#Medaglia d’Argento al Valor Militare
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Il discorso di Mattarella
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"Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
È Piero Calamandrei che rivolge queste parole a un gruppo di giovani studenti, a Milano, nel 1955.
Ed è qui allora, a Cuneo, nella terra delle 34 Medaglie d’oro al Valor militare e dei 174 insigniti di Medaglia d’argento, delle 228 Medaglie di bronzo per la Resistenza.
La terra dei dodicimila partigiani, dei duemila caduti in combattimento e delle duemilaseicento vittime delle stragi nazifasciste.
È qui che la Repubblica oggi celebra le sue radici, celebra la Festa della Liberazione.
Su queste montagne, in queste valli, ricche di virtù di patriottismo sin dal Risorgimento.
In questa terra che espresse, con Luigi Einaudi, il primo Presidente dell’Italia rinnovata nella Repubblica.
Rivolgo un saluto a tutti i presenti, ai Vice Presidenti del Senato e della Camera, ai Ministri della Difesa, del Turismo e degli Affari regionali. Al Capo di Stato Maggiore della Difesa. Ai parlamentari presenti.
Saluto, e ringrazio per i loro interventi, il Presidente della Regione, la Sindaca di Cuneo, il Presidente della Provincia. Un saluto ai Sindaci presenti, pregandoli di trasmetterlo a tutti i loro concittadini. Un saluto e un ringraziamento al Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza.
Stamane, con le altre autorità costituzionali, ho deposto all’Altare della Patria una corona in memoria di quanti hanno perso la vita per ridare indipendenza, unità nazionale, libertà, dignità, a un Paese dilaniato dalle guerre del fascismo, diviso e occupato dal regime sanguinario del nazismo, per ricostruire sulle macerie materiali e morali della dittatura una nuova comunità.
“La guerra continua” affermò, nella piazza di Cuneo che oggi reca il suo nome, Duccio Galimberti, il 26 luglio del 1943.
Una dichiarazione di senso ben diverso da quella del governo Badoglio.
Continua - proseguiva Galimberti - “fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana…non possiamo accodarci ad una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani”.
Un giudizio netto e rigoroso. Uno discorso straordinario per lucidità e visione del momento. Che fa comprendere appieno valore e significato della Resistenza.
E fu coerente, salendo in montagna.
Assassinato l’anno seguente dai fascisti, è una delle prime Medaglie d’oro della nuova Italia; una medaglia assegnata alla memoria.
Il “motu proprio” del decreto luogotenenziale recita: “Arrestato, fieramente riaffermava la sua fede nella vittoria del popolo italiano contro la nefanda oppressione tedesca e fascista”; ed è datato, con grande significato, “Italia occupata, 2 dicembre 1944”.
Dopo l’8 settembre il tema fu quello della riconquista della Patria e della conferma dei valori della sua gente, dopo le ingannevoli parole d’ordine del fascismo: il mito del capo; un patriottismo contrapposto al patriottismo degli altri in spregio ai valori universali che animavano, invece, il Risorgimento dei moti europei dell’800; il mito della violenza e della guerra; il mito dell’Italia dominatrice e delle avventure imperiali nel Corno d’Africa e nei Balcani. Combattere non per difendere la propria gente ma per aggredire. Non per la causa della libertà ma per togliere libertà ad altri.
La Resistenza fu anzitutto rivolta morale di patrioti contro il fascismo per affermare il riscatto nazionale.
Un moto di popolo che coinvolse la vecchia generazione degli antifascisti.
Convocò i soldati mandati a combattere al fronte e che rifiutarono di porsi sotto il comando della potenza occupante tedesca, pagando questa scelta a caro prezzo, con l’internamento in Germania e oltre 50.000 morti nei lager.
Chiamò a raccolta i giovani della generazione del viaggio attraverso il fascismo, che ne scoprivano la natura e maturavano la scelta di opporvisi. La generazione, “sbagliata” perché tradita. Giovani ai quali Concetto Marchesi, rettore dell’Ateneo di Padova si rivolse per esortarli, dopo essere stati appunto “traditi”, a “rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano”.
Fu un moto che mobilitò gli operai delle fabbriche.
Coinvolse i contadini e i montanari che, per la loro solidarietà con i partigiani combattenti, subirono le più dure rappresaglie (nel Cuneese quasi 5.000 i patrioti e oltre 4.000 i benemeriti della Resistenza riconosciuti).
Quali colpe potevano avere le popolazioni civili?
Di voler difendere le proprie vite, i propri beni? Di essere solidali con i perseguitati?
Quali quelle dei soldati? Rifiutarsi di aggiungersi ai soldati nazisti per fare violenza alla propria gente?
L’elenco delle località colpite nel Cuneese compone una dolorosa litania e suona come preghiera.
Voglio ricordarle.
Furono decorate con Medaglie d’oro, d’argento o di bronzo, o con Croci di guerra: Cuneo, l’intera Provincia, Alba, Boves, Borgo San Dalmazzo, Dronero; Clavesana, Peveragno, Cherasco, Busca, Costigliole Saluzzo, Genòla, Trinità, Venasca, Ceva, Pamparato; Mondovì, Priola, Castellino Tanaro, Garessio, Roburent, Paesana, Narzòle, Rossana, Savigliano; Barge, San Damiano Macra, Villanova Mondovì.
Alla memoria delle vittime e alle sofferenze degli abitanti la Repubblica oggi si inchina.
Questo pomeriggio mi recherò a Boves, prima città martire della Resistenza, Medaglia d’oro al Valor militare e Medaglia d’oro al Valor Civile.
Lì si scatenò quella che fu la prima strage operata dai nazisti in Italia.
Una strage che colpì la popolazione inerme e coloro che avevano tentato di evitarla: Antonio Vassallo, don Giuseppe Bernardi, ai quali è stata tributata dalla Repubblica la Medaglia d’oro al Valor civile; don Mario Ghibaudo. I due sacerdoti, recentemente proclamati beati dalla Chiesa cattolica, testimoni di fede che non vollero abbandonare il popolo loro affidato, restarono accanto alla loro gente in pericolo.
E da Boves vengono segni di un futuro ricco di speranza: la Scuola di pace fortissimamente voluta dall’Amministrazione comunale quasi quarant’anni or sono e il gemellaggio con la cittadina bavarese di Schondorf am Ammersee, luogo dove giacciono i resti del comandante del battaglione SS responsabile della feroce strage del 19 settembre 1943.
A Borgo San Dalmazzo visiterò il Memoriale della Deportazione.
Borgo San Dalmazzo, dove il binario alla stazione ferroviaria è richiamo quotidiano alla tragedia della Shoah.
Cuneo, dopo Roma e Trieste, è la terza provincia italiana per numero di deportati nei campi di sterminio in ragione dell’origine ebraica.
Accanto agli ebrei cuneesi che non riuscirono a sfuggire alla cattura, la più parte di loro era di nazionalità polacca, francese, ungherese e tedesca. Si trattava di ebrei che, dopo l’8 settembre, avevano cercato rifugio dalla Francia in Italia ma dovettero fare i conti con la Repubblica di Salò.
Profughi alla ricerca di salvezza, della vita per sé e le proprie famiglie, in fuga dalla persecuzione, dalla guerra, consegnati alla morte per il servilismo della collaborazione assicurata ai nazisti.
Dura fu la lotta per garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo. Ci aiutarono soldati di altri Paesi, divenuti amici e solidi alleati: tanti di essi sono sepolti in Italia.
A questa lotta si aggiunse una consapevolezza: la crisi suprema del Paese esigeva un momento risolutivo, per una nuova idea di comunità, dopo il fallimento della precedente.
Si trattava di trasfondere nello Stato l’anima autentica della Nazione.
Di dare vita a una nuova Italia.
Impegno e promessa realizzate in questi 75 anni di Costituzione repubblicana. Una Repubblica fondata sulla Costituzione, figlia della lotta antifascista.
Le Costituzioni nascono in momenti straordinari della vita di una comunità, sulla base dei valori che questi momenti esprimono e che ne ispirano i principi.
Le “Repubbliche” partigiane, le zone libere, nelle loro determinazioni e nel loro operare furono anticipatrici della nostra Costituzione.
È dalla Resistenza che viene la spinta a compiere scelte definitive per la stabilità delle libertà del popolo italiano e del sistema democratico, rigettando le ambiguità che avevano consentito lo stravolgimento dello Statuto albertino operato con il fascismo.
Se il decreto luogotenenziale del 2 agosto 1943 - poco dopo la svolta del 25 luglio – prevedeva, non appena ve ne fossero le condizioni, l’elezione di una nuova Camera dei Deputati, per un ripristino delle istituzioni e della legalità statutaria, fu il decreto del 25 giugno 1944 – pochi giorni dopo la costituzione del primo Governo del CLN - a indicare che dopo la liberazione del territorio nazionale sarebbe stata eletta dal popolo, a suffragio universale, un’Assemblea costituente, con il compito di redigere la nuova Costituzione. Per questo quel decreto viene definito la prima “Costituzione provvisoria”.
Seguirà poi il referendum, il 2 giugno 1946, con la Costituente e la scelta per la Repubblica.
La rottura del patto tra Nazione e monarchia, corresponsabile, quest’ultima, di avere consegnato l’Italia al fascismo, sottolineava l’approdo a un ordinamento nuovo.
La Costituzione sarebbe stata la risposta alla crisi di civiltà prodotta dal nazifascismo, stabilendo il principio della prevalenza sullo Stato della persona e delle comunità, guardando alle autonomie locali e sociali dell’Italia come a un patrimonio prezioso da preservare e sviluppare.
Una risposta fondata sulla sconfitta dei totalitarismi europei di impronta fascista e nazista per riaffermare il principio della sovranità e della dignità di ogni essere umano, sulla pretesa di collettivizzazione in una massa forzata al servizio di uno Stato in cui l’uomo appare soltanto un ingranaggio.
Il frutto del 25 aprile è la Costituzione.
Il 25 aprile è la Festa della identità italiana, ritrovata e rifondata dopo il fascismo.
È nata così una democrazia forte e matura nelle sue istituzioni e nella sua società civile, che ha permesso agli italiani di raggiungere risultati prima inimmaginabili.
E qui a Cuneo, mentre la guerra infuriava, veniva sviluppata un’idea di Costituzione che guardava avanti.
Pionieri Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci.
Guardava a come scongiurare per il futuro i conflitti che hanno opposto gli Stati europei gli uni agli altri, per dar vita, insieme, a una Costituzione per l’Europa e a una per l’Italia. Dall’ossessione del nemico alla ricerca dell’amico, della cooperazione.
La Costituzione confederale europea si accompagnava alla proposta di una “Costituzione interna”.
Obiettivo: “liberare l’Europa dall’incubo della guerra”.
Sentiamo riecheggiare in quello che appariva allora un sogno, il testo del preambolo del Trattato sull’Unione Europea: “promuovere pace, sicurezza, progresso in Europa e nel mondo”.
Un sogno che ha saputo realizzarsi per molti aspetti in questi settant’anni. Anche se ancora manca quello di una “Costituzione per l’Europa”, nonostante i tentativi lodevoli di conseguirla.
Chiediamoci dove e come saremmo se fascismo e nazismo fossero prevalsi allora!
Nel lavoro di Galimberti e Rèpaci troviamo temi, affermazioni, che sono oggi realtà della Carta costituzionale italiana, come all’art. 46: “le differenze di razza, di nazionalità e di religione non sono di ostacolo al godimento dei diritti pubblici e privati”.
Possiamo quindi dire, a buon titolo: Cuneo, città della Costituzione!
Galimberti era stato a Torino allievo di Francesco Ruffini, uno dei docenti universitari che, rifiutando il giuramento di fedeltà al fascismo, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento.
Accanto a Galimberti e Rèpaci, altri si misurarono con la sfida di progettare il futuro.
Silvio Trentin, in esilio dal 1926, nel suo “Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell’Italia”, dettato al figlio Bruno nel 1944, era sostenitore, anch’egli, dell’anteriorità dei diritti della persona rispetto allo Stato.
E Mario Alberto Rollier, con il suo “Schema di costituzione dell’unione federale europea”. Testi, entrambi, di forte ispirazione federalista.
Si tratta, nei tre casi, di esponenti di quel Partito d’Azione di cui incisiva sarà l’influenza nel corso della Resistenza e dell’avvio della vita della Repubblica.
La crisi della monarchia e quella del fascismo apparivano ormai irreversibili, tanto da indurre un gruppo di intellettuali cattolici a riunirsi a Camaldoli, a pochi giorni dal 25 luglio 1943, con l’intento di riflettere sul futuro, dando vita a una Carta di principi, nota come “Codice di Camaldoli”, che lascerà il segno nella Costituzione. Con la proposta di uno Stato che facesse propria la causa della giustizia sociale come concreta espressione del bene comune, per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo di ogni persona umana, per rendere sostanziale l’uguaglianza fra i cittadini.
Per tornare alla “Costituzione di Duccio”, apparivano allora utopie alcune sue previsioni come quella di una “unica moneta europea”. Oggi realtà.
O quella di “un unico esercito confederale”. E il tema della difesa comune è, oggi, al centro delle preoccupazioni dell’Unione Europea, in un continente ferito dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina.
Sulla scia di quei “visionari” che, nel pieno della tragedia della guerra e tra le macerie, disegnavano la nuova Italia di diritti e di solidarietà, desidero sottolineare che onorano la Resistenza, e l’Italia che da essa è nata, quanti compiono il loro dovere favorendo la coesione sociale su cui si regge la nostra comunità nazionale.
Rendono onore alla Resistenza i medici e gli operatori sanitari che ogni giorno non si risparmiano per difendere la salute di tutti. Le rendono onore le donne e gli uomini che con il loro lavoro e il loro spirito di iniziativa rendono competitiva e solida l’economia italiana.
Le rendono onore quanti non si sottraggono a concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva.
Il popolo del volontariato che spende parte del proprio tempo per aiutare chi ne ha bisogno.
I giovani che, nel rispetto degli altri, si impegnano per la difesa dell’ambiente.
Tutti coloro che adempiono, con coscienza, al proprio dovere pensando al futuro delle nuove generazioni rendono onore alla liberazione della Resistenza.
Signor Presidente della Regione, lei ha definito queste colline, queste montagne “geneticamente antifasciste”.
Sappiamo quanto dobbiamo al Piemonte, Regione decorata, a sua volta, con la Medaglia d’oro al merito civile
Ed è alle donne e agli uomini che hanno animato qui la battaglia per la conquista della libertà della Patria che rivolgo il mio pensiero rispettoso.
Nuto Revelli ha parlato della sua esperienza di comandante partigiano e della lotta svolta in montagna come di un vissuto di libertà: di un luogo dove era possibile assaporare il gusto della libertà prima che venisse restituita a tutto il popolo italiano.
Una terra allora non prospera, tanto da ispirargli i racconti del “mondo dei vinti”.
Una terra ricca però di valori morali.
Non c’è una famiglia che non abbia memoria di un bisnonno, di un nonno, di un congiunto, di un alpino caduto in Russia, nella sciagurata avventura voluta dal fascismo.
Non c’è famiglia che non ricordi il sacrificio della Divisione alpina “Cuneense” nella drammatica ritirata, con la Julia. Un altro esempio. Un altro monito alla dissennatezza della guerra.
Rendiamo onore alla memoria di quei caduti.
Grazie da tutta la Repubblica a Cuneo e al Cuneese, con le sue Medaglie al valore!
Come recita la lapide apposta al Municipio di questa città, nell’ottavo anniversario dell’uccisione di Galimberti, se mai avversari della libertà dovessero riaffacciarsi su queste strade troverebbero patrioti.
Come vi è scritto: “morti e vivi collo stesso impegno, popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”.
Viva la Festa della Liberazione!
Viva l’Italia!
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🎖 Medagliere Gala 8 Posti: Eleganza e Onore per il Tenente Colonnello Comandante | Tutto Militare
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Mario Bellagambi l'aviatore fiorentino asso dei Diavoli rossi
Mario Bellagambi nacque a Firenze nel 1915. Nel 1935 ottenne il brevetto come pilota civile presso l’aeroporto di Firenze/Peretola. Nel 1937 arruolatosi nella Regia Aeronautica, ottenne anche il brevetto di pilota militare, pilotando il biplano da caccia Fiat CR 32 Freccia, venendo assegnato alla 362° Squadriglia del 24° Gruppo del 52° Stormo Caccia Terrestre. Militò poi nel XVI Gruppo Caccia “La Cucaracha” e nella Squadriglia autonoma mitragliamento “Ocio che te copo” (in veneto “Occhio che ti accoppo”).
Partì volontario per la Guerra di Spagna nel 1938 inquadrato nella Squadriglia Gamba di Ferro di Tito Falconi, così chiamata in onore dell’Asso Ernesto Botto, che poco tempo prima in Spagna, aveva perso una gamba in un combattimento aereo. Amputata la gamba destra, tornò comunque in servizio con un arto artificiale, meritando la Medaglia d’oro al valore, e l’onore di poter dare il nome alla 32° Squadriglia con una sua effige: una gamba di metallo come quella indossata in battaglia dai cavalieri medievali. Mario sostenne in Spagna undici combattimenti senza però abbattere nessuno nemico. Rientrato nel 1939 in Italia, tornò al suo vecchio reparto per seguire altri addestramenti.
CR 32 Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, volò su gran parte dei velivoli italiani da caccia come : Fiat G 50 Freccia II, Macchi 200 e 202, CR 32 e CR 42 Falco, Fiat G 55 Centauro, ma anche C 202 Folgore Aermacchi e Reggiane Re 2000, sostenendo combattimenti contro velivoli solitamente di alto livello, come gli americani P 51 Mustang e P 47 Thunderbolt, ma anche contro aerei inglesi come Gloster Gladiator, Hurricane, Spitfire, o aerei russi come il Polikarpof I 15 e I 16, o, verso la fine del conflitto, contro i bombardieri Boeing B-17 Flying Fortress, North American B-25 Mitchell e Martin B-26 Marauder che imperversavano sui cieli d’Italia. Nel 1941 arriva in Africa Settentrionale Italiana posto al comando della 364° Squadriglia. Solo nel giugno del 1942 conseguì la sua prima vittoria aerea venendo promosso capitano. Rientrato in Italia dopo essere stato ferito in combattimento ad una gamba, prese l’abilitazione di volo sul famoso Messerschmitt Bf 109 (con l’insegna “1 Giallo”), si trattava di uno dei migliori e più diffusi aerei da caccia tedeschi (costruito in circa 33.000 esemplari in diverse versioni e varianti), venendo schierato a Castelvetrano a Trapani, partecipando a vari scontri aerei.
Dopo l’armistizio decise di aderire alla Repubblica Sociale e dunque all’ Aeronautica Nazionale Repubblicana ottenendo il comando della 2° Squadriglia Diavoli Rossi. Questo grazie alle sue competenze acquisite sul velivolo tedesco e nelle tecniche di combattimento della Luftwaffe (l’Aeronautica militare tedesca).
Volò ancora sui Fiat G55 e sui Bf 109 versione G (le versioni di questi aereo partivano dalla A fino alla K seguendo l’ordine alfabetico). Prese così parte a quarantacinque combattimenti aerei rivendicando 10 abbattimenti, anche se secondo gli atti ne risultano quattordici.
Ottenne anche due Medaglie d’argento al valore militare, per il coraggio dimostrato attaccando bombardieri nemici e bersagliando truppe e posizioni e perché continuò a combattere anche quando ferito alla gola, o alla gamba, senza mai tirarsi indietro, nonostante si scontrasse sempre contro forze superiori. Ottenne onorificenze anche dagli alleati tedeschi, come la Croce di ferro di Prima Classe e quella di Seconda Classe, sempre grazie al valore dimostrato.
Nel 1949 rientrerà in servizio con il grado di capitano nell’Aeronautica Militare alla Scuola di Guerra Aerea di Firenze, dopo un periodo di epurazione avendo aderito alla Repubblica Sociale. Pilotò così i Fiat G 59, i P 51e i P 47, aerei che per ironia della sorte aveva combattuto e infine volando anche sui nuovi aerei a reazione come i Fiat G 91 e i Sabre F 86 K. Comandandò poi il 20° Gruppo e la Pattuglia acrobatica della 51° Aerobrigata. Nel 1958 entrò a far parte della 56 a Tactical Air Force. Dal 1961 al 1963 fu comandante del 3° S.O.C. e poi nel 1964 ebbe la nomina di addetto militare italiano a Tokyo, dove rimase fino al 1967. Fu infine promosso generale di brigata aerea. Morirà a Firenze, la sua città natale, il 25 luglio del 2001.
Riccardo Massaro Read the full article
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3 agosto 1942, Medaglia d'oro per il sottotenente bersagliere Bruno Carloni
“Giovanissimo Ufficiale entusiasta e valoroso, già decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare sul campo. Durante l’accanito e sanguinoso combattimento, quando il nemico era riuscito a penetrare nelle linee, minacciando il fianco di un nostro battaglione, alla testa dei suoi si lanciava al contrassalto. Ferito ad un braccio, rifiutava ogni soccorso e fasciatosi sommariamente, continuava con…
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Filo di Argenta (FE): i Carabinieri ricordano il collega Albino Vanin, assassinato nel 1924
Filo di Argenta (Ferrara): i Carabinieri ricordano il collega Albino Vanin, assassinato nel 1924 Nella mattinata del 15 maggio, alla presenza del Sindaco di Argenta, i Carabinieri della Compagnia di Portomaggiore, assieme alle Sezioni dell’Associazione Nazionale Carabinieri giunte da tutta la provincia, hanno ricordato il sacrificio del loro collega Albino Vanin, Medaglia d’Argento al Valor Militare, assassinato in servizio il 15 maggio del 1924. Le commemorazioni sono iniziate alle 10:30 nella Chiesa di Sant’Agata a Filo di Argenta. La Santa Messa è stata officiata dal Cappellano Militare per i Carabinieri dell’Emilia Romagna, Don Giuseppe Grigolon, e concelebrata dal Parroco di Sant’Agata, Don Alessio Baggetto. Le celebrazioni sono poi proseguire con la deposizione di una corona presso il cippo commemorativo, eretto nel 1925 dall’Amministrazione Comunale in via Oca Pisana. Il Carabiniere Albino Vanin, militare in forza alla Stazione Carabinieri di Filo, fu ucciso all’età di 21 anni nel corso di un conflitto a fuoco, durante un servizio teso a catturare pericolosi banditi della zona, operazione svolta unitamente al collega Augusto Schiavon, anch’egli decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare, che rimase ferito. I fatti sono sinteticamente riportati nel decreto di concessione della Medaglia D’Argento al Valor Militare, tributata in data 27 maggio 1925: “Di notte, comandato in appiattamento con carabiniere meno anziano, allo scopo di arrestare coloro che si fossero recati a ritirare un sacco contenente refurtiva, stato nascosto in un campo di grano, al sopraggiungere di due individui, uno dei quali armato di fucile da caccia, con sereno sprezzo del pericolo e con alto senso del dovere li affrontò intimando loro il fermo. Fatto segno repentinamente ad una fucilata sparatagli a breve distanza e colpito a morte, con sublime supremo sforzo riuscì a raccogliere le ultime energie della sua vitalità rispondendo con fuoco, finché cadde a terra vittima del proprio dovere”. I due Carabinieri si erano appostati nei pressi di un campo di grano, di fronte al ponte dell’«Oca», nel punto ove era stato segnalato un sacco contenente refurtiva. I ladri, sopraggiunti in ora notturna, vistisi scoperti, diedero inizio alla sparatoria, colpendo a morte il povero Albino Vanin e ferendo il suo commilitone. Alla solenne cerimonia hanno altresì partecipato, giunti dalla provincia di Treviso, un rappresentante dell’Amministrazione comunale di Zero Branco (TV), luogo di origine di Vanin, ed un folto gruppo delle Sezioni dell’’Associazione Nazionale Carabinieri dello stesso comune e di Spresiano (TV). ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Walkiria Terradura
Facevamo le pattuglie e le staffette. Combattevamo. Andavamo a prendere le informazioni nei paesi vicini, ci vestivamo da contadine, ci mettevamo i fazzoletti e partivamo. Abbiamo avuto un ruolo molto più complesso di quello degli uomini.
La Resistenza non è fatta solo dagli uomini, è stata paritaria.
Pensate alle donne contadine che non hanno avuto uno straccio di riconoscimento mai, e nessuno ne ha mai parlato per anni, ci hanno curato, ci hanno ospitato nelle loro case, hanno diviso quel poco che avevano con noialtri, sono state delle donne meravigliose.
Walkiria Terradura partigiana e medaglia d’argento al valore militare.
Nata a Gubbio il 9 gennaio 1924, suo padre, avvocato e fervente antifascista, più volte arrestato e definitivamente liberato solo dopo la caduta di Mussolini, le aveva trasmesso l’odio verso la dittatura. Già al liceo, per il suo atteggiamento sprezzante verso il regime, aveva suscitato l’attenzione del fascio locale e fu più volte interrogata in Questura e redarguita severamente. Frequentava la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia quando, il 13 gennaio 1944, durante l’occupazione tedesca, i fascisti dell’OVRA fecero irruzione nel palazzo dei Duchi di Urbino in cui la famiglia risiedeva per catturare nuovamente il padre Gustavo ed è stata lei a trarlo in salvo in modo quasi rocambolesco.
Quando i nazifascisti se ne tornarono nelle loro caserme dopo otto ore di inutili ricerche, si è spostata tra i monti del Burano che separano l’Umbria dalle Marche, unendosi alla Quinta Brigata Garibaldi di Pesaro col nome di battaglia di Walkiria.
Da sottotenente aveva assunto il comando di una squadra di sei uomini, il Settebello, che era specializzata in sabotaggio: facevano saltare ponti, organizzavano agguati, rendevano impossibile la vita alle truppe nazifasciste impegnate nella zona.
Un giorno, dopo l’ennesima azione, accompagnata da un solo gregario, ha messo in fuga un intero reparto nemico a colpi di bombe a mano, consentendo tra l’altro ai partigiani di appropriarsi di armi e mezzi abbandonati.
Nonostante gli otto mandati di cattura spiccati nei suoi confronti dai nazifascisti che giravano con una sua foto per trovarla, non è mai stata catturata.
Sposata con il capitano dell’Oss Alfonso Thiele, dopo la guerra si era trasferita con lui negli Stati Uniti. Dopo essere stata posta sotto l’attenzione poliziesca del maccartismo, aveva deciso di tornare in Italia dove ha continuato il suo attivismo politico nel PCI e soprattutto dell’ANPI di cui ha fatto parte a lungo degli organismi di dirigenza nazionale.
Ha scritto numerosi articoli sull’esperienza partigiana, arricchendo le fonti storiografiche con lo straordinario punto di vista di donna combattente.
Alla fine della guerra è stata nominata sottotenente e, con decreto presidenziale del 26 giugno 1970 e ha ricevuto la medaglia d’argento al valor militare per attività partigiana con la seguente motivazione: «Donna dotata di forte e generoso animo, entrava, malgrado la giovane età nelle formazioni partigiane della sua zona portandovi entusiasmo e fede. In lunghi mesi di lotta partecipava a numerose azioni contro il dotato avversario, mettendo in luce non comuni doti di coraggio e di iniziativa. Dopo essere riuscita con la squadra da lei comandata a fare saltare un ponte stradale, accortasi del sopraggiungere di un reparto avversario, incurante della grande sproporzione delle forze, attaccava con bombe a mano, di sorpresa, con un solo gregario l’avversario, infliggendogli dure perdite, ponendolo in fuga, recuperando altresì gli automezzi e le armi abbandonate. Valido esempio di determinazione, coraggio e alto spirito patriottico. Marche, 4 ottobre 1943-27 agosto 1944».
Fino all’ultimo ha continuato a tenere viva la memoria dell’antifascismo e della lotta partigiana, tra incontri pubblici e racconti, molti dei quali sono stati pubblicati da Patria Indipendente.
Una volta, chiamata a fare da consulente per un film a tema militare, ha stupito l’intera troupe montando e smontando uno Sten in appena tre minuti.
La sua storia è presente in diversi libri ed è stata protagonista di Walkiria, una guerrigliera sull’Appennino, docufilm di Gianfranco Boiani e Giorgio Bianconi.
Ha lasciato la terra quasi centenaria. Si è spenta a Roma il 5 luglio 2023.
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“La Sibilla. Vita di Joyce Lussu” di Silvia Ballestra «Richiede indubbiamente coraggio attrav... #joycelussu #lasibilla #recensione #silviaballestra #valentinaboddi https://agrpress.it/la-sibilla-vita-di-joyce-lussu-di-silvia-ballestra/?feed_id=3439&_unique_id=65e0978031bb2
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Donata al museo della Brigata Sassari la medaglia del tenente Alberto Garau
I nipoti del decorato insieme al comandante della Brigata Sassari Sassari. La medaglia d’argento al valor militare conferita al tenente Alberto Garau, ufficiale della Brigata Sassari caduto eroicamente durante il Primo conflitto mondiale da oggi sarà custodita nel Museo storico dei “Diavoli rossi”, nella caserma La Marmora di piazza Castello, sede del Comando Brigata. La prestigiosa onorificenza,…
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Ventimila firme in 2 giorni per salvare la casa di Joyce Lussu
Nel giro di 48 ore, ha superato le 20mila firme la petizione lanciata dalla giornalista sarda Federica Ginesu su Change.org per salvare dalla vendita la casa a San Tommaso di Fermo di Joyce Lussu, “partigiana, medaglia d’argento al valor militare, scrittrice, attivista antifascista, storica, giornalista, traduttrice, poetessa, compagna dello statista Emilio Lussu, una donna che ha attraversato…
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"Il patriota, il partigiano e il "sogno di una cosa": una biografia ragionata di mio padre Antonello Trombadori
di Duccio Trombadori
Nella primavera del 2007 su iniziativa del sindaco Walter Veltroni il Comune di Roma intitolò un viale di Villa Borghese alla memoria di Antonello Trombadori. La toponomastica allora mi pregò di indicare i titoli che intendevo far incidere sulla lapide che ne portava il nome: “poeta, critico d’arte, uomo politico”, tagliai corto. E così fu.
Oggi però a quasi vent’anni di distanza mi pento di non aver aggiunto il termine “patriota” quale richiamo al ruolo assolto da mio padre nella Resistenza romana (settembre 1943-giugno 1944) che gli valse una medaglia d’argento al valore militare.
Ricordo ancora non senza rimorso un addolorato Rosario (Sasà) Bentivegna - altro decorato dei Gap a Roma- quando, non senza rammarico, mi fece notare la mancanza.
Pensavo esagerasse, tanto era implicito l’ abito antifascista che onora la vita di mio padre. Ma Sasà aveva pienamente ragione.
Vedo più chiaro oggi quello che allora mi sfuggì: era la questione del “patriottismo” quale identità morale sofferta e controversa, rappresentativa di tutta una generazione di uomini e donne (padri e madri per me; nonni e bisnonni, per i più giovani) che si formarono nel pieno delle illusorie mitologie nazionaliste e imperialiste, passarono il setaccio della guerra fascista, della umiliante sconfitta, della occupazione nazista e trovarono poi nella resistenza partigiana un riscatto morale per la guerra di Liberazione nazionale da combattere a fianco degli eserciti alleati.
Della drammatica esperienza di questa generazione di italiani, forse l’ ultima coinvolta e motivata dal compimento civile di motivi ideali risorgimentali, mio padre Antonello fu un emblematico testimone e interprete.
“Risorgimentale” in senso analogico fu l’ animo del militante garibaldino; “risorgimentale” fu la radicalità di parte, lo spirito di sacrificio volontario che formò i ranghi della Resistenza; “risorgimentale” fu l’idea di restituire alla Patria umiliata e offesa una nuova unità morale e civile.
Si spiega anche così l’ adesione al comunismo (il PCI di Togliatti) dell’ animoso patriota, giovane inquieto di quegli anni difficili, a complemento dell’ indole di un carattere votato all’ azione, un’ impronta psicologica che lo accompagnerà lungo l’ intensa e multiforme esperienza di vita distribuita tra l’ attività politica, la critica d’ arte, la battaglia delle idee, il giornalismo, il cinema e la poesia.
Giunto quasi al termine di una meticolosa e appassionata ricerca che lo ha impegnato a riassumere le tracce di un ritratto biografico, Mirko Bettozzi - giovane generoso che non si arrende al quasi procurato oblìo della memoria della Resistenza, e per questo ha già scritto un bel ricordo di Mario Fiorentini, “ultimo gappista”- si è più volte incontrato con me dopo avere consultato i documenti disponibili a partire da quelli lasciati da Antonello Trombadori ed oggi custoditi presso l’archivio della Fondazione Quadriennale di Roma.
A lavoro quasi compiuto, l’autore ha pensato in un primo momento di sigillare il libro con un titolo -“Il comunista critico”, o giù di lì- che forse non era inesatto ma che mi appariva piuttosto anodino e probabilmente fuorviante la particolarità di una trattazione non corrispondente a un vero e proprio saggio di storiografia politica.
Una volta richiesto di un parere, gli consigliai perciò di evitare quella soluzione proprio perché l’argomento del “comunista critico” rischiava di ridurre l’ originalità di un lavoro più incline a figurare un carattere, una fisionomia imbevuta dello spirito del tempo che va ben oltre i vincoli dell’ ideologia e travalica le tematiche di partito.
In effetti l’ adesione militante di mio padre a quel singolare organismo che fu il PCI, ossatura politica costituente della democrazia italiana nata dalla Resistenza, non poteva rendere pienamente conto del “puzzle” intellettuale, morale e civile che rispecchia il suo complesso profilo umano.
Era semmai più vero il contrario. Bisognava forse partire dalla formazione familiare, dalle radici sociali e culturali, dalle amicizie nate sui banchi di scuola, e da tant’ altra esperienza vissuta di natura pre-politica per comprendere meglio i tratti di una scelta di vita ( da “rivoluzionario professionale”, si diceva) segnata dalla permanente inquietudine, dalla tensione a spendere ogni energia per la “causa giusta”, e la pulsione a “prendere partito” volta per volta, spesso controcorrente, pagandone il prezzo dovuto.
Tale in uomini come Trombadori fu il carattere predominante.
Ragionando allora su quale fosse il titolo migliore per la sua narrazione, la parola “partigiano” a un certo punto comparve e prese quota nella riflessione di Bettozzi fino ad emergere quasi naturalmente dal computo delle diverse varianti esaminate.
A guardar bene, da qualsiasi punto di vista e in qualsiasi circostanza la si osservasse, la figura di Antonello rispondeva quasi sempre all’ emblema del “partigiano”, in senso più generale: partigiano, egli fu tale non solo durante la Resistenza, ma in ogni occasione della vita pubblica e privata, sul piano degli schieramenti politici, culturali, esistenziali e così via. Meditando su questo singolare metabolismo psicologico, alla fine Bettozzi ha ricavato il titolo generale –“Un eterno partigiano”- che a me pare molto persuasivo e ben ritagliato a misura della ricerca.
Non a caso nel ritratto prevale una sorta di adesione simpatetica dell’ autore all’oggetto della sua narrazione: dove le oscillazioni e le vicissitudini dell’ intellettuale organico del PCI, quale Trombadori fu fin quasi alla fine (ricordo il doloroso distacco dal comunismo, testimoniato proprio al culmine dell’esistenza) non contano tanto per quel che valsero nella vita pubblica italiana, quanto come contrassegno di una esuberante natura individuale pronta a battersi per la bandiera ritenuta giusta ma anche per rimettere sempre in questione sé stessa.
Bettozzi ha prescelto alcuni episodi centrali: tra questi la lotta partigiana contro i tedeschi, l’impegno per l’ arte realista, in pittura e nel cinema, la campagna per la pace in Vietnam, la particolare sensibilità verso la Chiesa del dialogo e del Concilio vaticano II .
Di fronte al mosaico dai mille tasselli in cui si è risolta l’ attività di mio padre (la poesia in dialetto romanesco e in lingua italiana, la critica cinematografica, l’ attività politica e parlamentare, ecc…) non tutto è stato possibile riassumere e approfondire, né tantomeno Bettozzi ha preteso di offrire una versione storiografica esaustiva e sistematica.
Nel presentare la materia trattata egli ha avuto piuttosto il merito di cogliere un certo ritmo psicologico, che sembra condividere a tal punto fino a riconoscersi in esso, quasi per vocazione, quasi spontaneamente. Il narratore diventa lo specchio di un’ anima il cui tratto fondamentale corrisponde all’ irrisolta ansia di chiarezza dell’ uomo laico moderno ( vedi la “freischwebende Intelligenz” di Mannheim)
che insegue incessante il “ filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità” (Montale, “I limoni”).
Questo spirito disperato ma combattivo, questo temperamento “montaliano” tipico degli anni formativi (siamo nel pieno degli anni Trenta) portò a suo tempo Trombadori a riconoscersi nelle inquietudini dei giovani insofferenti la dittatura, a partire dal mondo antifascista per giungere all’ acquisita “verità marxista” e a quel comunismo che tracciò il corso principale della sua esistenza.
L’ emblematico “sentire partigiano”, che punta all’ azione politica come urgente prova di verità, Trombadori lo condivise con la parte più sensibile della sua generazione, penso al gruppo romano (intellettuali liberal-socialisti e filo-comunisti) tanto bene descritto da Albertina Vittoria: da Paolo Alatri a Bruno Zevi, da Carlo Muscetta a Mario Alicata da Pietro Ingrao a Lucio Lombardo Radice, da Antonio Amendola a Paolo Bufalini e tanti altri personaggi che hanno distinto la cultura e la politica italiana nella democrazia “post-borghese” del secondo dopoguerra.
Una simile posizione morale accompagnò il “partigiano” Trombadori fino all’ età avanzata, quella delle amare disillusioni riguardo al socialismo sovietico, ma anche del rilancio di nuovi traguardi di verità da conseguire per il futuro dei valori democratici e socialisti. Rivelatrice è in proposito la chiusa malinconicamente filosofica del poemetto (pubblicato nel 1998 in “Foglie perse”, per l’Associazione Amici di Villa Strohl-fern) in memoria dell’ amico dirigente del PCI Mario Alicata che per analoga “ansia di verità” divenne anch’ egli intellettuale organico:
“…Adesso sei,
forse come io solo ti conobbi
atrocemente intatto e lacerato,
ritornato al momento in cui Guttuso
ti dipinse ventenne, scapigliato:
fu allora che con Marx scoprivamo,
nella lettera a Ruge,"Il nostro motto
deve essere dunque: riforma
della coscienza
non per mezzo di dogmi, ma mediante
l'analisi della coscienza
non chiara a se stessa, o si presenti
sotto forma religiosa o politica.
Apparirà allora che il mondo
da lungo tempo ha il sogno d'una cosa…"
La citazione di Marx -che tra l’altro fa non a caso da epigrafe al romanzo di Pasolini, “Il sogno di una cosa”- rivela di quale pasta spirituale fossero gli uomini come Antonello Trombadori e spiega perché egli spese la vita nella partigianeria, scontando illusioni ed errori, sempre pronto però a rivederli in nome della verità.
Bisogna perciò rendere grazie a Mirko Bettozzi per avere realizzato un ritratto che ha il merito di fare emergere, dall’attivismo proteiforme di mio padre, un filo di continuità che ne illumina le ragioni di fondo: corrispondere alla leggenda di Prometeo (il gigante punito da Zeus per aver portato l’uomo a conoscere il fuoco) quale metafora del coraggio di chi sfida gli dèi per liberare l’umanità dai dogmi che la opprimono. Così, ripensato in chiave libertaria, anche il “sogno di una cosa” che animò Antonello può tornare di lampante attualità.
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"OPERATORI GAMMA TUTTI RIENTRATI - MISSIONE COMPIUTA"
La trasmissione cifrata giunge, attesissima, la
mattina del 14 luglio 1941, al comando supremo
della X Flottiglia MAS:
la base navale inglese di
Gibilterra era stata violata...
Alle 00.30 del 14 luglio 1942, 12 operatori GAMMA iniziavano l’operazione G.G.1.
Ogni operatore portava 3 “cimici”, congegni esplosivi da fissare sotto le carene delle navi britanniche; gli operatori raggiunsero a nuoto le unità navali nemiche ormeggiate nella rada di Gibilterra ed applicarono le cariche.
Quella notte 4 piroscafi risultarono gravemente danneggiati e dovettero essere incagliati.
Ma il risultato maggiore fu quello di rendere i britannici timorosi ed insicuri dell’inviolabilità dei loro porti e il non poter assicurare più la totale sicurezza nei propri porti alle unità navali.
Per non dimenticare l’enorme coraggio e il puro patriottismo, tutti e 12 uomini GAMMA furono decorati di MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE:
* Agostino STRAULINO
* Giorgio BAUCER
* Alfredo SCHIAVONI
* Alessandro BIANCHINI
* Carlo DA VALLE
* Giuseppe FEROLDI
' Vago GIARI
* Evidio BOSCOLO
* Bruno DI LORENZO
* Rodolfo LUGANO
* Giovanni LUCCHETTI
* Carlo BUCOVAZ
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Gen. C. A. EI Raffaele CACCAVALE (1906-1975)
(dal 18 febbraio 1971 al 14 luglio 1974)
Già Comandante del V Corpo d’Armata, della Scuola di Guerra di Civitavecchia e della SETAF di Verona, della Divisione “Granatieri di Sardegna” e del 157º Reggimento Fanteria. Reduce di guerra, era stato decorato della Medaglia d’Argento al Valor Militare. Insignito di diverse altre decorazioni ed onorificenze, era Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Nominato Presidente Onorario del “Nastro Verde”
Ho avuto l’onore di ricevere e conoscere il Gen. durante una sua ispezione quando comandavo il distaccamento denominato “galleria” , un bunker ai confini con la ex Jugoslavia, fiore all’occhiello dell’Esercito Italiano-governato dal 52o Fanteria D’Arresto Alpi-Cravatte Rosse al quale appartenevo. Ho avuto di lui un’ottima impressione e lo ricordo ancora dopo + di 50’anni.
Comando delle forze terrestri alleate del Sud Europa
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Joyce Lussu, una vita per la libertà
Una donna che per tutto il Novecento cercò di vedere il mondo con occhi nuovi… Joyce Lussu nacque come Gioconda Salvadori a Firenze, l’8 maggio 1912, da Giacinta Galletti de Cadilhac figlia e nipote di garibaldini, e Guglielmo Salvadori, docente universitario e primo traduttore del filosofo Herbert Spencer, più volte minacciato dalle camicie nere, poi costretto all’esilio con la famiglia in Svizzera, nel 1924. La giovane Joyce passò l’adolescenza all’estero, in collegi e ambienti cosmopoliti, maturando un forte interesse per la cultura, l’impegno politico e la propensione alla curiosità, al dialogo, ai rapporti sociali. A Heidelberg, mentre seguiva le lezioni del filosofo Karl Jaspers, vide, con allarmata e critica vigilanza, i primi sintomi del nazismo poi visse in Francia e in Portogallo e si laureò in Lettere alla Sorbonne di Parigi e in Filologia a Lisbona. Tra il 1933 e il 1938 si recò più volte in Africa e l’interesse per la natura e per lo sfruttamento colonialistico di genti e paesi furono, da allora, fortemente legati alla sua scrittura e alla sua vita. A Ginevra Joyce conobbe Emilio Lussu, eroe della Prima Guerra Mondiale, famoso per la fuga dal confino a Lipari insieme a Carlo Rosselli, padre della poetessa Amelia Rosselli. Nel 1934 Joyce sposò un ricco possidente fascista e nell’estate dello stesso anno si trasferì con lui in Kenya dove il fratello Max ha avviato una fattoria, ma l’impresa, come il matrimonio, terminò poco dopo. La Lussu non lasciò l’Africa e visse a Tanganica fino al 1938, viaggiando in diverse parti del paese e scoprendo da vicino la realtà del colonialismo. Al ritorno dall’Africa fu attiva nel movimento Giustizia e Libertà insieme al fratello e li conobbe nuovamente Emilio, instancabile organizzatore della resistenza degli esiliati. I due non si lasciarono più, vissero in Francia dove si concentra lo sforzo antifascista italiano e si sposarono con una cerimonia civile di fronte a pochi amici. Joyce scrisse poi nel 1939 Liriche, curato da Benedetto Croce, che fu affascinato dalla sua storia. Nel 1940, quando Parigi fu occupata, la coppia fuggì a Marsiglia da dove organizzarono partenze clandestine verso gli Stati Uniti e se Emilio si occupava della logistica, Joyce falsificava documenti. I Lussu poi passarono i Pirenei e raggiunsero Lisbona dove entrarono in contatto con i gruppi di resistenza statunitensi e con la Mazzini Society. In Inghilterra Joyce frequentò un campo di addestramento, dove imparò a usare le armi e le tattiche di guerriglia, poi tornò in Italia subito dopo la caduta di Mussolini e entrò nella lotta partigiana, con il nome di Simonetta. Per la sua militanza raggiunse il grado di Capitana e fu decorata con la medaglia d’argento al valor militare. A liberazione avvenuta, Joyce visse da protagonista i primi passi della Repubblica Italiana e il percorso del Partito D’Azione, fino al suo scioglimento, per poi occuparsi di attività culturali e politiche autonome, insofferente ai vincoli. Con la famiglia andò in Sardegna per visitare il piccolo villaggio di Armungia dove il marito è nato, viaggiò poi a cavallo per ascoltare le storie dei pastori, dei contadini e soprattutto delle donne. Organizzò la partecipazione politica delle donne sarde nel 1951 e nel 1953 contribuì alla fondazione dell’Unione Donne Italiane. Dal 1958 al 1960, continuando a battersi nel segno del rinnovamento dei valori libertari dell’antifascismo, Joyce spostò il suo orizzonte di riferimento nella direzione delle lotte contro l’imperialismo. La Lussu tra il 1958 e il 1960 si impegnò nella traduzione di poeti albanesi, curdi, eschimesi, come l’angolano Agostinho Nieto, il Diario dal carcere di Ho Chi Mihn e gli afroamericani del black power. Nel 1968 si avvicinò all’ecologismo e prende parte alla lotta delle donne degli anni Settanta, senza risparmiare le critiche, si interessò alla storia locale, alla questione agraria, alle tradizioni popolari, al sapere femminile. Joyce dedicò una parte fondamentale della sua vita al rapporto con i giovani e le giovani, andando in scuole di ogni ordine e grado, per incontri che incrociavano percorsi di storia, poesia, autobiografia, progettualità sociale fino alla scomparsa, avvenuta a Roma il 4 novembre 1998. Read the full article
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Sergio Flaccomio e il Fiat C 42
Sergio Flaccomio è nato nel 1915 a Milano, ma ha vissuto gran parte della sua vita a Firenze e in Toscana, non a caso spesso e volentieri nel suo libro usa degli intercalari tipicamente toscani. Nel 1935 il fiorentino adottivo entra a fare parte dell’Aeronautica Militare Italiana come ufficiale pilota. Nel maggio 1942 fino al febbraio dell’anno successivo in pieno Secondo Conflitto, lo troviamo in Africa Settentrionale, dove fa parte del 50° Stormo d’assalto. Successivamente diviene istruttore di volo e capo pilota delle scuole di pilotaggio. Decorato con una Medaglia d’argento e una di bronzo al Valore Militare e tre Croci di guerra; ci lascia le sue memorie in “I Falchi del deserto” e in “Obbedire e combattere”.
Mentre gli inglesi nel deserto volavano già sui loro caccia Curtiss ed Hurricane, il nostro Flaccomio ancora operava su un Fiat C 42, ottimo velivolo per carità, ma si trattava di un biplano in legno, lamiera e tela, eredità del Primo Conflitto. Con una concezione di volo ormai superata, l’aereo era dotato di uno scarso equipaggiamento, tutto era in mano alla bravura e all’istinto del pilota. La strumentazione di bordo era imprecisa e insufficiente, affiancata da armi poco potenti. Il pilota era ancora esposto alle intemperie, era allo scoperto, perché non protetto da un cupolino in vetro ormai facente parte della normale dotazione di ogni velivolo. Durante la battaglia d’Inghilterra molti di questi aerei spediti dal Duce verso il nord Europa, si persero proprio a causa della scarsa strumentazione e rimasti senza carburante non arrivarono a destinazione atterrando nei luoghi più disparati. Durante i duelli aerei la loro mitragliatrice si inceppava facilmente, mentre lo scarso calibro (12,7) era completamente inutile ed inoffensivo sulle fortezze volanti. A volte poi il meccanismo di sincronia per sparare attraverso le eliche si inceppava, e i nostri colpendo la propria elica, finivano per abbattersi da soli… Insomma degli eroi consapevoli di avere scarse probabilità di rientrare alla base dopo ogni missione.
Nel libro “I Falchi del deserto” con un approccio molto romanzato, poetico e godibile, Flaccomio descrive le sue esperienze in Africa, alcune divertenti, altre tragiche. Ci parla delle sue folli evoluzioni sul suo mezzo, di come addestri il suo gregario, della faticosa e rischiosa scorta ai convogli navali, dei duelli aerei contro aeroplani nemici nettamente superiori. La sua viva descrizione di una tempesta di ghibli è qualcosa di veramente poetico; così come la narrazione sulle relazioni con i nativi e i buffi commerci fatti con i locali attraverso scambi e baratti. Triste e toccante il racconto sul povero ultimo arrivato, un gioviale, allegro, determinato e dotato giovane aviere, che muore però molto, troppo presto. Il racconto termina con il commovente incontro di Flaccomio con la giovanissima vedova, descritta come una bambina, silenziosa, sofferente e già madre di un orfano. Altra triste storia è quella che vede un suo gregario rimanere gravemente ferito. Flaccomio si impegna però grazie alla sua autorità (e a delle velate minacce), a far rimpatriare nella speranza che possa usufruire di cure migliori rispetto a quelle discutibili a disposizione negli inappropriati e sguarniti e roventi accampamenti medici desertici avvolti da polvere e sabbia. Divertente invece l’incontro con le signorine del postribolo locale, dei balli e delle conversazioni intrattenute con loro. Vive le descrizioni degli attacchi e dei mitragliamenti effettuati sulle truppe nemiche, miranti però a colpirne scrupolosamente i soli mezzi, salvaguardandone gli occupanti.
Un fiorentino acquisito che dubito molti conoscano. Semmai trovaste il tempo e il desiderio di leggere le sue pagine (i suoi libri si trovano usati a buon prezzo), scoprireste un personaggio alla mano, schietto, sincero, simpatico, dalle quali parole si può avere una visione della guerra realistica, ma priva di odio, una testimonianza onesta e di prima mano, fruibile e diretta, scritta come fosse un romanzo avvincente e coinvolgente, che riesce a parlare della guerra, ma anche dei rapporti interpersonali, dell’amicizia, del rispetto, del coraggio, dell’onore. Il tutto arricchito da una forte dose di emozioni e di passione, ma soprattutto impregnato di reale vita vissuta. Il nostro autore si salverà e finirà i suoi giorni nella campagna toscana. Tra animali da allevamento e campi arati, si dedicherà ai lavori agricoli, sempre buttando un occhio verso l’alto al solo avvertire il lontano rumore di un motore, per poter ammirare il volo dei moderni velivoli passare sulla sua testa, provando una certa malcelata invidia e una grande nostalgia.
Riccardo Massaro Read the full article
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A Monguzzo una via dedicata allo Sciumbasci Capo Ibrhaim Alì, Medaglia d'Argento al Valor Militare
A Monguzzo una via dedicata allo Sciumbasci Capo Ibrhaim Alì, Medaglia d’Argento al Valor Militare
Cerimonia solenne il 17 marzo 2019 nel comune di Monguzzo, in località Nobile, provincia di Como, per commemorare la battaglia di Cheren (Eritrea), che vide contrapposte le truppe italiane ed inglesi, del 17 marzo 1941, durante la quale si distinse Ibrhaim Alì Sciumbasci Capo (Maresciallo Aiutante) del Corpo Zaptiè eritrei. Decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare perchè “Valorosissi…
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#Associazione nazionale carabinieri#carabinieri#Carlo Colombo#Cheren#colonialismo#colonie#eritrea#Ibrhaim Alì#Marco Sangiorgio#Medaglia d’Argento al Valor Militare#Memorare Iuvat#Monguzzo#sciumbasci#zaptié
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Filo di argenta: I Carabinieri ricordano il collega Albino Vanin, assassinato nel 1924
Filo di argenta (Ferrara): I Carabinieri ricordano il collega Albino Vanin, assassinato nel 1924 Nella mattinata del 15 maggio 2024, i Carabinieri della Compagnia di Portomaggiore ricorderanno il sacrificio del loro collega Albino Vanin, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Il Carabiniere Albino Vanin, in forza alla Stazione Carabinieri di Filo, fu ucciso il 15 maggio 1924, all’età di 21 anni, nel corso di un conflitto a fuoco con pericolosi banditi della zona. Le commemorazioni inizieranno alle 10.30 nella Chiesa di Sant’Agata a Filo, per poi proseguire con la deposizione di una corona presso il cippo commemorativo di via Oca Pisana, luogo dell’assassinio del militare.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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