#Resistere non serve a niente
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"Resistendo non si supera mai nulla.
Una cosa la si supera soltanto entrandoci dentro più a fondo.
Se sei maligno, prova a essere ancora più maligno. Se reciti accentua il tuo modo di recitare.
Qualunque cosa sia, se ci si entra dentro abbastanza a fondo scompare: viene assimilata
Resistere, in qualsiasi modo, non serve a niente.
Bisogna entrarci dentro - entrare in rapporto con la cosa.
Bisogna entrare in rapporto con il dolore, con l'inquietudine, con quel che c'è, qualunque cosa sia.
Usala, la tua malignità. Usalo il tuo ambiente. Usa tutto quel che invece combatti e respingi. Vantatene!"
Fritz Perls: la terapia gestaltica parola per parola. Roma, 1980, p. 219
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Non so perché ti scrivo, forse per sfogarmi. Sono molto stanca e stufa, niente riesce più a darmi sollievo, nemmeno leggere. Vorrei solo fermarmi e dormire in eterno. Faccio sempre più pensieri negativi e mi chiedo sempre più spesso perché sono ancora qui. Credo che sopravvivo per non dare un dispiacere a chi voglio bene, ma non so fino a quando riuscirò a resistere.
Sono sicuro che se una persona a te vicina dicesse che vuole farla finita, che è stanca perché non riesce più a andare avanti, tu sicuramente le parleresti in maniera molto delicata, per incoraggiarla e dirle che va tutto bene, è normale avere bassi nella vita ma il mondo va avanti, deve andare avanti. Non è così? E poi ci siamo noi, che parliamo a noi stessi come se stessimo facendo qualcosa di così cattivo, sembra quasi che meritiamo quella crudeltà "non vali nienta". Adesso, quel che mi chiedo io è perché non parliamo agli altri nella stessa maniera in cui parliamo a noi stessi? Perché non se le meritano dici? Perché stanno soffrendo e gli serve qualcuno che gli dia forza? Magari è così. Allora perché non tratti te stessa nella stessa maniera? Perché non cerchi di comprenderti come lo faresti con gli altri? Inizia a parlarti, perché la persona più vicina a te sei proprio tu stessa.
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Io ho cercato volontariamente il leak (e l'ho pure salvato sul cellulare per potermelo riguardare facilmente) perché onestamente mi conosco e so che non avrei mai aspettato il 28 luglio senza più aprire Tumblr. Ti scrivo ora perché ho un disperato bisogno di parlare (in italiano) con qualcuno che ha effettivamente visto il leak. A me pare di essere in una gabbia di matti perché vedo le opinioni più disparate girare. A me non disturba il leak di per sé, non mi frega niente o quasi niente di subire spoiler di media (anzi spesso mi spoilero volontariamente alcune cose ahahah). Quello che mi lascia l'amaro in bocca è che ho la sensazione che Amazon l'abbia fatto apposta, giusto per creare polemica (e farsi fare i complimenti perché #ally) durante il mese del pride e che abbia potuto farlo perché tanto Neil Gaiman è in sciopero. Una mossa di rainbow capitalist che sì, da Amazon che cavolo ti aspetti ma allo stesso tempo mi fa vomitare. La cosa invece che mi sta letteralmente uccidendo è che NON C'È CONTESTO. Una parte di me ha paura che sia un bacio finto (magari è un sogno?? Non avviene???) o tra Maggie e Nina, che okay viva le lelle ma perché farlo COSÌ (queerbaiting PTSD fr). Cioè il bacio sembra così aggressivo?? CHE CAVOLO È SUCCESSO PRIMA??? È tipo una situazione alla scena del muro della s1 ma stavolta uno dei due ha chiuso la distanza come in migliaia di ff/fanart???? Ma soprattutto CROWLEY HA GLI OCCHIALI PERCHÉ HA GLI OCCHIALI??!?! Dal trailer pare che sia più a suo agio e se li tolga più spesso con Aziraphale quindi qualcun'altro è lì con loro?!?! Io più di un mese come resisto?!?
Insomma I'm totally normal about it 🙃
CHE MOOD TUTTO BRO
anche io so perfettamente che non sarei riuscita a resistere con un semplice trailer fino a fine luglio, ci si chiede decisamente troppo. se ci sarà una leak come nel 2019 che mi escono tutti gli episodi così de botto, io lo dico che sarò la prima a fare il salto sul carro delle merde. e lo farò con orgoglio
concordo sulla mossa di rainbow capitalism, e mi dispiace perchè come dici tu il bro è in sciopero quindi non può avere chissà che contatti con gli stronzi che hanno fatto sta roba. io davvero non mi metto nei suoi panni, ci si può solo immaginare il nervoso che ha addosso sto povero uomo
e il fatto che non ci sia contesto è positivo per quanto riguarda la parte di spoiler, cioè è praticamente come se non fosse successo niente perchè NON SAPPIAMO PROPRIO 0 NADA di cosa succede prima, durante, dopo. e mi fa smattare che stiamo mettendo tutti i nostri occhiali di pessimismo powerati dai traumi degli show televisivi venuti prima di questo fgjdsnkfd (queerbaiting PTSD PER DAVVERO)
il sogno non mi convince, anche perchè se fosse un sogno sarebbe 100% un sogno di crowley considerando che è lui quello che (di solito) dorme. il che forse mi fa piangere un pochino. il che forse mi fa piacere l'idea del sogno
Nina e Maggie è stato il mio primo pensiero ma cOME CAZZO hanno fatto ad entrare nei loro corpi??? non lo sappiamo ma so solo che sarà una roba di un'ignoranza superlativa and im here for it
ripeto l'unica cosa certa è che david tennant ha baciato michael sheen and served cunt while doing it. di michael considerando la scritta in mezzo al cazzo, il pixellaggio e l'oscurità della scena non possiamo dire (per ora) la stessa cosa. can't wait to be proven wrong
#fhkdnjgkfgfdj#quando vuoi sclerare in italiano i'm always here#good omens#good omens spoilers#italian tag#ask
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SPORTIVA-MENTE
Hai presente quando ti senti solo, come se la vita ti voltasse le spalle?
Quei momenti dove ti mancano le energie e, per quanto cerchi di resistere, senti proprio che non ne hai più.
Ti è stato insegnato che bisogna avere coraggio, lottare, combattere, resistere?
O ancora, che bisogna saltarne fuori da soli?
Non so a cosa pensi, oppure a cosa credi in quei momenti, nei momenti in cui ti senti in difficoltà.
Quando ti senti stanco, svogliato, triste.
Ho sempre pensato che il sorriso sia la chiave per trasformare ogni cosa, il sorriso è terapeutico, almeno lo è per me.
Anche quando non ho tanta voglia, ma mi sforzo di accennare un sorriso, piano piano qualcosa comincia a cambiare dentro.
Ma ci sono momenti dove prima di accennare quel sorriso puoi concederti un piano, un pianto liberatorio, un pianto che lava via la polvere che si è posata sul tuo cuore, quel pianto che tante volte ci è stato insegnato che è cosa per i deboli, che non bisogna piangere, che tanto non serve a niente.
Mi piace pensare che il pianto possa annaffiare il fiore che sboccerà, attraverso quel sorriso che arriverà dopo che hai lavato via la polvere.
Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?
Io l’ho fatto ieri.
https://www.lucianadocarmo.com
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“ Si delinea un potere a doppio fondo, in cui chi comanda davvero si occulta dietro le chiassate dei media; la criminalità vivrà sicura e sdoganata se un’informazione cieca continuerà a dipingerla come un morbo alieno da cui ripulirsi come da una macchia sul vestito – così potrà prosperare in un’alterna spirale liberamente oscillante tra costruzione e distruzione; una queer economy in cui le voci dell’indifferenza e del delitto riusciranno ad armonizzarsi in un avvolgente basso continuo. “Certo, quante cose si potrebbero fare coi soldi che noi ci imboschiamo, di quante speranze priviamo le giovani generazioni”; ma non sono soldi veri, una volta estratti dal flipper del mercato perdono il loro profumo. C’è chi teme che, come nel secolo breve, la recessione conduca alla violenza e alle guerre mondiali; ma al tempo delle rivoluzioni russa e fascista l’età media era la metà di oggi e il sangue ribolliva il doppio. Ormai le masse sono atomizzate e disperse, i ragazzi che saccheggiano i negozi rubano gli iPad e si contemplano compiaciuti in differita; gli striscioni nelle manifestazioni degli indignados dicono “dividiamo la grana”. Nessuno vuole davvero rinunciare al potere salvifico del consumo, le vittime sono invidiose dei carnefici ed è facile ingannarle con l’elemosina di un simulacro anche miserabile. Le vecchie oligarchie gettavano al popolo manciate di monete d’oro dalla carrozza, ora basta fargli sentire il rumore di un jingle accattivante o intravedere il fulgore di una farfallina tatuata – gettare monete è inutile, tutte le monete del mondo non rappresentano che il tre per cento del denaro globale. L’umanità non vuole accettare quel che lei stessa ha scoperto: che la vita non dipende dall’amore, che i sentimenti sono essudati della biologia, che l’individuo non è più laboratorio di nulla e che il mercato è in grado di fornire l’intero kit per un’individualità fai-da-te. I regolatori del nuovo equilibrio dovranno sapere che la virtualità è l’oppio dei popoli e la psicologia un placebo; che l’epopea del singolo è finita e d’ora in poi avranno a che fare con organismi collettivi, colonie tipo i coralli o le spugne, compattati dalla scienza come nell’alto medioevo li compattava la religione. Le invenzioni della finanza sono l’estremo titanico tentativo di rivolgersi verso l’alto (le obbligazioni a cent’anni con cui si crede di addomesticare il debito!), alla scalata di un paradiso sia pure artificiale, prima della modestia concentrazionaria e obbligatoria. Dio sta morendo anche nei suoi surrogati. Se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensioni dell’eros contro il grigio della rinuncia? “
Walter Siti, Resistere non serve a niente, Rizzoli, 2013⁹ [Prima edizione 2012]; pp. 281-83.
#Walter Siti#Resistere non serve a niente#Rizzoli#letture#libri#politica#letteratura italiana#letteratura#postmodernismo#letteratura postmoderna#letteratura contemporanea#leggere#letteratura italiana contemporanea#narrativa italiana#citazioni letterarie#democrazia#oligarchia#uguaglianza#consumismo#modernità#globalizzazione#solidarietà#disuguaglianza#società di massa#Occidente#criminalità finanziaria#criminalità organizzata#finanza#speculazione#edonismo
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Dritti in mezzo alle macerie
Al di là del fatto che possano aver ragione o meno (non è questo il punto), fermatevi un attimo a riflettere su ciò che hanno fatto in questi due anni tutti coloro che non si sono piegati alle imposizioni del sistema. Vi rendete conto che si tratta di persone che sono state criticate e umiliate sia dai telegiornali che da amici, parenti e colleghi? Molti di loro hanno perso il lavoro, a un certo punto non si poteva più entrare alle Poste per pagare una bolletta, molti insegnanti si sono ritrovati a fare le pulizie nella stessa scuola dove pochi mesi prima insegnavano di fronte a una classe... ma hanno resistito!
Se una persona con una famiglia a carico, si fa sospendere o addirittura perde il lavoro pur di non sottostare a un’imposizione sanitaria, non è importante se ha ragione e se la sua sfiducia nello Stato è giustificata, semmai si dovrebbe indagare su che tipo di persona è questa. Se esistessero ancora dei giornalisti, andrebbero da queste persone e le intervisterebbero, per verificare se in mezzo a loro ci sono davvero solo fanatici, ignoranti con bassa scolarizzazione e complottisti. E anche se lo fossero tutti... bisognerebbe comunque tener conto del fatto che questi cosiddetti “ignoranti” o “complottisti” sono disposti ad essere messi all’indice, insultati e trattati come “diversi” e anti-sociali, pur di portare avanti le proprie convinzioni.
È vero, alcuni di loro non si sono fatti inoculare strane sostanze per paura degli effetti avversi, ma questo non toglie che siano stati insultati ed emarginati come gli altri... talvolta anche dagli stessi figli... eppure hanno resistito. E poi, quanti di voi che stanno leggendo, hanno evitato il trattamento sanitario obbligatorio SOLO PER UN PRINCIPIO e non anche perché avevano paura di farsi iniettare nel sangue delle sostanze create da un’azienda privata? Rispondete sinceramente.
Se io avessi un esercito, vorrei persone del genere fra i miei guerrieri. Se io fossi a capo di una grande azienda, vorrei persone del genere fra i miei collaboratori. Che qualità umane possiede, invece, un individuo che il mattino dopo corre a fare ciò che gli ha detto di fare il telegiornale la sera prima? A cosa mi serve uno così?
Qualche giornalista, sociologo o qualche politico, anziché limitarsi a decidere se queste persone avessero ragione o meno nel portare avanti le loro idee anti-sistema, ha riflettuto su quale piccola, ma importante, fetta di umanità è emersa da questi due anni di pandemia?
Fernando López-Mirones lo ha fatto. Questo è il suo magnifico articolo, una sorta di Manifesto della Resistenza Anti-Sistema:
«Anche se fossi polinoculato e con vaccinazione completa, ammirerei i purosangue per essere stati capaci di resistere alla più grande pressione mai vista, anche da parte di partner, genitori, figli, amici, colleghi e medici.
Le persone che sono state capaci di tale personalità, coraggio e capacità critica sono, senza dubbio, il meglio dell'umanità. Sono ovunque, di tutte le età, livello educativo, condizioni e idee. Sono di una pasta speciale, sono i soldati che ogni esercito di luce vorrebbe nelle sue file. Sono i genitori che ogni bambino vorrebbe e i figli sognati da qualsiasi genitore. Sono esseri al di sopra della media delle loro società, sono l'essenza degli umani che hanno costruito tutte le culture e conquistato orizzonti. Sono lì, accanto a te, sembrano normali, ma sono dei supereroi.
Hanno fatto quello che altri non hanno potuto, sono stati l'albero che ha resistito all'uragano degli insulti, delle discriminazioni e dell'emarginazione sociale. E lo hanno fatto pensando di essere soli, credendo di essere gli unici.
Banditi dai tavoli delle loro famiglie a Natale, non si è mai visto niente di così crudele. Hanno perso il lavoro, hanno lasciato che le loro carriere affondassero, sono rimasti senza soldi... ma non gli importava. Hanno sopportato discriminazioni, segnalazioni, tradimenti e umiliazioni incommensurabili... ma hanno continuato.
Mai prima d'ora nell'umanità c'è stato un “casting” simile, ora sappiamo chi sono i migliori sul pianeta Terra. Donne, uomini, vecchi, giovani, ricchi, poveri, di ogni razza o religione, i purosangue, gli eletti dell'arca invisibile, gli unici che hanno saputo resistere quando tutto è affondato.
Questi siete voi, avete superato una prova inconcepibile a cui molti tra i più duri marines, commando, berretti verdi, astronauti e geni non hanno saputo resistere. Siete fatti della stoffa dei più grandi che siano mai esistiti, quegli eroi che nascono tra le persone normali e che brillano nell’oscurità.»
Fernando López Mirones
http://www.salvatorebrizzi.com/2022/08/dritti-in-mezzo-alle-macerie.html?m=1
#Fernando lopez mirones#salvatore brizzi#resistenza#letteratura#frasi#covid 19#coronavirus#covid2020#covidquarantine#no vax#complottisti#rinascita#positivity#not in my name#giornalismo#writing#resistenti#opera letteraria
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Per quanto tempo una persona puo’essere forte? Sopportare, sopportare, sopportare... possibile non ci sia altro da fare?
Il dolore in questi giorni non mi da’ tregua, ogni giorno si riaffaccia, impossibile da dimenticare. Ero stata bene per un bel po’, e ora sono tornata come all’estate scorsa, non passa giorno in cui lo stomaco mi si aggrovigli con la schiena come quando strizzi uno straccio, che lo avvolticcioli forte e lo comprimi finche’ l’ultima goccia d’acqua non se n’e’ andata.
Non mi piace parlare di questo, e poi alla fine non e’ niente di grave, sono stupidi calcoli che pero’ non operano perche’ ora e’ tutto fermo, ora c’e’ solo il Covid e tutto il resto deve aspettare.
Ma quando questi dolori arrivano, e li sento arrivare, e so gia’ come mi sentiro’ e per quanto tempo mi sentiro’ cosi’, mi verrebbe solo da sbattere la testa contro un muro, forse un dolore piu’ forte mi farebbe dimenticare per un po’ tutto il resto.
Sono stanca.
Stanca di stare male, stanca di essere preoccupata per situazioni che non cambiano ne’ cambieranno, stanca di non vedere un futuro diverso, senza prospettive, senza batticuore, senza senso. Mi rinchiudo sempre piu’ come una lumaca nel suo guscio, incapace ormai di fare o anche solo di pensare oltre alla banale quotidianita’.
Stanca di essere sola, di non avere qualcuno che abbia voglia di ascoltare quello che penso, che provo, che mi tenga la mano quando questi dolori forti mi assalgono, che mi dica che andra’ tutto bene.
Sono stanca di essere forte, forse lasciarsi andare alla fine ha un senso, a che serve continuare a resistere? Per chi, per cosa, perche’?
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- Appena arrivati si cambia d'abito: prendeva dalla borsa la camicia a scacchi, i pantaloni di velluto, il maglione di lana; di nuovo nei suoi vecchi panni diventava un altro uomo. - mi spediva fuori: che andassi a prendere vento e sole e perdessi finalmente un po' della mia delicatezza urbana. - Il passato è a valle, il futuro a monte. Ecco come avrei dovuto rispondere a mio padre. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa. - In me confermavano l'idea che questa cosa dell'andare in montagna fosse una moda d'altri tempi e obbedisse a codici antiquati. Anche il modo in cui cedevano il passo aveva un che di cerimonioso: si spostavano di lato, accanto ala sentiero, si fermavano e si lasciavano superare. Di certo ci avevano visti dall'alto, avevano provato a resistere e non erano contenti di essere stati presi. -Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli assomiglia e dove di sente bene. La sua era senz'altro il bosco dei 1500 mt, quello di abeti e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli. Io ero più attratto dalla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d'alta quota, bestie al pascolo. Ancora più in alto la vegetazione scompare, la neve copre ogni cosa fino all'inizio dell'estate e il colore prevalente è il grigio della roccia, venato di quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava il mondo di mio padre. - Impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quel che si è provato lassù. - Inutile perdere tempo a raddrizzare muri storti: meglio buttarli giù e ricostruirli daccapo. - Mi dava l'idea di uno che a un erto punto della vita aveva rinunciato alla compagnia degli altri, si era trovato un angolo di mondo e si era rintanato lì. - Sembrava una che nulla le interessasse delle nostre vite, che lei stesse bene al suo posto e gli altri le passassero accanto come le stagioni. - L'abete non va bene, perché è un legno morbido. Il larice è un legno più duro. -A Bruno era rimasta la passione per i romanzi di mare. -Era la stagione del ritorno e della riconciliazione, due parole a cui pensavo spesso mentre l'estate scorreva. - Montagna luminosa - Il magnetismo della montagna - La montagna aiuta a ricordare, come una forma di resilienza. - Arrivarono le piogge di fine agosto. Anche di loro mi ricordavo. Sono i giorni che in montagna portano l'autunno, perché dopo, quando torna il sole, non è più il sole caldo di prima, e la luce è diventata obliqua e le ombre più lunghe. - L'uomo raccolse un bastoncino con cui tracciò un cerchio nella terra. Gli venne perfetto, si vedeva che era abituato a disegnarne. Poi, dentro al cerchio, tracciò un diametro, e poi un secondo perpendicolare al primo, e poi un terzo e un quarto lungo le bisettrici, ottenendo una ruota con otto raggi. Io pensai che, dovendo arrivare a quella figura, sarei partito da una croce, ma era tipico di un asiatico partire dal centro. L'hai mai visto un disegno così? Si, riposi. Nei mandala. Giusto. disse lui. Noi diciamo che al centro del mondo c'è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno ad esso ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l'altra. Otto montagne e otto mari. Infine fece una corona intorno al centro della ruota, che poteva essere, pensai, la cima innevata del Sumeru. Valutò il suo lavoro e poi scosse la testa, come se fosse un disegno che aveva già fatto mille volte ma ultimamente ci avesse perso un po' la mano. Comunque, punto il bastoncino la centro e concluse: e diciamo: Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? -Siete voi di città a chiamarla “natura”. È così astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare col dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente. - Lei mi rivolse uno sguardo triste, in cui c’era del rimprovero e del rimpianto. - Himalaya = dea del raccolto e della fertilità. - No c’era niente che mi appartenesse, niente a cui sentissi di appartenere. - Ogni volta che tornavo lassù mi sembrava di tornare a me stesso, al luogo in cui ero io e stavo bene. - Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla ogni volta che ci tornavi. Poteva esisterne solo una, di montagna così, nella vita, e in confronto a quella tutte le altre non erano che cime minori, perfino se si trattava dell’Himalaya. - Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa. - La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo, misura. - Si può dire che abbia cominciato a scrivere questa storia quand’ero bambino, perché è una storia che mi appartiene quanto mi appartengono i miei stessi ricordi.
Le otto montagnedi Paolo Cognetti
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E ci provo sai,a resistere come mi dici,ma la situazione sta precipitando,crolla,è piena di buchi e di strappi. Resistere non serve più a niente, sto solo precipitando nel vuoto,facendomi solo male,con il paracadute che non voglio aprire,perché se no sentirei solo le loro voci continuare a dire quelle cose,forse è questa la fine che mi doveva aspettare,forse è questo quello che mi merito,forse resistere è sempre stata la cosa sbagliata da fare…
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Ho preso due giorni di stacco dopo 60 giorni davvero intensi. Un lasso di tempo che mi ha portato a smettere di ragionare. Quest’anno non sono mai andato in ferie, a parte le domeniche, e sinceramente non mi manca andare in ferie. Quando voglio fare qualcosa la faccio bene, e tanto mi basta.
Ho pensato al fatto che molte persone pensano di “meritarsi” una vacanza, di “meritarsi” di amarsi un pò. Il merito è visto come un premio. Se credi di meritare qualcosa perché lavori allora ti chiedo “ Cosa dovresti fare nella tua vita?” . Ogni giorno una gazzella si alza e sa che dovrà correre più veloce del leone. E né la gazzella né il leone sentono il bisogno di andare in ferie dalle loro vite.
Se stabilisci che sia un grande risultato quello di fare bene il tuo lavoro, stabilisci come tua massima aspirazione una cosa facilmente raggiungibile. Facilmente frustrante, perché non ha nulla di nuovo. Tutto quello che è novità diventa doloroso, frustrate e brutto. Ma contiene anche molto meno stress.
La gazzella in cattività vive più a lungo ma è molto più isterica di una che un secondo prima di essere mangiata dal leone, viveva piena di zecche, felice in mezzo alla Savana.
Quindi, questa è la vita? Lavorare, soffrire, lenire il dolore o tollerarlo?
Mi viene in mente un discorso molto bello, quello di David Foster Wallace.
“ Due pesci incontrano un altro pesce che gli chiede come sia l’ acqua e i due si chiedono - Che cos’è l’ acqua?”
Per quelli che si sono persi, spiego subito acqua : cosa invisibile che ci circonda, aka la vita, argomento del paragrafo precedente.
Wallace diceva che una cosa che non ci dicono a scuola è che finiremo un giorno della nostra vita a vivere una vita ripetitiva.
E un giorno ti accorgerai di aver finito tutto in casa da mangiare, un sabato sera e prenderai la macchina per andare al più vicino supermercato dove troverà migliaia di persone come te che si sono cordate di fare la spesa che saranno in fila e rallenteranno il processo che ti porterà a mangiare una cena solo a casa.
Se sei arrivato a questo punto fermati. Questo è il punto di maggior miseria per una vita. Perché attorno a noi esistono decine e decine di persone che stanno soffrendo come noi e dimenticarlo significa vivere miseramente.
Si il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Nessuno vuole tollerare un testadicavolo che sbatte con il carrello alla cassa o che vuole saltare la fila. Nessuno vuole sentire infinite lamentele sul tuo capo o i tuoi clienti dimmerda. Ci sto parlarne ma il pensiero IO se vi monopolizza vi porta alla solitudine, questo mi riferivo a quando prima mi riferivo alla miseria
Una volta capito questo è possibile creare delle relazioni, magari dei ponti e viverci su. Io non sono bravo a vivere né nelle relazioni, vedi quel cimitero di mezze relazioni di cui questo profilo porta traccia. Ma due cose ho imparato.
La prima: i soldi servono per resistere. Come diceva Calvino “prendere ciò che non è inferno e farlo durare”. Lavorare per la lambo non serve a niente, fare per qualcosa si significativo ti cambia la vita.
La seconda è dignità: dignità dei tempi del lavoro, dignità del lavoro, dignità in tutto. Io non ne ho, e anche per questo vivo una vita alquanto miserevole.
Foto: Foce di Montemonaco, 11 Oct 2020
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“Non lasciate soli i poeti. Della fratellanza cercano l’essenza, il midollo. Vi ripagheranno con sguardi di secoli passati, e parole ustionate dal fuoco”
Ci si lascia, nel silenzio più opportuno. Il motivo, a volte, non è dato sapere. Si sparisce in un soffio. Cosa spinge un ragazzo, o un uomo, a farlo? Provo a pensarci: qualcosa che fa male, inspiegabile a noi stessi; che però, contemporaneamente, sembra l’unico spiraglio al respiro.
Ci vuole coraggio? Occorre carisma? Forse paura… Troppa, per chi ha già vissuto tutto di questo mondo, in prematura veggenza.
Spesso a lasciarci sono poeti, musicisti, artisti… Persino donne e uomini comuni. Come se essere poeta oggi non significhi, a tutti i costi, essere uomo o donna comune. Stiamo perdendo sempre più il lato umano di noi stessi. Contenti di apparire. Egoisti fino al midollo. Basta un niente, un no improvvisato o reiterato, per distruggerci e abbattere il personaggio nel quale ci piace specchiarci, se non mostrarlo agli altri, tutti i giorni.
Essere poeta è vocazione, destino; risposta alla chiamata. Tutt’altro che sembrare inopportuno. Allora dovremmo porci una domanda fra tante: perché non ascoltarci, parlarci un po’ più spesso, ma di persona? E perché non collaborare per il bene comune della letteratura, al di là degli infingimenti? Poiché la chiamata dell’arte è significato per tutti quelli che non sono stati chiamati in quella medesima direzione. La nostra morte, ma la tua salvezza.
Si dirà che il poeta è un privilegiato, che vive tutto più di tutti e per tutti, e può tutto, quasi come un dio. Balle! Sono solo guai. La perfezione esiste soltanto nel momento in cui ti metti a scrivere. Per il resto c’è da sputare sangue come tutti quanti.
Ci si lascia per la troppa bellezza che ti porti dentro. Oppure per il male di vivere. Di sicuro ‒ che sia ben chiaro ‒ non ci si lascia per opportunismo. Non occorre giudicare. A che serve? Si potrebbe fare il salto in qualsiasi momento, e l’interruttore si spegne. Ma per tutti. Dopo di che si è strappati al destino. In quale soglia alla fine apparire?
Si dice che il poeta sia fragile, timido, chiuso, introverso. La diceria è sbagliata, ma in fondo fa intravedere quel filo d’argento di verità. Il poeta è un cristallo. Quanti esempi abbiamo avuto alle spalle nella tradizione della letteratura universale: ci basti Celan.
Stare nella sera, sostare tra le rapide di un fiume, o nel clangore dei boschi addormentati. Scrivere nella notte è tutto ciò e molto altro ancora. Vivere e scrivere e leggere. C’è chi ha la fortuna di essere accompagnato in questo percorso all’apparenza così lineare, ma di fatto tortuoso come le spire del serpente.
Se il poeta viene accompagnato, affiancato a tratti nel suo cammino, qualcosa si può ancora sperare. Se il poeta si sente abbandonato, rimarrà solo. E non a tutti è data quella pazienza insormontabile che ti fa resistere all’agguato, al crepuscolo, al nulla e al silenzio più infingardo. Nemmeno l’urlo o la preghiera a volte possono bastare. La solitudine non si cerca, ti è imposta fin da subito; il destino, già in agguato, le offre il braccio. Come una dama, nel buio della sera, ella accompagna chi è poeta alla ricerca del foglio bianco, suo unico vero appiglio.
Tutti amano i poeti. Tutti li affidano al fato. Se non altro è una buona scusa. Chi non viene baciato sulla fronte, può permettersi quello che vuole. Ma chi ha il dono della scrittura, sa che ogni passo, ogni singolo passo è una vita via l’altra. E non si torna indietro. Poiché pensarlo significherebbe l’ennesima sconfitta. Ma questo avviene ‒ ripeto ‒ solo se esistono amicizie vere, capaci di fare, nella lontananza, la differenza. Altrimenti potrebbe accadere persino l’irreparabile. Sarebbe bello, dunque, credere alle favole. Qui però si combatte con nemici invisibili e implacabili. Sì, non si sputa sangue ogni notte soltanto davanti all’infinito foglio bianco. Piuttosto si piange, se se ne ha ancora la forza, in mezzo a un deserto pieno di demoni e miraggi. Allora la tentazione assurge a pensiero. Dietro l’angolo, ella, ti strizza l’occhio…
Se qualcuno amasse davvero i poeti, li chiamerebbe ogni tanto al telefono. Ci uscirebbe insieme più spesso. Sono cose talmente banali, da dover essere dette nuovamente. Perché altrimenti parlare con i muri potrebbe essere l’inizio dell’abisso.
Non lasciate soli i poeti. Della fratellanza cercano l’essenza, il midollo. Vi ripagheranno con sguardi di secoli passati, e parole ustionate dal fuoco. Se sarete fortunati, può darsi che vi dedicheranno versi immortali. Sappiate però che a loro basta poco: un sorriso, una discussione accalorata, un insulto condiviso. O, “farsi la guerra per amore”.
Spesso sembrano impenetrabili. Amano all’inverosimile.
La diceria è che sanno troppo. La verità invece è che il chiacchiericcio li uccide. Ma se sanno resistere anche a questo, vuol dire che in loro c’è davvero quella linfa immortale chiamata amore. Per dio, non lasciateli soli! Hanno fame e sete come tutti. Non sono poverini o poveracci. Sono uomini e donne come voi. Solo che hanno un dono. Quel carisma che li porta a sentire oltre. E se ci fate caso, a volte ve lo sussurrano all’orecchio.
Non lasciateci soli. Altrimenti, per davvero, c’è il rischio che ci si lascia nel silenzio più opportuno. Ci si lascia, nel clamore dell’assenza.
Giorgio Anelli
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A Milano ho imparato che opprimere è un piacere, essere primi un imperativo, e che il possesso è l'unica misura del valore.
Walter Siti, Resistere non serve a niente
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Essere al servizio degli dèi significa comprendere che nessuna verità è definitiva, perché ciò che apparentemente è stato superato è lì pronto a ritornare. Nel corso dei secoli le caste barbariche hanno di norma generato una nuova aristocrazia, tintinnante di monili vistosi; al tempo dell’high-frequency trade e della globalizzazione istantanea nessuna aristocrazia di sangue è più possibile, ma solo quella dell’acume e dell’audacia; la matematica abolisce la democrazia perché la democrazia è contro natura. La democrazia svilisce tutto perché tutto appiattisce al livello della maggioranza; il tiranno si accontenta del corpo, la democrazia pretende anche l’anima; il tiranno ti opprime, la democrazia ti fa sentire sbagliato, traccia un cerchio invalicabile intorno al pensiero. A comandare è la piazza, a salsicciaio salsicciaio e mezzo. L’individuo non è più il “soggetto qualificato” di cui parlava l’empirismo inglese; proprio il delirio informativo (cui nessuno ha il coraggio di sottrarsi) rende chimerica per i privati qualunque decisione consapevole sul bene comune. Se finisce l’individuo moderno, nemmeno il suo corollario cioè la democrazia ha più senso – malgrado la si continui stancamente a praticare durante le feste comandate, intorno al feticcio dell’urna elettorale. La democrazia è il dio morto della modernità che sopravvive come idolo di cartapesta; la balbuzie dei politologi tradisce l’imbarazzo per un rito funebre che non si può celebrare – per questo si aggrappano agli ultimi fuochi di democrazia insurrezionale, nelle zone del sottosviluppo o nel cuore delle nostre metropoli; ma la democrazia non può essere (non più) un poema di massa. Le oligarchie implicite devono uscire allo scoperto, il progresso economico non è obbligatoriamente legato all’uguaglianza dei diritti né la solidarietà presuppone l’assenza di sovrani. La disuguaglianza si sta riprendendo il proprio ruolo grazie alla tecnica che diffonde l’opportuno tasso di apatia; quello che importa ormai non è l’uguaglianza ma la disponibilità dei beni possibili al proprio livello. Il consumismo diffuso a pioggia (con la connessa illusione ottica di omologazione delle classi sociali) è un velo pietoso che si sta squarciando; si riallarga la forbice naturale tra i detentori dell’oggetto-sapere e le “genti meccaniche”. La folla si accontenta dell’umiliazione periodica di qualche incauto e superbo provocatore. Dopo l’infatuazione della rivoluzione industriale, durata un paio di secoli, anche l’Occidente dovrà riassestarsi in caste relativamente stabili – il sogno di un governo popolare sfuma come una generosa illusione di irraggiungibile maturità; anzi come una digressione, un inciso.
Walter Siti, Resistere non serve a niente, Rizzoli, 2013⁹; pp. 279-81.
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IL CIELO CHE HO DENTRO
Fra i talenti che Lucio Dalla ha misteriosamente ricevuto in dono, c’era quello di saper scrivere testi al tempo stesso semplici e profondi, immediatamente comprensibili e infinitamente interpretabili: tanto popolari quanto leopardiani.
I suoi occhi si accendevano in un lampo, per qualche dettaglio che normalmente sfugge ai radar. Noi guardiamo un albero, per esempio, e ci sembra — quando pure lo notiamo — semplicemente un albero: ma «cosa sarà che fa crescere gli alberi»? La risposta non attiene alla botanica, anche perché Dalla cantava l’origine delle banalità come degli ideali: «Cosa sarà che fa crescere gli alberi e la felicità?». Questione tutt’altro che scontata, se è vero che la felicità — com’è evidente — potrebbe anche non crescere, bensì appassire: cosa sarà «che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento?» (Cosa sarà).
La felicità, infatti, è sempre più in là di quell’albero, o di quella riva. Un ragazzo vive in un paese sul mare e sogna di diventare marinaio; ma sono nient’altro che sogni, appunto, da ragazzo: «una sera di gennaio» il padre, che come tutti fa invece il pescatore, lo porta su «una barca senza vela», gli mostra la rete e gli parla diretto: «Questa rete è la tua vita, manda a fondo tutti i sogni come un giorno ho fatto io». Il figlio si arrende alla saggezza adulta (la stessa che tanti non si stancano di sciorinare a figli, alunni e amici: lasciar perdere orizzonti troppo vasti e irraggiungibili, ché non siamo mica eroi). Crescerà pescatore: «Ogni sera torno a casa con il sale sulla pelle, ma negli occhi e nel mio cuore ho le stelle». Perché si può essere prigionieri su una barca, dentro una casa o un ufficio, ma il cuore continua a inoltrarsi fino alle stelle, quasi sentendosi marinaio pur mentre si piega a pescare (Sulla rotta di Cristoforo Colombo).
Quella riva di paese inizia a profumare d’oceano, così come una squallida cella può nutrirsi del sapore del mare. Anche chi non è stato in prigione conosce il senso di soffocamento di un’aula scolastica, di una stanza d’ospedale, di una situazione che ritorni identica. Ma dalla finestra della cella per fortuna si intravede «una casa bianca in mezzo al blu»; lì c’è perfino una donna, e per l’uomo che la osserva da lontano diventa la sua «compagna». Ovviamente il carcerato non sa nemmeno come si chiami: «Maria è il nome che le dava lui». Tra le sue quattro mura, avverte che non questa, ma «quella è casa mia»: tant’è che l’attesa — sebbene mai effettivamente compiuta — di poterle un giorno parlare, di girare con lei per la città gli fa addirittura respirare la libertà. È un uomo solo che si sente «insieme», perché fino all’ultimo sa quello che desidera: «vengo da te, Mari’» (La casa in riva al mare).
Del resto, «il pensiero come l’oceano non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare» (Com’è profondo il mare). Se anche adesso, incatenati dove ci troviamo, intravedessimo una Maria... ci sentiremmo liberi, come pescatori marinai. Anche la città, infatti, non è detto risulti, sebbene più larga, molto migliore di una cella: prendi «quello schifo di locale», «i falsi sorrisi e le vuote parole» di troppe sere, «obbligati tra la gente» (Soli io e te). Lei, Anna, non si rende conto che la stessa bellezza dei suoi occhi è ridente e fuggitiva, non sa del suo «bello sguardo, sguardo che ogni giorno perde qualcosa»; Marco, poi, non può sfuggire alla periferia «con sua madre e una sorella, poca vita, sempre quella». Dove potranno incontrarsi, la sera? «In un locale che è uno schifo», dove addirittura «c’è una checca che fa il tifo». Lo squallore, però, è inondato da una domanda sconfinata: «ma dimmi tu dove sarà, dov’è la strada per le stelle?» (Anna e Marco).
Lucio Dalla cercava le stelle anche nei locali, come la libertà nelle galere. Siamo puntini minuscoli, attraversati però dall’immenso: «A me piaceva andare / di notte ogni estate in riva al mare / camminare e poi fermarmi ogni tanto lì / e pensare a cose inutili / a come è grande il mare / a che distanza c’è tra qua e là / oppure com’è che è così strano il mondo / e come era strano esserci / confondermi e perdermi / sotto quel cielo e a tutte le stelle / perdermi, riperdermi / lontano da ogni cosa / su una stella luminosa / non esserci, non essere / non esser mai nemmeno nato / un punto solo, il più piccolo che c’è» (Là).
Le stelle ci sono, eppure a volte è il cuore a non esserci, a «stare lì in silenzio senza dir niente». Talmente inutile che non sappiamo cosa farcene: «Ho perfino pensato in questa notte d’ottobre di buttarti via». Inseguiamo continuamente «il potere e il denaro» e ce lo dimentichiamo, lasciandolo solo finché si accartoccia, «cinico e indifferente». Perciò «anche davanti a questo cielo nero di stelle / e ce ne sono stanotte di stelle, forse miliardi, cuore non parli?» (Apriti cuore). Rincorriamo quel che ci appare utile, e crepiamo di discorsi: «Bloccando il malcontento degli organi vitali / si riesce a teorizzare all’infinito / non ci si tocca mai nemmeno con un dito / così si va tranquilli tra la gente». A cosa serve fermarsi davanti «al brivido sottile di due occhi mescolati tra la gente?» (2009. Le cicale e le stelle). Cosa vuoi che siano, rispetto a tutti i nostri bei calcoli? Ci abituiamo alla nostra rete da pesca, alla nostra piccola cella quotidiana, ai nostri locali serali. E intanto ci perdiamo: «Anna non abita più qui / Laura se n’è andata via / Valerio non lo sento più / ci siamo persi un po’ per colpa mia / Ciao... poi uno se ne va, e se ne va per sempre» (Don’t touch me).
Le giornate si colorano di una tristezza profonda, che nulla può colmare: «Quale allegria / senza far finta di dormire / con la tua guancia sulla mia / sapere invece che domani “ciao come stai” / una pacca sulla spalla e via / quale allegria?». Posso «cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino / con un sorriso ospitale ridere cantare far casino / insomma far finta che sia sempre un carnevale» (Quale allegria), ma dentro «qualcosa ci manca, e quel qualcosa ci stanca / Ci stanca avere tutte queste cose che ci mancano» (1983). Non riusciamo a trovare quello che cerchiamo, e allora «quale allegria / se ti ho cercato per una vita senza trovarti»? Neanche il successo rompe la monotonia («tanto oggi è come ieri»), neanche «fare un inchino a quelli che ti son davanti / e sono in tanti e ti battono le mani / senza allegria». «Non so cosa mi manca... Sarà che io ho così tutto... Che tutto è lì che mi manca... Non so cos’è che mi stanca, qualcosa che è nell’aria e mi sta chiamando... e mi sta cambiando. Non lo cerco ma lo sento, mi vede e mi scava dentro» (Io e la mia ombra, in Gli occhi di Lucio).
Lucio Dalla — come tutti gli scrittori veri — non ha avuto paura di guardare in faccia la felicità e la malinconia, la luna e le nuvole, le stelle e gli alberi. «I cretini di ogni età», invece, divorati da una miopia che li soffoca, aspettano che a cambiare siano le cose: che so, un albero di un colore diverso o una rete da pesca automatica. Oppure tutto quello che ci mettono in testa: «La televisione ha detto che il nuovo anno / porterà una trasformazione / e tutti quanti stiamo già aspettando / sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno / ogni cristo scenderà dalla croce / anche gli uccelli faranno ritorno / Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno / anche i muti potranno parlare / mentre i sordi già lo fanno / E si farà l’amore ognuno come gli va / anche i preti potranno sposarsi / ma soltanto a una certa età». La cantano tutti, L’anno che verrà, ma quanti ne colgono l’acume? L’unico cambiamento augurabile non riguarda le circostanze interne, ma il risveglio dell’io: «L’anno che sta arrivando tra un anno passerà / io mi sto preparando/ è questa la novità».
In cosa consiste questo cambiamento? Nel cuore che torna a farsi sentire: «Cambierò, tornerò come un tempo padrone di niente» (Apriti cuore). È l’uomo che si riprende «questa vita che passa accanto e con le mani ti saluta»: per esempio il regista, che «aspettava la star al ristorante / sembrava un morto con in mano un bicchiere», che d’un tratto rompe il gioco dei ruoli e, «stanco di aspettare, appena ha visto la star / l’ha mandata a cagare»; o il ragazzo, che «lavorava in un bar ed aspettava / che il padrone se ne andasse per potersi sedere», finalmente «ha lasciato lì di lavorare / e, agguantato un treno, è corso fino al mare» (Meri Luis). Oppure, come nella struggente L’altra parte del mondo, i protagonisti sono per varie ragioni bloccati, impacciati, disillusi, fin quando, «con due valige finalmente all’aeroporto / e il passaporto nella mano, Ciccio / aveva capito che non era un deficiente / che era meglio partire, senza cartoline sparire / andarsene lontano», mentre «Marta / e il suo amico / navigavano ancora diecimila metri sopra al mare / andavano a cercare qualcosa o qualcuno / o solo un posto per ricominciare».
Si ricomincia quando si riapre il cuore. Il fischio con cui comincia Le rondini lo riapre. Non è facile resistere alla purezza di parole tanto limpide: «Vorrei entrare dentro i fili di una radio / e volare sopra i tetti delle città / incontrare le espressioni dialettali / mescolarmi con l’odore del caffè / Fermarmi sul naso dei vecchi mentre leggono i giornali / e con la polvere dei sogni volare e volare / al fresco delle stelle e anche più in là». Ancora le stelle in agguato dietro un caffè, ancora la semplicità del quotidiano e il mistero nascosto «più in là»: «Vorrei girare il cielo come le rondini / e ogni tanto fermarmi qua e là / avere il nido sotto i tetti al fresco dei portici / e come loro quando è la sera chiudere gli occhi con semplicità / E seguire ogni battito del mio cuore / per capire cosa succede dentro e cos’è che lo muove / da dove viene ogni tanto questo strano dolore / vorrei capire insomma che cos’è l’amore / dov’è che si prende, dov’è che si dà».
Lucio Dalla aveva gli occhi tipici del genio, capaci di angoli d’osservazione alla portata di tutti eppure mai raggiunti, svelati per la prima volta dal nitore del suo linguaggio e dall’imprevedibilità stralunata della sua musica. Ha cantato, cioè, il mistero del mondo: «Un mondo / che... /senza pietà / cancella tutto e se ne va / rimaniamo a bocca aperta / lui ce la chiude e se ne va / come un bambino gioca e si nasconde / lo cerchiamo dappertutto / lui chiude gli occhi e si nasconde / passa vicino, lo chiami e non risponde / lo trovi addormentato per la strada / sdraiato sulle onde / poi di colpo apre gli occhi / e ci frega ci confonde / nell’incanto della notte» (L’altra parte del mondo).
Alla sua domanda «apriti cuore», gridata alle sue tonalità siderali, si direbbe che la vita abbia risposto, ricambiando il suo slancio e forse prestandogli sguardo e voce. Quando si fermava ad ascoltare «le cicale delle stelle», sapeva ridarcene poi i silenzi, le nostalgie: «Ah felicità / su quale treno della notte viaggerai / Lo so.. / che passerai... / ma come sempre in fretta / non ti fermi mai» (Felicità). Ancora risposte urgenti e da acchiappare, ancora notti stellate, come osserverà in un’intervista del 2009: «Ho sempre cercato di interpretare l’aspetto più umano, più legato agli uomini, quindi, per forza di cose, legato a Dio. Io, personalmente, mi sento dentro un’ampolla che mi connette con l’esterno. Di notte, ad esempio, vado a concentrarmi sulla terrazza di casa mia a Bologna. Non c’è niente che mi divide dal cielo, neanche dal cielo che ho dentro. Le cose mi ronzano intorno: il fischio di un treno lontano, l’abbaiare dei cani, la sirena di una croce rossa, suoni e visioni. Non vorrei essere sacrilego: comincio con le preghiere classiche, dopo viene questo “mantra”. È una unione di segni che mi danno una grande piacevolezza e pienezza di spirito, è il momento artistico. Hai capito? E ciò parte dalla convinzione che dentro ogni uomo c’è Dio. Non è un dubbio, è una certezza. Dentro di me c’è il mio Dio».
Intuizioni vertiginose: «Dio è in me, non è metallo... è polvere celeste. Il mio pregare non è “quà quà” di anatra, coda di tuono e candela che hanno fine. È muro di roccia, muro di castello, colonna d’Ercole, è frana di parola vera, non di stile. È amore spremuto di Dio. È inizio di pranzo affamato... È voce e scoppola di madre. Oh, amor perduto... Dio. Amore perduto, cercato e ritrovato. Oh, goccia di pianto dei santi in mia mano aperta. Io mi pento, Cuore mio! Che m’hai abbandonato. Rosso corallo ferito e insanguinato, non cercare la tua morte ma la mia resurrezione» (Gli occhi di Lucio).
Forse Dante ha dovuto aspettare settecento anni dalla folgorante chiusura della Divina Commedia sull’«amor che move ’l sole e l’altre stelle» per trovare una domanda così esplicita, potente e speculare: «Vorrei sapere chi è / che muove il mondo e dov’è / e cosa resta di me, di noi». Ci volevano «tante stelle da star male» (Vorrei sapere chi è), quando «il cielo è così pieno di stelle da doversi vergognare», quando «puoi ascoltare il buio e vedere il silenzio», come scriveva di una notte del Gargano. Le stelle tuttavia non bastano: «I ciechi e i muti di anima sono gli uomini distratti, quelli che non sentono nemmeno il rumore delle stelle». Riecheggiando Chissà se lo sai, faceva confessare a un lupo con gli occhi sgranati verso la luna che, «se mi guardi come mi guardi, diventano belli anche i miei» (Gli occhi di Lucio). Non è sufficiente la bellezza, infatti: serve un cuore aperto, un «cuore dove tira sempre il vento» (Cara). Il vento che attraversa le sue canzoni, fino all’ultima dell’ultimo album, Controvento: «Navigando controvento / non sai cosa troverai / ma se hai qualcosa dentro / capirai / Certo / se vuoi stare in pace / così serve navigare / Se vuoi solo star tranquillo, basta galleggiare». Torna una barca, ancora più povera di quella «senza vela» della Rotta di Cristoforo Colombo: «Gesù Cristo era un pezzente / tutto meno che potente / nudo e sporco e sulla croce / per non diventare re / non aveva in tasca niente / per camminare sopra il mare / non seguiva la corrente / ed i venti da sfruttare».
Quanto bisogno abbiamo di tornare ad avere in bocca una sola, semplicissima scoperta: «Però la vita com’è bella / e come è bello poterla cantare» (Meri Luis).
di Valerio Capasa. 29 febbraio 2020
http://www.osservatoreromano.va/it/news/il-cielo-che-ho-dentro
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Tènere tenerezza
Prima di scriverlo, m’è toccato persino pensarlo: Se non ci salverà la tenerezza cos'altro potrà farlo? Un attimo: vero, qui nulla ci salva nessuno si salva e nessuno salva nessuno. Ma parliamo di una salvezza che non si chiama cura di tutti mali e neppure si chiama vittoria contro ogni paura o un concetto persino più coglione come, non so, “mettere le ali”. Questa è la storia del trovare un cornicione sotto il quale bagnarsi ma soltanto per metà. La storia del salvarsi nel senso di resistere di non cedere ai piagnistei o alle malattie mentali ripararsi ad altre tempeste sotto altre piogge torrenziali dalle ire funeste degli dei dall'elemosina della pietà celeste dal potere temporale i suoi strali. Da tutto ciò non la durezza che alla lunga aggrava il danno: come il fluoro che ispessisce il dente anno dopo anno col batterio che scava più a fondo come un bruco o un tarlo fino a rendere il buco una galleria e irritare il nervo fino a snervarlo e portarlo all’isteria. O come l'igiene che diventa ossessione col cloro che non lascia più niente neanche un germe con cui familiarizzare da bambini, a ricreazione così che da adulti non ci possa ammazzare non serve a niente è come sparare con un cannone a una formica, come coprire d’insulti una cellula tumorale.
Non è che sia l’aspetto fra tutti il più importante; ma se fosse una colonna portante nella casa che porta il mio nome? se fosse una mia certezza fra le poche che tengo stretto? Emerge e non so come, ma emerge; e non è un difetto ché tra l’essere teneri e l’essere molli ci passa la differenza che passa tra il volare e l’essere polli. Ma una carezza data, una carezza apprezzata vale come cento ricevute e allora la dolcezza riconosciuta da chi la riconosce prima che da un test che dura un'ora è una nuova consapevolezza una rima di doppie zeta è una meta esser tenero, certo ma fermo come il mio palmo rilassato e aperto come sopra un pianoforte che si lascia suonare sopra una tempia a scaldare un mal di testa per farlo evaporare. Piano e adagio, adesso dolce a liberare il capo dalla cavezza a sgombrare quel cielo cupo che è una mente piena di nuvole con la quietezza. Forte, adesso ché la dolcezza è melassa senza fermezza vuota come una favola senza morale
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