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pier-carlo-universe · 6 days ago
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Risplendere sempre: la forza luminosa della poesia di Vladimir Majakovskij. Recensione di Alessandria today
Una celebrazione dell’energia vitale e dell’infinito ardore poetico.
Una celebrazione dell’energia vitale e dell’infinito ardore poetico. Recensione:Le parole di Vladimir Vladimirovič Majakovskij, “Risplendere sempre, risplendere dappertutto…”, sono un manifesto di vita e poesia che attraversa il tempo con immutata intensità. Il poeta russo, noto per il suo stile vibrante e il suo linguaggio potente, invita il lettore a vivere con passione, senza riserve, fino…
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t-annhauser · 4 months ago
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Siccome ho un nome russo da ragazzo mi sono fatto affascinare dalla letteratura russa, i miei preferiti sono Gogol' e Bulgakov, russo è anche l'unico autore vivente che riesco a leggere, Viktor Pelevin, i cui libri mi tengo cari come fossero dei classici (sono ormai fuori catalogo, si possono trovare solo nelle biblioteche o nell'usato). I romanzieri russi sono una spanna sopra gli altri, la Russia è un gigantesco pentolone di follia che produce cose meravigliose, e nel computo ci aggiungerei anche Nabokov di cui possiedo un'edizione di Lolita del 1963. Non mi interessa che i russi siano ritornati a essere i cattivi, è un ruolo che si sono sempre fatti ritagliare addosso egregiamente, in ogni caso io sono apposto con la coscienza: Gogol' e Bulgakov erano ucraini e quindi sono fiducioso che gli illuminati europei non ne faranno un grande falò e misericordiosamente li risparmieranno. (Tarkovskij, mi sono dimenticato di Tarkovskij, e di Majakovskij).
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lucianopagano · 1 year ago
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Appunti di lettura per
«Il rifiuto»
(Musicaos, Balbec, 1)
di Davide Morgagni.
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Dieci anni fa, nel 2014, venne pubblicato «I pornomadi» di Davide Morgagni, nella collana «Smartlit» di Musicaos Editore. Il primo manoscritto del primo romanzo di quello che oggi è «Il rifiuto» si intitolava «Canti di un pornomade». Nei vari ragionamenti attorno alla pubblicazione mi ricordo che quella parola, «Canti», oltre a essere molto evocativa (Leopardi, Lautréamont, Dante, etc.), poteva essere associata a un’altra opera, i «Canti dei caos» (2001, 2003, 2009²) di Antonio Moresco e così, per evitare cortocircuiti allusivi, trattandosi di un esordio, suggerii l’opportunità di togliere il libro dal repentaglio di intitolarsi «Canti di…» essendo il terzo titolo di un editore che aveva -caos come suffisso del suo nome, per sfuggire ogni tipo di ammiccamento. Cercammo così un riparo a distanza cautelativa dal capolavoro di Moresco, che a sua volta negli anni seguenti sarebbe divenuto parte di un lavoro ancora più grande. Una cautela che a posteriori, come spesso capita con le cautele letterarie di persone troppo devote alla letteratura, incorse nell’esagerazione di presupporre l’esistenza di lettori più che ideali, sublimi, invece che delle cimici di Majakovskij. 
Dal punto di vista linguistico-narrativo ciò che avviene ne «I pornomadi» è la genesi di un mondo e allo stesso tempo del «modo di esprimerlo». In una città infuocata un autore si scaracolla in balìa di mete imprecisate, tra un’estate e un inverno, con l’unico movente di esistere. L’idea di proporre un romanzo che contenesse un mondo senza somigliare a un romanzo-mondo era connaturata anche alla modalità in cui il volume si presentava nella sua prima edizione, con le opere d’arte fotografica di Lorenzo Papadia a costituire una narrazione visiva, e un’impaginazione “estesa”, che supportava l’idea di voler porre il lettore dinanzi a qualcosa di inedito, sotto più aspetti possibili. Questa realizzazione era alternativa alle aspettative e faceva parte dello stesso esordio, si trattava di un «io esiste».
Ricapitolando, una scrittura endogenetica, per un mondo che si costruisce dalla propria stessa lingua, raccogliendo testo, immagine, suono, urlo. Strumenti per narrare presi in prestito, oggettivamente, dalla poesia. Per usare un geniale e formidabile «metro» Eggersiano, in una scala dal 0 a 10 dove 0 è Poesia e 10 è Narrativa, «I pornomadi» si situa, oscillando, tra un 5 e un 7. Si tratta di una riflessione che troverà compimento nei romanzi successivi confluiti ne «Il rifiuto». Che impressione poteva fare sui suoi primi lettori «Il tropico del Cancro» di Henry Miller, pubblicato a Parigi nel 1934? Solo una ventina di anni prima la letteratura tradizionale (Gide che nel 1912 «rifiuta» “Dalla parte di Swann”) faceva i conti con l’«incomprensione» della prima parte della Recherche di Proust. Non c’è adito di paragone se non nel sottolineare che sempre, in tempi, luoghi e circoli differenti, la letteratura per emergere si pone complicemente come rottura con ciò che la precede nell’immediato, salvo poi essere ripresa – se riuscita – come continuità con lo stesso.
«I pornomadi», col suo stile «delirio» assume una modalità narrativa di derivazione céliniana, un «tenere bordone» costantemente «in levare» che dà movimento col suo stesso porsi, una scrittura che proviene da Miller, Deleuze, Guattari, Joyce, Beckett, Bataille, Céline, Bukowski; mi è sempre sembrato un «ponte» tra la concretezza sperimentativa e i suoi «misteri pedagogici», uno studio che devia dalla lezione originaria per creare qualcosa di originale e totalmente appartenente alla nostra lingua. Un romanzo “Il rifiuto” sul fatto che si possa scrivere un romanzo, fare scrittura, essere scrittura, tenuto conto di ciò che è stato prodotto in filosofia, teatro, poesia, negli ultimi cinquanta anni, tanti all’incirca ne sono trascorsi dalla pubblicazione dell’Anti-Edipo, dalla letteratura di avanguardia degli anni Settanta, dagli sperimentalismi più oltraggiosi, sia quelli riusciti che quelli mancati, quelli che hanno conservato una certa forza e quelli dileguati.
Perdere tutto per affermare l’esistenza di sé stessi, questo sembra urlare il protagonista de «I pornomadi».
«Strade negre» pone altre due urgenze sotto la lente focale della scrittura. Il «delirio» religioso – la prima metà si svolge a Roma, con il protagonista che segue un corso per diventare conservatore/divulgatore dei beni religiosi della Città Eterna – e il «delirio» da anti-potenza del «genere» del milieu culturale occidentale al suo tramonto.
«La nebbia del secolo», uscito nel 2019 con Leucotea Edizioni, è il terzo romanzo, riveduto, de «Il rifiuto». Romanzo più breve e altrettanto folgorante, è ambientato a Parigi nel periodo storico recente, dove il fantasma del terrorismo ha costituito la paranoia globale per eccellenza, concretizzandosi in attentati ancora oggi temibili, prima dello scoppio della pandemia e al margine di ogni guerra.
Dopo aver delirato i continenti, le religioni, i popoli, parlando di virus, guerre, conflitti, giunge la Pandemia. Il romanzo, fino a oggi inedito, «Finché c’è rabbia», racconta gli ultimi anni vissuti, quelli del Covid, nel racconto del protagonista. Le sue vicende non sono centrali di una storia che è più grande, che ci ha investito. Uno dei protagonisti è il Capitalismo, cui viene sferrata una critica viscerale, programmatica, che sottende tutta la narrazione.
«Il rifiuto» così si compone di quattro romanzi, quattro romanzi differenti per stile nei quali si produce un movimento stilistico dal caos iniziale, in cui la lingua poetica fa accadere il mondo, gettando sul piatto quelli che saranno i temi caratterizzanti del Romanzo: con il contrasto particolare (Capitalismo, Espressione, Spersonalizzazione), la Religione Universale e le religioni particolari, la religione dell’Arte, la religione del Maestro, la religione della Devozione Domestica, la religione della Famiglia, la religione allo Stato, la religione dello Studio, eccetera; e ancora lo Spettro della Storia Universale, attraversato a sua volta dagli spettri del terrorismo e della paranoia internazionale, con tutto ciò che compone il Secolo.
«Il rifiuto» è in tal senso rifiuto post-moderno, costruito sulle macerie del post-modernismo. Il post-moderno sanciva la fine della pretesa delle “Grandi Narrazioni”, dagli anni Settanta a oggi sembrava che si dovessero avverare tutte le promesse non solo stilistiche e narrative, ma anche di vita, di uno sviluppo consapevole, rispettoso delle coscienze e del sentire ecologico planetario. Una molecolarizzazione delle esperienze che si sarebbe accompagnata a un grado di umanità più apprezzabile. Tutto ciò ovviamente non ebbe luogo, se non teorico. Solo l’ipotesi di vivere su un pianeta insieme a cinque miliardi di persone, un giorno, poteva atterrire. Mentre scrivo siamo ottomiliardi settantasettemilioni quattrocentosessantasettemila e novecentonovantanove. Impossibile a credersi oggi, per chi vive in un’epoca che è somma di tante epoche che possono coesistere. Dagli anni Settanta a oggi è trascorso mezzo secolo, immaginare di riportare alcuni riferimenti culturali all’oggi senza storicizzarli sarebbe paradossale come interpretare il 1950 con le categorie del 1900. 
Per prescindere dall’empasse cui potrebbe condurci la storia ci si attiene alla creazione poietica, ai testi, alle influenze, in tal senso Gilgamesh è nostro contemporaneo. Nel miscuglio babelico dei linguaggi si è aperta con la Rete una Babele ancora più grande, districabile per chi ha in amore la complessità, la Società del Controllo è divenuta realtà, e oggi che ognuno di noi è misurato, controllato, enumerato, accountizzato, di quale bisogno si scopre desiderante la comunità dei clienti (lettori, ascoltatori, videoutenti) dell’infotainment? Narrazioni. Grandi. Innumerevoli. Ovunque. Grandi narrazioni. Chiusura del cerchio (canto del cigno o requiem) del post-modernismo, “Il cerchio si chiude”, come termina Stephen King il suo capolavoro virologico “L’ombra dello scorpione”.
«Il rifiuto» affronta questi temi con la densità leggera di un volo, pagina dopo pagina, mettendo a nudo i meccanismi psicologici, sociali, antropologici, mentali, narrativi, che ci vengono presentati dai metadiscorsi che viviamo. C’è un elemento comico che ritorna, come ce ne sono tanti, ilari, più o meno forti e incisivi, ma questo di cui parlo è – se vogliamo – metacomico: il protagonista, che si trova a dialogare con i suoi amici, conoscenti, spesso si sente rivolte frasi di questo tenore «sai, penso che quello che sto vivendo è importante, penso che lo racconterò in un libro», oppure «penso che scriverò un libro». In un mondo creato da un protagonista ossessionato dalla descrizione di un mondo traducibile e decifrabile per lui soltanto, gli altri, che subiscono il mondo senza comprenderlo, si sentono più atti di lui a raccontare la realtà. 
La scrittura filosofica è un genere poco letto, non mi riferisco ovviamente alla scrittura di romanzi a metà tra saggio e narrativa, o romanzi scritti da filosofi. Tutto ciò che c’è di politico e filosofico ne «Il rifiuto» traduce permanentemente un’urgenza stilistica, permettendo a questa scrittura la distanza tra autore, da una parte, e artista dall’altra. Se gli strumenti che Davide Morgagni utilizza attingono a un bagaglio simile, gli ambiti sono totalmente differenti. «Il rifiuto» intende porsi in un dialogo con le persone, i critici, i lettori, in generale, pensanti, a questi, da controcanto (di un pornomade) indico ad esempio la lettura dei romanzi di Aldo G. Gargani.
«Il rifiuto» è un romanzo lontano da Dio, fuori dalla sua grazia, se il protagonista può sembrare un asceta, questa sua ascesi si compie tra le mura, in un appartamento leccese, o romano, o parigino, senza wc, dove non c’è grazia del signore; c’è vicinanza a tutte le creature, compresi gli innumerevoli animali del creato, a dimostrazione di un anelito ecologista/ambientale di fondo  (pulci api foche mucche blatte vermi formiche microbi granchi lombrichi gatti pidocchi tonni pesci-spada galline polli sirene ragni topi cavalli gechi ramarri cani passeriformi molluschi bruchi testuggini merluzzi cicale grilli farfalle iene rondini fringuelli mosche tacchini ricci platesse polpi zanzare tigri cinghiali rondini piccioni scimmie pinguini giraffe bufali conigli rane mosconi manzi gazze capre agnelli struzzi tartarughe pipistrelli civette lucertole salmoni lumache porcospini moscerini calamari gamberoni ostriche colombe vipere ippopotami scorfani anguille orche foche seppie totani pappagalli cigni scoiattoli bisce avvoltoi scimmie anatre pecore pulcini millepiedi vitelli delfini pipistrelli pescecani gorilla babbuini rospi sanguisughe pesci palla leoni lupi asini ghepardi balene fagiani).
Molte creature ma, all’orizzonte, nessun Dio. Eppure non si tratta di un pensiero laico, quello che viene sfrondato da queste pagine, perché quella del protagonista non è un’ascesi raggiunta in mezzo alle persone buone e cordiali, al contrario, è una segregazione spesso ricercata per salvarsi e per difendersi dai barbari. Per non parlare delle volte in cui il protagonista, semplicemente, parla la lingua della verità in mezzo ai sordi, recando letteralmente la saggezza al mercato, come lo Zarathustra di Nietzsche, che compie l’oltraggio peggiore, quello di «bruciare» la news della sua scoperta «oltreuomo» con la condivisione.
Ciò che succede nei vari piani che situa il romanzo fa anzitutto in modo che ciò che risulta in esso romanzato (l’amore, le relazioni, le amicizie, i quartieri, le città, le metropolitane) trascorre in secondo piano rispetto alla società, ai conflitti generali di interesse economico, all’attrito tra classi sociali. «Il rifiuto» diviene così un dispositivo artistico rivolto all’esterno. Ricapitolando, una storia che abbraccia le vicende del protagonista nell’arco di quindici anni, con luci a più punti focali mirate a illuminare l’agire dell’individuo come reagente in una società paranoica-ossessiva-delirante. Il protagonista/Narratore, pure con diverse «facies», è sempre lo stesso, così i comprimari.
C’è un termine che si affaccia ed è: profezia. Quando la scrittura letteraria, poetica o narrativa, compone un quadro realistico di tutte le tensioni in gioco nel momento descritto, spostandosi in avanti fino a prevedere possibilità, la scrittura diviene profetica; un termine religioso – come ascesi – che ritorna in un ambito dal quale l’orizzonte di un qualsivoglia Dio è compromesso.
«Il rifiuto» è preludio a una narrativa dell’avvenire (non inteso come futuro, “ciò che avverrà”), di ciò che avviene nel suo farsi, che si compone passo dopo passo, della creazione di un contesto e dell’internamento di un protagonista nell’agire stesso che è stato contestualizzato a parole. La ricezione di una scrittura simile, è assimilabile a quella di una scrittura poetica, per quanto riguarda il suo abbrivio, che evolve in un percorso narrativo che porta al lettore stralci dal sapore joyciano, milleriano, beckettiano.
I luoghi in cui accade questo «avvenimento» (sempre da “avvenire”) narrativo sono tre, in tempi differenti e che si rincorrono, principalmente Lecce, Roma, Parigi. Il protagonista occupa sempre un altrove in ognuno di essi, ciò che percepisce il lettore è una velocità estrema, istantanea, centrifuga. Del centro, pur essendone affascinato, il Narratore coglie tutte le contraddizioni, la mancanza di umanità nei rapporti, la spersonalizzazione, l’egoismo. Non c’è un obiettivo, c’è una vita di margine vissuta al limite, nell’«underground». Torna qui, anche nel rapportarsi ai luoghi, la dimensione ascetica di una purezza etica, né santa né laica.
L’aggettivo «negro», come gli altri, è un simbolo. La negrezza/negritudine cui fa riferimento il Narratore è la risposta etica al disfacimento dell’Occidente. In particolare nell’ultimo romanzo, l’inedito «Finché c’è rabbia», dove lo sfondo delle vicende è lo Spettro Pandemico, si pone come fatto compiuto uno scollamento senza ritorno di tutti gli attori sociali. Non hanno più niente di esotico gli uomini del sud che ciondolano fuori dai bar per arrivare alla fine di un’altra giornata. Sono zombie, batterie senza carica positiva, salvati dal pasto quotidiano della Caritas e da un giaciglio di fortuna. Il racconto dell’umanità vissuta a contatto stretto, questo è il sud, un certo meridionalismo narrato da Davide Morgagni ne «Il rifiuto». Viene raccontata la povertà, l’indigenza, la vita degli ultimi. È uno dei temi che vengono messi di più in risalto nel quarto romanzo che compone «Il rifiuto», «Finché c’è rabbia».
Non potevano che volerci dieci anni per misurare un certo tipo di ampiezze. Termino con una breve considerazione sulla forma finale in cui è presentato «Il rifiuto». Perché quattro romanzi, al di là dell’Opera, in un volume? L’idea dell’autore, nel presentare «Finché c’è rabbia», era che questo romanzo chiudesse un ciclo di storie, tutte vissute e raccontate dallo stesso Narratore, e che questa conclusione avesse un titolo ideale che racchiudesse queste storie, per l’appunto, «Il rifiuto». Abbiamo creduto, di comune accordo con l’autore, che valesse la pena presentare questi quattro romanzi insieme, perché erano trascorsi dall’inizio de «I pornomadi» dieci anni, durante i quali avevamo il presentimento che fossero accadute molte cose.
A ciò si aggiunge il fatto, oggettivo, che sarebbe stato difficoltoso e magari affaticante, per il lettore odierno, ricomporre un puzzle narrativo i cui frammenti, seppure facilmente reperibili, andavano rinvenuti richiedendo quattro atti di volontà separati. Ciò per evitare, parafrasando l’Amleto/CB, quelle “spiegazioni che ci ammazzano”, nell’avere a che fare con un romanzo che richiamava inevitabilmente la prosecuzione all’inverso degli altri tre. Lo stesso senso è anche quello di questo intervento, che cerca di sollevare alcuni temi presenti nei quattro romanzi che fanno «Il rifiuto», che oltre a essere un romanzo da leggere, sia ad alta voce che interiormente, è un romanzo politico, nel senso più schietto e originario che si può dare oggi a questo termina.
E adesso dimentichiamoci di tutto per leggere «Il rifiuto».
Buona lettura.
«Il peggio passa e se ne fa una sintassi», «Io scrivo per le pulci di periferia», «Vedi ragazzo – quando perdi cerca di perdere tutto – e quando muori assicurati di essere morto», «Il demonio ha in serbo grandi fichi sbucciati per le nostre bocche ragazzo e quando ogni cosa va in frantumi è perché e eterna», «La Storia è un riciclaggio di antichità e remote invarianti ed è per sempre immondizia puzzolente di morte e morti e gambe e occhi paralizzati», «Poi ha compreso che soffrire non serve, ma ciò non serve a smettere di soffrire», «Nella disperazione non si vede nulla, ma la disperazione vede tutto».
«Il rifiuto» di Davide Morgagni è la prima uscita della collana «Balbec», di Musicaos Editore, nella quale sono in programmazione le uscite dei nuovi libri di Giuseppe Goisis, Raffaele Gorgoni, Francesco Lanzo.
Luciano Pagano
«IL RIFIUTO» (Musicaos, Balbec, 1) - Davide Morgagni
in distribuzione dal gennaio 2024
ANTEPRIMA a LECCE - VENERDÌ 22 DICEMBRE alle ORE 19
presso ASTRAGALI TEATRO (Via G. Candido, 23)
interveranno:
Fabio Tolledi [direttore artistico e regista di Astràgali Teatro]
Simone Giorgino [Docente di Letteratura Italiana Contemporanea / UniSalento]
Luciano Pagano [Editore]
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ricominciodame · 4 years ago
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All' amato se stesso dedica queste righe l' autore
Quattro.
Pesanti come un colpo.
A Cesare ciò che è di Cesare - a Dio ciò che è di Dio.
Ma uno
come me
dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S' io fossi
piccolo
come il Grande Oceano -
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde,
con l' alta marea carezzando la luna.
Dove trovare un' amata
uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!
Oh, s' io fossi povero!
Come un miliardario!
Ma che cos' è il denaro per l' anima?
Un ladro insaziabile si annida in essa.
All' orda sfrenata dei miei desideri
non basta l' oro di tutte le Californie.
S' io fossi balbuziente
come Dante
o Petrarca!
Accendere l' anima per una sola!
Ordinarle con i versi di struggersi in cenere!
E le parole
e il mio amore -
sarebbero un arco di trionfo:
Pomposamente,
senza lasciar traccia, vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.
Oh, s' io fossi
silenzioso
come il tuono, -
gemerei,
stringendo con un brivido il decrepito eremo terrestre.
Se urlerò a squarciagola
con la mia voce immensa
le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.
Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti -
se io fossi
appannato
come il sole!
Ma che bisogno ho io
di abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra!
Morirò,
trascinando con me il mio amore immenso.
In quali notti
quali malattie,
da quali Golia fui generato -
così grande
e così inutile?
- Vladimir V. Majakovskij
(1916)
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bicheco · 8 years ago
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Vladimir Vladimirovič Majakovskij - Poeta, autore drammatico e pittore russo (Bagdadi 1893 - Mosca 1930). Mori suicida; nella sua lettera di addio scrisse: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. [...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».
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erik595 · 6 years ago
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"L'Autobiografia" fu inizialmente concepita da Pasternak come introduzione a una nuova raccolta di poesie inedite e disperse. Il racconto, formato da cinque capitoli e due conclusioni, inizia con la descrizione dell'infanzia nella vecchia Mosca di fine Ottocento e si conclude con una serie di ritratti di scrittori (Majakovskij, Esenin, Ehrenburg, Marina Cvetaeva) durante il periodo della rivoluzione. Nella prima conclusione, l'autore dichiara quali erano i suoi propositi e perché si è fermato agli anni venti: "Non intendevo scrivere la storia di un cinquantennio, basta quello che ho scritto a illuminare come, nella mia storia personale, la vita sia diventata creazione artistica, e come questa sia nata dal destino e dall'esperienza". Nella seconda conclusione, l'autore, amareggiato dalle polemiche suscitate in Urss dalla pubblicazione all'estero de "Il dottor Zivago", si scaglia contro la letteratura "vile e spudorata" del suo paese. #borispasternak #pasternak #libro #libri #libros #book #books #bookstagram #bookish #bookporn #bookphotography #booklover #bookworm #bookaholic #bookblogger #author #autore #writer #escritor #scrittore #russia #russian #consiglidilettura #libridaleggere #library #libreria #feltrinelli @feltrinelli_editore @lafeltrinelli https://www.instagram.com/p/BuWoXj2FeE6/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=10erhsf3fpy45
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pangeanews · 5 years ago
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Da Omero a Milarepa, da Machiavelli a Moby Dick e Dino Campana: benvenuti nel “Canone Neri”!
L’epoca priva di maestri è sradicata. Lo sradicamento, all’inizio, culmina con l’ebbrezza: liberi del suolo pensiamo di poterci librare. Ma l’albero non diventa falco; senza sostegno, crolla, muta in covo d’insetti, oblio in volpi. Lo sradicamento, ora, è sdoppiato. Conosco – conosciamo – poeti che sanno a memoria i propri versi (non memorabili) e leggono con accanimento proprio all’invidia i contemporanei, i pari, ma non sanno nulla degli impareggiabili, non leggono Eschilo, non si sono fatti torchiare da Agostino. Non è – è ovvio – questione di cultura, non lo è mai, in poesia; ma di lacerazione. D’altronde, non riconosciamo chi ci è superiore, dimentichi dell’arte di inginocchiarsi – è sempre un altro che ti solleva da terra, però, dando impulso al tuo talento, coagulando in promesso quello sputo di polvere.
*
“Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola”: così Roman Jakobson scrive in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Era il 1930; con Vladimir Majakovskij era morta un’epoca – ma c’erano, ancora, Boris Pasternak e Anna Achmatova; doveva nascere Iosif Brodskij. Il cantore intona il ritmo dell’epoca – noi non abbiamo iconoclasti perché è assente l’icona, non abbiamo assassini perché il sangue si è annacquato in ignavia.
*
Nel 2013 Alessandro Rivali, in una biografia uscita per Jaca Book, dichiarava Giampiero Neri un maestro in ombra. Che immagine riuscita. Piuttosto, immagino Giampiero Neri, nell’antro milanese in piazzale Libia, che gioca con le ombre – i poeti, si sa, fanno un falò con briciole di luce. Sulla parete, crea le ombre di aquile immense, di cigni, di famelici lupi, di fatidici capodogli. La parola ombra, però, porta alle “ombre” di Dante, gli spettri che appaiono dalla nidiata del passato. Neri, classe 1927, esordio assai consapevole alla poesia, nato adulto, si direbbe – quindi: perennemente bimbo –, con L’aspetto occidentale del vestito, nel 1976, lotta – o gioca – con le ombre del suo passato (a partire da quella del fratello, Giuseppe Pontiggia, e di tante, umili, emblematiche figure che tralucono dalla sua poesia, che valicano mappe di tenebra). Mi piace il carattere aforistico di Neri, i suoi apoftegmi: un autore totalmente del Nord scrive, a volte, come un avventato taoista, un discepolo di Milarepa. D’altronde, non ho avuto particolare affinità con i suoi versi – affari formali miei, ognuno ha il vino che predilige. Mi è sempre parso che i versi fossero il dito mignolo del maestro – anche per il loro moto cautamente sapienziale. È Neri in sé – creatura centrata da una stralunata umiltà – a piacermi, come uomo. Come maestro.
*
Alessandro Rivali è poeta di talento – ora ne è convinto anche lui. Nella “conversazione con Giampiero Neri” edita da Ares, dal titolo Ritorno ai classici, ci racconta che “da bambino detestavo i libri”, che ha amato Eugenio Corti, e che “incontrai Neri a 21 anni per caso in una notte d’inverno a Milano”. Si appresta, Rivali, a diventare classico – o santo – pure lui; ha il coraggio di riconoscere i suoi maestri; una delle prime volte che abbiamo pranzato insieme, un’orda di anni fa, abbiamo parlato di Tacito e di Isaia, cosa puoi volere di più da una creatura senziente? Penso che questo libro – con utile Indice dei nomi – sia bello non tanto per le definizioni (il classico? “Un testo che non ha tempo, un testo che può essere letto in ogni tempo”), quanto per la freschezza, l’aria, la falange d’ombre. I libri, in effetti, sono avventure che complicano la vita, ci portano su alture e dentro una ricerca inesauribile, in grado di mutarci radicalmente – non sradicano, eventualmente ci collocano, per innesto, in altre radici. C’è poi il gioco – le sentenze di Neri rimbombano ina una specie di botte di Diogene – e dal libro si spreme una specie di “Canone Neri”, che cerco di dettagliare, per frammenti, facendo ciò che so, esegesi delle ombre, uno che passa olio nei confessionali.
*
Iliade: “È giusto che la figura di Omero sia fantastica, perché la letteratura è un mistero”
Sofocle: “Nell’Edipo a Colono c’è qualcosa di divino che non si è più ripetuto. Avevo cercato di tradurlo con mio figlio, ma mi sono arreso perché mi rendevo conto che non riuscivo a dargli un significato nuovo”
Cesare: “Il De Bello Gallico è un capolavoro… resta un’opera fondamentale che fa pensare al mistero della letteratura. Verrà apprezzata in ogni secolo. Mi piace la determinazione di Cesare, anche se quando lui è vincente diventa meno interessante. C’è però qualcosa che va al di là della sua volontà”
Tacito: “La sua grandezza è più nello stile del discorso, nella sua qualità, sempre alto, sempre severo. Eppure, non ci si stanza della sua narrazione e quando ci stacchiamo, lo facciamo sempre a malincuore”
Plutarco: “C’è una qualità di scrittura che ne fa un narratore di grande spessore. Ho grande curiosità nei suoi confronti e ho sempre desiderio di rileggerlo, di scoprire quello che non ho rilevato la prima volta, il rammarico di non averlo meditato a sufficienza. Plutarco è uno dei grandi ispiratori di Shakespeare”
Virgilio: “Il più grande di tutti, anche se bisognerebbe ricordare quanto diceva Milan Kundera a proposito dei ‘testamenti negati’. Aveva chiesto che l’Eneide fosse bruciata e gli fu negato… La figura di Virgilio è gigantesca e il mio libro preferito sono le Georgiche”
Agostino: “Ogni volta che riprendo in mano le Confessioni provo gioia e sorpresa”
Vangeli: “Una lettura infinita, non si finisce mai di leggere i Vangeli perché sono sempre nuovi, sempre attuali, presenti, eppure obliati dalla quotidianità, poi all’improvviso una citazione, un’immagine ce li riporta vivi davanti agli occhi”
Vita di Milarepa: “Questo testo è una grande eredità culturale dell’Oriente. Tra i personaggi dell’Oriente, mi sono interessato a Buddha, figura nobile, attraente, che viene colpito dalla miseria dell’uomo e per questo si converte a una vita ascetica. Una storia bellissima. Ma la nostra figura di Cristo va più in profondità, la sento più vicina. Mi affligge e mi consola”
Dante: “Una figura enigmatica… Dante è uno scultore, non è un pittore, le sue parole sono scolpite”
Machiavelli: “Un genio romano, che conosce gli uomini veri non quelli di plastica. È un autore grande e per questo bistrattato e in fondo mal conosciuto… è stato l’autore più grande dopo Dante, forse più grande di Manzoni”
Alessandro Manzoni: “Sono un poema moderno, l’unico che conosca in questo senso. Tutta la nostra letteratura contemporanea vi è debitrice… sono il grande poema della liberazione, della Risurrezione”
Herman Melville: “Moby Dick è un poema sacro… esercita un’attrazione straordinaria a rileggerlo”
Lev Tolstoj: “C’è davvero qualcosa di grande in lui e ho sempre voglia di rileggerlo. Sento come un richiamo irresistibile a rileggerlo, una vera coazione, ha una forza attrattiva unica perché racconta lo spettacolo della vita, c’è tutto, la sua miseria, la sua grandezza, la perfidia, tutti i nostri difetti, ma anche le nostre virtù”
Boris Pasternak: “In lui trovo comprensione, tenerezza, pietà. Questi tre sentimenti sono molto accentuati, sono vivi, ci parlano continuamente”
Pinocchio: “Più che un libro da rileggere, è un’opera che pervade il nostro immaginario. Tutti i giovani sono stati Pinocchio. È il nostro destino. Collodi è un grande perché ha saputo cogliere questo aspetto che caratterizza tutti”
Dino Campana: “Mi ha conquistato per la sua follia. E per l’incomprensione da cui fu circondato. E la sua solitudine”
Curzio Malaparte: “È un artista, un grande del ’900, il suo capolavoro resta La pelle, in particolare l’allocuzione del comandante Malaparte ai soldati alleati dell’America. tutto l’episodio è un capolavoro”
*In copertina: una immagine di “Moby Dick” di Ferenc Pinter
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pangeanews · 5 years ago
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“Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”. Un giorno con Eduard Limonov (altro che Carrère). Un uomo che non cerca assoluzioni, vuole la rissa, anela al disordine
Proprio così. Una fiala di vetro. Un grumo di cavi d’acciaio, sottilissimi, in una fiala di vetro. Basso. Bianco. Eduard Limonov mi sembra un incrocio tra Peter Pan e il capitano Achab. Sembra fragile. È inflessibile. La sua guardia del corpo, Dmitrij, è un ragazzone sorridente. Filma la stazione di Rimini con il cellulare. Filma ovunque. Limonov è seccato. “Ma cosa riprendi? Guarda! Guardati intorno! Scrivi un libro! Cammina!”.
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Limonov ha una cordialità austera, viaggia con una sacca piuttosto piccola, verde, eppure è sempre impeccabile. Lì ha quello che gli occorre, dice. “Se mi sbattono in carcere, ho tutto. Mi basta poco”. Capisco che il lusso dell’albergo riminese lo schifa. Gli chiedono il passaporto, lo cede a fatica, lo rivuole subito. “Gli incontri più importanti della mia vita li ho fatti in carcere e in guerra”, dice. Recita? Forse. Limonov ormai è diventato quello che gli altri credono che sia – non è un uomo, è una rivolta.
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Quando Sandro Teti, l’editore italiano di Limonov, mi telefona, è perentorio: “Vuoi che ti porti Limonov? Trovami un teatro!”. Sandro Teti mi è simpatico, forse in una vita ulteriore siamo stati compagni, nello stesso clan, lungo le pianure di Scizia. Il teatro glielo devo trovare in un paio di giorni. Strologo, maneggio, vinco la mia ansia – del tutto narcisistica – di reclusione. Per un attimo l’acido della misantropia mi sfianca. Alessandro Gnocchi, eroico caporedattore culturale del Giornale mi sfida, cavolo, porta Limonov a Rimini, vengo anch’io – non verrà – e facciamo tre pagine con una intervista prima che atterri in Italia – questo lo abbiamo fatto. Trovo il teatro. A Rimini. La terra del Malatesta, esteta sanguinario, esaltato da Ezra Pound e da Henry de Montherlant, due tipi scomodi, che non si accodano alle mode. Limonov, qui, è perfetto.
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Eduard Limonov, Davide Brullo, Silvio Castiglioni (photo Alessandro Carli)
Quando arriva Limonov nevica – ci siamo russificati, gli dico, e lui, “per carità, restate italiani, viva l’Italia!, altrimenti diventate tristi e truci come i russi”. La notte prima telefono a Sandro Teti, tutto a posto? No, mi fa, Limonov è scomparso, si è rotto le palle, vuole tornare in Russia. La vicenda, se vi va, l’ha raccontata Fulvio Abbate su Dagospia (“Alle 21, 10, sprezzante e definitivo, dopo aver confabulato con il suo editore, afferra il suo cappotto, e se ne va. La scena è surreale. Ora che sono arrivati anche gli ultimi ospiti e che è tutto pronto per iniziare, lui non c’è”). Passo la notte pensando a una via di fuga, a un comunicato stampa in cui si renda nota, con dote di menzogne, l’assenza di Limonov. Il giorno dopo – il giorno dell’incontro riminese, il 12 dicembre – a mattina inoltrata, Teti mi scrive, “arriviamo, pericolo rientrato”.
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Limonov non è come Emmanuel Carrère, lo scrittore bronzeo, da copertina, amato da tutti perché va bene a tutti i gusti, titilla le voglie estetiche degli incravattati. Limonov è uno che turba, è uno del sottosuolo, è uno che vuole la rissa più che lo scandalo, che adora essere odiato, che preferisce lo scontro alla laccata leccata, il disastro alla conferma. In un articolo pubblicato sul Giornale Nicola Porro – ancora riguardo alla serata romana – scrive, “Io non c’ero. Ma l’altra sera a casa della mia amica Claudia, le persone sono corse a vedere il Limonov che Carrère gli ha raccontato. Di gran lunga più affascinante e imprendibile del Limonov che si racconta da solo”. Porro non capisce che Carrère scrive per gente come lui – sufficientemente certa di sé e della propria presunta perversione di basso grado – mentre Limonov scrive per la rivoluzione; la differenza è la stessa che c’è tra Arcipelago Gulag – il cui autore, per inciso, è deliziosamente detestato da Limonov – e l’impegno umanitario di uno scrittore parigino di elzeviri, a cavallo della propria sicura scrivania. Limonov ha preso e se ne è andato schifando il bel mondo romano, quello degli amici degli amici, tutti giusti-bravi-belli.
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Questo ha di buono. Limonov è gentile, disponibile, ma fa quel che vuole. Se non sta bene in un posto non recita, s’incazza. Alla fine dell’incontro, un fotografo lo placca. Lui ci sta. Una fotografia, due, cinque, sette. Poi dice basta. Il fotografo si arrabbia. Lui si arrabbia di più, ho detto basta non rompermi le palle. Conosce il limite tra cortesia e offesa, tra patto e contraffazione, tra rispetto e difetto. “Ora sono vecchio, sono repellente, sono più saggio”, dice.
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Non accetta gli applausi, non li capisce. Perché queste foche applaudono? Non me lo merito. Piuttosto, ragioniamo insieme su come fare la rivoluzione. Piuttosto, spaccatemi la faccia. Ci tiene a spiegare la nascita del Partito Nazional Bolscevico, nel 1993, quando è stato messo fuori legge da Putin, quando ha vissuto il carcere. Il partito è stato il tentativo – riuscito, in parte – di dare rappresentanza alla “punk generation”, gente che cannibalizzava la vita.
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Sandro Teti ha pubblicato due libri di Limonov, Zona industriale e Il boia. Il Limonov più bello tradotto in Italia s’intitola Libro dell’acqua, lo ha pubblicato Alet nel 2002. Allineo alcune frasi: “Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”; “Il nuovo senso estetico era quello che nasceva sfrecciando per una città bruciata sopra la corazza di un carro armato circondato da giovani belve con il mitra”; “Deve essere stata splendida immagino la città di Phnom Penh deserta e bruciata. Di persona ne ho viste parecchie di città bombardate e crivellate: c’è in loro una qualche grandezza, una estrema saggezza. Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda”.
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Eduard Limonov al Teatro degli Atti di Rimini, 12 dicembre 2019
Mimmo Calopresti ha firmato un bel documentario su Limonov, Cani sciolti. Nel 1974 Limonov è a Roma, in attesa di partire per gli Stati Uniti. Povero, maldestro al mondo. Il documentario racconta il suo ritorno in Occidente, l’anno scorso, il cammino verso il monumento a Pasolini, a Ostia. “Una delle figure più potenti del XX secolo”, dice Limonov, omaggiando PPP. Ama ciò che disturba, che non distrae dalla vertigine.
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In Libro dell’acqua, tuttavia, è possente l’atto letterario: Limonov, nonostante i proclami, vede in ogni gesto il verbo, ogni atto inciso nella Storia ha senso ai fini del racconto. “Baudelaire ci ha inventati tutti quanti. Lui e Balzac”, scrive. E quando deve descriversi, accenna a Rimbaud: “ero partito come Rimbaud, una fuga verso il nulla”. Nel libro, Limonov scrive la sua autobiografia raccontando “Mari”, “Fiumi”, “Laghi, Stagni, Paludi”, “Fontane”, “Saune” e piogge. La struttura narrativa è perfetta e intorbidata dalla malinconia: il grande narciso Limonov sa che ogni esistenza è effimera, ogni rivoluzione una traccia sulle acque, presto risolta nel nulla, “l’acqua trasporta, cancella e non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua”. Cancellare, ecco la parola esatta.
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Ne Il boia, piuttosto, la perfetta definizione del mondo ‘americano’, il nostro. “Tutto può essere, tutto può succedere qui, nel migliore dei mondi possibili, dove tutto appartiene a tutti e il capriccio, il malinconico e piacevole bruciore sotto l’addome, governa gli esseri umani”.
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Sbaglia chi ritiene Limonov un ‘esteta armato’ – egli è semplicemente russo. Limonov è un uomo del secolo scorso, convinto, come tutti i russi, che l’idea implichi la lotta, che si scrive per convertire, che non c’è altro se non l’istinto alla vita, il sentore della morte. Limonov è un collega di Gogol’, pare redatto da Dostoevskij, ha bevuto con Majakovskij, è dentro le lucide elucubrazioni di Vasilij Grossman (“Lo sviluppo russo ha mostrato una strana essenza: si trasforma in sviluppo della non-libertà”), dentro i pensieri di Andrej Sinjavskij (“La morte dell’eroe è giustificata, conquistata, dalla vita dell’eroe, e questo equilibrio genera un senso d’armonia. Per contro, nel destino del ‘piccolo borghese’ la morte è quasi comica: colpito da un ictus, soffocato da un osso”), nei gherigli retorici di Iosif Brodskij, l’amico-nemico (“La vera storia della coscienza comincia con la prima bugia. Si dà il caso che io ricordi la mia”). Conta, nell’ardore russo, la ‘postura’ più che la politica, la ‘statura’ prima del giogo dell’intelletto, la facilità al soffrire.
*
“Volevo vedere la Storia da miope, a un centimetro dal mio naso… mi trovavo lì perché ero un avventuriero, uno sveglio, e provavo piacere a rovistare nelle interiora della Storia, a pescarle qualcosetta nella pancia”, scrive Limonov. Vuole le domande bastarde, Limonov, vuole qualcuno che lo sfidi a duello. Riguardo alla sua presenza sul fronte serbo, nei Novanta, è chiaro, “La Serbia era un paese assalito da una ventina di potenze straniere. Quanto al resto, è certo, io difendo le mie idee con la mitragliatrice”. La sua risposta – pienamente russa – ci fa schifo, deve farci schifo, perché Limonov non vuole limonare con il grande inquisitore, non cerca assoluzioni, ma chi lo punisca. D’altronde, è sempre stato chiaro. Nel 1998 su “The Exile” sintetizza con aforisma di fuoco la Guerra nel Golfo (“Un nugolo di capi mafia – forze Onu di 27 paesi – che puniscono un piccolo imbroglione, Saddam Hussein”), parla del suo impegno nell’area jugoslava. “Ho partecipato alla guerra serbo-croata. Scioccato e disgustato dai cadaveri torturati di vecchi e bambini serbi, recuperati tra le rovine di Vukovar, ho preso parte per la Serbia… Nell’autunno del 1992 sono stato avvicinato dal produttore cinematografico della BBC, mister Pawlikowsky. Voleva che intervistassi Radovan Karadjic, leader dei serbi bosniaci per un suo documentario. Per tre giorni la BBC ha filmato il presidente della repubblica serba di Bosnia insieme a me, mentre discutiamo. Disonesti, quelli della BBC, che in segreto mi hanno filmato mentre sparo con un mitra a Sarajevo”. Chi fa orrore, qui: Limonov? I cinici della BBC? Tutto corrisponde, in ogni caso, all’immagine che Limonov vuole dare di sé. “Essere odiato da un vasto pubblico televisivo dell’intero mondo occidentale è emozionante. È una sfida. Mi sentivo come Superman assediato da orde di zombie lillipuziani… Ho sempre saputo che se non rinunci alla tua libertà sei un nemico della libertà. Subirne le conseguenze è stato doloroso. Niente pane per l’amico dei Serbi. Niente pane per il politicamente scorretto. Niente pane per il nemico di Gorbacëv. Niente pane per l’avversario di Eltsin. Niente pane per chi la pensa diversamente”.
*
Di sera, io e la guardia del corpo di Limonov che corriamo per Rimini – il freddo perfeziona la velocità. Limonov è inflessibile e vecchio. Ha bisogno di un antidolorifico. Troviamo la farmacia aperta. Poi corriamo nell’ultimo supermercato. Limonov è chiuso in camera, in albergo, mangia come un asceta. Non riesce a masticare. Gli compriamo un po’ di lardo e del formaggio morbido. Quest’uomo che ha preso a morsi il muso della vita, non sa più masticare.
*
Dopo aver ‘matato’ il pubblico di Rimini – seguiranno vaste code per farsi firmare il libro – Limonov si rivolge a me con aria di sfida. Gli ho chiesto che rapporti ha con Dio. “Ma come si permette?”, fa, “queste sono questioni private”. Intuisco la differenza tra l’icona e il presepe, tra Zosima e il culto dei Santi. Il giorno dopo, in macchina, prima di lasciarlo alla stazione. Siamo in cinque. Sei pronto a scrivere la sua biografia?, mi fa Sandro Teti. Sfidare Carrère eccita. “Devi fare in fretta però, tra poco muoio”, mi dice Limonov. A me pare immortale. Poi va verso il binario. Il treno per Bologna parte mezz’ora dopo. Il freddo inacidisce le intenzioni. Ma Limonov è là, in piedi, al binario, mezz’ora prima, solo. (d.b.)
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pangeanews · 5 years ago
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“Berlusconi è il fanciullo eterno, ha inaugurato la stagione del politico come uomo di spettacolo, ha anticipato la comunicazione social”: dialogo con Paolo Pierobon, che interpreta il Cavaliere in “1994”
L’ascesa, il predominio, lo schianto. Di un dio, d’altronde, si vuole assistere al precipizio, di un re si accetta il predominio odorando il fallimento: qualcuno prima o poi lo gambizzerà, e noi saremo lì, a mangiargli il viso. L’idea è semplice. Micidiale. Raccontare la storia recente – il retroscena del potere, l’osceno – con il carisma della fiction. Anatomizzare gli anni miliari dell’Italia nostra, a ‘protagonisti’ ancora viventi. L’epopea della Seconda Repubblica, una specie di Iliade a mitragliate di gossip, è iniziata con 1992 (2015) e trova compimento quest’anno con 1994, in onda dal 4 ottobre prossimo, ogni venerdì, alle 21.15, su Sky e su Now Tv. L’incantesimo è letale: più i fatti sono pubblici, di evidenza televisiva, più la verità sfugge, elusiva, cova nell’ombra, in un’alcova di tranelli e festini. La serie ideata da Stefano Accorsi – che è lo stratega Leonardo Notte – sviscera, gestita alla regia da Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce, l’anno cruciale. Nel gennaio del 1994 nasce Forza Italia: in marzo, alle elezioni, si configura come il primo partito italiano, dando vita, insieme a Lega Nord, Alleanza Nazionale, CCD e UdC al primo Governo Berlusconi. L’insediamento accade, in maggio, mentre Bettino Craxi svanisce ad Hammamet. I giochi cronologici creano distorsioni borgesiane – il 1994 è l’anno in cui viene rubato L’urlo di Munch a Oslo, in cui Schindler’s List domina agli Oscar; è l’anno dei Mondiali americani di calcio del ‘Divin Codino’, della riapertura della Cappella Sistina, della morte di Kurt Cobain e di Nelson Mandela eletto presidente del Sudafrica. In 1994 si narra, comunque, il successo e lo scempio, la caduta. Lo denunciano gli sceneggiatori – Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo – “Questa stagione termina con una doppia caduta. In un’aula di tribunale, Antonio Di Pietro si toglie la toga e chiude così la sua carriera di Pubblico Ministero, sancendo la fine dell’inchiesta Mani Pulite, che aveva dato origine alla rivoluzione raccontata della nostra trilogia. E Silvio Berlusconi, colpito dalla magistratura e sfiduciato dagli alleati, dopo solo otto mesi e sette giorni di governo deve cedere il passo, e abbandonare il potere”. A interpretare Silvio Berlusconi – sfolgorante, in bianco, in Costa Smeralda, icona di sinistra innocenza, di spavaldo candore – Paolo Pierobon, attore camaleontico, nato al teatro – ha lavorato con Luca Ronconi e Elio De Capitani, con Eimutas Nekrošius e Stefano Massini, tra i tanti – noto alla tivù (per lo più, per la serie “Squadra antimafia”). Laboriosi labirinti del caso: Pierobon inizia a fare l’attore quando Berlusconi inaugura l’avventura politica. Lo abbiamo intervistato a Roma, dove è stata presentata in anteprima la serie. (d.b.)
Stefano Accorsi e Paolo Pierobon sono Leonardo Notte e Silvio Berlusconi in “1994”, la serie in onda su Sky (photo Antonello & Montesi; © Sky Wildside 2019
1994. L’anno in cui Berlusconi fonda Forza Italia. Le è piaciuto interpretare “il Cavaliere”? Come lo ha studiato, che particolarità del carattere ritiene di aver fatto emergere?
Il 1994 è un anno al quale ho assistito, naturalmente, e che è stato di grande cambiamento anche per me: la mia decisione di fare l’attore è coincisa con la ‘discesa in campo’ di Berlusconi. In effetti, la scelta di diventare attore ha in sé qualcosa di narcisistico, simile al gesto di Berlusconi: in questo senso, ho trovato qualcosa di personale da trasfondere nel personaggio. Sostanzialmente, ho lavorato sulla natura di Berlusconi come fanciullo eterno, un puer aeternus, l’uomo, come diceva lui, che ha “il sole in tasca”.
Quelli tra Mani Pulite e la ‘discesa in campo’ di Berlusconi sono stati davvero, a suo avviso, gli anni che hanno cambiato l’Italia?
Assolutamente. Gli anni a cui ho assistito, dal 1992 al 1994, sono stati uno spartiacque clamoroso, hanno cambiato la politica e la storia italiana.
Domanda conseguente: suo giudizio sul Berlusconi politico. E uno sulla politica, oggi. 
Berlusconi ha aperto un discorso sul politico performer, sul politico come uomo di spettacolo, che ancora oggi perdura. Ha anticipato la comunicazione via social attraverso le televisioni di proprietà: con i suoi monologhi è entrato nei salotti degli italiani. Allo stesso modo, dribblando la comunicazione ufficiale, i politici oggi vanno su Facebook per parlare direttamente ai telefonini degli italiani.
Oltre che con grandi registi, ha lavorato su grandi testi, da Gombrowicz a Büchner, da Tolstoj a Beckett e Majakovskij. Cosa sta leggendo? Quale libro la ha ‘formata’, per così dire?
Dovrei fare moltissimi nomi, ma parlando di qualcosa che a un certo punto mi è capitato, direi i Diari di Lev Tolstoj e un po’ tutta la sua opera, affrontata durante lo spettacolo di ormai 12 anni fa creato da Eimutas Nekrošius, il grande regista lituano. Quella lettura, devo dire, ha cambiato certe mie percezioni. Ultimamente, sto rileggendo Philip K. Dick, un autore fondamentale, non solo relegato al genere fantascientifico.
Il ruolo che ha amato di più interpretare. Quello che vorrebbe interpretare. 
Sarò banale, dico sempre che il prossimo ruolo sarà il migliore. Ho amato molto interpretare, in una produzione del Teatro dell’Elfo, Ian, un personaggio di Blasted, l’opera di Sarah Kane. Vorrei interpretare ruoli molto distanti dalla mia personalità, sempre ammesso che ne abbia una. Ora, vorrei interpretare qualcosa di più intimo, di più domestico, di ‘buono’, ecco, quello mi manca un po’.
*In copertina: Paolo Pierobon come Silvio Berlusconi in “1994”; photo Antonello & Montesi © Sky Wildside 2019
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pangeanews · 5 years ago
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L’ultimo amore di Marina Cvetaeva, “una negromante”. Ovvero: sul genio poetico di Arsenij Tarkovskij
Tra l’altro, fu l’ultimo amore di Marina Cvetaeva. “Con Marina Ivanovna Cvetaeva ho fatto conoscenza nel 1939. Ella era arrivata in uno stato assai turbato, era convinta che suo figlio sarebbe stato ucciso, come poi accadde. Io l’amavo, ma stare con lei era difficile: era troppo brusca, troppo nervosa”. Lui aveva 33 anni, dalla bellezza incisa, lei era appena, malauguratamente, arrivata in Unione Sovietica, dopo il vagabondaggio europeo. Aveva 48 anni, quella poetessa magnetica. “Caro compagno T, il Vostro libro è incantevole… la Vostra traduzione è una delizia. E cosa potete Voi stesso? Giacché per un altro poeta potete – tutto. Trovatele (amatele) – e le parole vi verranno. Presto vi inviterò a casa mia – una sera – a sentire delle poesie (mie), dal libro che sto per pubblicare”. Marina gli scrive da Mosca, nell’ottobre del 1940: un anno dopo è defunta. Naturalmente, di quel libro che sto per pubblicare, non si fece nulla. “So che sono buone poesie e che a qualcuno sono necessarie (forse addirittura come pane). E se non ne verrà fuori nulla – tradurrò, chiuderò la bocca a quelli che mi dicono: ‘Perché non scrivete?’ – perché il tempo è uno solo, ed è poco, e scrivere per me stessa nel quaderno è luxe. Perché per le traduzioni mi pagano, e per le mie cose – no”. Chi giudica il pregio editoriale di quelle poesie, il critico Kornelij Zelinskij, le squalifica, squallidamente: “sono palesemente poesie ‘di un altro mondo’, qualcosa di diametralmente opposto e addirittura ostile alle concezioni del mondo nella cui sfera vive l’uomo sovietico” (sia sempiterna lode a Serena Vitale: dall’epistolario di Marina Cvetaeva da lei curato, Deserti luoghi, Adelphi, 1989, rubo questi dettagli). Ma non si scrive sempre di e da un altro mondo?
*
La lettera al poeta termina con quella frase bellissima, “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta un manoscritto”, che è anche un imperativo delicato a farsi amare. Nella sua vita il poeta Arsenij Tarkovskij, dal fascino inequivocabile – una periscopica somiglianza con Majakovskij – colleziona tre mogli. Dalla prima, Marija Ivanovna Višnjakova, il 4 aprile 1932, ha il figlio Andrej, il grande regista; dal 1937 vive con Antonina Aleksandrovna Bochonova, che sposa tre anni dopo; dal 1947 si unisce a T.A. Ozerska, che sposa nel 1951. “Marina era terribilmente infelice, molti ne avevano paura. Anch’io, un pochino. Infatti, era un tantino una negromante”, ricorda Tarkovskij. L’ultima poesia di Marina Cvetaeva, scritta il 3 marzo 1941, è dedicata a Tarkovskij. “Mansueta come un ladro/ senza dare fastidio a nessuno/ al posto non apparecchiato/ mi siedo settima, indesiderata…/ Come la morte al banchetto nuziale:/ io – la vita che viene a cena”.
*
“Tarkovskij aveva una moglie molto gelosa. Era con lei quando una volta incontrò Marina Cvetaeva in pubblico e non la salutò: fu quello l’ultimo dolore amoroso di Marina, eterna passante sulle strade maschili, eterna ospite e forestiera nella vita. (Come Pasternak, Tarkovskij scrisse splendidi e dolorosi versi in memoria di Marina Cvetaeva)”, scrive Serena Vitale.
*
Marina si impicca il 31 agosto 1941 nel borgo di Elabuga, e Tarkovskij ne urla:
Chiamo, non risponde, dorme profondamente Marina. Elabuga, Elabuga, argilla di un cimitero.
Si dovrebbe chiamare col tuo nome una palude infida, si dovrebbe chiudere il portone con questa parola-chiavistello.
Ti si dovrebbe usare, Elabuga, per spaventare i bambini odiati, mercanti e briganti dovrebbero giacere nelle tue tombe.
Su chi hai soffiato il tuo gelo atroce, di chi sei stata l’ultimo asilo qui sulla terra?
Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba? Hai udito l’ultima voce di Marina.
*
Poeta dal genio boschivo, Tarkovskij viene dopo quella generazione d’oro (Pasternak, Majakovskij, Achmatova, Cvetaeva), ed è inevitabilmente in ombra. “Accusato di misticismo” nel 1932, Tarkovskij sopravvive grazie alle traduzioni: il suo primo libro, Prima della neve, è pubblico nel 1962, l’anno in cui il figlio Andrej realizza il primo grande film, L’infanzia di Ivan, che vince il Leone d’oro a Venezia (insieme a Cronaca familiare di Valerio Zurlini). A differenza di poeti d’altra generazione come Iosif Brodskij, Arsenij Tarkovskij non espatriò, decise di restare in Russia. Ottenne qualche riconoscimento, i suoi libri in versi venivano stampati in migliaia di copie, subì la morte del figlio Andrej, nel 1986, per morire, nel 1989, trent’anni fa, a Mosca. A Peredelkino, “la sua tomba è a pochi passi da quella di Boris Pasternak”. Pressoché ignota in Italia, tranne sporadiche, coraggiose pubblicazioni – per Scheiwiller un volume di Poesie scelte, nel 1989 e di “prose varie, lettere”, come Costantinopoli, nel 1993; per Tracce alcune Poesie e racconti, 1991, per Via del Vento La steppa e altre poesie, 1998 – l’opera di Tarkovskij è apparsa in una sontuosa pubblicazione, due anni fa, per Giometti & Antonello, come Stelle tardive. Versi e prosa, per cura di Gario Zappi, già autore di una traduzione formidabile dell’opera di Osip Mandel’stam, autore affine a Tarkovskij.
*
Amava la Cvetaeva, ma preferiva la poesia di Anna Achmatova, Tarkovskij (“La sua prosa è difficile da leggere, tante sono le inversioni, i gradienti nervosi. Preferisco l’Achmatova. In Anna Achmatova vi è una tale perfezione della forma!”. Ad Anna Achmatova il poeta dedica una poesia, Il manoscritto, che sembra ricamare intorno alla lettera di Marina.
Ho finito il libro e ho messo a punto, non ho potuto rileggere il manoscritto. La mia sorte si è consumata tra le righe mentre l’anima mutava la scorza.
È così che il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle, è così che il sale dei mari e la polvere delle vie terrene sono benedette e maledette dal profeta andato da solo incontro agli angeli.
Sono colui che è vissuto nel proprio tempo senza essere sé. Sono il mino della famiglia degli uomini e degli uccelli, ho cantato assieme a tutti gli altri,
e non lascerò il banchetto dei viventi: blasone autentico del loro onore di famiglia, vocabolario diretto dei loro legami alla radice.
*
Tarkovskij conosce Anna Achmatova nel 1946. Ama le poesie di Pasternak, che preferisce al Dottor Zivago. “Pasternak gli risponde che in fondo le poesie in sé sono una sciocchezza e che agli uomini serve la prosa. Dopo tale incontro i suoi rapporti con Pasternak si raffreddano notevolmente”. Nel 1966 muore Anna Achmatova; Tarkovskij “scorta la salma in aereo da Mosca fino a Leningrado”, pronuncia un discorso che dispiace a Iosif Brodskij. “Ricordo che, quando Arsenij Tarkovskij ha iniziato il suo discorso funebre con le parole: «Con la morte di Anna Achmatova è finito…», tutto dentro di me si è ribellato: niente era finito, niente poteva e può finire, sino a che noi esistiamo. Noi siamo un coro “magico” oppure “non magico”; non perché ci ricordiamo i suoi versi o ne scriviamo noi stessi, ma perché lei è diventata parte di noi, parte delle nostre anime, se vogliamo”.
*
“La sofferenza è un’eterna compagna di viaggio della vita”, dice Tarkovskij in un dialogo ricalcato nel 1990, Asterischi. “In guerra ho capito che il dolore è una forma di purificazione… In guerra ho compreso cosa sia la sofferenza. Ho poesie su quand’ero ricoverato in un ospedale da campo dopo che m’era stata amputata la gamba… Quando vedo che gli altri soffrono, provo dolore alla gamba”. Il figlio Andrej, nei film – Stalker su tutti – cita spesso le poesie del padre. “Mi pare d’essere al mondo da mille anni, e sono terribilmente stufo di me stesso… mi è difficile stare con me stesso… ma io credo nell’immortalità dell’anima”. Il poeta è millenario – porta tutti i dolori, ma non riesce a sopportarsi. Che l’anima sfolgori nell’immortalità è bello pensarlo. (d.b.)
**
L’anima, accesasi in volo, non fu vista nella stanza bianca in cui tra dita di streghe misericordiose si scaldava dolcemente il corpo del bambino.
Alla vigilia sul giardino era caduta la pioggia, e la terra non s’era ancora asciugata: a giugno vi furono così tanti lillà che la lucentezza del mondo si fece turchina,
e a luglio, ad agosto, vi fu alle tre finestre una luce tale, un colore tale sgorgò a fontana nel cielo fino al termine di quell’estate primordiale, che anche nell’oltretomba la mia sorte si scalda, come al suolo, al giorno della creazione.
Arsenij Tarkovskij
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pangeanews · 5 years ago
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Ma l’“Antologia di Spoon River” è un libro così importante? (In memoria di Edgar Lee Masters e di Fernanda Pivano)
Primo gennaio 1915. Numero 1, volume II di “The Egoist”, An Individualist Review – me la ripasso come una leccornia sui denti tale sottotestata. L’impeto – e i denari – di una femminista esteta, Dora Marsden, il talento redazionale di Richard Aldington, i suggerimenti di Ezra Pound. Per quanto è durato – cinque anni, fino al 1919 – ‘L’Egoista’ fu una grande testata. Fisiamoci su quel numero lì. Aldington firma un saggio sui Plays of John Synge, James Joyce pubblica, a puntate, il Portrait of the Artist as a Young Man, qualcuno sta traducendo Lautréamont, The Songs of Maldoror. Ezra Pound, come sempre, fa l’agitatore. “Finalmente! Finalmente l’America ha trovato un poeta. Non capitemi male, l’America, grande terra dal futuro ipotetico, ha avuto grandi poeti, ma da Whitman in poi non si è visto nulla di nuovo. Walt ha imposto una moda”. Gli elogi di Pound – esperto in analoghi furori – sono rivolti a tale Webster Ford.
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Webster Ford è il nome con cui Edgar Lee Masters, avvocato presso lo stato dell’Illinois, tre figli, moglie figlia di avvocati, pubblica, mediando l’influsso dell’Antologia Palatina con le brume di Thomas Gray, gli epitaffi poetici che comporranno l’Antologia di Spoon River. I primi testi vengono stampati sul “Reedy’s Mirror”, dal 1914, griffati Webster Ford. Tra il 1915 e il 1916 la Spoon River Anthology viene pubblicata da Macmillan, con il nome autentico dell’autore: il successo fu esorbitante, sproporzionato.
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Ezra Pound e Cesare Pavese la pensavano allo stesso modo. Pavese scopre l’Antologia di Spoon River nel 1930, ne scrive l’anno dopo su “La Cultura” in questo modo: “È il poema essenzialmente moderno, questo, della ricerca, dell’insufficienza d’ogni schema, del bisogno insieme individuale e collettivo. Voi trovate che il rimpianto di un bambino, morto di tetano giocando, assurge alla stessa importanza cosmica dell’estasi di uno studioso che ha passata la vita ad adorare terra e cielo”. In “Spoon River”, di fatto, si raccontano storie, si alternano sketch, dove tutto è totalmente ‘fisico’, il Far West delle cose quotidiane, dei piccoli fatti che incrinano un destino. Edgar Lee Masters pare un Guido Gozzano senza ironia, senza Nietzsche, senza gheriglio lirico. La prima raccolta poetica di Pavese, Lavorare stanca (1936), dipende da questa scoperta narrativa, potrebbe intitolarsi “Spoon River Italia”.
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Secondo Pavese, Edgar Lee Masters è la quintessenza dell’‘americanità�� – meglio: dell’idea di America che ha Pavese. “Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese”, ricorda ‘Nanda’ Pivano, che nel 1943, su istigazione di CP, per Einaudi, compila la prima traduzione ‘pirata’ del libro. “Convinse Einaudi a pubblicarlo: giorni felici, ma già tormentati dall’inizio della guerra. Per ottenere l’autorizzazione dalle censure del tempo venne richiesto il permesso di pubblicazione per una Antologia di S. River, e all’antologia di questo nuovo santo il permesso venne accordato (o almeno così mi raccontò Pavese; come capire se parlava sul serio?). E il libro uscì, in piena guerra, poco prima che la casa editrice venisse confiscata; Pavese mi portò la prima copia in un caffè di Torino di fronte alla stazione… Avevamo tutti e due gli occhi un po’ lucidi, mentre stavamo lì in piedi a guardare quel libretto smilzo, che era solo una scelta della vera antologia, con la copertina bianca orlata di verde e la carta un po’ ruvida sotto le mani intirizzite dal freddo”. Per ‘Nanda’ – morta dieci anni fa – fu il primo grande lavoro di una grandissima vicenda da traduttrice (tra gli altri, come si sa, traduce Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, promuove l’epopea Beat).
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In Italia, il libro assume un valore extra-lirico, politico: “Per noi che eravamo giovani allora, Spoon River significava molte cose: la schiettezza, la fede nella verità, l’orrore delle sovrastrutture. Forse significava amore per la poesia; certo significava amore per quella poesia” (Pivano). Ogni editore ha la sua versione dell’Antologia di Spoon River: alla traduzione della Pivano si sono aggiunte quelle di Antonio Porta (ora il Saggiatore), di Luigi Ballerini (Mondadori), di Enrico Terrinoni (Feltrinelli) e altre. Il libro di Lee Masters è stato cantato da Fabrizio De André in uno dei suoi album più noti, Non al denaro non all’amore né al cielo (1971; il titolo si riferisce alla prima poesia del libro, La collina: “Dov’è quel vecchio suonatore Jones/ che giocò con la vita per tutti i novant’anni/ fronteggiando il nevischio a petto nudo,/ bevendo, facendo chiasso, non pensando né alla moglie né a parenti,/ né al denaro, né all’amore, né al cielo?”). Il successo del libro di ELM è tale che per rendere più appetibile la sfilza di Epitaffi greci pubblicata recentemente nella sontuosa collana Bompiani ‘Il pensiero occidentale’, gli si è imposto un sottotitolo inequivocabile, “La Spoon River ellenica”. Che sfizioso paradosso: nonostante sia ELM a essersi ispirato agli epitaffi antichi, pare lui l’ispiratore di un ‘genere’ coltivato nella classicità greca.
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Piuttosto: l’epitaffio sembra, di per sé, vocazione utile a interpretare la poesia occidentale del Novecento. Insieme a Lee Masters mettiamoci Kavafis, Ungaretti, Borges, Pasternak (per Majakovskij), Majakovskij (per Esenin). Veri, reali, presunti, immaginati: la poesia mette un fiocco sul cadavere.
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Nel caso di ELM l’idea – il concept book con i morti che parlano – è più forte dell’esito. Troppi poeti americani sono più potenti di Lee Masters: Robert Frost, ad esempio, Wallace Stevens, Robert Penn Warren. Sono meno ‘facili’, non si prestano alla manifestazione pubblica o alla levata di scudi, reclamano intimità – insomma, sono meno ‘utili’ ai bisogni.
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In ogni caso: l’Antologia di Spoon River fu il lungo epitaffio del poeta Edgar Lee Masters. Non lo dico io: “Masters arrivò – svanì. Vittima del successo del suo unico inalterabile capolavoro, Spoon River Anthology; ciò che ha pubblicato dopo non importava, non avrebbe mai potuto competere con quel libro, tutti gli altri lavori non rappresentavano altro che l’esegesi di un declino. Spoon River Anthology lo ha reso famoso, ma ha reso più triste la sua vita, è stato – plagiandolo – il suo ‘vero epitaffio, più duraturo della pietra’” (Herbert K. Russell). Dopo “Spoon River” scrisse tanto, Lee Masters. Scalfito dalla fama, decise di darsi totalmente alle lettere. Fallì. I suoi libri – compresa una New Spoon River, 1924 – non facevano presa, sembrava aver detto tutto, subito, dannazione dei libri epocali. Nel 1931 firma una biografia di Lincoln, nel 1937 di Whitman; nel 1938 scrive Mark Twain: A Portrait. Un paio di anni prima, si era ritratto in una autobiografia, Across Spoon River. Restò cementato nelle voci dei suoi morti, eternamente vivi all’altare della letteratura.
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Antologia. Da non sottovalutare la contraffazione, la letteratura che piega e plagia se stessa, un pianto verbale, il vezzo ellenistico dell’antologia, il florilegio, la raccolta di fiori. Prima di ELM ricordo i Canti di Ossian di Macpherson, l’Omar Khayyam rifatto da Edward Fitzgerald, il Kalevala, mito finnico impastato in pieno Ottocento, ma pure le cosmogonie di William Blake. Ecco, ELM ha ridotto il cosmo a un villaggio, è passato dall’eroico al frugale, ma quello è: esercizio liberty – epopea bizantina su ceramica – incarnato in una specie di Twin Peaks.
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Debbo il ‘gancio’ all’amico Bruno Giurato, che ubriaco di oracoli delfici mi fa, guarda che Edgar Lee Masters ne fa 150. Sbaglia di una ebbrezza: il 23 agosto ELM, che nelle fotografie ha l’eleganza dell’uomo d’ufficio – e la poesia, ufficio esoterico, quando diventa occupazione ‘ufficiale’ spesso ti si ritorce contro, si fa veleno – ne fa 151. Cifra elegante, in effetti. “Non mi pare un compendio di finitezza, ma un manuale iniziatico”, mi scrive Bruno, citando l’epitaffio a Jonathan Swift Somers. Eccolo:
Quando vi siete arricchita l’anima fino al massimo, con libri, pensiero, sofferenza, comprensione, la capacità d’interpretare occhiate, silenzi, le pause nei mutamenti importanti, il genio della divinazione e della profezia; tanto da sentirvi capace, a momenti, di tenere il mondo nel cavo della mano; allora, se, per l’affollarsi di così grandi poteri nel recinto della vostra anima, l’anima prende fuoco, e nell’incendio il male del mondo è illuminato e reso limpido – siate grati se in quell’ora della visione suprema la vita non vi canzona.
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Su “l’Unità”, il 12 marzo 1950, Cesare Pavese, passato dal furore americano all’amore assoluto per la Grecia arcaica, trova in Lee Masters la stessa ambasciata delfica: “Disse Lee Masters a un giornalista: ‘Ogni due o tre anni ho fino a poco tempo fa riletto tutte le tragedie greche. La civiltà dei Greci fu la grande meraviglia del mondo. Essi pensavano in universali’”. La quintessenza degli Usa la trovi all’ombra di Atene, nell’ombelico di Delfi.
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Più che intenzionalità iniziatica, penso ci sia imitazione, l’enigma dell’ispirazione, in ELM. Americano con patria a Delfi (“tu andrai attraverso la terra, o anima forte,/ e attraverso innumerevoli cieli,/ verso la vampa finale!”, Arno Will; anche se è un po’ come la Venezia a Las Vegas), ELM intuì, poi si perse nel pettegolezzo degli oltremondani. Il poeta, lacerato dalla nostalgia furibonda degli andati, è il ponte tra i vivi e i morti – la sua parola non centra la cronaca, ma il crocevia del millennio venturo. Muore a Melrose Park, pressoché dimenticato, Edgar Lee Masters, autore di un unico libro che si ostinò a scriverne decine di altri. “Ridottosi a vivere diconferenze, morì assai povero il 5 marzo 1950 in un convalescenziario… Si dice che fu Theodore Dreiser a pagargli l’ultima retta d’ospedale” (Pivano). “Giovinezza, non serve fuggire il richiamo di Apollo./ Géttati nella fiamma, muori con un canto di primavera,/ se morire tu devi in primavera. Perché mai nessuno/ vedrà il viso di Apollo e potrà sopravvivere”: l’epitaffio che chiude “Spoon River” è intitolato a Webster Ford. Lo pseudonimo di Edgar Lee Masters. I poeti sanno come dare la vita e darsi la morte. (d.b.)
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pangeanews · 5 years ago
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“Oggi i veri poeti si muovono alla luce delle fiaccole nel ventre della terra e baciano i loro martiri”: pellegrinaggio nell’ultimo libro di Gian Ruggero Manzoni
Vi è mai capitato di leggere un libro e di trovarci dentro non soltanto voi stessi, ma una porzione del mondo che vi circonda? Si tratta di misteriose congiunzioni astrali, momenti più che fortunati, coincidenze meravigliose. Ecco, davanti ad un libro così si incorre in una sorta di epifania e non si può restare impassibili. Non si può, a nostra volta, non scriverne. Il libro in questione, almeno per me, in questo momento, è Nel profumo delle catacombe di Gian Ruggero Manzoni. Le poesie contenute in questo volumetto edito da L’Arcolaio di Forlì, sono invocazioni, preghiere, imprecazioni; troverete i fetidi cubicoli stipati di cadaveri, teschi prodigiosi, epigrafi ambigue e perfino crudeli. Insomma, io stesso, a mente fredda, mi sono chiesto come mai un libro simile mi è parso fin da subito perfetto per descrivere il nostro momento culturale. E ho cercato una risposta, forse andando contro il poeta stesso; ma si sa, una volta buttata in pasto a noi lettori, l’opera letteraria diventa nostra.
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In un’epoca dal capitalismo vittorioso, imponente, dove alla qualità si è via via sostituita la logica del mercato, era naturale e prevedibile che anche la cultura, presto o tardi, cadesse nel baratro del consumismo. Ma questa è storia vecchia. Sono decenni ormai che la l’arte è schiava del portafoglio, sono anni che la letteratura credono di farla con gli scrittori/personaggi anziché con il valore dei testi. Ormai è un ritornello che continuiamo a leggere su molteplici testate, gridato a gran voce con quel certo gusto sadico di chi sta affondando in pieno oceano e gode nel dire “ve l’avevo detto!”.
Credo sia il tempo di superare la delusione generata dall’ampia alfabetizzazione: si credeva che aumentando le possibilità, i mezzi, la tecnica con cui diffondere la cultura, questo avrebbe portato anche un miglioramento della cultura stessa. Ma non è andata così. “L’alfabetizzazione non è cultura” diceva Carmelo Bene.
Sempre più spesso si sente dire che la cultura vera sta da un’altra parte. Ecco, questa “Altra parte” assume così la consistenza mistica del romanzo di Alfred Kubin, una porzione d’ombra dove i riflettori della pubblicità non riescono ad arrivare. Si tratta di piccole/medie case editrici, alcune delle quali restano volutamente nascoste o inaccessibili, di vecchi stampatori che mettono insieme i caratteri mobili per comporre un testo pregiato e unico, o di librerie nate e cresciute in un sottoscala. Ma il quadro non è così semplice: occorre fare attenzione perché la letteratura non diventi roba sofisticata, roba chic. Di contro alle grandi distribuzioni, alle catene, agli e-commerce, ai libri di Benedetta Parodi stampati in centinaia di migliaia di copie, ci sono gli intellettuali snob che prediligono i salottini con aperitivo e poesie annesse, spesso incomprensibilmente brutte, stampate in dodici copie e su carta riciclata del Ghana. Sono circoli in cui la parola d’ordine è ‘esclusivismo’, all’insegna di un borioso atteggiamento supponente generato da montagne di manoscritti rigettati, ambienti dominati dal risentimento e dalla gran voglia di stupire, sconvolgere una morale già sufficientemente sconvolta, e da un’assoluta ignoranza verso i classici. In questi ambienti si studiano novità tecniche per la ‘fruizione’ della letteratura, come i distributori automatici di racconti alla fermata della metro: questa gente crede di fare molto per la cultura, ma in realtà non fa un bel niente, non ha compreso che la tecnica non ha bisogno di ulteriori spinte, quasi che la letteratura avesse bisogno di nuovi supporti, o di una scusa per esistere; questa gente non ha capito che la letteratura è il verbo del profeta, cardine della vita.
Perciò, tra i premi letterari alla moda o le mega-librerie, tra i poetucoli con la puzza sotto al naso corteggiati dalle piccole case editrici per un pugno di dollari, dove sta la verità? Dov’è che la letteratura si nasconde e si salva?
Qualora non si fosse capito, questi sono tempi bui, ma non è detto che ciò sia un male. In una giungla di porcherie, marchette culturali, editori senza scrupoli e tanta, troppa politica, potrete ritrovare il gusto dell’avventura. Ciò che rende affascinante una giungla sono le insidie che cova tra le sue fitte ombre. Questo ambiente culturale produce ancora delle perle, ma è diventato difficilissimo scovarle. Perfino certi organi di stampa fino a ieri considerati come ottime bussole per orientarsi in questo caos culturale hanno mostrato il loro vero volto, perdendo ogni credibilità.
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Se c’è una cosa che la storia ci insegna è che l’Arte si nasconde nelle fogne, nelle torbe dei fiumi, nelle cantine accanto alla muffa. Al principio dell’estate è uscito questo libro, per me significativo. Nel profumo delle catacombe (L’arcolaio, Forlì), raccoglie le più recenti poesie di Gian Ruggero Manzoni. Come preannunciato, forse questo mio specchiarmi in un libro porterà travisamenti, incomprensioni, interpretazioni lontane dal reale intendimento dell’autore; ma la letteratura è soprattutto questo, un felice fraintendimento in grado di generare significati prima impensabili.
Se cercate le architetture perfette, le simmetrie, le strutture imponenti che combaciano con un disegno più alto; se cercate le cattedrali, questo autore non fa per voi. Ne suoi scritti troverete le labirintiche geometrie delle tombe che precipitano nel sottosuolo, fatte di scorciatoie, vicoli ciechi e le vostre care mummie millenarie.
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Quelle cavità scavate nel tufo / quelle grotte farcite di corpi / sono la mia dimora.
Il libro potrebbe sembrare un’ode macabra, una litania funebre, il canto della fine di un’epoca, proprie di chi attende con morbosa delizia al trapasso dell’umanità. Niente di più sbagliato. Manzoni ci trasporta direttamente nel ventre pulsante della terra che gli uomini hanno riempito di cadaveri, e lì scopre la vera vita.
Il primo e logico pensiero va al culto dei morti: ormai tutto è sbrigativo, i corpi dei nostri cari diventano resti da smaltire al pari dei rifiuti. Troppo spesso fraintendiamo gli antichi, troppo spesso li accusiamo di aver dato importanza alle cose sbagliate, e non capiamo che onorare i morti non serve certo ai morti, ma a noi stessi che ancora restiamo in vita. C’è stato un tempo in cui i morti erano parte integrante della società. Oggi ne vengono estromessi, con una punta di ripugnanza verso l’idea della fine; i corpi vengono dispersi e di loro resta un flebile ricordo.
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Per la Chiesa di Roma / il culto delle ossa è paganesimo
Quel che pare di leggere è quindi un desiderio di ritorno verso un Cristianesimo, non primordiale, ma emergente. Credo che la parola giusta sia proprio “emergente”, perché racchiude tutta la volontà di esistere, di imporsi nel presente per gettare le fondamenta del futuro. Si tratta di culti pagani, forse, ma che avevano tutta quella concretezza di cui oggi si sente la necessità. La Chiesa stessa, di fatto sinonimo di “tradizione”, sta ipotecando queste sue salde colonne per andare incontro ai gusti dei fedeli.
Dopo queste considerazioni, non possiamo dimenticare che le catacombe non sono famose soltanto come labirinti stipati di carcasse, ma anche per aver dato asilo ai reietti, a coloro che la società cercava di estromettere o eliminare.
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Santa beatitudine quando i demoni / fanno di te un esempio / e seppellisci loro, non usandoli / quali complici oppure servi.
Nei lugubri anfratti di quelle grotte, tra ossa e mummie secche, fremeva la vita nuova, cresceva l’avvenire nutrito da nuovi culti, nuove fratellanze. Insomma, nelle catacombe si preparava il futuro.
I tempi difficili sono difficili, chiaro, ma non è detto che non siano al contempo carichi di speranza, di voglia di vivere.
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Oggi i veri poeti / si muovono alla luce delle fiaccole / nel ventre della terra / e baciano i loro martiri, incrociano / ossa, creano festoni con tibie, / costole e femori.
Ecco allora la risposta. Dove si nasconde la letteratura, dove si salva dalle macerie della contemporaneità? Mi pare di vedere Manzoni avvolto in un sudario, fingersi morto per poi alzare una mano e indicare un pertugio, una bocca di roccia da cui escono i fiati delle mummie di tutti i secoli, come a dire “salvati!”. Sì, troveremo rifugio nelle catacombe. Con occhi di profeta indica una via impensabile, una scelta ardita: nascondersi non è sinonimo di codardia, ma di conservazione. Laggiù prepareremo un mondo diverso.
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Oggi ci sono ragazzi plurilaureati in materie umanistiche costretti a ripiegare su occupazioni umili, oneste, certo, ma che non hanno nulla a che fare con la loro anima. A costoro va la preghiera, l’imprecazione, la profezia, la mano di Manzoni: rifugiatevi nelle catacombe, onorate le mummie, lasciate che la cultura prosperi nelle vostre viscere. In questa società, dietro un semplice magazziniere potrebbe nascondersi il migliore ricercatore in storia moderna; dietro una cameriera del fast-food potrebbe celarsi la migliore lettrice di Samuel Beckett. Io dico, continuate e perseverare, come i libri parlanti di Ray Bradbury, andremo in giro per il mondo come se nulla fosse portandoci dentro la nostra meraviglia, forse in attesa di tempi migliori.
La nostra generazione è stanca di sentirsi lodare inutilmente, di promesse mai mantenute; è stanca dei lavori astratti e inconsistenti, di consulenze, di tirocini e quanto di più bieco s’è inventata questa società. Questa generazione sente il richiamo della terra, della concretezza, della verità. Nonostante vogliano farci credere che i giovani siano tutti mammoni, che aspirino a trascorrere la propria vita insieme ai genitori, sappiate che non tutti sono disposti ad attendere cinque o sei anni per i risultati di una graduatoria, o in attesa di un concorso.
“Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri” diceva Majakovskij davanti alla salma di Esenin. E sebbene quello di Manzoni possa sembrare un canto funebre, in realtà c’è molta più vita e sforzo, molta più speranza e tensione di qualunque altra languida poesia sulla vita.
Questi sono tempi difficili. Come nell’antichità, dovremo cercare la letteratura di borgo in borgo, di casa in casa se necessario. Sarà un lavoro estenuante, ma quando troveremo un libro bello sarà già una gran cosa, un piccolo miracolo. Questi sono tempi da catacombe, dove la letteratura se ne sta ben nascosta tra le spoglie dei propri cari estinti; ma i tempi difficili sono sempre carichi di grandi aspettative e si sa, un granello di fede vale più del paradiso intero.
Valerio Ragazzini
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pangeanews · 6 years ago
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“Quasimodo mi disse, c’è forza nelle sue poesie, ma butti via tutto…”: dialogo con Curzia Ferrari, tra Jacques Fesch, l’amore sviscerato per Majakovskij e il rapporto con il Premio Nobel
Forse sarà il nitore russo, il rapace di entrare nell’alcova della psiche. Per prima cosa, quando la avvicino, redarguisce la mia disattenzione. Ha ragione. Rimedio. Quando leggo I giorni di Jacques (Ares, 2019) resto banalmente sbalordito. La storia di Jacques Fresch, dalla cornice agiografica – ghigliottinato il primo ottobre del 1957, a 27 anni, figlio di buona famiglia, con l’agio della dissipazione e l’ago dell’inquietudine, il ragazzo sogna la Polinesia, fa una rapina, uccide nella fuga un poliziotto, nell’eremo della cella scova Dio, dopo la sua morte s’impalca la causa di beatificazione, postulata dai salesiani – diventa il romanzo di un ‘tipo’, esente da risposte e da assoluzioni, un crocevia con gli assoluti. “Jacques è il doppio – il conflitto tra realtà e illusione, delirio e ragione, un tipo che non ha mai paura degli estremismi e combatte la propria guerriglia fino a quando si ritrova vaneggiante all’altro lato della vita. Allora comincia il suo duro dibattersi fra il delitto, la purificazione, la giustizia e l’ingiustizia della pena”, scrive l’autrice, nella Nota introduttiva. E giunge al quarzo centrale: “La società ha partorito schiere di Jacques – ma il filo di questa vicenda ha dei nodi particolari, e uno – fondamentale – che si chiama ricerca della felicità”. Il romanzo mi sorprende per felicità di scrittura (incipit di perentoria riuscita: “La porta diede un colpo secco. Ed eccolo lì, il cortile. La bruma di un precoce autunno, in quell’ora antelucana, lo invadeva sino a farlo sembrare un imbuto, e i profili delle cose che c’erano dentro somigliavano ad arborescenze minerali”), apertura di sguardo, sagacia nell’uso delle fonti per far levitare la temperatura narrativa, grado d’intrusione nella vita altrui (il gorgoglio della psiche, quell’impasto russo che terrorizzava i gusti inglesi quando si trovarono in mano le prime traduzioni di Dostoevskij e Tolstoj). “Perseguitato da pensieri occulti, Jacques non parla più. Va e viene, rincasa tardissimo, non rincasa affatto. A letto, si adagia lateralmente su una sponda, rigido: sua moglie ne misura il respiro, a sua volta non osa muoversi, allungare una mano. Per evitare pietose, calcolate bugie, ha deciso di non chiedergli nulla circa i suoi progetti futuri”. Così, avvinto, mi avvicino a Curzia Ferrari. Poetessa – alcuni suoi libri, tra cui Lucertola e Pietra, sono editi da Aragno –, giornalista, scrittrice nota e letta in diversi Paesi, ha tradotto e raccontato i grandi poeti russi – da Anna Achmatova a Majakovskij, da Esenin a Viktor Sosnòra –; alla relazione con Salvatore Quasimodo ha dedicato un libro necessario, Dio del silenzio, apri la solitudine (Àncora, 2008). Qualcosa di inevitabile e di intoccato, un segreto che giace dietro i polmoni, la tana del ghepardo, è in questa storia di Jacques, di cui chiedo. (d.b.)
Storia di dissipazione e resurrezione, di un perduto che trova l’avvio alla vita santa, quella di Jacques Fesch, pare uscire da una trama di Dostoevskij. Come si è avvicinata a questo personaggio, come è nata l’idea del libro?
Ho spiegato nella nota iniziale il lungo percorso che ha fatto in me la storia di Jacques Fesch. L’idea del libro, archiviata da tempo per la pressione di altri lavori, è riaffiorata tre anni fa. Ma il “materiale” era già pronto, si trattava di organizzarlo anche alla luce di una rilettura dell’Opera di Jacques e degli scambi epistolari con il di lui figlio Gérard, che assai ha combattuto per il riconoscimento anagrafico. Il mio libro è guidato dall’introspezione del personaggio, tappa obbligata per chiunque si occupi di biografie. C’è una tale polifonicità e un gioco di scambi – in questa vicenda – che conducono a un’analisi non predeterminabile dell’uomo Jacques Fesch: per ciò le mie pagine restano aperte, si fermano alla terribile soglia del passaggio, rispettando un mistero di cui molti si sentono già padroni
Pare che la caduta, la colpa, il ravvedimento e infine la cella, cioè un luogo – fisico e del destino – senza via di uscita siano le condizioni ideali per affrontare Dio: può essere così?
Sono stati elevati agli altari eremiti, trappisti, persone vissute tra la gente come Madre Cabrini… Per Jacques, siamo sempre al discorso dell’analisi della persona. Un giovane ricco, non credente, incline a indubbi disturbi mentali considerati stranezze, che concepisce il sogno delirante della grande fuga e si ritrova in pochi metri cubi d’aria a fare i conti con il proprio fallimento, con i mali fisici, e infine con la morte, non ci consente di entrare con certezza nel suo apparato psichico. Jacques cercava la felicità. I suoi scritti, specie gli ultimi, lasciano intendere che l’abbia trovata nella fede, e l’abbia trovata così tenacemente da desiderare di non uscire più di prigione, altrimenti sarebbe ridiventato l’uomo di prima… Come a dire che il mondo lo avrebbe risucchiato? E allora?
La biografia/romanzo è scritta con straordinaria finezza: mi domandi quali siano le sue fonti narrative, le letture di cui si è nutrita per approdare a questa lingua.
Il linguaggio, più appare liberamente creativo, più è frutto di una grande disciplina. Ho letto di tutto, dall’adolescenza, da quando ho cominciato ad alfabetare; ma lo stile me lo sono fatta da sola lavorando sul peso della parola e sul concetto socratico che non esiste una verità bell’e pronta all’interno della parola. Al contrario, bisogna trovarla secondo la sua disposizione nel testo.
Qual è, dalla mole di testimonianze relative a Fesch, quella che più la ha sorpresa? Le chiedo, poi, di estrarre una frase emblematica di Fesch che a suo avviso ne distingue il percorso esistenziale. 
Non mi lascio sorprendere facilmente. E poi le cose che si sono dette sul caso Fesch sono sempre le medesime. Più interessante la scrittura di Jacques, che è variegata, ricchissima (anche se ripetitiva), ora piena di slanci e invocazioni, ora di arditezze trattenute. Ha scritto così tanto, poveretto, in quei terribili anni di detenzione, da sentir sciogliersi il braccio, come ha confessato. Difficile estrarre una frase emblematica del suo percorso spirituale, ce ne sono troppe. Non è da prendere alla leggera la ripetuta affermazione di avere ricevuto le Grazie della sua morte. Di contro c’è una lettera alla suocera del 26 aprile 1957 che può sembrare banale ed è invece un grido di vita. In essa Jacques scrive: “C’è un fossato tra coloro che sono “fuori” e quelli che sono “dentro”. Insomma, anche senza logica e psicologia il tuo cuore di madre giunge molto bene a capire di che cosa si tratta… Ho fame di carne, vorrei trovarmi in un bosco con un montone intero allo spiedo; penso che lo mangerei tutto, e per digerirlo prenderei una gran coppa di crema al cioccolato. Vedi, mi fa soffrire più la privazione della carne, che non tutte le ghigliottine del mondo!”. Non mi inoltro nella simbologia della carne, considerata come avversaria dello spirito dai Padri della Chiesa, da Giovanni, da Paolo, poi riscattata, almeno in parte, dall’umanesimo… Qui colpisce la disperazione del detenuto d’essere sottratto alle funzioni vitali, fisiche, di una normale quotidianità.
Curzia Ferrari ha scritto “I giorni di Jacques. La breve storia di Jacques Fesch, un assassino candidato agli altari” per le Edizioni Ares
Allargo lo spettro e approfitto per chiedere di lei. Che maestro è stato Salvatore Quasimodo? Su di lui, come intellettuale e poeta, non mi sembra si parli abbastanza, risolto (o quasi) nella traduzione dei Lirici – e lì minimizzato, ad esempio, nella lettura obliqua di Sanguineti. Mi accenni a un dettaglio che ne possa simboleggiare la statura umana. 
Quasimodo è stato mio compagno di vita e di dialogo. Quando lo conobbi, avevo già una personalità formata, un amore sviscerato per Majakovskij (cui in seguito avrei dedicato un romanzo biografico, contravvenendo al fatto che un autore non deve mai amare i propri personaggi!) e due rubriche d’arte su importanti periodici, “La Fiera Letteraria” e “Critica Sociale”. Scrivevo poesie, e quando gliele presentai ne ebbi una bacchettata molto utile. “C’è dentro una forza: – disse – ma butta via tutto e ricomincia da capo”. Era un uomo intransigente nel lavoro, e fragile sul piano umano.  Il suo credo politico è stato contrabbandato e male utilizzato. Ne ho scritto nel volume “Dio del silenzio, apri la solitudine”, riconosciuto come il testo più importante, insieme ai ‘Meridiani’, che sia uscito dopo la sua morte. Maurizio Costanzo lo ha definito “un libro giustizialista”. Per la verità, in quelle pagine, spulciando vecchi documenti e facendo leva su ricordi personali, io ho indagato la sua tormentata vicenda interiore. La critica, per colpe varie e non facilmente attribuibili, oggi si occupa poco di lui. Del resto già Contini nel 1968 tentava timidamente quella svalorizzazione che altri fecero. In Quasimodo c’è una linea di demarcazione traumatica fra il Novecento e il Novecento sociale, post-bellico; e forse questo gli ha nociuto.
Vorrei domandarle, infine, dei russi, che ha tradotto e di cui ha scritto. Che cosa la ha catturata di quella letteratura, quale poeta di quella stagione irrimediabile e irripetibile le è stato più congeniale e intimo, e perché?
Il filo che mi lega alla cultura russa mi fa pensare che qualche mio lontano antenato sia nato in un’izba invece che in un cascinale padano. Dalla prima volta che andai in URSS, come inviata di “Gente”, che negli anni settanta-ottanta era un settimanale serio, mi trovai subito a casa (anche se non erano rose e fiori…)  Fu in quel periodo che portai in Italia il samizadt di Viktor Sosnòra, un poeta pietroburghese sorvegliato dal regime, oggi un classico. Avevo già tradotto testi di cubofuturisti, ma il linguaggio di Sosnòra fu uno scoglio. Ne scrissero la presentazione in volume Diego Fabbri e Giancarlo Vigorelli. A Mosca conobbi personaggi storici, come Lilia Brik, ormai vecchissima, e lo studioso Vasilij Katanian, suo terzo marito. Incontrai il burattinaio più famoso del mondo, Sergej Obraztsov. Imparai che cos’è il culto del teatro e il peso della letteratura sulla vita quotidiana. Anche una persona di livello medio-basso cita l’Achmatova quasi fosse una vicina di casa. Dicono che la cultura abbia una sua bandiera, diversa da quella nazionale – quale essa sia. Sventola idealmente sulle carceri per le quali tutti gli uomini di pensiero sono passati, al tempo degli zar e durante il regime sovietico. Oggi, come ben si sa, la Russia è globalizzata, ma fino a qualche tempo fa, bastava uscire un po’ di chilometri dalle grandi città e si ritrovava ancora l’aria agreste e sacrale di Esenin e dei poeti contadini.
Qual è il libro che ha formato il suo carattere letterario, quale quello che consiglierebbe a un liceale, oggi, per avviarsi all’avventura del leggere?
Impossibile rispondere. A prescindere da Dostoevskij e da “I promessi sposi” che la scuola ci ha fatto odiare e per conto mio ho riletto non so quante volte, incoraggerei alla lettura comunque. Confrontando i testi più disparati si impara a dubitare, a discernere, a pensare. La formazione avviene così. Fuori da scompartimenti stagni che limitino la ricerca. E nella logica della propria curiosità. A suo tempo mi colpì “Il libro di Giobbe” rivisitato da Guido Ceronetti. Ci insegna la Sapienza del pazientare.
*In copertina: Jacques Fesch (1930-1957) appena arrestato
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pangeanews · 6 years ago
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Sellerio ripubblica Graham Green: ben fatto! Qui un inedito in cui il sommo scrittore inglese ricorda il suo incontro con Borges: “si fermò sul filo del marciapiede e recitò una poesia di Stevenson per me…”
Ben fatto, Sellerio! Ottima la decisione di rilanciare Graham Greene (1904-1991) col romanzo del 1973 Il console onorario. Una classica storia di quel periodo, tra rapimenti e ricatti a generali, ripassata in salsa argentina per gli amici di Greene di quel periodo, capeggiati dalla generosa matrona letteraria Victoria Ocampo e faceva sdilinquire Garcia Marquez. Prima de Il console c’era stato un più breve romanzo, In viaggio con la zia, che sarebbe bello veder nuovamente disponibile invece nada. Prima di questo la leggenda, Il nostro uomo all’Avana, utilissimo per capire come le invenzioni della scrittura anticipino gli avvenimenti. Il romanzo è del 1958, l’invasione della baia dei porci seguì di lì a tre anni. Questo era il Greene affermato come autore, quello che si fece il piedistallo che non gli serviva con Il fattore umano nel 1978 che si apre e si mantiene nel segno di Conrad, facendoti respirare l’aria di Londra come con la bombola d’ossigeno.
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Tutti questi racconti si sono obliati nei ‘Meridiani’ Mondadori, precisamente nel secondo dei due volumi. Quanta cura e premura. Sellerio non ha in animo di riprenderli: giustamente. Occorreva rilanciare le cose un po’ meno note, quelle giovanili del primo mattoncino dei ‘Meridiani’: Una pistola in vendita, Il potere e la gloria (traduceva Vittorini per gli aficionados), Il nocciolo della questione (che mandava in visibilio l’ultimo Orwell) e poi Il terzo uomo e L’americano tranquillo, opere che spaziano dal Messico al sudest asiatico passando per la Vienna della prima guerra fredda. Per tutti i gusti. Però sarebbe stato utile avere di nuovo con Sellerio Missione confidenziale e Quinta colonna. Il tempo farà giustizia a Greene, ma siamo a buon punto per il risarcimento.
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Il suo primo romanzo, L’uomo dentro di me, uscì esattamente novant’anni fa, non è incluso nei Meridiani né Sellerio prevede di ristamparlo. Altra notizia curiosa prima di andare al punto: Greene era molto amico di Mario Soldati che gli dedicò un bestiario di fantasmi, Storie di spettri. Greene passò molto tempo a Capri a scrivere lettere fedifraghe (l’ha raccontato anche un documentario Rai andato in onda poche settimane fa, in seguito a quelli su Dick e Saint-Exupéry). Insomma i legami tra Greene e l’Italia erano tutt’altro che tenui, ma dopo le edizioni ‘storiche’ di Mondadori il nostro ha patito questa marmorizzazione nei Meridiani, cinto da introduzioni alle introduzioni, e buona notte. Chi s’è visto s’è visto. Chi lo leggeva fino a pochi anni fa? Era mai possibile che con una ventina di romanzi, un paio di autobiografie, dei resoconti conradiani di viaggi in Africa e una vita magnetica che attirò le attenzioni del suo biografo inglese (tre volumi in totale) di lui si scrive e si dica poco? Facciamo chiarezza.
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Greene è un autore. In UK le sue prime edizioni vanno a ruba in tutti i negozi di antiquariato. Piace ancora quella copertina da libro popolare che dopo mezzo secolo ancora tiene. Nel tube di Londra mi capitava di incontrare seduto tranquillo un uomo in giacca di velluto e occhiali di tartaruga il quale leggeva Secret Agent di Conrad: è un buon libro, gli dico uscendo e lui con notevole spocchia (overstatement), con quella sciatta superiorità coloniale, mi risponde lo sto rileggendo. A Londra ci sarà meno nebbiolina che per il passato, ma l’aria è sempre quella della diffidenza e le Carré difficilmente rimpiazzerà i classici Greene e Conrad. E la filosofia degli Inglesi qual è? La menzogna. Soprattutto quella rivolta a se stessi. Se non sai nasconderti la verità, lei scappa e gli altri te la afferrano, ti prendono. Così si capisce meglio la citazione da Conrad che apre Il fattore umano: “Soltanto so che chiunque formi un legame, è condannato”.
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Gli esordi di Greene non furono semplici. Imperava la cricca di Bloomsbury sia in prosa che in poesia. Guarda caso la Woolf spregiava Conrad, taceva di Dickens con la scusante dello stile, mentre Greene idolatrava entrambi questi numi, al punto da lanciare questo giudizio: “quei signori e quelle dame ti portano in un mondo sottile come i fogli delle carte da gioco, e lì Bloomsbury si aggira come re, donna, fante”. Non male. Greene era in fondo abbastanza tormentato, non era uno snob superficiale. Di lui ha scritto il premio Nobel Golding che “era il perentorio cronista dell’ansia di coscienza nell’uomo del XX secolo”. Forse per questo nel 1967 fu a due passi da vincerlo anche lui, il Nobel.
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In ogni caso Greene non era il tipo da mollare la presa. Pubblicò un libro di poesie, Babbling April (Aprile parolaio) nel 1925 e fu stroncato. Il rischio c’era fin dal titolo, che ripeteva un verso della poetessa Edna St. Vincent Millay (Pulitzer per la Poesia in quel giro d’anni): “non basta che una volta all’anno, giù per la collina / Aprile / arrivi come un idiota, blaterando e spargendo fiori”. Insomma una scelta arrischiata, non scontata. E il libro fu bistrattato dal Times che lo definì “pieno di fatterelli inconseguenti e irrilevanti, e pure di qualche parolaccia”.  Greene capì che doveva finire di laurearsi. Materia scelta: storia. La stroncatura presa dal Times a 21 anni non lo disarcionò.
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Tra le poesie di Greene giovane si salva senza pericolo questa, Infanzia : “Dovessi scegliere fra una vita impagliata, / e la poesia / la vita, un bus che trema in una confusione dorata, / luci che salgono al cielo formando una corona mobile, / folla e vetrine di negozi, lampioni, meraviglia; / e poesia  piccolo cavallino di legno / dalle zampe inamovibili / e criniera sempre fuori posto / la mia scelta ti sorprenderebbe e molto, presumo. / Ma di qui: mai persi la mia infanzia”. Interessante questa presa vitalista, poco compassata, poco a sangue freddo puritano – e che somiglianza con il gesto e l’accetta di Majakovskij, quando consigliava a chi volesse scrivere poesie d’amore di prendere un bus dal tragitto tutto buche e scossoni – perché lui Majakovskij avrebbe fatto uscire dal tempo la gente come se si trattasse di scendere da un pullman. Ma sono altre atmosfere.
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Qualche dato sulla famiglia. L’ambiente domestico di Greene è composto da una sorella già dentro il Servizio Estero: era lei la pecora nera e cattolica della famiglia che fa convertire Graham al cattolicesimo a 25 anni (anche) per sposarsi. Poi da vero cattolico avrà pochissimo rispetto per l’istituzione: un donnaiolo, un uomo di mondo, le foto lo ritraggono a suo agio col cocktail in mano. Green non si fermò più. Fu reclutato in MI6 dalla sorella. Fine dell’inciso. (In realtà per doveri di ‘servizio’ fu in Sierra Leone nel 1936). L’autore della biografia di Greene in tre volumacci era Norman Sherry, un professore nordamericano che al terzo volume appone una nota finale di pugno di Greene: poche ore prima di morire, rendeva ufficiale che i materiali privati andavano pubblicati interamente. Lezione di finezza inglese per noi italioti. Tra i documenti: una nota stesa a mano, timbro Whitehall, dove Greene elenca cinquanta donne libere o meno assoldate al piacere. La numero 46 è descritta in modo singolare come ubicata a Piccadilly e di stato ‘single’. Credo che dal cattolicesimo arrivasse a Greene questo senso di pulizia poco puritana che gli fece consegnare ogni possibile traccia al biografo, per il quale è pappa pronta, la via del successo tracciata in mezzo ai relitti.
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Il nemico in Greene è sempre fluido, mentre le Carré lo fissa nel carattere russo (orientale?) di Karla. Però anche Greene arrivò alle stesse conclusioni di Greene, cioè ebbe poche certezze. Guarderà nello specchio, ci scaverà dentro e troverà il nemico: elegante, potentissimo, mentre Greene è una povera rotella di una intelligence occidentale, più impiegato che operatore assoluto della Ragion di Stato (come Misha ne La spia che venne dal freddo, manuale di spionaggio per principianti). Invidia suprema dei britannici, ma invidia intelligente, per l’Oriente. Una delle ragioni per cui molti inglesi andarono con il KGB, a parte quelle di gusti privati, fu che una spia del Comitato era infinitamente più potente di un piccolo e emarginato, fin da allora, operativo delle intelligence occidentali, trattato malissimo da politicanti che lo stanno già immergendo nella merda che loro stessi hanno prodotto.
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Ultimo dato importante prima di dare voce all’inedito in italiano. Greene lanciò un suo drink alcolico. L’idea gli venne nel 1951 mentre era ad Hanoi. Questa la procedura: riempire lo shaker all’orlo con ghiaccio, poi prendere 25 ml di Vermouth, un bicchierino di Creme de Cassis (o simile) e 50 ml di dry gin. Aggiungere un paio di bacche di ginepro. In seguito, versare Vermouth e Cassis, agitarli intorno al ghiaccio, senza preferenze per senso orario o antiorario, per pochi minuti. Quindi aggiungere il vero proiettile: il gin. Agitare ancora. Agitare per poco e quando la superficie è stabile versare in bicchiere freddo per Martini. Cheers!
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Dal lato materno Greene era imparentato con Stevenson. Ora immaginatevi l’incontro tra lui e lo Stevenson argentino, nonno Borges. La loro amicizia fu un fatto reale solo che le due penne di Baricco e Domenico Scarpa l’hanno tralasciata, mentre presentavano l’ultimo volumetto Sellerio de Il console onorario. Facciamo giustizia ai libri, ogni tanto, e recuperiamo In memoria di Borges da Reflections di Greene, era in origine una nota del 1984 per gli Amici anglo-argentini di Londra. Niente di accademico, si capisce, tutta libertà e fantasia. Did you hear me well, publishing houses?
Andrea Bianchi 
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Graham Greene, In memoria di Borges
Vorrei richiamare l’occasione nella quale incontrai Borges. Ero invitato a pranzo dall’amica Victoria Ocampo e fui incaricato di accompagnare Borges dalla Biblioteca Nazionale dove si trovava fino alla casa di lei, per quella sua cecità. Appena la porta si fu chiusa dietro di noi incominciammo a parlare di letteratura. Borges parlava dell’influsso subito da Chesterton (antico) e da Stevenson (recente). Soprattutto dalla prosa di Stevenson. Lo interruppi. Stevenson aveva scritto una bella poesia, almeno una per me, sui suoi antenati che avevano costruito grandi fari lungo la costa scozzese. Sapevo che gli antenati erano materia borgesiana. La poesia partiva così:
Say not of me that weakly I declined The labours of my sires, and fled the sea, The towers we founded and the lamps we lit, To play at home with paper like a child”
Era una strada di Buenos Aires molto affollata e rumorosa. Borges si fermò sul filo del marciapiede e recitò la poesia intera per me, parole esatte. Dopo un pranzo soddisfacente si sedette sul sofà e citò a blocchi notevoli i poemi anglosassoni. Lì temo di non esser riuscito a seguirlo. Ma guardavo la sua faccia mentre recitava ed ero meravigliato dall’espressione dentro quegli occhi ciechi. Non sembravano affatto tali. Come se guardassero dentro di sé. Curioso. E nobilissimo.
Anche Borges, si capisce, sentiva i suoi antenati. I gauchos. Ne sono pieni i suoi ultimi racconti. Ad esempio là dove dice “noi argentini aspiriamo alle pianure sterminate che sono attraversate dagli zoccoli dei cavalli”. Fu uomo di coraggio. Durante il secondo periodo di Peron viveva con la madre e ci fu una telefonata misteriosa a casa loro. “Veniamo a uccidere te e tua madre”. Lei rispose “Ho novant’anni, meglio se fate presto. Per mio figlio sarà facile per voi, è cieco”. Questo, penso, fornisce un’immagine di cos’era la famiglia.
Per me, Borges parla per tutti gli scrittori. Ancora e sempre nei suoi libri trovo frasi che sono la mia esperienza come scrittore. Diceva che la scrittura è “un sogno che guida” ed ebbe modo di scrivere “compongo per me stesso e per gli amici, e per semplificare il trascorrere del tempo”. Cosa che farà sentire vicino a lui tutti gli scrittori.
Graham Greene
***
La poesia di Stevenson che fece divertire Borges e Greene è tratta da Sottoboschi, 38 e suona così:
“Non dite di me che ho lasciato perdere come un debole Le fatiche dei miei maggiori e me ne sono fuggito per mare, Quelle torri che ergemmo e quelle luci accese in alto, Per giocare a casa con la carta come un bimbo. Ma dite semmai: nel pomeriggio della vita Una famiglia determinata si è pulita le mani della polvere Di granito, e mantenendo lontani Dalla costa che risuona Le sue piramidi e gli alti memoriali Laggiù a catturare il sole morente, Sorrideva tutta contenta, e a questo compito puerile dedicava intorno al fuoco le ore della sera”
* la traduzione è di Andrea Bianchi
**In copertina: Graham Greene, calice in mano, con Carol Reed, il regista de “Il terzo uomo” (1949), capolavoro sceneggiato proprio da Greene
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pangeanews · 6 years ago
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Ezra Pound vs. Boris Pasternak. Una sfida fra titani: chi vincerà?
Il 1958 non è un anno come un altro per la letteratura. Nel 1958 Ezra Pound, il grande poeta, viene liberato dal manicomio criminale di Washington, il St. Elizabeths, dove era rinchiuso dal 1945. “Stando a quel che si legge, Ezra Pound sta per tornarsene a casa con una bella patente di matto che lo libera dall’accusa di tradimento, per la quale l’hanno tenuto dodici anni in gabbia. Gli americani non escono bene da questo affare… Io spero che Pound torni”, scrive Indro Montanelli il 20 aprile 1958, sul Corriere della Sera. Pound sbarcherà in Italia, a Napoli, sulla ‘Cristoforo Colombo’, il 9 luglio di quell’anno. Arrivò in Tirolo, dalla figlia Mary, tre giorni dopo. Nel 1958 il Nobel per la letteratura più contestato e politicamente velenoso della storia viene assegnato a Boris Pasternak. Pound sarà proposto al Nobel dall’anno successivo, senza accesso al trono. Come si sa, dopo pressioni di ogni sorta, l’espulsione dall’Unione degli scrittori e la minaccia che non gli sarebbe stato concesso di tornare in patria se si fosse recato in Svezia a ritirare il premio, Pasternak rifiuta il Nobel. “Si direbbe che il suo individualismo abbia deciso di seppellire il comunismo sul posto”, ha scritto, commentando l’alto rifiuto di Pasternak, Armand Robin, il suo traduttore francese. Pasternak muore nel 1960. L’anno dopo muore Ernest Hemingway, intimo amico di Pound. La sua morte, agli occhi di Pound, è la morte definitiva del mondo che conosce, di un mondo di intenzioni artistiche, di energie liriche, di idoli e di dèi. “Fu un colpo tremendo… L’aveva sognato prima di ricevere la notizia”, ricorda la figlia Mary. Sabato prossimo, il 2 febbraio, a Domodossola, alle ore 18, presso la Società Operaia di Domodossola (vicolo Teatro, 1), accadrà l’incontro “Pound vs. Pasternak: una sfida tra giganti della letteratura”. Alessandro Rivali parlerà di Pound a partire da Ho cercato di scrivere Paradiso (Mondadori, 2018), la lunga intervista a Mary de Rachewiltz, la figlia di EP, mentre io farò le parti di Pasternak, discutendo di Un alfabeto nella neve (Castelvecchi, 2018). Per aizzare la sfida, io e Alessandro abbiamo impilato dieci ragioni per leggere Pound e Pasternak (ne basterebbe una, invero: sono fondamentali per vivere in modo completo; non ne basterebbero un migliaio). Fate la vostra scelta. (d.b.)
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10 motivi per leggere Ezra Pound
1. Perché, come ricorda la figlia Mary, “ha dato all’America, e in un certo senso al mondo, un’epica che equivale alla Divina Commedia… l’epica necessaria per il futuro”.
2. Perché negli ultimi frammenti prima di morire ha scritto: “Ho provato a scrivere il Paradiso / Non ti muovere, / lascia parlare il vento / così è Paradiso // Lascia che gli Dei perdonino quel che / ho costruito / Chi ho amato cerchi di perdonare / quello che ho costruito” (Drafts and Fragments).
3. Perché ha ricordato a tutti i poeti presenti e futuri che “la bellezza è difficile”.
4. Perché senza di lui Hemingway non sarebbe stato Hemingway. Senza di lui la Terra desolata non sarebbe stata la Terra desolata. Senza di lui, non avremmo avuto l’Ulysses di Joyce.
5. Perché in Catai ha scritto con il vento docile dell’Oriente: “Montagne azzurre a nord della muraglia, / Orlate da un bianco fiume; / Qui ci dobbiamo separare / e incamminarci per mille miglia d’erba morta. / La mente, come una gran nube veleggiante, / Tramonto, come vecchi amici che si lasciano / Inchinandosi, su mani congiunte, a distanza. / L’uno all’altro nitriscono i cavalli / Mente ci distacchiamo” (“Commiato da un amico”).
6. Perché nei Cantos ha raccontato senza sconti l’inferno della Prima guerra mondiale: “I saccarinosi, stesi in glucosio, / i pomposi in ovatta / in un puzzo di grassi a Grasse, / il grand’ano scabroso scacazza mosche, tuona imperialismo, / latrina, cesso, pisciatoio, senza cloaca” (Canto XV).
7. Perché fu profeta nel descrivere l’orrore del capitalismo selvaggio: “Con usura nessuno ha una solida casa / di pietra squadrata e liscia / per istoriarne la facciata, / con usura / non v’è chiesa con affreschi di paradiso / harpes et luz / e l’Annunciazione dell’Angelo / con le aureole sbalzate / […] Peggio della peste è l’usura, spunta / l’ago in mano alle fanciulle / e confonde chi fila. Pietro Lombardo / non si fe’ con usura / Duccio non si fe’ con usura / nè Piero della Francesca o Zuan Bellini / nè fu “La Calunnia” dipinta con usura…” (Canto XLV).
8. Perché, seguendo Confucio, insegnava che è essenziale impiegare la terminologia esatta: “Fan Tchi chiese a Kung il Maestro (cioè Confucio) insegnamenti sull’agricoltura. il Maestro disse: ne so meno di un qualsiasi vecchio contadino. Diede la stessa risposta per il giardinaggio: un vecchio giardiniere ne sa più di me. Tseu-Lou chiese: se il Principe di Mei ti nominasse Capo del Governo, quale sarebbe la prima cosa che faresti? Kung: chiamare persone e cose con i loro nomi, cioè con le giuste denominazioni, perché la terminologia fosse esatta” (Guida alla Cultura).
9. Perché continuò a scrivere il suo Poema nella gabbia di Pisa accecato dal sole o dei riflettori: “E la carità più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole” (Canto LXXIX); “Come è lieve il vento sotto Taishan / sa di mare / ci toglie all’inferno, alla fossa / alla polvere e alla luce accecante” (Canto LXXIX); “Deponi la tua vanità / Sei cane bastonato sotto la grandine / Tronfia gazza nel sole delirante, / Mezzo nero mezzo bianco / tu non distingui fra ala e coda / Giù la tua vanità / Spregevole è il tuo odio” […] “Ma aver fatto piuttosto che non fare / questa non è vanità […] Aver colto dall’aria una tradizione viva / o da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma / Questa non è vanità” (Canto LXXXI)
10. Perché ha scritto questi versi che adoro: “Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce azzurra sotto le stelle” (Canto CXIII).
Alessandro Rivali
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10 motivi per leggere Boris Pasternak
1. Perché quando l’Unione degli scrittori, in seguito alla pubblicazione clandestina del Dottor Zivago e alla conseguente assegnazione del Nobel per la letteratura lo espelle per “tradimento nei confronti del popolo sovietico”, il poeta risponde così: “Non mi aspetto giustizia da voi. Mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete. Vi perdono in anticipo”. Il perdono come carisma lirico.
2. Perché nel 1932 scrive un poema d’altezza siderea, Le onde – che va ascoltato nell’interpretazione di Carmelo Bene – dove sono incastonati questi versi, miliari: “Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti/ tali tratti di naturalezza/ che non si può, dopo averli conosciuti,/ non finire con una metamorfosi completa.// Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi/ e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno/ non si può non incorrere, infine, come in un’eresia/ in un’incredibile semplicità”.
3. Perché è il poeta decisivo del Novecento: pur all’interno di una tradizione poetica precisa, senza simulare allarmate avanguardie, l’ha scassinata, con un linguaggio cifrato, allusivo, selvaggio (leggete Mia sorella la vita); perché aveva doti da sciamano del linguaggio, fino a intimorire Stalin; perché è sopravvissuto all’orda del ‘realismo socialista’, all’epoca che ha ucciso i suoi poeti, e li ha visti morire, uno per uno – Esenin, Majakovskij, Mandel’stam, Cvetaeva… – con i suoi occhi intrisi nella pietà e nel diamante.
4. Perché sapeva obbedire alla grandezza, sapeva riconoscerne il celeste e il celestiale. In particolare, tenne sempre in adorazione Rainer Maria Rilke: “Ho sempre pensato che nelle mie personali esperienze, in tutta la mia arte, io non ho fatto altro che tradurre e variare i suoi motivi, senza nulla aggiungere al suo mondo e muovendomi sempre nella sua scia” (da una lettera a Michel Aucouturier, 19 marzo 1959). Quando muore, nel 1960, all’interno del suo portafogli è trovato un piccolo cartiglio firmato da Rilke, scritto diversi lustri prima, in cui Rainer si complimenta con il poeta russo dopo aver letto alcuni suoi versi.
5. Per come lo ha cantato Anna Achmatova, in una lirica del 1936, Il poeta, in cui descrive Pasternak così: “ha avuto in premio un’eterna fanciullezza,/ la perspicacia magnanima degli astri;/ la terra tutta è stata suo appannaggio,/ ed egli l’ha divisa con tutti”.
6. Perché a Parigi, era la prima estate del 1935, costretto a forza dal governo sovietico a partecipare a quel vile Congresso degli scrittori “per la difesa della cultura”, poco prima d’incontrare, intontito dall’insonnia, Marina Cvetaeva, ha dato la più bella, umile, ariosa descrizione di cos’è la poesia: “La poesia rimarrà sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo, essere dotato del dono sublime del linguaggio razionale, di maniera che, quanto più ci sarà felicità a questo mondo, tanto più sarà facile essere artisti”.
7. Per come lo ha descritto Marina Cvetaeva, in una lettera del 10 febbraio del 1923 – il giorno del compleanno di Pasternak, secondo il calendario gregoriano: “Siete il primo poeta che – in tutta la mia vita – vedo. Siete il primo poeta nel cui domani credo come nel mio. Siete il primo poeta le cui poesie sono più piccole del loro autore, anche se più grandi di tutte le altre… Su nessuno ho visto il marchio da ergastolano del poeta. Etichette di versificatori ne ho viste molte – e di ogni tipo. Vivevano e scrivevano poesie (le due cose – separatamente) ignorando l’ossessione della scrittura, lo spreco di se stessi, accumulando tutto nei loro versetti – e non vivevano: si arricchivano… Voi, Pasternak, in assoluta purezza di cuore, siete il primo poeta della mia vita”.
8. Per come lui, nel 1930, ha descritto il suicidio di Vladimir Majakovskij, con un distico che è una pallottola conficcata sul cranio della Rivoluzione: “Il tuo sparo fu come un’Etna/ in un pianoro di codardi”.
9. Per la cura con cui lo ha tradotto Angelo Maria Ripellino – in un Paese editorialmente inerme come il nostro, dove, paradosso, esiste un ‘Meridiano’ Mondadori delle Opere narrative di Pasternak ma manca l’opera omnia poetica di uno dei lirici più autorevoli e influenti del millennio – e per le parole con cui ne ha cinto il talento: “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… e negli anni tumultuosi della rivoluzione si tenne ancora in disparte, diffidando dei temi politici e di quella poesia tribunizia in cui s’era invece tuffato Majakovskij con tutta l’anima. […] Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”.
10. Perché è il poeta della vita, della gioia, del rischio della poesia che mette tutto in discussione, tanto che in una delle ultime lettere, a Nina Tabidze, sorpassa se stesso, si annienta, si proietta verso una ulteriore zona innocente e vergine dell’arte, con sovrumana compassione: “Zivago è un passo molto importante, una grande felicità e un successo quali neppure mi ero sognato. Ma ciò è fatto, e, assieme al periodo che questo esprime più di tutto ciò che è stato scritto da altri, questo libro e il suo autore si ritirano nel passato, e di fronte a me, ancora vivo, si libera uno spazio, la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite da questa comprensione”.
Davide Brullo
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