#Per segni accesi
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N.E. 01/2023 - "Annamaria Ferramosca, poeta del primigenio presente". Articolo di Francesca Innocenzi
Nata a Tricase, in Salento, residente a Roma da molti anni, Annamaria Ferramosca è un’autrice di grande rilievo nel panorama poetico contemporaneo; a ragione di ciò, la commissione di giuria del Premio letterario da me presieduto, Paesaggio Interiore, ha deciso di conferirle il premio alla carriera. Ferramosca ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di…

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Se in una notte la tua ombra mi tornasse accanto
come l’ala bianca di un gabbiano
che porta in sé il mistero di spiagge sconosciute
tu saresti vivo
con gli occhi accesi dalla voglia di scrutare
oltre i segni visibili dell’anima.
Mi guarderesti con la stessa aria torbida di sfida
scenderesti sul mio cuore con gli artigli di un rapace,
sino a ferirmi con la lama gelida
delle tue parole che anno dopo anno
hanno devastato la mia storia.
Ti chiederei se per te la vita è ancora
quel cunicolo cieco
dove chiudere gli occhi ed ascoltare i gridi
che giungono dall’abisso insondabile dei ricordi;
se nascondi ancora dietro le tue risate
chiuse nel gorgogliare della gola
una vita di fatica e di dolore
come un’immensa piaga
da cui sgorgavano la rabbia e la paura
d’essere preclusa a ogni via di fuga.
Si è spezzato quel filo
che guidava la tua vita
negli oscuri labirinti della nostra storia.
Ora torneresti a torturare le mie notti
con le immagini illusorie del tuo amore inesistente.
Anche solo a ricordarti…
Riaverti accanto sarebbe peggio del morire.
Marcello Comitini
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Spazio colore. Bianco. Bozza n.2. 15/03/2021. 16:08.
Ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Le tenebre avvolsero la mia anima lasciandomi credere che mai e poi mai avrei trovato una via d'uscita, dato che annaspavo nell'oblio delle mie stupide emozioni negative; ero a letto e piansi, pensando di non poter essere più capito da nessuno credendo in qualche modo di esser destinato a una solitudine asfissiante, opprimente, debilitante.
Ero caduto in un oblio e, anche se ogni tanto mi sembrava di poter trovare una via d'uscita, non potevo fare altro che tentare di sopravvivere, sguazzandoci dentro nel tentativo di non soffocare ma cercando di rimanere a galla, in quel buio così intenso che nessuna luce avrebbe avuto la possibilità di squarciare.
Ero stato inghiottito e nessuno mi avrebbe salvato, forse perché non volevo che accadesse; pensavo, ingenuamente, che quella fosse la cosa più giusta per me e ti mentirei se non dicessi che perdere le forze mi sembrava la cosa più facile da fare in alcuni momenti.
Ho pensato molto spesso a lasciarmi andare, annullarmi, chiudermi definitivamente e sigillare per sempre tutti i miei sentimenti: mi sembrava la cosa più corretta da fare, la soluzione a tutto, la conclusione più giusta a questo triste destino, quello che meritavo.
Mi convinsi che fosse quello il mio destino.
Volevo annaspare nel fondo di questo pozzo senza fondo e nessuno, nessuno, me l'avrebbe impedito.
Era quello che volevo, se solo non fosse accaduto quello che poi accadde.
Era tardi, molto tardi, e anche se le tenebre della mia stanza mi avvolgevano ti immaginai, come mai avrei pensato di fare: accesi subito la luce e tutto si illuminò di bianco; non era un bianco puro ma un bianco caldo, avvolgente, che mi fece sentire al sicuro per pochi decimi di secondo, il tanto che bastò per darti un volto, una parvenza di fisicità, un minimo di carattere.
In qualche modo sentii le tue mani pallide sul mio viso e sorrisi, anche se non ti conoscevo: mi accarezzasti e tanto bastò ad asciugare le mie lacrime, che sgorgavano copiose e che riempivano ancora di più il pozzo in cui ero caduto.
Mi stavi consolando, e non riuscii mai a ringraziarti per questo.
Non so perché, ma ci immaginai litigare: io, col mio carattere scontroso e duro e te, onesta, equa nel cercare la pace e così innocente da placare anche i miei più spinti istinti, avviandomi verso una conclusione che avrei voluto rifiutare ma che accettai perché mai, mai, avrei voluto anche solo torcerti un capello perché il solo sapere che avrei potuto ferirti, che avresti potuto stare male, mi faceva stare, mi fa star male.
Vidi la luce ma svanì, in un decimo di secondo.
Mi fermai, meravigliato da me stesso: non mi resi mai conto di quanto la mia idea, uno spunto nato all'interno di uno spazio così buio quale la mia mente, potesse riempire di luce tutto quello che ero e tutto quello che mi circondava evidenziando ancora di più tutto il resto, rendendolo ancora più armonioso e sinuoso e facendomi ritrovare la pace, trasformandomi in un uomo sereno, anche solo per un istante.
Pensai a lungo a te, semplice idea fugace che, quella notte, si inserì nella mia testa come un tarlo fisso: pensai a come saresti potuta essere, per quanto non riuscissi a definire nessun confine, e a cosa saresti potuta essere per me anche se non riuscivo poi a capire chi fossi, almeno inizialmente.
Mi vergognai schifosamente all'idea che, se ti avessi vista, non avrei avuto nessun tipo di coraggio: mi bastava l'idea che, anche se per pochi decimi di secondo, ho provato quello che in tanti invece non provano per tutto il resto della mia vita e ti dirò, questo mi bastava. Mi bastava davvero.
Ma riflettei a lungo su di te e su quello che mi avevi dato e decisi, in qualche modo, di tirarmi fuori dal mio stesso oblio: pensai che se avessi avuto la possibilità di incontrarti avrei voluto farmi trovare pronto, anche solo per ricevere quella carezza.
Il mattino successivo mi svegliai e mi rattristì l'idea che, accanto a me, non ci fosse nessuno.
Mi alzai e feci entrare, nella mia camera, la luce del sole: quel gesto, per quanto banale e stupido sotto certi punti di vista mi convinse del fatto di voler uscire fuori da quel maledetto abisso, accendendo la luce dentro di me e ricercando quello che non provavo da tempo.
Ne ero convinto, avevo bisogno di ritrovarmi e di accendere la luce, quella stessa luce che provai quando quella mano, anche se invisibile, tenue e immaginaria, mi carezzò il volto e mi asciugò le lacrime.
Passò molto tempo e di quella sera mi dimenticai, ma i segni rimasero, indelebili, su di me.
Mi trasformai, e cambiai così tanto che quel Ferdinando non ebbe più la possibilità di uscire alla luce del sole, seppellito com'era sotto un cambiamento che mi trasformò radicalmente, che mi fece pensare di essere pronto a un qualcosa di così bello ed eccezionale che mi avrebbe sconvolto, come mi sconvolse quella notte.
Una sera come tante fui invitato a questa festa poco fuori città: non ricordo nemmeno chi mi invitò, anche se ricordo benissimo quella sensazione di "richiamo" che il mio intuito esercitò su di me; sapevo che sarebbe successo qualcosa e, anche se di solito io non credo a queste cose, ci andai comunque.
Parcheggiai in questo spiazzale ed entrai in casa, da solo, aspettandomi soltanto alcool scadente, persone scadenti, musica scadente.
Quasi non mi accorsi di te perché in quella tremenda oscurità quasi non ci feci caso ma bastò una luce, una soltanto, per rendermi conto di quello a cui stavo andando incontro.
Eri lì e nemmeno ti accorgesti di me ma io ci feci caso, e come non potevo: eri così tu che chiunque avrebbe fatto carte false anche solo per starti un secondo vicino perché chiunque si sarebbe sentito un po' di più accanto a te.
Mi accecasti, anche grazie a quello splendido vestito bianco che avresti buttato per dimenticare.
Ma mi vergognavo, anche solo ad avvicinarmi.
Avevo paura? Non lo so, ma qualcosa mi stava fermando.
Com'era possibile? Ancora oggi non riesco a rispondere a questa domanda, sapendo anche che impiegai anni a tirarmi fuori definitivamente da quel maledetto oblio che tarpava tutto quello che ero.
Poi ad un certo punto ti girasti: quegli occhi, che poi si sarebbero rivelati cangianti, mi guardarono dentro l'anima e mi accorsi che quella carezza, ricevuta quasi per caso in una notte di piena insonnia, poteva essere realtà e già lo era, perché anche solo col tuo sguardo mi stavi carezzando l'anima, rendendomi innocente come un bambino e puro come una persona che non aveva vissuto, fino a quel momento.
Fortuna volle che qualcuno ci presentò, Chiara.
Chiara.
"Andiamo fuori?", è forse l'unica cosa che ti dissi quella sera.
C'era la luna piena e, anche se non eri cambiata di una virgola, in qualche modo ti trasformasti: in qualche modo ti liberasti dei tuoi impedimenti e ti percepii, anche senza parlare poi granché.
Però sorridevo ogni volta che ti guardavo e tu lo stesso; chissà poi perché, ancora me lo chiedo.
In qualche modo pensai che quel momento non si sarebbe mai più ripetuto e ti dirò, mi sarebbe bastato così perché, per due volte, provai quella sensazione di pace e mi bastava, mi bastava davvero.
Poi, però, mi chiedesti il numero di telefono.
Riflettei a lungo sul da farsi, geloso dei momenti che in qualche modo mi avevi donato e impaurito di fronte alla possibilità di corrompere quel momento così puro.
Ma accettai, perché se anche avessi solo la possibilità di ricambiare in qualche modo sarei stato felice.
Non so come, ma mi scegliesti.
Fu strano, perché accade quasi per caso: ti chiesi d'uscire e, dopo circa 10 minuti di guida, bucammo la ruota e ci fermammo vicino a questo ristorante; mentre aspettavamo i soccorsi, presi dall'entusiasmo, salimmo sul tetto a guardare le stelle.
Mentre ti indicavo Betelgeuse sentii la tua mano nella mia, e non me la lasciasti più.
Non fiatasti, perché sapevi come riempire di luce anche il vuoto di quella notte senza fondo.
Rimasi incredulo.
Quel momento, per quanto innocente, mi rimase impresso.
Il tuo tocco così delicato superò di gran lunga quello che provai quella notte, e di questo rimasi così sorpreso che mi commossi.
Decisi di raccontarti tutto, e quale posto migliore se non casa mia.
Mi misi seduto a terra e, con te sul mio letto, ti raccontai di come quella notte mi cambiò la vita.
Pensasti che era destino e io ti credetti, perché non potevo fare altrimenti.
Fu davvero destino, a pensarci.
E poi accadde: ti avvicinasti a me e la tua mano mi sfiorò il volto, in un gesto che mai avrei più dimenticato.
Come non dimenticai tutto quello che poi accadde tra noi perché, ancora oggi, non so nemmeno come descriverlo.
Fu tutto fantastico con te e nemmeno la più fervida delle immaginazioni potrà mai capire quello che sei stata per me, mai.
Ma, una notte, accadde.
Dormivo in camera mia quando, all'improvviso, una chiamata: accesi la luce e corsi, quando sentii le tue lacrime provenire dall'altoparlante.
Arrivai da te e ti vidi come mai prima di allora: eri debole, così debole che per la prima volta ti aggrappasti a me, unica luce in quella landa di buio e dolore.
Stavi piangendo, come mai ti avevo vista fare.
I tuoi genitori erano morti.
Un briciolo di oscurità entrò dentro di te, corrompendoti, e io non potrei fare altro che assistere.
Il giorno successivo ti portai a casa mia e, mentre cercavamo di dormire ti sentii piangere: piangevi, perché eri caduta nel tuo oblio e scioccamente pensai che una mia carezza, forse, ti avrebbe salvata da quel buio angosciante.
Fu l'inizio della fine.
I mesi successivi furono tragici e cercai, cercai, di tirarti fuori dalle tenebre in cui eri caduta ma con poco successo: vederti così spenta mi trucidò l'anima come mai niente prima di allora, soprattutto perché non ero pronto, ma nessuno lo era.
Qualsiasi cosa io facessi per farti risplendere ti mandavo sempre giù, in un'oblio senza fondo in cui la tua unica luce era la tua e da cui mai riuscirai a riemergere.
Mi resi conto di non essere adatto ad essere la luce nel cuore della tua oscurità.
Non ti serviva uno come me in quel momento.
Ti chiesi di spiegarmi cosa vedevi perché, anche nel pieno dell'oscurità, ero accecato dalla luce che emanavi.
O forse dal ricordo di essa.
Ma non eri più tu.
La tua purezza, che emanavi con grande orgoglio, appassì.
La tua presenza illuminava comunque i cuori di chi ti passava accanto, ma era palese che dentro di te qualcosa era cambiato e che, il tuo oblio, ti stava mangiando pian piano, con assurda e tenera dolcezza, forse la stessa di quella mano che mi carezzò quell'assurda notte di tanto tempo fa.
Non riuscivo a guardarti allo stesso modo: eri comunque pura ma non eri più tu Chiara, non eri più tu.
E poi ci lasciammo.
Non mi spiegasti mai il motivo di quel gesto, non ce n'era d'altronde bisogno, ma ricordo con esattezza cosa ti spinse a quel gesto: io.
Essere la tua luce fu eternamente faticoso per me, soprattutto sapendo che non ero così luminoso come lo eri tu.
Ti amavo alla follia ma più andavo avanti e più mi resi conto che quella Chiara non era la Chiara che amavo, e più cercavo di farla riemergere più venivo messo alla prova, fino a che non arrivai ad un punto in cui capii che non avrei potuto fare niente per te.
Essere la tua luce, benché flebile, mi stancò a tal punto da non provare più niente per te.
Ti feci credere di non amarmi più perché pensai fosse il modo migliore per mettere fine a tutto questo.
E ci lasciammo, causandoti forse ancor più male, o forse no. Lo spero, almeno.
La sera che ci lasciammo non feci altro che pensare a te.
Nel buio di camera mia pensai che quella Chiara non esisteva più, e questo mi fece male: sapere di esser l'unico che ha avuto la possibilità di godersi un qualcosa che non c'è più mi fa star male, soprattutto perché quella meraviglia sarà per sempre soffocata da un dolore che non avrà mai fine dentro di te.
Nessuno avrebbe più acceso la luce dentro di te, e pensai a come sarebbe stato vivere senza provare alcunché.
Poi ricordai che anche io avevo vissuto quella agonia e piansi, come mai prima di quel giorno, perché mi resi conto che con la mia carezza ti rubai l'ultimo briciolo di splendore rimasto.
L'unica cosa che mi rendo conto di poter fare è conservare il tuo ricordo gelosamente perché, la mia, è l'unica testimonianza di un qualcosa di così bello e accecante da non poter essere replicabile, in alcun modo.
Ma in quel momento potei solo spegnere la luce bianca di camera mia, sapendo in cuor mio che non avrei mai più ricevuto quel tipo di carezza.
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«Stiamo insieme» ... «Io e il bruco».
Sorseggia ancora prima di rischiare di sputare tutto nuovamente.
«Il bruco ha bruciato il testicolo al padre di Sebastian?!»
«NOOOO! Non conosco lo stato dei testicoli del padre di Sebastian...!» scoppia a ridere, le guance e gli occhi ormai accesi del divertimento più sfrenato. «E non so chi abbia bruciato quello di Harry, una con cui è andato a letto credo. Io mi sono solo occupata degli impacchi che glielo hanno salvato».
La faccia divampa di un rosa leggero tendente sempre più al rosso, mentre Ilary spiega il palese fraintendimento «oooh» annuisce «mi sembrava strana effettivamente, la questione» ...
«Lo sai...» sperando di non risultare inopportuna, si inserirebbe con una riflessione genuina e spassionata «vedere te mi aiuta a ricordare perché non era possibile giustificargli tutto con... la scusa della malattia». Gli occhietti si inumidiscono appena, sebbene il sorriso scacci il presagio lacrime.
«Alla fine del processo sono andata via... perché mi sono posta anche io il problema di essere o di poter diventare come lui... per la malattia» ovviamente «ma... diciamo che sono arrivata al risultato che la malattia a volte sia solo una scusa. Ci può rendere più sensibili, più instabili in alcuni gesti e in alcune decisioni, ma è ciò che siamo che ci permette di decidere se quelle decisioni compierle o no...»
«Io sono andata a vomitare» dopo il processo. «Credevo che fosse perché mi dispiaceva per lui e perché al suo posto mi sarei sentita morire, ma...non era solo questo» tirando un profondo sospiro, ora.
«Era anche che... credevo se lo meritasse»
Il tono ad abbassarsi, quasi quel pensiero portasse con sé un peccato irripetibile. «Credevo che avrebbe tenuto un po` più al sicuro chi gli sta intorno». Quanto al resto... ha da aggiungere ancora qualcosa: «anche io ho avuto quella paura» il tempo passato è figlio del tentativo di debellarla anche così. «Quando ho smesso di avere paura di... incontrare un altro Sebastian... ho iniziato ad aver paura che il Sebastian fossi io». Deglutisce a fatica. «Ma Rachel mi ha dato della troll» fra le righe lei ha letto questo «e di smetterla di ficcarmi da sola il dito nelle cicatrici, che non ce n`è alcun bisogno» un altro sospiro per allentare la tensione. «E sai cosa ci direbbe Silente?» per concludere, sporgendosi appena in avanti:
«Siamo le scelte che facciamo».
«Una parte di me vorrebbe davvero darti una sberla» lo dice piano «ma odio la violenza e odio i segni che lasciano gli schiaffi» pausa «però fai conto che te l`abbia dato! Non permetterti più di pensare di paragonarti o di essere come Sebastian, Ilary Wilson, hai capito?»
«Stare con una persona malata non ti rende malata, hai così tanta luce in quel corpicino e in quel cuore che per spegnere quella luce, per farti giocare al buio, dovrebbero esserci duecento Sebastian Waleystock o forse trecento Sebastian... quindi NO!»
Di scatto si sistema sul divano con la schiena dritta: «il vomito era il tuo cervello che voleva eliminare queste stron***. La decisione del giudice è stata la scelta migliore, non puoi essere un mago se non riesci a controllare le tue emozioni, o la tua magia, altrimenti la magia controllerà te. Quindi in parte un po` se lo merita Ilary, sì. Se lo merita perché ha avuto mille modi per imparare la lezione, mille occasioni, ma quando già al quarto anni effettui incantesimi dettati dalla rabbia su una ragazzina più piccola, se per dispetto incendi i mantelli con la gente dentro durante la lezione... Oh santo Merlino! Allora la bacchetta è meglio spezzata perché dell`essere mago non hai capito proprio nulla! E tu temi di essere come lui? Di essere la persona marcia che usa le persone e il loro amore per poi sputarle via come frutta marcia o noccioli di una pesca?!» La destrorsa e la mancina andrebbero dunque a posarsi sulle gambe di Ilary, per avvicinarsi guardandola negli occhi.
«NON SEI LUI»
«Merlino! Sembra la trama di un pessimo film di terza categoria, non è vero?» un sorriso sghembo ha persino la forza di stropicciarsi di lato, sulle labbra. Ma quella disinvoltura non imbroglia nessuno, eccetto se stessa. «Le metafore ti riescono che è una meraviglia, sai?» tutto ciò che riesce a proferire prima che la voce si incrini definitivamente e le prime lacrime righino il visetto.
«Silente ne sapeva!»
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[Dei tentativi di traduzione a parole di una fine e della punteggiatura di un amore.]
Le parole di un addio
Come si racconta la parabola di un amore che si spegne? Si possono tratteggiare i contorni di una fine? C’è un modo esatto per mettersi veramente a nudo nel confessare la sofferenza? È meglio farlo sibilando come un eco in lontananza che svanisce piano o urlando come se nel farlo si potesse alleggerire il peso del dolore? Meglio un gemito nel costante mormorio del mondo o il suono di una sirena che riecheggia? Conviene usare una penna intinta di tristezza ripercorrendo tutto in vena nostalgica o una penna cruda dal tratto marcato? Sarebbe più opportuno troncare i passaggi più ostici e decelerare o arrivare dritti in costante accelerazione fino alla battuta conclusiva? Come si formalizza una fine?
Non so come si racconta un addio. Non so quale sia l’architettura testuale da adottare. Se esiste un modo giusto di farlo e se alcune scelte siano più adeguate di altre. Se davvero esiste un modo.
So come lo racconterei io.
Dipingerei a parole la fragile cornice delle promesse di un amore andato in frantumi e poi la cancellerei. Scriverei con rapidità frasi su frasi senza segni di interpunzione per parlare della velocità di trasformazione delle grandi intese in grandi guerre e dell’improvvisa rottura del nostro equilibrio fondato su costruzioni astratte.
Darei voce alle “cose-da-non-dire” strutturandole in una cascata ininterrotta di pensieri e riflessioni. Mi soffermerei sugli strati induriti di emozioni e con i due punti scaverei più a fondo, servendomi di un elenco esplicativo preciso e dettagliato. Utilizzerei parole ruvide per descrivere due persone ormai taciturne e amareggiate, parole angolari per cristallizzare i segni dell’amore che un tempo li univa. Parole dissonanti per il distacco emotivo e la mancata tenuta dell’accordatura e parole morbide in intervalli simultanei per l’armonia e la complicità invidiabile degli inizi.
Cercherei di fare assaporare il retrogusto delle speranze infrante con una scrittura densa e tormentata che non ammette pause. Con la calligrafia inclinata la spoliazione della naturalezza dei gesti.
Poi segmenterei la nostra storia nelle sue unità costitutive per coglierne le sfumature, senza disarticolarne o scomporne il contenuto. A livello iniziale, metterei i punti con un tratto netto per raffigurare i volti impenetrabili; i punti e virgola per lo stacco deciso tra le espressioni aperte e gli sguardi sorridenti degli esordi e le espressioni tese e le teste chine della fine. Metterei anche qualche punto e virgola in più per scandire le interruzioni intermedie delle liti e delle riappacificazioni. Sospenderei il discorso con i puntini sospensivi per i silenzi protratti e le risposte mancate, nel vano tentativo di far recuperare al lettore preziose informazioni continuamente omesse e farlo giungere alle sue conclusioni. In quello intermedio, differenzierei con le virgole due persone scoordinate e ormai indipendenti per segnalare la separazione tra due proposizioni che un tempo erano un tutt'uno. Sul finale, qualche punto esclamativo per sottolineare l’importanza dei piccoli gesti dimenticati e la presenza dell’altro data per scontata e molti punti interrogativi per segnalare le lunghe pause e l’andamento discendente dei nostri sentimenti.
Farei qualche sbavatura qua e là per ricordare gli strascichi immancabili e deleteri dei litigi. Userei periodi lunghi e digressioni per restituirne il ritmo. Ripeterei le stesse parole in frasi ineleganti per ricordare quelle urlate dei nostri accesi scontri verbali. Sbaglierei ad andare a capo per far risaltare sul foglio le continue incomprensioni e i risentimenti, mostrandone le conseguenze. Illustrerei le interpretazioni diverse della stessa asserzione in estesi movimenti ragionativi collegati all'affermazione precedente. Poi sottolineerei di nero le parole per dar colore all'intrattabilità e alla rigidità delle posizioni. Ridurrei la frase al minimo e userei un linguaggio scarno per poter riprodurre le conversazioni asciutte degli ultimi tempi.
Infine, lascerei enormi spazi bianchi per la perdita di significato del nostro amore.
Riassumerei un addio in un elaborato controverso.
In una fine a parole che fine non è.
#parole#addio#fine#amore#storia amore#amare#distacco#silenzio#allontanamento#incomprensioni#risentimento#rabbia#speranza#crollo#litigare#mancanza#dialogo#separazione#promesse#trasformazioni#lasciare#rottura#diario#scrivere#sofferenza#tristezza#nostalgia#complicità#punteggiatura#intrattabile
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Come nel migliore dei finali, sfumiamo così: concludiamo il nostro viaggio attraverso i Diritti naturali dei bambini e delle bambine parlando di possibilità, di strade che si aprono, di colori che si mischiano senza definirsi bruscamente. Parliamo del decimo ed ultimo Diritto che è: IL DIRITTO ALLE SFUMATURE a vedere il sorgere del sole e il suo tramonto, ad ammirare nella notte la luna e le stelle. Avete presente i pennarelli? Quelli nel pacchetto da dodici che compriamo ai bambini ogni settembre per andare a scuola? Sono grossi, accesi, anche molto belli a vedersi, brillanti. Servono, è chiaro, perchè i piccoli possano lasciare segni visibili di sé, perchè possano godere della sensazione incisiva di creare qualcosa di coinvolgente sotto l'aspetto emotivo, motorio, sensoriale. Eppure quanti colori mancano in quel pacchetto da dodici? Troppi per dire il tanto che i colori sanno dire quando non squillano troppo sul foglio, quando non sono solo rosso, verde, blu e giallo ma anche lilla, ocra, fumo, magenta. Siamo abituati forse eccessivamente alle cose ben definite e a definire. Anche i bambini, spesso, ci viene facile chiamarli con nomi che ci sembrano lampantemente descrittivi: iperattivo, oppositivo, aggressivo, bravo, bravissimo, buono, difficile, problematico, strano, autistico. E intanto ci perdiamo le sfumature... Ci perdiamo la complessità delle piccole persone che abbiamo davanti. Sono generalizzazioni, semplificazioni spesso utili, necessarie per far fronte al difficile compito del comprendere, dell'andare nel profondo, del non fermarsi alle apparenze, al primo sguardo, ai colori tanto accesi da disturbare gli occhi. Ma i bambini, e anche i grandi, sono fatti di sfumature. Siamo tutti fatti di acqua per circa il 60%, il resto, per come la vedo io, sono colori; che si mischiano come nelle tavolette con i cerchi variopinti degli acquerelli. E' difficile avere a che fare con le parti degli altri che non sono né bianche né nere, perchè sono sfuggenti, perchè non sono immediate, eppure, proprio per questo, sono le più singolari e speciali. Pensate a un aggettivo per definirvi, uno solo. Sicuramente mancherà di qualcosa, sicuramente non vi renderà giustizia, non dirà a sufficienza della vostra bellezza. Lavoriamo tanto sulle differenze coi bambini, ma solo quando, anche quelle, sono tanto lampanti da diventare quasi “scomode” e quindi ci obbligano a prenderle in considerazione. A distinguerci non è solo il colore della pelle, o la lingua che parliamo, il nostro corpo più o meno coordinato, il nostro grado di sviluppo cognitivo. Eppure perchè non impariamo a sentirci definiti dalle cose di noi che sono più singolari e nascoste più che da quelle facilmente afferrabili da tutti? Notiamo, nei bambini, ciò che di loro appare più strano ma che è solo loro. Restituiamoglielo “digerito” con dolcezza quando loro non ne sono in grado. Educhiamo i loro sguardi alle mille sfumature agrodolci delle persone. Scopriamo insieme che, talvolta, è tanto più semplice avere meno colori per disegnare ma che è in quello spazio meno noto che collega i colori gli uni agli altri, che si nascondono le infinite possibilità del conoscersi davvero. Conoscersi anche senza necessariamente capirsi. Accogliere con gli occhi non accecati dai colori netti ma coccolati da altri più leggeri e inconsueti. Speriamo di ritrovarvi a settembre con noi, per percorrere nuove strade insieme, per giocare in acque nuove, quelle che, colpite dal sole, ci regalano ogni giorno il miracolo dei tramonti. “Fidati delle cose chiare Non delle cose ovvie Di quelle luminose Non di quelle illuminate Di chi capisce poco E non ha visto tutto Scoprire è meglio che capire Capire è meglio che spiegare Fidati di chi non si vergogna di cantare come gli viene E non delle canzoni Di chi ha messo la testa a posto Ma non ricorda dove Di chi balla per la strada Soprattutto quando piove.” (Lo stato Sociale – Quasi Liberi)
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Annamaria Ferramosca presenta “Per segni accesi”, il 26 maggio alla Biblioteca Laurentina
Annamaria Ferramosca presenta “Per segni accesi”, il 26 maggio alla Biblioteca Laurentina
Segnalazione di Lorenzo Spurio Giovedì 26 maggio a partire dalle ore 18:00 presso la Biblioteca Laurentina (Piazzale Elsa Morante n°16) si terrà un incontro-concerto di poesia sul libro Per segni accesi (Ladolfi, Borgomanero, 2021) della poetessa Annamaria Ferramosca. La presentazione, che si avvarrà di un’introduzione critica della poetessa Marzia Spinelli, sarà un concerto-poesia, un recital…
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Nell’attesa

Don Paolo Zamengo sdb
Lc 21,25 - 28,34-36
Avvento: già la parola ha un sapore di attesa. Avvento dice che qualcuno viene, viene verso di noi, incontro a noi. Chi viene? Viene realmente? O facciamo finta che venga? E noi cosa dobbiamo fare? Come essere, come stare, come vivere in questa attesa? Perché la nostra è attesa di Qualcuno: “della tua venuta” diciamo nella messa.
Siamo in attesa, “ciò che tarda verrà”. E’ questo il messaggio. E siamo chiamati a leggere i segni senza fermarci all’apparenza, ma a guardare oltre. A non rimanere nella paura. Se le parole del vangelo di Luca avessero l’intenzione di farci paura, di ingigantire la paura, ditemi voi che vangelo, che “buona notizia”, sarebbe? Non abbiamo bisogno di terrorismo spirituale.
Le immagini del vangelo sono inquietanti, perché a volte anche la vita è inquietante e non lo sono forse inquietanti queste ore? Ma una cosa mi stupisce: le immagini drammatiche, incombenti, ecco, all’improvviso si aprono. “Non lasciatevi ingannare”. “Non vi terrorizzate”. “Avrete occasione di dare testimonianza”. E ancora: “Con la vostra pazienza salverete la vostra vita”. Sino alle ultime, bellissime, parole che chiudono il brano di vangelo di oggi: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”.
“Quando cominceranno ad accadere queste cose…”. Quando? E non sarà che queste cose accadono già nella storia e non hanno mai finito di accadere anche oggi? Perché la storia è come segnata da questa conflittualità. E ne sono prova i nostri giorni da cui speriamo di uscire anche se frastornati, impauriti e feriti.
Quali allora gli atteggiamenti da coltivare “nell’attesa della tua venuta”? Nel tempo che va dalla venuta di Gesù al suo ritorno, “badate di non lasciarvi ingannare”. Ingannare da chi? Da quelli che usano parole religiose, da quelli che hanno facile il nome di Dio sulla loro bocca, da quelli che ti dicono: “Dio è qui, Dio è là”, o “Dio non c’è”. Sulla bocca di quelli che pretendono di dare loro un posto a Dio. Con una sicurezza arrogante, spavalda, gelida. Invece il messaggio di Gesù è semplice e concreto, ha un volto, il suo.
“Non vi terrorizzate”. I segni funesti, e ce ne sono in ogni tempo, hanno il triste effetto di terrorizzare: “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”. Mi ha colpito l’espressione “moriranno per la paura”. Si può morire di paura. La paura toglie energie, sogni, ci fa rintanare, ci paralizza. La paura ci ruba la vita, ci ruba il futuro.
“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Tenete duro, anche quando non vedete subito accesi i segni del regno di Dio. Abbiate la pazienza del contadino che sa attendere, anche quando non vede ancora i germogli. Seminate cose buone, gesti umani e perseverate nella fiducia in Dio.
E dentro le speranze e le contraddizioni che scandiscono le fasi della storia, l’invito è: “Risollevatevi e alzate il capo”. E’ questo il segno che siete in attesa della sua venuta. Il segno è il capo, lo sguardo alzato. Le delusioni e le tragedie ci lasciano curvi, capo chino e muso a terra, e non sentiamo più la forza di ricominciare e di lottare.
Ma quando tutto sembra logoro e inutile, ci giunge, ci risuona dentro questa parola ultima del vangelo di oggi: “risollevatevi e alzate il capo, la vostra liberazione è vicina”. Inizia una nuova giornata: “Risollevati, alza la testa”. Non lasciarti fermare. Riprendi a respirare. Continua a camminare. Come? Nella carità e nella luce. È dell’apostolo Paolo questo messaggio: “Camminate nella carità nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi.
Comportatevi come figli della luce. Capite? Dentro di noi c’è una scintilla di luce, di umanità, di bontà. In ognuno di noi indistintamente. Lasciamoci illuminare allora, camminiamo in questa luce. Nell’attesa della sua venuta.
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Nell’attesa

Don Paolo Zamengo sdb
Lc 21,25 - 28,34-36
Avvento: già la parola ha un sapore di attesa. Avvento dice che qualcuno viene, viene verso di noi, incontro a noi. Chi viene? Viene realmente? O facciamo finta che venga? E noi cosa dobbiamo fare? Come essere, come stare, come vivere in questa attesa? Perché la nostra è attesa di Qualcuno: “della tua venuta” diciamo nella messa.
Siamo in attesa, “ciò che tarda verrà”. E’ questo il messaggio. E siamo chiamati a leggere i segni senza fermarci all’apparenza, ma a guardare oltre. A non rimanere nella paura. Se le parole del vangelo di Luca avessero l’intenzione di farci paura, di ingigantire la paura, ditemi voi che vangelo, che “buona notizia”, sarebbe? Non abbiamo bisogno di terrorismo spirituale.
Le immagini del vangelo sono inquietanti, perché a volte anche la vita è inquietante e non lo sono forse inquietanti queste ore? Ma una cosa mi stupisce: le immagini drammatiche, incombenti, ecco, all’improvviso si aprono. “Non lasciatevi ingannare”. “Non vi terrorizzate”. “Avrete occasione di dare testimonianza”. E ancora: “Con la vostra pazienza salverete la vostra vita”. Sino alle ultime, bellissime, parole che chiudono il brano di vangelo di oggi: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”.
“Quando cominceranno ad accadere queste cose...”. Quando? E non sarà che queste cose accadono già nella storia e non hanno mai finito di accadere anche oggi? Perché la storia è come segnata da questa conflittualità. E ne sono prova i nostri giorni da cui speriamo di uscire anche se frastornati, impauriti e feriti.
Quali allora gli atteggiamenti da coltivare “nell’attesa della tua venuta”? Nel tempo che va dalla venuta di Gesù al suo ritorno, “badate di non lasciarvi ingannare”. Ingannare da chi? Da quelli che usano parole religiose, da quelli che hanno facile il nome di Dio sulla loro bocca, da quelli che ti dicono: “Dio è qui, Dio è là”, o “Dio non c’è”. Sulla bocca di quelli che pretendono di dare loro un posto a Dio. Con una sicurezza arrogante, spavalda, gelida. Invece il messaggio di Gesù è semplice e concreto, ha un volto, il suo.
“Non vi terrorizzate”. I segni funesti, e ce ne sono in ogni tempo, hanno il triste effetto di terrorizzare: “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”. Mi ha colpito l’espressione “moriranno per la paura”. Si può morire di paura. La paura toglie energie, sogni, ci fa rintanare, ci paralizza. La paura ci ruba la vita, ci ruba il futuro.
“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Tenete duro, anche quando non vedete subito accesi i segni del regno di Dio. Abbiate la pazienza del contadino che sa attendere, anche quando non vede ancora i germogli. Seminate cose buone, gesti umani e perseverate nella fiducia in Dio.
E dentro le speranze e le contraddizioni che scandiscono le fasi della storia, l’invito è: “Risollevatevi e alzate il capo”. E’ questo il segno che siete in attesa della sua venuta. Il segno è il capo, lo sguardo alzato. Le delusioni e le tragedie ci lasciano curvi, capo chino e muso a terra, e non sentiamo più la forza di ricominciare e di lottare.
Ma quando tutto sembra logoro e inutile, ci giunge, ci risuona dentro questa parola ultima del vangelo di oggi: “risollevatevi e alzate il capo, la vostra liberazione è vicina”. Inizia una nuova giornata: “Risollevati, alza la testa”. Non lasciarti fermare. Riprendi a respirare. Continua a camminare. Come? Nella carità e nella luce. È dell’apostolo Paolo questo messaggio: “Camminate nella carità nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi.
Comportatevi come figli della luce. Capite? Dentro di noi c’è una scintilla di luce, di umanità, di bontà. In ognuno di noi indistintamente. Lasciamoci illuminare allora, camminiamo in questa luce. Nell’attesa della sua venuta.
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Toccatemi tutto, tutto Ma non prendetevi la politica che sostengo, gli ideali che seguo, le leggende in cui credo, i quadri che ho appeso sopra il letto, le corde scordate della mia chitarra, la lucina che ho in camera di quand’ero solo un bambino e avevo paura del buio più di quanta ne abbia adesso. Non prendetevi i cartelloni, gli striscioni, i colori, i ricordi della scuola elementare, le leggi che non rispetto, le uova che ho lanciato contro un vetro, i cori contro le forze dell’ordine ed ogni istituzione e la rivoluzione che spero avverrà e che sosterrò fino alla morte e “se io muoio tu mi devi seppellir”. Non prendetevi l’ “Anarchico, ribelle” che mi rivolge mia madre e le sue urla quando torno a casa con le ginocchia rotte. Non portatevi via la mia scrittura amatoriale, ma ai porno non ci sono ancora arrivato. Quel “non sarai mai poeta” che tanta gente mi ha sputato contro e alla fine chicazzosenefrega, io da grande voglio fare l’antifascista. Quei segni rossi sopra ad un compito di scuola. Tagliate via tutto, tutto ma non le mie parole. Tagliatemi i capelli, squarciatemi i vestiti, marchiatemi la pelle di lividi viola da manganello, ma non portatevi via le mie parole. Non portatevi via la mia visione del mondo a cui ho cambiato un po’ i colori per farmelo piacere un po’ di pi. Non portatemi via le mani ed i fogli e le fotografie e le persone che catturano la mia attenzione per strada. Non portatevi via il mio mondo dai colori accesi e dalle statue che si muovono, dai fiumi di cioccolato e dalle farfalle che vivono più di un giorno. Non prendetevi tutto, non prendetevi me che tanto non mi piglierete mai resto accanto ai miei compagni, sempre ingovernabile. -DXSC
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Paolo del Colle è l’Aguirre della letteratura italiana. Genesi di un libro impossibile
Che ci fosse una continuità tra Le ragazze dell’Eur e Spregamore lo avevamo già notato. Leggendo ora Nuda proprietà (Melville, Melville 2018) ci si accorge che si trattava dei primi due libri di una trilogia. Ma una trilogia che non è stata pensata a tavolino. Nessuna intenzione o atto volontaristico. La scrittura di Del Colle coincide con la vita. Nuda proprietà, quindi, se è l’ultimo capitolo di un trittico, è perché dei due romanzi precedenti ha raccolto l’esperienza – che è un’esperienza sia di scrittura che di vita. Ma attenzione, perché qui non siamo davanti a un romanzo ma a un libro di versi e prose. O forse sbaglio; anche questo è un romanzo, ma frammentato, scritto in versi e in prose che non vogliono essere poetiche ma attraversare il flusso di una scrittura che resta fedele al dettato della vita.
Tra i tanti abomini prodotti dalla contemporaneità, quello della nuda proprietà ha qualcosa di disumano. Tecnicamente è la possibilità di vendere la propria casa a un acquirente che ne diventerà effettivo proprietario solo dopo la morte di chi ora la abita.
Lo sappiamo, in Spregamore Del Colle aveva compiuto, rispetto alle Ragazze dell’Eur, un movimento di chiusura, si era insomma mosso dal fuori delle strade del suo quartiere al dentro delle stanze di un appartamento nelle quali si prendeva cura della madre. Ora però, quella madre non c’è più, nell’appartamento è rimasto solo, proprietario illegittimo. Cosa voglio dire: che Del Colle qui vuole mostrarci un ragione di inappartenenza, continuamente ricordandoci di non coincidere mai con se stesso, che l’esistenza, dopo quella morte, la morte della madre, ha subito uno sfasamento. Se siamo ancora dentro una casa, ora, quella stessa casa del libro precedente, è abitata da fantasmi – fantasmi che non restituiscono neppure il sollievo del ricordo, fantasmi che sono muti. In Nuda proprietà infatti non c’è più dolore; o meglio: il dolore non è più un mezzo conoscitivo. Si potrebbe parlare di un’apatia dell’esistenza, se non fosse che quell’immobilità non è che la visione di un presente che si ripete in perpetuo: «Le notti insonni/ non hanno precedenti/ si inseguono solo per stupirsi la mattina/ quando è un cielo mai visto/ a sostenere il tempo/ a impedire previsioni/ che vadano oltre/ la vetrata del balcone/ oltre ciò che penso/ sia accaduto a mia insaputa». Cosa ci sta dicendo Del Colle? Cosa è successo dopo quella morte? Che qui e ora non c’è dolore perché non c’è passato. Il presente non ha sospeso ma incenerito la memoria: «non c’è l’elegia della vita passata, ma la frattura dell’esistenza, la sua interruzione e questa è senza tempo, un vissuto privo di memoria, la vita che se ne è andata senza lasciare un ricordo; svaniamo in fretta con le nostre storie e solo così ci rendiamo conto che la terra è inabitabile, con le sue case abbandonate, televisori accesi per nessuno, negozi e strade deserte». Ho citato da una prosa contenuta nella seconda parte del libro, «Il cavallo di Aguirre», quella dedicata a Herzog, ma non proprio a lui, ma a tutti gli animali che abitano i suoi film. La casa è divenuta per Del Colle uno spazio disabitato e deserto ma non disumano: è il luogo dove l’uomo è tornato (prima ancora di essere diventato) una bestia. Ma quel ritorno allo stato animale è l’immagine che Del Colle ha del Paradiso – per questo la chiusa della trilogia è anche l’immagine di un paradiso terrestre, che è sempre un ritorno a un’origine in cui si torna a essere anima(le) e i peccati e i ricordi sono già stati lavati nel Lete, risucchiati nell’oblìo. Torna in mente il senso tecnico del titolo, «nuda proprietà». Effettivamente, quella casa appartiene a due persone contemporaneamente. Ma cosa sono diventate, in quell’atto notarile, le due persone se non chi vende un già morto e chi compra qualcuno che la morte dell’altro attende? E se fosse in questo abominio il segreto che ci vuole raccontare Del Colle? Voglio dire, quelle due “persone” è lui stesso sdoppiato (e il doppio era un tema ricorrente nei precedenti libri, un doppio ottenuto in due persone che mai coincidevano ma che si scambiavano i ruoli: uno esisteva e l’altro era l’assente mai nato – un fratello o un angelo – ma che determinava l’esistenza dell’altro). Ma, più che di uno sdoppiamento, bisognerebbe parlare di una scissione, di una non coincidenza. È come se in Nuda proprietà Del Colle si fosse osservato da fuori e avesse visto che quella casa, dopo la morte di sua madre, non gli appartenesse più, nonostante lì dentro ci sia tutta la vita, costretto ad abitarci da estraneo. Per questo è impossibile coincidere con se stessi. Oppure, proprio in ragione di quell’estraneità, fosse costretto ad abitarci cancellando i ricordi, vivendo solo lo spazio perpetuo del presente, come la casa fosse una «terra santa» che ci ha già mutati in bestie, in pure anime. Il presente, allora, è in Nuda proprietà un tempo che non è già più – è l’altrove che ci ha già mutati. Paolo è già gli animali di Herzog che invoca in quella sezione, lo è fin dall’inizio, gli stessi animali che osservano l’uomo e non ne capiscono gli atti folli, i gesti di disperata vacuità. Sono loro a pronunciare una verità ultima e prima: «Gli animali in Herzog ci fanno capire quel che non siamo mai stati, cioè la nostra scomparsa (un anticipo o una attesa), un paradiso da sempre sulla terra che lo sguardo umano non può che distruggere».
Andrea Caterini
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Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto da “Nuda proprietà”, di Paolo Del Colle (Melville, 2018)
«Il cavallo di Aguirre»
In una immagine “rubata”, casuale, un istante catturato da Herzog in Aguirre, furore di Dio, il cavallo dei ribelli in viaggio verso l’Eldorado, viene gettato dalla zattera: improvvisamente, le risate si smorzano nel silenzio, nel non comprendere: il cavallo non cerca di risalire, ma si mette in salvo sulla sponda del fiume, da dove per un attimo rivolge lo sguardo a quei ribelli, ora abbandonati a se stessi, alla loro follia solo umana. Per la prima volta il loro condottiero, Aguirre, guarda indietro. Il confine è superato, non c’è più scampo. La zattera gira su se stessa. Sarà invasa dalle scimmie.
C’è un film invisibile nella filmografia di Herzog. Gioco sulla sabbia, secondo cortometraggio del 1964, 14 minuti. Trama semplicissima: dei bambini giocano con un gallo, in un crescendo di crudeltà insopportabile. Herzog ne parla sempre in modo sbrigativo, ripetendosi: «non potevo immaginare quello che sarebbe successo… ho perso il controllo» e variazioni su questa sua paralisi, incapacità di fermare ciò che accadeva.
Si può azzardare che a immobilizzarlo sia l’evoluzione di una storia, la sua conseguenzialità, verrebbe da dire che ciò che non controlla è il prevedibile, l’appiattirsi della verità sul fatto; lo immobilizza il contrario della visione estatica, perché sperimenta la mancanza di visione, il suo precipitare nel necessario di cui fa parte la sua fissità, l’essere spettatore, come fosse un regista dell’odiato cinema verità. Da allora nei suoi film gli animali sono presenze che aprono tempo e spazio, donano circostanze a noi invisibili, ma che ci attorniano (il gallo, il mulo e la civetta in Segni di vita; la cicogna in La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz; gli uccelli in Cuore di vetro; i maiali in La soufrière; Anche gli uomini cantano rimanda invece al finale di Fitzcarraldo).
Lo sguardo di Herzog deve molto a loro: la verità non è in uno sprofondamento, una verticalizzazione dell’immagine, ma in quell’immagine che impedisce lo sprofondamento e ferma la visione in un punto di equilibrio che non è armonia, ma segna la distanza, anche minima, che ci divide da un’altra vita, o dalle due facce dell’origine, la vita e la sua da sempre perduta inviolabilità. Gli animali in Herzog ci fanno capire quel che non siamo mai stati e quel che saremo già stati, cioè la nostra scomparsa (un anticipo o una attesa), un paradiso da sempre sulla terra che lo sguardo umano non può che distruggere. È con il loro sguardo, fatto suo, che Herzog dona al nostro tempo un assoluto, che non è privilegio di ascolti elitari della voce dell’essere, ma ciò che su questa terra permettiamo di essere tale. L’assoluto non ci viene regalato e non è un luogo statico dall’origine dei tempi, è ciò che riusciamo a intravedere oltre i piani più alti delle moderne cattedrali, ciò che viene in soccorso quando sembra esaurito il fiato e finite le lacrime. Herzog la chiama «verità estatica». Al limite estremo, quando anche il camminatore Herzog giunge allo sfinimento, all’assenza di orizzonti, si trova finalmente il pericolo della mancanza di senso: cioè il grande avversario del nulla. Il mitico viaggio a piedi da Monaco a Parigi per trovare Lotte Eisner malata finisce con queste parole: «Per un solo istante, senza peso, per il mio corpo esausto è passato come un soffio di dolcezza. Ho detto. Apra la finestra, da qualche giorno io so volare».
Paolo del Colle
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Dopo il lungo periodo di sospensione imposto dal necessario lockdown riprendono le esposizioni presso la vetrina del centro d'arte e cultura 'L. da Vinci' di Bari - Santo Spirito con gli appuntamenti di ARTE in VETRINA, iniziativa che propone la visione di un dipinto, a cadenza quindicinale, direttamente dall'esterno della location.
Dal 28 maggio al 15 giugno è la volta di 'Risvolti cromatici', un acrilico su tela dalle dimensioni di cm 100 X 100 dell'artista Leonardo Basile. L'opera, che porta il 1997 come data di realizzazione, è un inedito mai esposto fino ad ora, e rappresenta l'intenzione dell'autore nel concentrare la propria fantasia sui giochi pulsanti dei colori accesi, creando tra essi una sinergia complementaristica che, come nell'immensità dello spazio, si lanciano verso l'infinito dove predominano il senso della memoria e il sogno.
Scrive Vito Cracas , storico e critico d'arte in Bari: "Artista dotato di vivace fantasia , Leonardo Basile traduce le vibrazioni della propria emozionalità in composizioni densamente ritmate nel variare dei segni grafici e dei colori, dove il richiamo formale alla realtà , tuttavia , è quasi del tutto annullato , a favore di una libera espressività della percezione interiore . Una pittura , la sua , densa di motivazioni spirituali e di intuizioni , che si dispongono secondo una logica propria , originale , nel tessuto della rappresentazione .
Momenti di approdo e di proiettive tensioni , ad un tempo , delle riflessioni maturate nel vissuto quotidiano , che l'artista esplicita con maestria nel dosaggio cromatico delle tonalità , con le quali traduce la variegata gamma dei sentimenti e le ineffabili vibrazioni della sensibilità ."
Leonardo Basile, nato a Palese (Bari) nel 1961 , pittore , ha frequentato il Liceo Artistico e l’Istituto d’ Arte ; opera nell’ambito dell’astratto e informale . Ha tenuto mostre personali e partecipato ad innumerevoli rassegne collettive nazionali ed internazionali. Ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti . Vive ed opera in Bari Santo Spirito , dove fa dell' arte il suo serio gioco di vita .
Risvolti cromatici per Arte in vetrina Dal 28 Maggio al 15 Giugno 2020
Vetrina Centro d'arte e cultura L. Da Vinci Santo Spirito, Via G.Verdi, 7, (BA)
Orario di apertura Tutti i giorni, 24/24 h
http://leonardobasile.it
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Beauty routine invernale, per affrontare al meglio il freddo
É mattina, il freddo invernale comincia a farsi sentire, l’aria si riempie del profumo dei camini accesi, di legna ardente e le lucine nelle case restano accese tutta la notte.
In questa bellezza immensa del mese di dicembre, oramai alle porte, abbiamo però un compito preciso: proteggere la nostra pelle. Quest’ultima infatti, specie in questa stagione va idratata particolarmente, con i prodotti giusti, la beauty routine infatti risulta necessaria e come non mai quotidiana.
Scegliere i prodotti è spesso difficile e come sempre, ho qualche consiglio da darvi, dopo aver provato numerosi articoli. Di cosa si tratta? Ebbene di una buona crema idratante, innanzitutto, di una buona acqua micellare per lo struccaggio e di un buono scrub (non più di 3 volte al mese).
Dei prodotti super adatti sono quelli alla bava di lumaca con davvero molteplici proprietà. Ebbene, essa è lenitiva, cicatrizzante, immensamente idratante e fortemente antirughe. La pelle dopo l’utilizzo, nel mio caso mi sono trovata benissimo con gli articoli Caluma, appare notevolmente più sana e riposata. Dopo l’uso di questi articoli, per un tempo di circa 3 mesi almeno, la pelle apparirà sempre più luminosa con i segni del tempo notevolmente attenuanti. La linea Caluma offre una gamma di articoli con bava di lumache rigorosamente allevate in Italia, e materie di prime di ottima qualità. Spalmare sulla nostra pelle dei prodotti privi di petrolati e simili e la base per mantenere una buona texture cutanea nonostante il passare degli anni.
La bava di lumaca utilizzata negli articoli Caluma è rigorosamente estratta a mano conservando le sue principali componenti attive garantendo, così, la massima resa del prodotto nel corso del suo utilizzo. Tutti questi dettagli la rendono al momento la mia preferita.
Ovviamente ce ne sono tante altre ad effetto idratante Sobio o Neve.
Anche questa volta provare per credere.
Buona beauty routine a tutte
Photo credits @calumacosmesi
Photo credits: @calumacosmesi
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In onda su Rai 1, la serie tv “Imma Tataranni – Sostituto procuratore, ha un elemento essenziale della narrazione: l’ambientazione tutta italiana, nella bellissima terra di Matera. Le riprese sono iniziate il 6 novembre 2018, quando hanno trasformato piazza Vittorio Veneto nel set ideale, con tanto di luminarie della Madonna della Bruna. È stato persino montato un mercatino all’ingresso del Palombaro lungo, e la fontana vicino al monumento in ricordo dei caduti è stata sostituita da una grande aiuola. Matera Ph. Valerio Mei (123rf) Imma Tataranni non è un sostituto procuratore qualsiasi. È incorruttibile, implacabile, dissacrante, ma non le mancano l’ironia, la compassione, la tenerezza: la serie è tratta dai fortunati gialli di Mariolina Venezia, divertente e pungente ritratto dell’Italia di oggi. Ma Imma non puoi nemmeno non notarla per gli abiti maculati e iper colorati, per il passo deciso, per i suoi toni accesi: la vita non le ha regalato niente ed è per questo che non ama le scorciatoie e i privilegi. Vive a Matera: luogo arcaico rivolto al futuro, terra ricca di storie e cultura in parallelo con la vita della protagonista. Con Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo nel cast, la fiction diretta da Francesco Amato è composta da sei puntate, con le prime riprese che hanno visto gli attori impegnati tra Metaponto e Matera per poi girare le scene finali a Roma. Metaponto sorge sulle rive del Mar Jonio ed è una delle città più floride e rappresentative della cultura greca, un ponte tra Italia e Oriente in cui oggi sono ancora vivi numerosi segni del passato. La piana dove si adagia abbraccia un lembo di terra delle spiagge ioniche lucane, a sud di Matera. Metaponto Ph. Francesco Zingaropoli (123rf) Matera, luogo in cui il sostituto procuratore vive e dove si snoda tutta la storia, resta una delle città più antiche del mondo, luogo di testimonianze e insediamenti umani a partire dal paleolitico. La città dei Sassi, sviluppatasi a partire dalle grotte naturali scavate nella roccia, e successivamente modellate in strutture sempre più complesse all’interno di due grandi anfiteatri naturali (il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano) è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 1993 dall’UNESCO. E, il 17 ottobre 2014, è stata designata Capitale Europea della Cultura per il 2019. Camminare tra le sue vie è come fare un viaggio nel passato, in un grande museo a cielo aperto. Assaporare la storia tra i suoi sassi è come scoprire le tracce di un passato che ancora resiste, nelle abitazioni, nelle strade e nelle grotte. I vicoletti, le zone cavernose, le stradine bianche riarse dal sole dove si percepire il misticismo della città e la sua dolente bellezza abbracciano la storia di una donna che, nonostante tutto, prosegue verso un prossimo futuro lungo le vie della sua vita e del tribunale. Matera di notte Ph. jakobradlgruber (123rf) https://ift.tt/2nYPwGM La Basilicata della serie tv “Imma Tataranni – Sostituto procuratore” In onda su Rai 1, la serie tv “Imma Tataranni – Sostituto procuratore, ha un elemento essenziale della narrazione: l’ambientazione tutta italiana, nella bellissima terra di Matera. Le riprese sono iniziate il 6 novembre 2018, quando hanno trasformato piazza Vittorio Veneto nel set ideale, con tanto di luminarie della Madonna della Bruna. È stato persino montato un mercatino all’ingresso del Palombaro lungo, e la fontana vicino al monumento in ricordo dei caduti è stata sostituita da una grande aiuola. Matera Ph. Valerio Mei (123rf) Imma Tataranni non è un sostituto procuratore qualsiasi. È incorruttibile, implacabile, dissacrante, ma non le mancano l’ironia, la compassione, la tenerezza: la serie è tratta dai fortunati gialli di Mariolina Venezia, divertente e pungente ritratto dell’Italia di oggi. Ma Imma non puoi nemmeno non notarla per gli abiti maculati e iper colorati, per il passo deciso, per i suoi toni accesi: la vita non le ha regalato niente ed è per questo che non ama le scorciatoie e i privilegi. Vive a Matera: luogo arcaico rivolto al futuro, terra ricca di storie e cultura in parallelo con la vita della protagonista. Con Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo nel cast, la fiction diretta da Francesco Amato è composta da sei puntate, con le prime riprese che hanno visto gli attori impegnati tra Metaponto e Matera per poi girare le scene finali a Roma. Metaponto sorge sulle rive del Mar Jonio ed è una delle città più floride e rappresentative della cultura greca, un ponte tra Italia e Oriente in cui oggi sono ancora vivi numerosi segni del passato. La piana dove si adagia abbraccia un lembo di terra delle spiagge ioniche lucane, a sud di Matera. Metaponto Ph. Francesco Zingaropoli (123rf) Matera, luogo in cui il sostituto procuratore vive e dove si snoda tutta la storia, resta una delle città più antiche del mondo, luogo di testimonianze e insediamenti umani a partire dal paleolitico. La città dei Sassi, sviluppatasi a partire dalle grotte naturali scavate nella roccia, e successivamente modellate in strutture sempre più complesse all’interno di due grandi anfiteatri naturali (il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano) è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 1993 dall’UNESCO. E, il 17 ottobre 2014, è stata designata Capitale Europea della Cultura per il 2019. Camminare tra le sue vie è come fare un viaggio nel passato, in un grande museo a cielo aperto. Assaporare la storia tra i suoi sassi è come scoprire le tracce di un passato che ancora resiste, nelle abitazioni, nelle strade e nelle grotte. I vicoletti, le zone cavernose, le stradine bianche riarse dal sole dove si percepire il misticismo della città e la sua dolente bellezza abbracciano la storia di una donna che, nonostante tutto, prosegue verso un prossimo futuro lungo le vie della sua vita e del tribunale. Matera di notte Ph. jakobradlgruber (123rf) La città dei sassi, con la sua storia e la sua immensa bellezza, accompagna le sei puntate della serie tv in onda su Rai Uno.
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Bekha’s first years at Hogwarts ~
Le sembianze sono quelle di un comune Asticello: una base ossuta e acerba che è solo spigoli e linee dritte. Parte da soli 146 centimetri di altezza per un peso irrisorio di 33 chilogrammi, su di lei un Poùsikus rischia di avere l’effetto di un Everte Statim. In forma base di presenta con lunghi capelli “biondo banana” (doverosamente domati dalla Tricopozione Lisciariccio) ad incorniciare un viso ovale dall’incarnato roseo e occhi sfumano, dalla zona limitrofa alla pupilla, dal verde pallido all'azzurro freddo tendente al grigio nella zona esterna, sempre accesi di esuberante curiosità. Ma come sempre le mutazioni che ne hanno contraddistinto tutta la vita scandiscono ogni sua emozione mostrandola al mondo.
...
I capelli biondi si presentano di quel colore chiaro che potremmo identificare come il colore di una banana sbucciata, lisci con la riga di lato che incorniciano il volto tondeggiante da bimba, per quanto mostri segni ovalizzanti, su cui spiccano due occhi dal taglio da gatta, da furbetta di un colore indefinito che non si capisce se cambia per mutazioni o per luce e reazione naturale. Ovviamente indossa la divisa, così come ha fatto ogni giorno da quando ha avuto il privilegio di varcare i cancelli della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Anche se è stata personalizzata, un tocco che non ha evitato. Sotto la palandrana che copre maglioncino e camicetta, quelli che più classici dimostrano la sua appartenenza alla casa di Corvonero, portata non proprio in maniera impaccabile, soprattutto visto che la cravata è allentata e la gonna che arriva sopra il ginocchio risulta spiegazzata, spiccano due paio di calze a parigine sulle gambe magre tutte colorate a righe di diverse colori verde, viola e azzurro. Le calze stile Pippi Calzelunghe sbucano da un paio di stivaletti stile dott. Martins di un improbabile rosa puffola... uno scricciolo bassina e magrolina, tutta disordinata ricorda una specie di pulcino dalle piume arruffate quando fa la sua comparsa per il lungo corridoio.
#original character in a Harry Potter themed rpg#mondohogwarts#metamorphmagus#hogwarts students#ravenclaw
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