#Legge Casati
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“Tornando a B., gli manca l’organo della vita intellettuale, etica, estetica. In compenso ha un apparato percettivo e motorio adatto alla caccia: animale monstre, del genere caimano o squalo, diversamente dai quali allarga le ganasce nel riso, scherza, parla come le fontane buttano acqua, suona, balla; e l’ascendente ilare moltiplica le prede. Laurea tardiva in legge, imprese edili, bilanci opachi, girandole societarie, affari via via più grossi. Viene su a coups de main. Uno è l’acquisto della principesca villa d’Arcore dall’unica erede Casati Stampa: costa poco, quasi niente; mediava la compravendita un avvocato, già protutore dell’alienante, sulla cui testa peseranno condanne penali perché gli compra favori giudiziari (così sedici anni dopo, diventa editore dominante, padrone della Mondadori); e lì, a Villa San Martino, s’insedia uno pseudostalliere, boss mafioso, restandovi due anni. Sta a pennello nella P2. Sinora era storia d’ordinario affarismo. Quando la Consulta schiude l’etere ai privati abolendo il monopolio statale, irrompe e divora i concorrenti. L’arma è una gestione stregonesca: soap-opere, vaudeville sguaiato, lotterie, giochi, un allegro mondo finto dove la fortuna sta dietro l’angolo; niente che affatichi i neuroni, lasciamoli dormire (la Rai manda in onda Omero, Flaubert, Tolstoj o simili barbose pappolate); così cattura l’audience e rastrella pubblicità. La Corte postulava dei limiti. Come non detto, e quando dei pretori tentano d’imporli, gli presta man forte Bettino Craxi, presidente del Consiglio dettando scandalosi decreti. L’operazione costa un occhio ma ne valeva due. Giulio Andreotti vara una legge Mammì che lo consacra duopolista: cinque ministri democristiani tentavano d’impedire l’abuso dimettendosi, impassibile, li sostituisce d’un colpo. La cadente Repubblica era corrotta nelle midolla: gliele mangiavano consorterie fameliche, quindi odiose agl’imprenditori; un’inchiesta penale innesca la spirale; e finiscono travolte. Nel vuoto entra lui, fingendosi uomo nuovo in polemica col professionismo politico parassitario del quale è figlio: gl’ignari lo vedono liberal-liberista, pragmatico, semplificatore; accorrono dei chierici delusi dal vecchio establishment. Vari segni destano sospetti: ad esempio, l’inno, talmente volgare da non attecchire; quel sorriso digrignato ha l’aspetto fisso delle maschere; l’Ego gli cade da ogni parte. Vinta la partita elettorale, figura male al governo, com’era prevedibile. Gli mancano qualità organiche: la cura degl’interessi altrui in prospettive lunghe implica distacco dall’Io; lui vi sta avviluppato, un pitone nelle spire; era affarista da preda, tale rimane, insofferente d’ogni regola. Non è il suo mestiere: dura solo sei mesi ma disponendo d’un ordigno formidabile, l’adopera senza scrupoli, sul presupposto che lo spettatore medio, frollato al punto giusto, abbia l’età mentale d’undici anni, e dipenda solo dallo stregone abbassarla ancora; dopo sedici mesi d’interregno, raccoglie più voti del cartello avversario, perdendo nei Collegi uninominali. Sul campo è l’antipode del capitalista weberiano. Imprenditore? No, impresario d’una lobectomia collettiva e scorridore d’affari: pratica ridendo menzogna sistematica, fraudolenta quando occorre, arte del corrompere, plagio spietato; predatore-barzellettiere dai riflessi infallibili, non patisce fisime inibitorie né perde tempo in fatiche mentali; nel suo genere combina mirabilia. Qui viene utile la scienza del viso: il catalogo medievale degl’indizi include soprannomi e mala physiognomia; le icone berlusconiane, meticolosamente curate dagli addetti, dicono tutto”. Così , su #Berlusconi, Franco Cordero (quanto ci manca oggi), ricordato e riproposto da Duccio Facchini e @altreconomia
via @tomasomontanari
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Ordinamenti di giustizia
La grande rivoluzione delle Arti Minori e del popolo minuto Le Arti e i mestieri. Gli Ordinamenti di Giustizia, provvedimenti legislativi che avrebbero estromesso dal potere politico i magnati e il popolo grasso e le Arti Maggiori, vennero emessi nell’autunno del 1292. Nel decennio precedente la politica cittadina era in mano a queste fazioni. Fra i magnati si annoveravano cittadini di origini nobili inurbati nella città. Mentre il popolo grasso era composto da mercanti o imprenditori appartenenti alle Arti Maggiori, in contrapposizione al popolo minuto formato dai lavoratori delle Arti Minori o dalla piccola borghesia, e il popolo magro consistente nel proletariato, da braccianti e operai salariati.
Comunque, non tutti i nobili, figuravano negli elenchi dei casati magnatizi, fatti nel momento, in cui si acuì il contrasto fra popolani e magnati. Quando nell’autunno del 1292, sotto la spinta innovatrice di Giano della Bella di Tedaldo di Accorri famiglia magnatizia, appartenenti al ceppo degli Scolari, si scontrò fisicamente con Berto Frescobaldi, il più facinoroso fra i magnati, durante un consiglio tenuto in San Pier Scheraggio. Questo scontro dette la prova definitiva sulla posizione di Giano, schieratosi apertamente per il popolo magro, Riuscì a farsi eleggere Priore ai primi di dicembre di quell’anno, nella Signoria entrata in carica il 15 dello stesso mese, dando la spinta ai giuristi a stilare gli Ordinamenti. L’organo collegiale era formato da persone di diversa estrazione sociale, ma senza esperienza giuridica. Venne pertanto formata una commissione di giuristi: Messer Alberto di Donato Ristori, Messer Ubertino degli Strozzi e Messer Baldo di Aguglione, con l’incarico di preparare al più presto la nuova legge anti-magnatizia.
Dopo 7 giorni di lavoro vide la luce. Nei giorni 17 e 18 gennaio 1293, venne presentata ai vari Consigli e nelle Consulte il 10 gennaio 1293 (seguendo tutta la trafila prevista dagli statuti) approvata a larga maggioranza divenendo legge formale del Comune. Viene concessa ai Priori seduti la balia (potere eccezionale al difuori degli Statuti). La volontà del legislatore vuole assicurare la conservazione dei nuovi provvedimenti inseriti nella legge. È deciso la non abolizione, non dovessero essere mitigate le norme e per conservarle sono inseriti nello Statuto comunale. Per distinguerli dagli altri Ordinamenti, viene aggiunto un attributo, a garantirne la validità perpetua, chiamandoli definitivamente: “Ordinamenti di Giustizia” I magnati tolti per sempre dalle leve di comando della città cercarono di rivolgere la situazione a loro favore, ma gli andò male e per marcare la loro contrarietà per essere stati messi fuori dai poteri li chiamarono “Ordinamenti di Nequizia”. In altre città d'Italia vengono emanati altri ordinamenti per difendere il popolo minuto dai soprusi dei magnati. A Bologna, vennero chiamati: Ordinamenti Sacrati o Sacratissimi, per indicarne la immutabilità. I nuovi “ordinamenti di Giustizia”, approvati nel periodo autunnale del 1292, furono approvati e entrati in vigore nell’inverno primavera del 1293, sotto spinta dei moti di piazza organizzati dalle Arti Minori e il popolo magro, e non dalle Magistrature del Comune, e dagli stessi Organi politici che si erano prestati a sostenere l’oligarchia dei Magnati, le Arti Maggiori e il popolo grasso. Ora quello che interessava al popolo ora al potere, era l’ingresso di persone di diversa estrazione sociale, e che non avessero avuto contatti con chi era stato al potere fino a quel momento.
Alberto Chiarugi Read the full article
#AlbertoChiarugi#arti#Artimaggiori#artiminori#Firenze#GianodellaBella#giustizia#mestieri#Ordinamenti
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Videopillola: Legge Boncompagni, Legge Casati, Legge Coppino e Riforma G...
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Gli anni della semina: da Pietrarsa al «Patto di solidarietà tra gli operai di Napoli» Non è un caso che la strage di Pietrarsa si verifichi poco meno di un anno dopo i fatti dell’Aspromonte e il ferimento di Garibaldi, che durante la sua breve «dittatura» aveva consentito la nascita delle prime associazioni operaie; un peso in quegli eventi tragici, del resto, ce l’ha anche l’estensione della Legge Casati al neonato Regno d’Italia; nonostante i suoi forti limiti, infatti, essa costituisce un primo e sia pur debole tentativo di alfabetizzazione di massa.
#Antonio Giustiniani#Aspromonte#Bakunin#Carlo Gambuzzi#Ferdinando Colagrande#Gaetano Balsamo#Garibaldi#Giacomo Reginella#Legge Casati#Legge Pica#Luigi Felicò#Pietrarsa#Tommaso Schettino
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storie semplicemente diaboliche
Doppia negazione
Lui Stavo riguardando questi bellissimi disegni di Saul Steimberg. Hai presente? La serie Ombre e immagini riflesse. Prendi questo: c'è un fulmine che si rispecchia nell'acqua. Siccome il fulmine è a zigzag, e i riflessi in uno specchio d'acqua sono a loro volta a zigzag, il riflesso tremolante del fulmine cancella il tremolio e ci restituisce un improbabile fulmine dritto. Anche l'abete si riflette in un cono dai lati rettilinei. Come dire: il zigzag dell'oggetto e quello del riflesso si annullano a vicenda, come in una doppia negazione (mentre l'asta della bandiera, che è perfettamente dritta, si riflette in un zigzag). Non lo trovi straordinario? Lei
Lei Si, Steimberg era un maestro in queste cose. E non mancano le imitazioni. La copertina di Rapture of the Deep, l'album dei Deep Purple, ha un disegno di questo tipo.
Lui L'idea che i riflessi obbediscano alla legge della doppia negazione è interessante. Anche uno specchio piano funziona così. Le immagini che ci restituisce sono invertite, ma se guardi il loro riflesso in un altro specchio, si invertono nuovamente e tornano come nell'originale.
Lei E quello che vale per le immagini vale per i suoni. Prendi un disco di Maurizio Maestrini, il pianista umbro noto per eseguire celebri brani musicali al contrario, leggendo lo spartito dall'ultima nota alla prima. Se suoni a ritroso la sua incisione di Per Elisa (per esempio) ottieni una una versione normale.
Lui Beh, non proprio. Ci sono delle sfumature dell'originale che si perdono nella sua versione a ritroso, come ci sono sfumature che appartengono solo a quella, e quando inverti nuovamente queste differenze si sentono.
Lei Hai ragione. Ma è così anche con il linguaggio, no? A rigor di termini una doppia negazione non è uguale all'originale; è equivalente. C'è pur sempre una differenza tra "E' possibile" e "Non è impossibile": una differenza sintattica, ancorché nulla sul piano semantico.
Lui E non sempre una doppia negazione è equivalente all'originale. C'è una vera e propria differenza di significato tra "Sono d'accordo" e "Non è che non sia d'accordo".
Lei Per non parlare di quei casi dove la doppia negazione equivale a una negazione semplice, come in "Non parli mai" (che non significa certo che a volte parli) o "Non ho fatto nulla" (che non equivale certo a confessare di aver fatto qualcosa).
Lui Quelle non sono doppie negazioni: sono negazioni doppie, cioè doppiamente forti, come un doppio whiskey o una birra al doppio malto.
Lei In certi casi si può anche triplicare: "Non compro mai nulla".
Lui O quadruplicare "Non mi dice mai niente nessuno".
Lei Che è equivalente a "Nessuno mi dice mai niente".
Lui Ovvero "Non c'è una singola persona che mi dica qualcosa".
Lei Queste cose sono complicate. Mi verrebbe da dire che in un lago, o in uno specchio, i riflessi sono un'operazione puramente semantica. Quando parli invece fai sempre delle cose con le parole, e non puoi ignorare questo fatto. Il che è diverso dal non far finta di non ignorarlo!
Casati-Varzi (100 nuove storie filosofiche)
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9 Gennaio 1853 Anna Kuliscioff
Anna Kuliscioff nasce in Crimea, nel 1854. Nel 1871 si trasferì a Zurigo per proseguire gli studi di filosofia, poiché in Russia le donne non potevano frequentare l’università. Qui iniziò a maturare la sua coscienza politica.
Nel 1873, fu ordinato agli studenti russi di abbandonare l’università di Zurigo, pena la non ammissione agli esami in Russia. Rientrata, milita nel movimento rivoluzionario russo, periodo in cui la Kuliscioff, come reazione al dispotismo zarista, si convince della necessità dell’uso della violenza nella lotta politica. Aderisce alla cosiddetta “andata verso il popolo”, un movimento politico di massa, iniziato in Russia nel 1873, che raggiunse il culmine nell’estate del 1874, quando fu represso dal regime zarista. Migliaia di studenti lasciarono le città e si trasferirono nei villaggi per vivere a contatto dei contadini e portare la causa rivoluzionaria tra il popolo. Nel 1877 fu costretta a tornare in Svizzera, in seguito appunto alla repressione zarista e all’ondata di arresti che ne scaturirono. Tra il 1873 ed il 1877 ci furono almeno 1600 persone processate di cui 924 carcerati e carcerate o esiliati. Poi dalla Svizzera si trasferisce in Francia; nel 1878 viene arrestata ed espulsa. Da qui il trasferimento in Italia, dove proseguirà la sua attività rivoluzionaria, studiando e aderendo definitivamente al marxismo e militando nel movimento per l’emancipazione delle donne. Anche in Italia, dove venne etichettata come terrorista, subirà vari processi, arresti ed espulsioni.
Dal 1881 passa un periodo di isolamento, anche politico, quando si separa dal compagno Andrea Costa, di cui Anna non poteva condividere la mentalità maschilista, che, soprattutto dopo la nascita della figlia, la voleva relegata alla vita familiare. In questo periodo di isolamento, dovuto anche alla tubercolosi contratta nel carcere di Firenze, si iscrive alla facoltà di medicina in Svizzera, studiando in maniera accanita la sua malattia.
Nel 1888 Anna si laurea in ginecologia a Torino e con la sua tesi scopre l’origine batterica delle febbri puerperali, aprendo la strada per la salvezza di milioni di donne dalla morte post partum. Trasferitasi poi a Milano comincia la sua attività di “dottora dei poveri”, come la definivano i milanesi. Nello stesso tempo, nell’89, fonda con Turati e Lazzari, la Lega Socialista Milanese, per l’affermazione dell’autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese. Entra in contatto con le principali esponenti del femminismo milanese, Anna Maria Mozzoni, Paolina Schiff e Norma Casati, che nel 1882 avevano formato la Lega per gli interessi femminili. Da qui in avanti l’impegno di Anna Kuliscioff nella questione femminile.
Nel ‘90, studia e sviluppa il tema del rapporto uomo-donna, portandolo al circolo filosofico di Milano, riscuotendo numerosi consensi soprattutto da parte delle donne. Secondo la Kuliscioff, solo il lavoro sociale ed egualmente retribuito, potrà portare la donna alla conquista della libertà, mentre il matrimonio non fa che umiliarla e a toglierle l’indipendenza. «Non farò, tuttavia, una requisitoria – così esordisce la Kuliscioff al convegno milanese -. Non è una condanna ad ogni costo dell’altro sesso che le donne domandano; esse aspirano anzi ad ottenere la cooperazione cosciente ed attiva degli uomini migliori, di quanti, essendosi emancipati, almeno in parte, dai sentimenti basati sulla consuetudine, sui pregiudizi e soprattutto sull’egoismo maschile, sono già disposti a riconoscere i giusti motivi che le donne hanno di occupare nella vita un posto degno per averne conquistato il diritto».
Anna Kuliscioff sottolinea che sarebbe semplicistico attribuire la causa della condizione della donna all’egoismo e alla prepotenza maschile. È una condizione complicata e subdola, perché il passare del tempo e l’evoluzione intellettuale e morale dell’uomo ha “trasformato” l’antica condizione di schiavitù della donna ma non l’ha abolita.
Nel 1898, la polizia irrompe a casa di Anna Kuliscioff e Filippo Turati, che era anche la sede e redazione della rivista Critica Sociale, e viene arrestata, in seguito alla repressione per le sommosse dei moti di Milano del 1898, per “aver concertato o stabilito di mutare violentemente la costituzione dello stato, istigando la popolazione alla violenza”. Anna fu condannata a 2 anni di reclusione in carcere. Uscita mette appunto la legge sulla tutela del lavoro minorile e femminile, che viene portata ed approvata in parlamento. Nel 1908 decide di dedicarsi alla lotta per il suffragio femminile, tema su cui aveva avuto dei dubbi, interrogandosi sul valore del voto nella lotta per l’emancipazione della donna. Nel 1911 con il contributo della Kuliscioff nasce il comitato socialista per il suffragio femminile. Ma l’anno successivo il governo Giolitti dice no alle donne, concedendo il voto a tutti i maschi, anche analfabeti, adducendo poi l’analfabetismo femminile come causa della loro esclusione dal voto. Un duro colpo a cui Anna risponde fondando la rivista bimestrale «La Difesa delle Lavoratrici», che dirigerà per due anni. Nel 1914, dopo lo scoppio della guerra, le divergenze politiche con la redazione porteranno Anna Kuliscioff a ritirarsi dall’iniziativa editoriale, sulla quale, però, continuerà sempre a pesare con il suo giudizio. Dopo la fine della guerra e l’avvento del fascismo, la rivista non ebbe vita facile. Chiuse nel 1925, anno della morte di Anna Kuliscioff. Proprio mentre il fascismo si affermava lei si spense. Al suo funerale alcuni fascisti si scagliarono contro le carrozze strappando bandiere, drappi e corone.
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Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills
Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills
La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici. L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi…
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#Competenze non cognitive#competenze trasversali#comunità educante#life skills#mercato#Non cognitive skills#soft skills
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Disobbedienze civili per giovani liquidi
Nella sua rubrica “Teatro delle idee” che si legge sempre con profitto nel mensile della Gilda, uno dei sindacati della scuola (Professione docente, XXVIII, 5: novembre 2018), Roberto Casati, logico di chiara fama e studioso dei processi cognitivi, ricorda la bella figura del filosofo e scrittore americano Henry David Thoreau, l’autore del superbo Walden o la vita nei boschi (1854). Sono sicuro che se raccontassi la trama dell’opera autobiografica, persino a Carletto si drizzerebbero le antenne e mi chiederebbe: “Prof! Ci hanno fatto un film?”. Sì, Carletto, hai ragione! La trama è la stessa di Into the wild, film celebre e molto apprezzato dai ragazzi dell’ultimo decennio (il film uscì nel 2006). Con una abissale distanza tra gli esiti delle vite nella società dei consumi e quella ottocentesca di Thoreau. I giovani non sono più quelli dell’età del romanticismo, ma che adolescente sei se almeno una volta non hai fantasticato di andartene di casa e di lasciar perdere le tue tracce?
Casati però usa, come pretesto, il Thoreau di un libretto scritto pochi anni prima: Civil disobedience (1849) dove si teorizza il valore morale della disobbedienza su basi autenticamente morali. Leggerlo aiuta a comprendere quanto diversa sia la dimensione psicologica del disobbedire da quella del capriccio. Il capriccio non ha nulla a che fare con la libertà e Le avventure di Pinocchio dovrebbe avercelo insegnato. Ma saranno stati affascinati dalle peripezie del burattino di legno i giovani della “generazione liquida”? Lo avranno letto nell’età postpuberale. Ne dubito. Nell’articolo citato Casati dà alcuni spunti di quella che potrebbe essere nel nostro piccolo la disobbedienza civile oggi, nell’età della integrazione, del conformismo di massa, del totalitarismo contemporaneo. Ne scelgo una: “ridurre al minimo la spesa su Internet, di libri come di generi alimentari; andare magari a fare due chiacchiere con i librai del quartiere, farsi consigliare un libro, proporre loro di creare un gruppo di lettura”. Ma non è una perdita di tempo? Obietterebbe Maria Luigia. Lei me l’ha detto chiaro in una delle nostre animate conversazioni di ”materia alternativa” del giovedì: ne ha poco. Invano ho provato a spiegarle come la cosa più utile nell’età, che precede il cosiddetto ‘ingresso nella società’ sia proprio quella di perderlo il tempo. Proficuamente, s’intende. Ma tutto congiura nella direzione contraria. La sfera economica è la nostra sovrana assoluta. Non perder tempo, giovanotto, dicono le Università private e pubbliche: è tempo di scegliere! E la scuola è diventata, con il pretesto dell’orientamento in uscita, il megafono per una sarabanda demenziale di incontri, di informazioni, di percorsi a cui è d’obbligo partecipare. Lì ci sarà sempre un imbecille pronto a garantirti come sarà il futuro e aiutandoti, s’intende disinteressatamente, a fare la “scelta giusta”. Così la scuola che, per sua natura, almeno nella concezione progressista (democrazia ed educazione, spiega John Dewey, non possono che essere un binomio inscindibile), aiutando il formarsi del pensiero critico, si allinea al pensiero dominante della efficienza, della rapidità, di quella parola oscena che suona spendibilità.
Ma tornando al punto: continueranno a chiudere le piccole librerie? E’ verosimile credere che saremo nel prossimo futuro sempre più chiusi nelle case e nei luoghi di lavoro a ordinare sul web prodotti alimentari e consumi culturali? Chissà!
Intanto la mia giovane giornalaia, l’unica edicola del “Villaggio Olimpico”, mi dà per certo che tra dieci anni non ci saranno più i giornali di carta. Sob! Niente due chiacchiere con l’edicolante. E’ una esperienza che un quindicenne di oggi non ha mai fatto. Cosa vi siete persi…! “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”.
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Chiassi chiassuoli e vicoli di Firenze.
Chiasso Altoviti particolare. Chiasso, se cercato nel dizionario degli Accademici della Crusca, indica un viuzza stretta, dal latino viculus, angiportus; chiassuolo e chiassolino ne sono i diminutivi. Seguono gli esempi e le diverse accezioni relative agli usi del termine tra cui bordello o nell’espressione “andar per chiasso”, recarsi nelle case delle meretrici cui si aggiungono altri utilizzi quali burla e rumore. In altri dizionari si legge strada stretta, breve, sudicia e mal frequentata. Vicolo, chiasso e chiassuolo sono quindi sinonimi, ma nell’accezione fiorentina il chiasso era considerato meno “importante” del vicolo. Nati in età medievale andarono a infiltrarsi nell’ordinato reticolo della città romana con il loro percorso tortuoso. In una raccolta dei sonetti e delle rime di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, il curatore della raccolta spiega in nota il significato da attribuire all’espressione utilizzata dal poeta Vedi, ch’egli è come pisciar ‘n un chiasso. Chiasso e chiassuolo si dice a certi viuzzi stretti della città i quali sono per ordinario ricettacolo d’ogni immondezza, per cui s’intende fare un’ignominia… A Firenze ce ne sono ancora tanti tra le vie del centro, altri sono chiusi da cancelli ed altri ancora, ad opera delle demolizioni di fine Ottocento, sono del tutto scomparsi.
Chiasso Altoviti dal Lungarno Acciaioli Tra quelli ancora da attraversare: il chiasso degli Altoviti e quello dei Borgherini. Il primo va dal Lungarno degli Acciaioli a Borgo Santissimi Apostoli ed è lungo circa 40 metri e diritto, poco più avanti sul Lungarno gli corre parallelo, ma molto più breve, quello dei Borgherini che si apre sulla piazza del Limbo. Entrambi presero il nome dagli antichi e rispettivi casati. Il chiasso degli Altoviti si chiamava precedentemente della Vergine Maria nome che fu cambiato nell’attuale proprio perchè venne ad essere inglobato tra i fabbricati e i palazzi presso l’Arno e in Borgo SS. Apostoli di proprietà dell’antica famiglia di stirpe longobarda stabilitasi a Firenze nel XII secolo. L’interno del chiasso si presenta con la struttura caratteristica: la strada scorre stretta tra due pareti di caseggiati con sporti aggettanti che lo chiudono in alto ma non per tutta la lunghezza e con finestre che vi si affacciano.
Il cinquecentesco palazzo Borgherini da piazza del Limbo.
Chiasso Borgherini da piazza del Limbo.
Palazzo Borgherini particolare. Diversa la struttura del chiasso Borgherini che si apre sul Lungarno con tre sporti che lo coprono quasi fino allo slargo in piazza del Limbo. Originaria di Cerreto Guidi anche la casata dei Borgherini costruì i propri palazzi in Borgo SS. Apostoli. Il loro cinquecentesco fabbricato, oggi Rosselli del Turco, fu costruito da Baccio d’Agnolo tra Borgo Santissimi Apostoli e piazza del Limbo cui successivamente fu aggiunto un giardino dalla cui fioritura prese il nome l’attigua via del Fiordaliso o fleur de lis, fior di giglio.
Via del Fiordaliso attigua al giardino di palazzo Borgherini oggi del Turco. Non lontano il Chiasso del Buco che si articola, quello superstite alle distruzioni e ricostruzioni del dopoguerra, in due tronconi: uno da via Lambertesca si apre in piazza dei Salterelli e l’altro da piazza dei Salterelli al Chiasso dei Baroncelli. L’origine antica del nome sembra derivi da un’osteria alla quale si accedeva scendendo in “buca”. Si tramanda che vari personaggi famosi del loro tempo furono avventori in allegre brigate: Il Magnifico Lorenzo, che insieme al Fico e alle Bertucce lo cita nei suoi versi, lo Anton Francesco Grazzini e Michelangelo e Marsilio Ficino, solo per citarne alcuni. .
Piazza dei Salterelli dove il chiasso del Buco continua sulla destra.
Un altro pezzo del chiasso del Buco da via Lambertesca. Il vicolo del Panico è tra quelli chiusi, perché delimitati da un cancello. Si tratta di un vicolo senza sfondo al quale si accede da via Pellicceria. Il nome attuale risale all’Ottocento ma ebbe vari nomi prevalentemente presi in “prestito” da altre vie, un uso comune anche per strade di maggiore importanza. In ordine di tempo si chiamò: Vicolo di Capaccio, Vicolo dei Davanzati e quindi Vicolo del Panico. . . .
Vicolo del Panico, tabernacolo.
Vicolo del Panico da via Pellicceria. Il termine Capaccio, toponimo ancora oggi di una strada nei pressi, era dovuto, come scrisse il Villani, al caput aquae ovvero al serbatoio che raccoglieva l’acqua dell’acquedotto romano che approvvigionava la città dal Monte Morello e che il volgare aveva trasformato stravolgendone l’etimo. Vicolo Davanzati derivava invece da un altro che si trovava nei pressi di quella che sarebbe diventata piazza Davanzati. Anche l’attuale nome appartiene ad un altro che la toponomastica fiorentina chiama per distinguerlo Vicolo Vecchio del Panico chiuso anch’esso da due cancelli. La toponomastica racconta la sua storia legata ai nomi di illustri e ricche casate o a strutture un tempo esistenti o a elementi naturali del territorio o a luoghi di ritrovo come l’antica osteria dalla quale si fa derivare il nome del Vicolo Vecchio del Panico: forse perché attirava avventori come questo cereale gli uccelli?
Vicolo Vecchio del Panico da Via del Corso. Nel Vicolo si può accedere da via del Corso per ritrovarsi in via Dante Alighieri: due cancelli ne delimitano l’accesso in entrata e in uscita. In Via del Corso l’accesso è contrassegnato in alto da un tabernacolo che raffigura la Madonna con il Bambino. Il Vicolo Vecchio del Panico vanta anche un nomignolo con il quale i fiorentini ricordavano le vecchie lotte intestine tra famiglie, antichi fatti accaduti, ma dei quali si rischia di perdere traccia come di queste viuzze. Read the full article
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Altro che “stucchevoli pastorelle” e “oneste galline della letteratura popolare”: i romanzi rosa sono bellissimi. Qualche esempio
“Sono solo romanzetti”: così viene per lo più, sbrigativamente, liquidata la letteratura rosa. E invece no: Patrizia Viola, con la Breve storia della letteratura rosa (Graphe.it, 2020), ci fa scoprire tutta la complessità di un genere considerato di serie B, quando non di serie Z. Ma il romanzo rosa (che solo in Italia si chiama così) non è un sottoprodotto editoriale; anzi, molto probabilmente anche chi storce il naso almeno un romanzo rosa l’ha letto, e per giunta di un autore tutt’altro che oscuro: Pamela, o la virtù premiata, pubblicato nel 1740 con enorme successo, è quello che, storicamente, viene riconosciuto come il prototipo di questo genere. L’autore, Samuel Richardson, prima di diventare famoso era un tipografo con un talento per la scrittura di missive: ragion per cui due amici librai, dice la leggenda, gli chiesero di scriverne una serie per un volume intitolato Lettere familiari, una sorta di manuale pratico di comunicazione domestica. Alla centotrentanovesima lettera, intitolata Un padre alla figlia che è a servizio, avendo saputo che il padrone ha attentato alla sua virtù, Richardson si distrasse dal progetto iniziale, e decise invece di approfondire la psicologia della ragazza insidiata, scrivendo un romanzo su un tema delicato e all’epoca assai sentito. Così, proprio grazie all’escamotage delle lettere, Richardson riuscì a descrivere i sentimenti più intimi della servetta. Certo, non era quello il primo romanzo moderno: Defoe aveva già scritto Robinson Crusoe (1719); Moll Flanders (1723) e Lady Roxana (1724), ma Pamela era il primo tentativo di rivolgersi a un pubblico soprattutto femminile, facendo dell’amore l’ingrediente principale della storia. Storia la cui protagonista, proprio come Cenerentola, passa le giornate a pulire e rassettare; tuttavia, non ci sono matrigna né sorellastre all’orizzonte, ma solo un maturo gentiluomo che vorrebbe farla sua. La giovane resiste e difende il suo onore, e lo fa tanto bene che, alla fine, riesce a farsi sposare dal suo focoso, e facoltoso, ammiratore; e da umile servetta si troverà a vivere non solo felice e contenta, ma anche ricca. La storia di Pamela è il modello di ogni romanzo rosa, per oltre duecentocinquant’anni: è in fondo la storia su cui si basa Elisa di Rivombrosa, la fiction record di ascolti fra 2003 e 2005; e pensare che la produzione venne bloccata due volte, perché si credeva che le storie in costume non ‘tirassero’ più!
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Nel XIX secolo, in Italia, il romanzo rosa si identifica con Carolina Invernizio: esordisce nel 1877, in età umbertina, ma la sua carriera arriva sino agli anni Dieci; ella ebbe un paio di intuizioni: rendere più pepato il romanzo con elementi cupi, paurosi, e con personaggi diabolici al confine dell’horror; e, soprattutto, demandare lo scioglimento della vicenda alle alleanze femminili, che travalicano i confini sociali e generazionali: la servetta viene salvata dalla padrona, la nipote dalla zia, e così via. Come sottolinea Sveva Casati Modignani (pseudonimo di Bice Cairati) C. Invernizio fu la prima a dimostrare quanto sia importante che le donne si aiutino e si sostengano, con buona pace degli intellettuali snob che la svillaneggiavano (addirittura fu detta “onesta gallina della letteratura popolare”).
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Ma il romanzo sentimentale, nell’Italietta anni Trenta e poi nei decenni a venire, porta il nome di Liala, che tutto giustifica in nome della passione, e le cui narrazioni sono null’altro che l’eterna ripetizione della sua vicenda amorosa personale (sposata con un marchese, lo lasciò per un bell’aviatore, ma poi, dopo la morte dell’amante, tornò dal marito e dalla figlia). Le sue eroine hanno fatto sognare le ragazze dell’Italietta del Ventennio, e oltre: in una nazione in cui ancora la povertà era tanta le condizioni igieniche precarie, Liala faceva sognare con i suoi scenari che raccontavano di ricchezza e lussi eleganti; e poi, come si compiaceva di dire, in una nazione in cui l’acqua corrente in casa non era ancora universalmente diffusa, le sue storie hanno insegnato agli italiani anche a fare frequente uso del sapone.
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Acquose e anodine sono invece le trame dei romanzi di Barbara Cartland, la regina inglese del racconto d’amore, morta centenaria nel 2000, dopo decenni passati a vestirsi di rosa e truccarsi come una Barbie che non si arrende al tempo, e a spargere perle di saggezza come: “Non cercare l’amore, sarà l’amore a trovare te”; “Non arrenderti mai; il vero amore può essere dietro l’angolo”. La Cartland, che fu nonnastra di Lady D (la figlia Frances sposò in seconde nozze Lord Spencer), contribuì del resto ad infarcire la testa della prima consorte di Carlo d’Inghilterra di fantasie sentimentali che cozzarono clamorosamente contro le aride regole del protocollo della famiglia reale.
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Per le italiane, oltre a Liala, il romanzo rosa portava il nome di Delly (pseudonimo di due fratelli francesi) e di Brunella Gasperini, giornalista che per prima portò nel genere rosa istanze sociali, anticipando Sveva Casati Modignani. Ma per noi che siamo state adolescenti negli anni Ottanta-Novanta, romanzo rosa è sinonimo di Harmony, quei romanzi venduti nelle edicole, suddivisi per argomenti segnalati dal colore (bianco, amore in ospedale, fra medico e infermiera, o fra paziente e fisioterapista, un grande classico; verde, avventure nella natura, con la bella di turno proprietaria terriera o ereditiera inesperta e il suo virile vicino; rosso, con storie che viravano verso l’audacia della passione). Romanzi ingiustamente tacciati come ‘lessa-cervello’, come diceva un mio collega, ma che invece sono scritti in un italiano pulitissimo, e che la Harlequin, la casa editrice, pubblica solo dopo aver sottoposto gli aspiranti autori (sì, ci sono anche uomini!) a un adeguato corso di formazione. E un analogo corso per aspiranti scrittori del genere rosa è proprio lo scenario del godibile Romanzo rosa, di Stefania Bertola (Einaudi 2012, rist. 2020). E se non lo sapeste, gli Harmony vendono ancora tantissimo, soprattutto in e-book, in modo tale che la distinta professionista o bancaria che in metro lo legge su tablet non sia esposta alla riprovazione che ancora tocca alle appassionate del genere.
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Né mancano ormai gli epigoni del genere, da Helen Fielding, con la sua Bridget Jones – che rivitalizza il mito di Elizabeth Bennet e di Mr. Darcy –, alle ragazze di Sex and the City (che personalmente, nonostante la mia rifornitissima scarpiera, mi sono sempre state abbastanza sulle scatole), sino alle fantasie fra il vampiresco e il voyeuristico di Stephanie Meyer con la saga di Twilight, vietatissima agli over 18: perché, diciamocelo, quale donna sana di mente e di corpo si sdlinquirebbe per Edward Cullen, questo vampiro anemico – è il caso di dirlo – e senza sostanza, quando potrebbe scegliere il più corposo amico licantropo (lui sì che fa sangue)? Solo una adolescente un po’ stordita come Bella Swann, in effetti.
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Ma quali sono gli antesignani del romanzo rosa? Dobbiamo risalire per questo non ai patres Romani, ma al mondo greco, che conobbe una bella fioritura di romanzi di intrattenimento, incentrati sulle avventure di una coppia di giovani bellissimi separati da peripezie indicibili, che si concludono con l’immancabile lieto fine, coronato dal matrimonio. Questa letteratura rosa ante litteram fu bersaglio anche in anni recenti di giudizi critici sferzanti: uno di questi, su una delle Storie della letteratura greca più diffuse, a opera di un grecista di grande fama, a proposito del più gradevole di questi romanzi, le Avventure pastorali di Dafni e Cloe, afferma, testualmente: “L’azione ristagna in stucchevoli pastorellerie, in ingenuità da deficienti”. In fondo, non sarei così severa: che cosa c’è di male nel rifugiarsi un po’, in ogni tempo e in ogni luogo, nella favola? E a proposito di luoghi, sapete quali sono le città più ‘rosa’ d’Italia? Nella classifica, stilata da Amazon, delle città dove maggiormente vendono i romanzi d’amore, figura stabilmente al primo posto la nordica Bolzano, seguita da Como, Trieste, Vicenza, Milano, Lucca, Verona, Trento, Pavia e Padova. Insomma, c’è sete di Rosa fra le brume del Nord.
Silvia Stucchi
*In copertina: John William Waterhouse, “La Belle Dame Sans Merci”, 1893
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
Sarò subito chiaro fin dall’inizio con il mio caro lettore, l’argomento che affronteremo riguarda la Garfagnana medievale, e la storia medievale come ben si sa, in barba agli insigni storici pluri laureati, e di una noia terribile, sopratutto se spiegata così: “Rispetto al passato, ora si fa un uso più consapevole di termini quali “feudalesimo”, “signoria” e “territorialità” per illuminare l’enorme complessità dei veri rapporti di potere. La questione dell’incastellamento rientra perfettamente nella dinamica discussa. Il risultato è un quadro interpretativo estremamente efficace come modello globale, sebbene di per sé sia ormai troppo complesso per tenerlo a mente nella sua interezza per più di pochi minuti”
Cosa, che, come ??? Per l’amor di Dio, tanto di cappello all’illustre professore che avrà affrontato così il tema della Garfagnana medievale a un folto pubblico di altrettanti illustri professori; ma la storia, se si vuole che la gente “comune” si appassioni anche al proprio passato va esposta in maniera totalmente diversa, specialmente su argomenti che hanno una maggior difficoltà di comprensione. Si, perchè il medioevo era un intersecarsi di famiglie, discendenze, guerre, alleanze in cui uno difficilmente riesce a raccapezzarsi. Basta guardare la Garfagnana…Gherardinghi, Suffredinghi, Rolandinghi… no, non è uno scioglilingua, erano le potenti famiglie medievali che avevano in mano tutta la valle. Insomma, capirete voi… comunque niente spavento, proverò a raccontarla io, alla mia maniera, un po’ di storia medievale garfagnina… con una raccomandazione però, non fate leggere questo articolo a qualche storico che “qui novit omnia” (ovverosia: che tutto sa), toglierebbe l’amicizia a voi e a me taccerebbe di superficialità e faciloneria (però alla fine qualcosina avrete capito)���
La rocca di Trassilico (foto di Daniele Saisi)
Comunque sia; siamo in quei tempi che il valore della persona si misurava con la forza, la Garfagnana medievale era la mecca ideale per ogni avventuriero, d’altra parte i Longobardi erano caduti e la definitiva vittoria dei Franchi, nuovi regnati d’Italia, aprì nuovi scenari in tutta la Valle del Serchio (e in Italia in genere), ecco che allora per la prima volta la Garfagnana venne divisa in svariati territori con al comando potenti famiglie feudali comandate da personaggi come Gherardo di Gottifredo, dal quale derivano appunti i Gherardinghi, signori di Verrucole; Vinildo di Froalmo signore di Careggine; Ugolinello capostipite dei nobili di San Michele; tal Donnuccio dei Porcaresi signore di Trassilico e un non meglio identificato Cellabarotti signorotto con possedimenti in Castelnuovo, questi (insieme ad altri) faranno il bello e cattivo tempo in Garfagnana. “I lor” signori arrivarono un po’ tutti alla spicciolata fra il settecento e l’anno mille, videro che qui c’era “buono” e dissero -C’è mio !!!- , spesso non dissero nemmeno niente e in maniera spiccia istituirono posti di blocco, pretesero obbedienza e imposero pedaggi, gabelle e contributi e… il garfagnino? Il garfagnino provò ad alzare la cresta… e il risultato? Nessuno, prevaleva la legge del più forte, pagare e silenzio, così il solco fra la misera gente e il potente di turno diventava sempre più profondo: il signorotto chiuso nel suo castello e “il povero Cristo” a patire la fame.
Castiglione Garfagnana
Dal castello allo stemma il passo fu breve e quindi ogni stemma un castello e una storia diversa, anche se in linea di massima l’aspirazione di ogni feudatario locale era quella di non avere contatti con il prossimo, se non unicamente in funzione di difesa; difatti in mancanza di guerra le occupazioni maggiori di queste famiglie erano sostanzialmente tre: la caccia (lo svago preferito), la “pappatoria” e…la riscossione dei tributi. A rompere le uova nel paniere ai signorotti ci pensò Federico Barbarossa: il feudalesimo quello piccolo e spiccio era in crisi, l’imperatore aveva spazzato via tutti i potenti di Toscana, era il tempo delle riforme, il Papa rivendicava le sue terre e lui aspirava a un impero universale conteso proprio al papato stesso …Insomma era venuto il tempo di affilare le armi, non per la caccia stavolta, ora bisognava affilarle per le guerre.
Fortezza di Mont’Alfonso Castelnuovo Garfagnana (tratta da serchioindiretta.it)
il castello di Gallicano
La rocca di Camporgiano
D’altronde la Garfagnana era un boccone ghiotto, stretta fra due catene di montagne era, ed è un orto chiuso e stuzzicava desideri di conquista, ed ecco allora che dalle montagne circostanti come lupi famelici si affacciarono i modenesi, i lucchesi e perfino da Pisa e da Firenze si scomodarono, non sembravano però venuti in vacanza, infatti il problema è che tutti questi erano armati fino ai denti, dapprima però un po’ tutti fecero gli gnorri e poi con la solita scusa vecchia di milioni di anni: “siamo venuti per proteggere… (o sennò salvare, o al limite vendicare…)”, giù botte da orbi, se poi durante la guerra capitava qualcosa da mettere “al sicuro” che male c’era, un souvenir non si rifiutava mai, uno rubava e l’altro parava il sacco. E chi la faceva la guerra per difendere il proprio castello? Direte voi l’esercito con a capo il signorotto locale…giusto per metà…bisognava infatti vedere l’esercito da chi era composto. L’esercito era fatto dalla gente comune che abitava all’interno del feudo, d’altra parte se i signori del luogo permettevano ai cittadini di abitare dentro le mura del proprio castello per proteggersi, dall’altra gli stessi cittadini dovevano ricambiare con un servizio di leva obbligatorio, che in barba al servizio militare odierno poteva arrivare anche con l’obbligo di guerreggiare fino al settantesimo anno d’età. In caso di guerra bella tosta allora ci si rivolgeva ai mercenari, ma quelli costavano e il popolo la guerra la faceva gratis. Sicuramente i Gherardinghi (signori di San Romano, Naggio, Vibbiana, Pontecosi, Sillico e chi più ne ha ne metta…) non ne fecero uso intorno al 1170, quando tali signorotti si scocciarono dei lucchesi e preferirono ad essi i pisani; la pronta minaccia dei lucchesi di demolire castelli e casati ribelli fece ben presto ritornare sui suoi passi la nobile famiglia che in men che non si dica giurò stabile fedeltà alla città delle mura ottenendone così anche il perdono. Se magari si fosse speso qualche soldino il destino (forse) sarebbe stato diverso. I mercenari , o meglio i soldati di ventura di scrupoli ne avevano pochi e combattevano esclusivamente per il bottino conquistato e per soldi, il tutto era regolamentato da cotanto contratto, dove si stabiliva i termini d’ingaggio: il numero dei soldati da assumere e anche la durata dell’impegno.
San Michele (foto di Davide Papalini)
Per capirsi bene oramai la guerra in Garfagnana era diventata un occupazione alla stregua del come andar per funghi e le nobili casate garfagnine secondo le convenienze sia alleavano a destra o a manca come se niente fosse, fulgido esempio i Suffredinghi, loro possedevano un vasto territorio che comprendeva la Cune, Chifenti, Borgo a Mozzano, Fornoli, Corsagna e arrivava ad avere possedimenti fino a Gorfigliano e Careggine e giustappunto per continuare a mantenere la loro egemonia su tali terre dovevano appoggiarsi a dei potentati ben più forti che loro stessi e allora ci si “imbarcava” in guerre sanguinarie come quella fra Lucca e Pisa, una guerra che protrasse per tutto il XII secolo e che nel 1149 li vide protagonisti insieme ai lucchesi all’assedio del castello di Vorno presieduto dai pisani, dopo otto mesi d’assedio finalmente la tanto sospirata vittoria che portò a radere al suolo il castello…
Isola Santa villaggio medievale
Nel 1170, gli equilibri erano cambiati e come banderuole al vento ecco che i Suffredinghi si alleano con Pisa nella difesa del castello di Castiglione posseduto a sua volta dai Gherardinghi suddetti, in sostanza sfido chiunque a capirci qualcosa, quello che però è evidente (e che ha poco bisogno di comprensione) è il capire che queste guerre erano veramente cruente, violente e spietate, basta vedere le armi con cui venivano combattute. L’arma più importante era la spada, compagna fedele più che di una moglie, tant’è che veniva tramandata da generazione in generazione ed era sostanzialmente lo strumento che ti poteva salvare la vita, subì importanti modifiche con il correre degli anni e se prima era larga e a doppio taglio, nel tempo e con il diffondersi di armature più spesse divennero lunghe sottili in modo che potessero penetrare nelle fenditure delle armature stesse. In questi ci si poteva difendere con lo scudo, che oltre a parare i colpi era un segno distintivo, dal momento che sopra vi erano disegnati i simboli del casato o il simbolo del cavaliere. Micidiale era la balestra, precisa, potente, usata sopratutto all’interno dei castelli, anche l’arco era una terribile arma, la sua freccia poteva essere scagliata fino a trecento metri di distanza e perforare tranquillamente una corazza di maglia, gli arcieri erano dei veri e propri atleti, scoccare una freccia richiedeva forza e l’allenamento doveva essere costante, l’arciere poi era tenuto in grande considerazione poichè non potendo portare lo scudo era il bersaglio preferito degli avversari. Diciamo che queste elencate erano armi professionali, ma come abbiamo letto spesso (e non volentieri) combatteva anche la gente comune che abitava all’interno del castello e allora il garfagnin-soldato si armava con quello che trovano per casa e la scure (o il pennato) che normalmente era adibita al taglio della legna per il fuoco di casa si trasformava in arma micidiale, così come la mazza che aveva la potenza di sfondare armature e sopratutto di aprire teste come noci di cocco.
Ci sarebbe ancora tanto da raccontare e le vicende del medioevo garfagnino naturalmente non si limitano a queste “due righe”, il discorso è molto più ampio e (se ben illustrato) affascinante, ma l’aver dato le luci della ribalta a questo periodo storico poco amato e complesso farà sicuramente si, che qualche lettore si appassioni a queste periodo storico poco conosciuto e questo per me sarà come aver vinto la più grossa battaglia che qualsiasi altro cavaliere in arme possa aver vinto nel lontano medioevo.
Bibliografia
“Castelli, rocche e fortezze narrano la storia della Garfagnana” Gian Mirola
Savigni, Raffaele (2010) L’incastellamento in Garfagnana nel Medioevo: castelli signorili, villaggi fortificati e fortezze. In: Architettura militare e governo in Garfagnana. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca ariostesca, 13 e 14 settembre 2009. Biblioteca / Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi. Nuova serie (187). Aedes Muratoriana, Modena, pp. 7-51.
#feudalesimo#Garfagnana medievale#Gherardinghi#Gherardo di Gottifredo#medioevo#Rolandinghi#storia medievale#Suffredinghi#Vinildo di Froalmo
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Salvatore Schintu ritorna a casa dopo una degenza di 37 giorni
Salvatore Schintu Salvatore Schintu, medico di base ed ex sindaco di Sabaudia, ricoverato presso il santa Maria Goretti da 37 giorni, in quanto colpito da Covid-19, è stato dimesso nella giornata del 20 aprile con traferimento in isolamento domiciliare. A dare la notizia sono stati i figlio ai quali sono affidati i ringraziamenti e anche alcune consioderazioni personali del medico: Oggi la dimissione dal nosocomio con trasferimento in isolamento domiciliare: “Nostro padre desidera sottolineare l’intelligente intuito del Direttore Generale Giorgio Casati e dell’assessore alla sanità della regione Lazio Alessio D’Amato che in pochi giorni hanno realizzato una struttura, basata su più reparti, in grado di assistere su più livelli i malati Covid. Tale intervento è stato complesso. Nostro padre da paziente medico, ha potuto apprezzare la riorganizzazione dei repartiin termini di medici, personale paramedico, servizi laboratoristici, radiologici e strutturale e logistica, nonché l’utilizzo di tutte le terapie ritenute più idonee secondo le più recenti evidenze. Lui sa che deve la sua vita al personale medico e paramedico. Al quale va il suo ringraziamento per essersi prodigati con professionalità e umanità. Ma nostro padre vuole manifestare grande affetto, ringraziamento e riconoscenza anche verso i paramedici di tutti e tre i reparti dove è stato ricoverato. Donne e uomini bravissimi, professionali, che lo hanno sostenuto anche nei momenti più difficili. Ora osserverà le procedure previste dalla legge per il rientro in servizio, dovrà recuperare un po’ di forma fisica dopo il lungo allettamento durato 37 giorni. Tutta la nostra famiglia vuole infine testimoniare l’apprezzamento al Sindaco di Sabaudia per il lavoro della protezione civile, collegamento tra casa e il reparto di degenza, oltre che quello di paramedici amici che lo hanno voluto aiutare costantemente”. Read the full article
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