi un legame, è condannato”.
*
Gli esordi di Greene non furono semplici. Imperava la cricca di Bloomsbury sia in prosa che in poesia. Guarda caso la Woolf spregiava Conrad, taceva di Dickens con la scusante dello stile, mentre Greene idolatrava entrambi questi numi, al punto da lanciare questo giudizio: “quei signori e quelle dame ti portano in un mondo sottile come i fogli delle carte da gioco, e lì Bloomsbury si aggira come re, donna, fante”. Non male. Greene era in fondo abbastanza tormentato, non era uno snob superficiale. Di lui ha scritto il premio Nobel Golding che “era il perentorio cronista dell’ansia di coscienza nell’uomo del XX secolo”. Forse per questo nel 1967 fu a due passi da vincerlo anche lui, il Nobel.
*
In ogni caso Greene non era il tipo da mollare la presa. Pubblicò un libro di poesie, Babbling April (Aprile parolaio) nel 1925 e fu stroncato. Il rischio c’era fin dal titolo, che ripeteva un verso della poetessa Edna St. Vincent Millay (Pulitzer per la Poesia in quel giro d’anni): “non basta che una volta all’anno, giù per la collina / Aprile / arrivi come un idiota, blaterando e spargendo fiori”. Insomma una scelta arrischiata, non scontata. E il libro fu bistrattato dal Times che lo definì “pieno di fatterelli inconseguenti e irrilevanti, e pure di qualche parolaccia”.  Greene capì che doveva finire di laurearsi. Materia scelta: storia. La stroncatura presa dal Times a 21 anni non lo disarcionò.
*
Tra le poesie di Greene giovane si salva senza pericolo questa, Infanzia : “Dovessi scegliere fra una vita impagliata, / e la poesia / la vita, un bus che trema in una confusione dorata, / luci che salgono al cielo formando una corona mobile, / folla e vetrine di negozi, lampioni, meraviglia; / e poesia  piccolo cavallino di legno / dalle zampe inamovibili / e criniera sempre fuori posto / la mia scelta ti sorprenderebbe e molto, presumo. / Ma di qui: mai persi la mia infanzia”. Interessante questa presa vitalista, poco compassata, poco a sangue freddo puritano – e che somiglianza con il gesto e l’accetta di Majakovskij, quando consigliava a chi volesse scrivere poesie d’amore di prendere un bus dal tragitto tutto buche e scossoni – perché lui Majakovskij avrebbe fatto uscire dal tempo la gente come se si trattasse di scendere da un pullman. Ma sono altre atmosfere.
*
Qualche dato sulla famiglia. L’ambiente domestico di Greene è composto da una sorella già dentro il Servizio Estero: era lei la pecora nera e cattolica della famiglia che fa convertire Graham al cattolicesimo a 25 anni (anche) per sposarsi. Poi da vero cattolico avrà pochissimo rispetto per l’istituzione: un donnaiolo, un uomo di mondo, le foto lo ritraggono a suo agio col cocktail in mano. Green non si fermò più. Fu reclutato in MI6 dalla sorella. Fine dell’inciso. (In realtà per doveri di ‘servizio’ fu in Sierra Leone nel 1936). L’autore della biografia di Greene in tre volumacci era Norman Sherry, un professore nordamericano che al terzo volume appone una nota finale di pugno di Greene: poche ore prima di morire, rendeva ufficiale che i materiali privati andavano pubblicati interamente. Lezione di finezza inglese per noi italioti. Tra i documenti: una nota stesa a mano, timbro Whitehall, dove Greene elenca cinquanta donne libere o meno assoldate al piacere. La numero 46 è descritta in modo singolare come ubicata a Piccadilly e di stato ‘single’. Credo che dal cattolicesimo arrivasse a Greene questo senso di pulizia poco puritana che gli fece consegnare ogni possibile traccia al biografo, per il quale è pappa pronta, la via del successo tracciata in mezzo ai relitti.
*
Il nemico in Greene è sempre fluido, mentre le Carré lo fissa nel carattere russo (orientale?) di Karla. Però anche Greene arrivò alle stesse conclusioni di Greene, cioè ebbe poche certezze. Guarderà nello specchio, ci scaverà dentro e troverà il nemico: elegante, potentissimo, mentre Greene è una povera rotella di una intelligence occidentale, più impiegato che operatore assoluto della Ragion di Stato (come Misha ne La spia che venne dal freddo, manuale di spionaggio per principianti). Invidia suprema dei britannici, ma invidia intelligente, per l’Oriente. Una delle ragioni per cui molti inglesi andarono con il KGB, a parte quelle di gusti privati, fu che una spia del Comitato era infinitamente più potente di un piccolo e emarginato, fin da allora, operativo delle intelligence occidentali, trattato malissimo da politicanti che lo stanno già immergendo nella merda che loro stessi hanno prodotto.
*
Ultimo dato importante prima di dare voce all’inedito in italiano. Greene lanciò un suo drink alcolico. L’idea gli venne nel 1951 mentre era ad Hanoi. Questa la procedura: riempire lo shaker all’orlo con ghiaccio, poi prendere 25 ml di Vermouth, un bicchierino di Creme de Cassis (o simile) e 50 ml di dry gin. Aggiungere un paio di bacche di ginepro. In seguito, versare Vermouth e Cassis, agitarli intorno al ghiaccio, senza preferenze per senso orario o antiorario, per pochi minuti. Quindi aggiungere il vero proiettile: il gin. Agitare ancora. Agitare per poco e quando la superficie è stabile versare in bicchiere freddo per Martini. Cheers!
*
Dal lato materno Greene era imparentato con Stevenson. Ora immaginatevi l’incontro tra lui e lo Stevenson argentino, nonno Borges. La loro amicizia fu un fatto reale solo che le due penne di Baricco e Domenico Scarpa l’hanno tralasciata, mentre presentavano l’ultimo volumetto Sellerio de Il console onorario. Facciamo giustizia ai libri, ogni tanto, e recuperiamo In memoria di Borges da Reflections di Greene, era in origine una nota del 1984 per gli Amici anglo-argentini di Londra. Niente di accademico, si capisce, tutta libertà e fantasia. Did you hear me well, publishing houses?
Andrea Bianchi 
***
Graham Greene, In memoria di Borges
Vorrei richiamare l’occasione nella quale incontrai Borges. Ero invitato a pranzo dall’amica Victoria Ocampo e fui incaricato di accompagnare Borges dalla Biblioteca Nazionale dove si trovava fino alla casa di lei, per quella sua cecità. Appena la porta si fu chiusa dietro di noi incominciammo a parlare di letteratura. Borges parlava dell’influsso subito da Chesterton (antico) e da Stevenson (recente). Soprattutto dalla prosa di Stevenson. Lo interruppi. Stevenson aveva scritto una bella poesia, almeno una per me, sui suoi antenati che avevano costruito grandi fari lungo la costa scozzese. Sapevo che gli antenati erano materia borgesiana. La poesia partiva così:
Say not of me that weakly I declined The labours of my sires, and fled the sea, The towers we founded and the lamps we lit, To play at home with paper like a child”
Era una strada di Buenos Aires molto affollata e rumorosa. Borges si fermò sul filo del marciapiede e recitò la poesia intera per me, parole esatte. Dopo un pranzo soddisfacente si sedette sul sofà e citò a blocchi notevoli i poemi anglosassoni. Lì temo di non esser riuscito a seguirlo. Ma guardavo la sua faccia mentre recitava ed ero meravigliato dall’espressione dentro quegli occhi ciechi. Non sembravano affatto tali. Come se guardassero dentro di sé. Curioso. E nobilissimo.
Anche Borges, si capisce, sentiva i suoi antenati. I gauchos. Ne sono pieni i suoi ultimi racconti. Ad esempio là dove dice “noi argentini aspiriamo alle pianure sterminate che sono attraversate dagli zoccoli dei cavalli”. Fu uomo di coraggio. Durante il secondo periodo di Peron viveva con la madre e ci fu una telefonata misteriosa a casa loro. “Veniamo a uccidere te e tua madre”. Lei rispose “Ho novant’anni, meglio se fate presto. Per mio figlio sarà facile per voi, è cieco”. Questo, penso, fornisce un’immagine di cos’era la famiglia.
Per me, Borges parla per tutti gli scrittori. Ancora e sempre nei suoi libri trovo frasi che sono la mia esperienza come scrittore. Diceva che la scrittura è “un sogno che guida” ed ebbe modo di scrivere “compongo per me stesso e per gli amici, e per semplificare il trascorrere del tempo”. Cosa che farà sentire vicino a lui tutti gli scrittori.
Graham Greene
***
La poesia di Stevenson che fece divertire Borges e Greene è tratta da Sottoboschi, 38 e suona così:
“Non dite di me che ho lasciato perdere come un debole Le fatiche dei miei maggiori e me ne sono fuggito per mare, Quelle torri che ergemmo e quelle luci accese in alto, Per giocare a casa con la carta come un bimbo. Ma dite semmai: nel pomeriggio della vita Una famiglia determinata si è pulita le mani della polvere Di granito, e mantenendo lontani Dalla costa che risuona Le sue piramidi e gli alti memoriali Laggiù a catturare il sole morente, Sorrideva tutta contenta, e a questo compito puerile dedicava intorno al fuoco le ore della sera”
* la traduzione è di Andrea Bianchi
**In copertina: Graham Greene, calice in mano, con Carol Reed, il regista de “Il terzo uomo” (1949), capolavoro sceneggiato proprio da Greene
L'articolo Sellerio ripubblica Graham Green: ben fatto! Qui un inedito in cui il sommo scrittore inglese ricorda il suo incontro con Borges: “si fermò sul filo del marciapiede e recitò una poesia di Stevenson per me…” proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2HKgsl7
0 notes