#Italo Svevo Edizioni
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lecodellariviera · 4 months ago
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il 25 agosto alle 16:30 presso lo Spazio Europa a Bordighera presentazione di Fabiano Mossucca con il suo libro "Una vita d'oggi" in occasione del Bordighera Book Festival.
“ Erano passati quasi due mesi dall’arrivo di Nicola nel capoluogo di ponente, il periodo di ambientamento non fu semplicissimo per via della mentalità un po’ chiusa e riservata della città che difficilmente si apriva ad un estraneo, ma questo non lo turbò più di tanto, Nicola trovava molto somigliante Imperia con la sua Trieste, due città ai piedi del monte, le Alpi liguri che idealmente sostituivano il Carso triestino, l’avere una frontiera lontana pochi chilometri e soprattutto l’essere due città figlie del mare, quel mare azzurro e immenso che il ragazzo era solito osservare per liberarsi dai cattivi pensieri e da quel senso di malinconia che ogni tanto lo pervadeva, la brezza impregnata di salsedine aveva lo stesso odore se annusato dal Molo Audace o dal Molo Lungo di Oneglia, l’orizzonte si fondeva col cielo dando un senso di liberazione, di pace, ciò che il ragazzo voleva.”
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Il romanzo giallo Una Vita… D’Oggi narra la storia di Nicola Lavrič, giovane ragazzo triestino dal passato familiare difficile che decide di lasciare la sua città natale per trasferirsi ad Imperia per lavorare presso la filiale di un importante istituto bancario.
La nuova vita di Nicola non è priva di difficoltà, il giovane si ritroverà infatti ad affrontare diverse complessità sia a livello lavorativo che affettivo.
La svolta inizierà dal momento in cui il giovane triestino conoscerà Giacomo, un cliente della sua filiale che, grazie all’ausilio della sua compagnia di amici aiuterà Nicola ad integrarsi nella città ponentina.
Durante la sera di San Giovanni patrono di Oneglia, Nicola incontra una ragazza bella e disinvolta della quale si innamora e con la quale passa la notte assieme, ben presto però scoprirà che quello sarà per lui un amore impossibile.
Non appena il ragazzo avrà iniziato ad integrarsi nella sua nuova città un messaggio lo sconvolgerà e lo obbligherà a rientrare a Trieste dove i fantasmi del suo passato inizieranno a tormentarlo.
Quale mistero si cela nella sua famiglia? Cosa lega il Ponente Ligure al Golfo di Trieste? Un romanzo a tinte gialle che saprà coinvolgervi fino all’epilogo.
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Mi chiamo Fabiano Mossucca, sono nato a Bordighera il 01 gennaio 1989 e attualmente risiedo ad Arma di Taggia assieme a mia moglie e i miei figli.
Biografia dell’autore:
Lavoro come impiegato bancario e in passato per esigenze lavorative, ho vissuto in Francia, in Austria e in Germania.
Sono laureato in Scienze del Turismo, Impresa Cultura e Territorio presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi sul Turismo Letterario a Trieste.
Fin dai tempi delle superiori ho coltivato una passione per la letteratura triestina e soprattutto per lo scrittore Italo Svevo dal quale ho tratto la mia passione per la scrittura.
Il romanzo Una Vita…D’Oggi, edito dalla casa editrice Silele Edizioni è il mio romanzo d’esordio.
 
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letteratitudine · 2 years ago
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Il quarto gruppo di dieci titoli proposti dagli Amici della domenica per la LXXXVII edizione del Premio Strega:
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▪ Marcello Fois, «La mia Babele» (Solferino), presentato da Elisabetta Mondello.
▪ Ermal Meta, «Domani e per sempre» (La Nave di Teseo), presentato da Furio Colombo.
▪ Giorgio Nisini, «Aurora» (HarperCollins), presentato da Massimo Onofri.
▪ Igiaba Scego, «Cassandra a Mogadiscio» (Bompiani), presentato da Jhumpa Lahiri.
▪ Andreea Simionel, «Male a est» (Italo Svevo), presentato da Gioacchino De Chirico.
▪ Simonetta Tassinari, «Donna Fortuna e i suoi amori» (Corbaccio), presentato da Marcello Rotili.
▪ Domenico Tomassetti, «Una vita come la tua» (Bertoni Editore), presentato da Giulio Marcon.
▪ Piero Trellini, «L’Affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus» (Bompiani), presentato da Massimo Raffaeli.
▪ Valeria Tron, «L’equilibrio delle lucciole» (Salani), presentato da Vivian Lamarque.
▪ Francesca Veltri, «Malapace» (Miraggi Edizioni), presentato da Laura Massacra.
#PremioStrega2023
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marcogiovenale · 2 years ago
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oggi a roma @ l'altracittà: "stralunati", di andrea inglese, in dialogo con gaia benzi
oggi a roma @ l’altracittà: “stralunati”, di andrea inglese, in dialogo con gaia benzi
https://www.facebook.com/events/1495113454338638
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gregor-samsung · 7 years ago
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Nel racconto per bambini "The Disadvantage of Having Two Heads", ("L'inconveniente di avere due teste") lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton si sofferma sui tormenti di chi non riesce a decidersi. Avere due teste (qui è un gigante a possederle, ritte sullo stesso collo, l'una di fronte all'altra e sempre intente a battibeccare) è molto più di un ostacolo: è una maledizione. Lineare, la trama del racconto: un bambino soprannominato Gambette Rosse vede passare dei cavalieri con alti cimieri sulla testa, e incuriosito si unisce a loro. Stanno andando da un vecchio da tutti giudicato un oracolo, per ascoltare i suoi suggerimenti su come raggiungere la bellissima principessa Japonica. Due cammini possibili, la sentenza del vecchio: uno sorvegliato da un gigante con una testa, l'altro da un gigante con due teste. Unanimi, i cavalieri scelgono la prima opzione. Tutti falliscono, e allora Gambette Rosse si decide: lui invece sfiderà il gigante a due teste. Si trova davanti un mostro bifronte le cui personalità scisse non fanno che litigare furiosamente fra loro. Quel che si poteva presumere forza, prospera abbondanza (due anziché uno), è del tutto fragilizzato dal dissidio interiore. Con un unico colpo di spada bene assestato, Gambette Rosse uccide il gigante. E quello, già accasciato al suolo, prima di esalare l'ultimo agonizzante respiro, con una delle due teste vomita fuori l'ultimo rigurgito di conflitto: «You are beneath my notice», una testa dice all'altra testa. «Non sei degna della mia attenzione» - poi muore, simultaneamente alla seconda.
Lisa Ginzburg, Buongiorno mezzanotte, torno a casa, Edizioni Italo Svevo, 2018; pp. 36-37.
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between-quotation-marks · 3 years ago
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Essa infatti m'ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sè il libro ch'era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa.
Italo Svevo (1923), Capitolo 6: “Moglie e amante“, La coscienza di Zeno. Edizioni del Baldo, Letture Belle.
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fashionbooksmilano · 5 years ago
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L’abbigliamento nella tradizione istriana (XVII-XIX secolo)
Roberto Starec
Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata
Edizioni Italo Svevo, Trieste, 342 pagine
euro 20,00
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L’autore ha voluto giocare intenzionalmente con questi verbi (coprire/mostrare) proprio per stimolare chi si avvicina a queste pagine ad una più profonda riflessione sull’importanza che – da sempre – l’abito ha avuto nella società umana. Abito e non costume. Già questa differenza ci permette di capire che non ci troviamo di fronte ad un accurato studio sul folklore istriano, ma su modi di vestire che hanno la capacità di trasmettere la storia ma anche il mutamento di una popolazione, alla pari della sua parlata dialettale. Starec parte da alcune riflessioni fondamentali sulle funzioni del vestire, sui codici dell’abbigliamento, sulla sociologia della moda. L’autore ha svolto un’imponente lavoro di ricerca presso innumerevoli archivi arricchendo il volume con preziose immagini di abiti e stampe, oltre ad una notevole mole di documenti d’archivio (di estremo interesse e curiosità l’inventario – nel 1738 – di un negozio di mercerie di Capodistria alla pari della “consistenza” delle doti delle future spose del 1600!). Un lavoro che contribuisce alla conoscenza del variegato e multiforme mosaico istriano e che, nel contempo, ci fa riflettere su quanto indossiamo quotidianamente: abito o costume? 
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pleaseanotherbook · 5 years ago
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Raccolte di racconti ne abbiamo? #2 parte
Il cielo è terso qui a Torino, l’aria pesante di smog e io sono sempre presa dal lavoro, dagli impegni che si accumulano e dal tempo che mi scivola dalle mani e ho sempre la sensazione di non riuscire a concretizzare. È come essere sempre gettati in un frullatore e non avere il tempo neanche di riprendermi. È una giravolta e trovare il punto di equilibrio una sfida. Sicuramente sono meno ansiosa, più serena, meno stressata, ma questo non significa minimamente essere più libera. Mi sto assestando e sono pronta a cambiare ancora, spero.
Negli ultimi mesi il tempo per leggere è sempre stato molto risicato e a volte ho preferito leggere volumi più brevi che mi dessero la sensazione di leggere come prima anche se di fatto il numero delle pagine macinate si è notevolmente ridotto. Ecco allora che in mio aiuto è venuta una serie di raccolte di racconti che ho accumulato nell’ultimo anno e che di fatto ho preso in mano solo recentemente. E dal momento che stava diventando un post chilometrico ho deciso di dividerlo a metà. In questa seconda parte troverete un breve commento a questi volumi:
Attraverso la finestra di Snell. Storie di animali e degli umani che li osservano – Paolo Pergola edito da Italo Svevo Edizioni
Piccola guida tascabile ai luoghi da non frequentare in letteratura edito da Abeditore
Le nuove Eroidi edito da HarperCollins
Donne difficili – Roxane Gay edito da Einaudi
La vita fino a te – Matteo Bussola edito da Einaudi
Enjoy!
Attraverso la finestra di Snell. Storie di animali e degli umani che li osservano – Paolo Pergola
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Per quanto Paolo Pergola sia uno scienziato affermato e serio nel suo lavoro di ricerca, senza che le due cose siano in un qualche e apparente modo collegate, è anche un membro dell’Opificio di Letteratura Potenziale. E questa è forse la principale premessa per quello che, senza essere un libro di divulgazione scientifica, parla di scienziati, zoologi, e del loro oggetto di studio, gli animali. Se la scienza cerca di spiegare il mondo, i quattordici racconti qui raccolti ci mostrano quali divertentissimi e appassionanti fatti possono accadere quando il mondo, in questo caso degli animali, viene messo sotto osservazione. La scrittura di Pergola riesce a decentrare la nostra attenzione e destare la nostra meraviglia, con un’accuratezza e un’ironia che ricordano quelle delle Cosmicomiche e di Ti con Zero di Italo Calvino.
Sono sempre affascinata dalle storie di animali, soprattutto quando non sembra così scontato il loro esito. I volumi della Italo Svevo Edizioni poi sono dei piccoli gioiellini, che rendono l’oggetto libro un qualcosa da collezionare e spacchettare come un dono. Di fatti ogni volume è impaginato come un piccolo regalo da scartare, pagine da tagliare, bordi da pareggiare, e data la mia scarsa manualità ogni pagina è il cimitero delle mie buone intenzioni. Pergola è uno scienziato ma ha anche il dono del narratore provetto, e riesce a ricreare storie improbabili da fatti realmente accaduti che si dilatano nel tempo di una scoperta o nel racconto di un aneddoto. La finestra di Snell diventa quindi una lente di ingrandimento che si scontra con il buon senso e con le scoperte fortuite che si colgono osservando uccelli che gettano cozze dall’alto per romperle, conferenze in cui ci si perde continuamente e per cui si aspettano i colleghi, ingegnose scoperte fortuite che cambiano la nostra percezione del mondo e dei suoi abitanti. Le opere della Italo Svevo nascondono sempre un fascino senza tempo, delle vere e proprie opere da collezione e anche questa non fa eccezione.
Piccola guida tascabile ai luoghi da non frequentare in letteratura
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Paradisi tropicali, hotel di lusso e pittoreschi sentieri di campagna: nulla di più evocativo e rilassante, no? Sbagliato, perché quando la scenografica stradina costeggia un camposanto o ci si vede costretti a fare i conti con una casa dalla quale sembra impossibile uscire, allora trovare un attimo di relax diventa l'ultimo dei problemi. Se con una linea si collegassero tutti i luoghi nominati in questa "Piccola guida", oltre a macinare chilometri di grafite probabilmente si darebbe vita a un disegno dalle fattezze tremende e spaventose. Un tour letterario di luoghi nefasti, oscuri, sconvolgenti, spesso nascosti dietro facciate insospettabili o patine oniriche. Non importa che si tratti di antichi nidi di perfidia, tenuti in piedi dalle influenze malvagie delle entità che li abitano o di luoghi di passaggio che, impregnati di sofferenza e angustia, si fanno tramite di turbamenti e presagi: ciò che fa sì che un posto ci rimanga nel cuore (o ci perseguiti come un incubo - ma perché impelagarsi in sottigliezze?) è come esso ci ha fatto sentire. Contiene: La casa del giudice, Bram Stoker; La camera ammobiliata, O. Henry; Il paese blu, Marcel Schwob; C'era un uomo che viveva presso un cimitero, Montague Rhodes James; I prigionieri di Longjumeau, Léon Bloy; Sibilo, Gustav Meyrink; La casa vuota, Algernon Blackwood; L'addormentatrice, Guy de Maupassant; La stanza dell'incubo, Arthur Conan Doyle.
Il fascino del gotico riesce sempre a conquistarmi, soprattutto quando si rivela in grandi classici senza tempo. Gli autori che appaiono in questa raccolta della Abeditore sono illustri e meno illustri, ma hanno la capacità di tratteggiare in poche righe mondi inquietanti che si riversano tra le mura degli edifici che le ospitano. I luoghi di per sé sembrano sempre innocui, incapaci di generare terrore, ma se li si unisce a suggestioni o al sentore di paranormale finiscono per incunearsi nei meandri del subconscio e generare mostri crudeli e aberranti. Viaggiare nel mondo dell’horror e del fantastico è sempre un’esperienza che non si riesce a mantenere nascosta, perché provoca spasmi in tutta la popolazione. Sia che si tratti di sprovveduti studenti in cerca di tranquillità che vengono risucchiati in suggestioni pericolose, sia che si tratti di un paio di sprovveduti esploratori che non credono a nulla e finiscono per sperimentare una delle notti più spaventose della loro vita. Il volume è impreziosito da illustrazioni curatissime, che sottolineano la storia e ne inquadrano la situazione, da Parigi alla campagna, da Londra al paesino più sperduto, nessun luogo è sicuro, scappare è sempre una soluzione da tenere a mente.
Le nuove Eroidi
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Otto delle più importanti autrici delle nuove generazioni riscrivono il classico di Ovidio che racconta i miti dalla prospettiva delle donne. Un libro sovversivo, sospeso tra modernità ed eternità.Poco più di 2000 anni fa Ovidio scrisse una raccolta di lettere poetiche straordinariamente moderna e originale: le Eroidi, epistole in cui le eroine del mito si rivolgevano ai loro (generalmente non irreprensibili) mariti e compagni, rovesciando il tradizionale punto di vista maschile. Oggi, otto tra le più importanti scrittrici italiane reinterpretano il classico di Ovidio con assoluta libertà. Così, fra le altre, incontriamo una nuova Medea in Maremma raccontata da Teresa Ciabatti; leggiamo Antonella Lattanzi che ci racconta di Fedra in tribunale; partecipiamo al dramma di Ero e Leandro, in fuga dal loro paese su un barcone nel Mediterraneo nelle parole di Ilaria Bernardini; Veronica Raimo ci mostra Laodamia in una chat erotica, mentre Caterina Bonvicini ci fa conoscere una Penelope che si è imbarcata per mare mentre Ulisse la attende a Itaca… Un libro che, partendo dall’attualità del mito, mette nuovamente al centro la prospettiva femminile, con una collezione di storie appassionanti e universali.
Per questo volume edito HarperCollins otto donne Ilaria Bernardini, Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Antonella Lattanzi, Michela Murgia, Valeria Parrella, Veronica Raimo, Chiara Valerio si sono cimentate nella rivisitazione di miti classici trasportandoli nel nostro presente e dando ritratti spietati di altrettante donne, vessate, spaventante, irriconciliabili. C’è molta veridicità, che si alimenta da storie vere, storie di migranti, di omicidi, di passioni e di mancanze, che si aggrappano alle storie rese immortali dalla storia. Ogni autrice aggiunge il proprio tocco personale, che si divincola dal setting originale e contrappone realtà apparentemente inconciliabili. Sono incredibilmente di parte ma il mio preferito resta quello della Murgia che racconta di Elena, una delle donne più belle del mondo antico che finisce per scatenare inconsapevolmente una guerra decennale in quel di Troia. Attualizzando la Murgia lascia tutto il fascino della vicenda originale, cambia solo la prospettiva da cui si visualizza Paride, che addormentato appare quasi come un bambino inconsapevole. Sono troppe le forze in gioco, ma tutte queste donne non sono solo vittime degli eventi, ma sono donne che cercando di cambiare le cose con le proprie forze, affrontano paure e processi e inevitabilmente finiscono per essere giudicate male. A volte i retelling sono troppo drastici, e finiscono per definire storie che non hanno niente a che fare con il mito originale e pur essendo racconti molto validi perdono la potenza delle eroine che vorrebbero emulare.
Donne difficili – Roxane Gay
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Due sorelle, letteralmente inseparabili da quando, ancora bambine, sono state rapite, devono fare i conti con il matrimonio di una di loro. Una donna sposata finge di non accorgersi che il marito e il fratello gemello di lui si scambiano di ruolo. Una spogliarellista lotta contro quelli che considera i rischi del mestiere per pagarsi il college. Un ingegnere nera si trasferisce in Michigan per lavoro e qui si scontra con il pregiudizio dei colleghi e la difficoltà di lasciarsi il passato alle spalle. Una ragazza affronta la solitudine come le ha insegnato la madre da bambina, non importa il prezzo da pagare. In questi racconti sfrontati, animati da donne vere e, per questo, difficili, il realismo più crudo sfocia nell’assurdo senza soluzione di continuità e le passioni perdono i loro confini per sfumare l’una nell’altra.
Roxene Gay è un’attivista femminista, una scrittrice e una studiosa, una donna poliedrica che ha vissuto una adolescenza difficile e burrascosa che ha raccontato in parte in Fame. La Gay non è una che cerca di dissimulare ma ogni sua storia è un pugno nello stomaco che attinge alle sue esperienze autobiografiche e dalle sue peggiori paure che si materializzano in racconti mordaci e vividi che si insinuano nella mente del lettore e divelgono le sue sicurezze. Taglienti e spietati sono dei quadri che hanno sempre una donna per protagonista e non sono per nulla rassicuranti. C’è violenza non sempre fisica ma soprattutto psicologica, quei vortici in cui è facile cadere vittime inconsapevoli dei pregiudizi e delle parole degli altri. La Gay è una di quelle penne che non si fermano mai, ma scavano continuamente in situazioni apparentemente innocenti, ma che invece sono all’ordine del giorno e per questo ancora più difficili da digerire. Parlare delle condizioni in cui le donne si trovano a vivere, senza nascondersi a quella che molti definiscono normalità, serve, serve terribilmente a prendere coscienza, a superare i preconcetti di una società in cui si afferma la parità ma che soffoca ogni giorno nelle discriminazioni più infamanti. Roxane Gay prova a farlo con la sua ferocia e la sua rabbia.
La vita fino a te – Matteo Bussola
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Matteo Bussola riconosce ciò che di straordinario si annida nelle cose ordinarie perché le guarda come se accadessero per la prima volta, come se sentisse sempre la vita pulsare in ogni cellula. Ed è con quello sguardo che racconta di relazioni sentimentali, l'istante in cui nascono, il tempo che abitano. Lo fa mettendosi a nudo, ricordando gli amori passati, per ripercorrere la strada che lo ha portato fino a qui, alla sua esistenza con Paola e le loro tre figlie. Soprattutto, lo fa specchiandosi nelle storie di ciascuno: quelle che incontra su un treno, o mentre sbircia dal finestrino della macchina, o seduto in un bar la mattina presto. Quelle che incontra stando nel mondo senza mai dare il mondo per scontato, e che la sua voce intima e familiare ci restituisce facendoci sentire che sta parlando esattamente di noi.
Matteo Bussola è riuscito a compiere un piccolo miracolo, con la sua scrittura fluida e immediata, con la sua gentilezza e i suoi spicci modi da veneto, ha aperto uno spaccato sulla sua vita e sulla sua sfera privata, parlando ai cuori di tutti i suoi lettori. Pur avendo continui riferimenti alla sua famiglia, ogni suo scritto ha un carattere più generale, che racconta con una delicatezza e una grazia estrema la sua visione del mondo e della vita, racchiudendo in poche righe episodi della sua quotidianità. Leggerlo da sempre il senso della misura su questa esistenza spietata e gli si riconosce l’abilità di non essere mai banale pur non raccontando avvenimenti dal carattere unico e sensazionale. O meglio riescono a diventare speciali proprio perché pongono la luce su aspetti su cui non ci soffermiamo mai troppo presi dai ritmi frenetici delle nostre vite. Bussola è quasi un miniaturista e in questa raccolta prova a descrivere l’amore e le relazioni, l’intimità di rapporti che sfuggono le logiche e si ritrovano sul filo di un equilibrismo raro e contagioso. Si sorride molto, si piange a volte, ma perlopiù si vive, insieme.
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pangeanews · 5 years ago
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La Classica influenza, ovvero: perché le lingue classiche sono un vaccino contro l’imperante idiozia (e il latino ci salva la vita)
«Sui passi di chi ritrova nella polvere antica le scintille dell’eterna bellezza e di chi ama le lettere morte di un vivente amore» (J. Burckardt)
La lingua madre, quella che si mastica quotidianamente, fino ad estendersi a tutti i linguaggi specialistici, la nostra lingua, insomma, che senso avrebbe, se venisse slegata dalla profondità dei suoi significati, che le giungono dalle memorie d’un tempo? Si vive d’eco, lo raccomandava persino il compianto Eco del Nome della rosa: ergo, il fior fiore del pensiero più adulto si fa imperativo categorico. In gioco è il nostro orientamento e la posta è veramente alta, senza azzardare assolutamente. Senza radici storiche, difatti, non c’è alcuna sana e consapevole gestione pubblica: verrebbe a mancare la grande assente, la Sapienza (dal latino «sapio», aver sapore), cioè il gusto. Soltanto la cultura, pol-eticamente, è il reale trionfo della democrazia ed è fuor d’ogni dubbio! Su questa scia di considerazioni si muove l’ultimo libro della professoressa Silvia Stucchi, docente di Latino nei Licei e di Letteratura latina all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: Come il latino ci salva la vita, per i tipi di Edizioni Ares, appena editato, ha una veste grafica aitante, pure trendy, mi permetto di chiosare. Un Apollo pitico si fa un selfie con tanto di T-shirt americana slim aderente e occhiali da sole stilosissimi, da appaiarsi, per haute couture, a quelli del divo Jonny Depp: un Belvedere, già a prima vista. «Il titolo di questo libro sembra ambiziosissimo, e anzi quasi paradossale, visto che l’attuale tendenza sembra quella di fuggire dal latino», dice la nostra studiosa in apertura al suo garbatissimo contributo. Eppure lo sappiamo da Ariosto che vince chi fugge: duri di cervice, lasciatemelo aggiungere, allora! La piena avvertenza ed il deliberato consenso, oltre a configurarsi canonicamente come peccato, ranchettano fino a farci scapicollare, a meno che ci armiamo di buzzo buono, stiracchiando i Lumi della Ragione, dopo aver sciacquato i panni nel Tevere. Nota positiva: la cosa fa coppia, meglio dirlo subito! «In una pagina della Coscienza di Zeno, il protagonista ascolta le lamentele della giovane Alberta, che diventerà sua cognata. La ragazza, studentessa ginnasiale, si affligge perché il latino le riesce «molto difficile», e Zeno, con un umorismo tra il cavalleresco e il paternalista, la consola così: «Dissi di non meravigliarmene, perché era una lingua che non faceva per le donne, tato ch’io pensavo che già dgli antichi romani le donne avessero parlato l’italiano» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Mondadori 2000, cap. V, p.8 5). Poco dopo, però, Zeno si fa cogliere in castagna da Alberta, che gli deve correggere una citazione. Lei, Lui ed un latin lover. Chi? La lingua dei nostri padri, ovviamente, che tra le righe non è divorzista, intendiamoci! Un saggio come quello della Stucchi, al di là della leggerezza, ci consente di accostarci a Virgilio e a Cicerone per stare meglio con noi stessi. Da una nutrita poliantea troveremo le risposte che gli uomini di duemila anni fa davano ai loro problemi, dall’innamoramento infelice all’insofferenza verso le feste comandate; dal rifiuto degli status symbol ai dispiaceri scolastici; risposte che possono lenire anche le nostre ansie quotidiane, o farci guardare al presente con un occhio diverso.
*
Qualche esempio!? ��Parenti serpenti: noi che ci lamentiamo spesso dei nostri rapporti con i genitori, che ci lagniamo di non essere sufficientemente ascoltati e capiti, abbiamo idea delle condizioni di vita e delle limitazioni cui era mediamente sottoposto un filius familias a Roma? Poche civiltà elaborarono un concetto di autorità del padre, la patria potestas, pesante e invasivo come in Roma, che fu una civiltà di patres e di senes. Dovettero passare secoli perché la tradizionale durezza della pedagogia romana venisse mitigata; così, viene da pensare, che forse davvero, pur con tutti i problemi che presenta l’attuale modello di famiglia, nucleare, affettiva, dominata a volte da una malintesa idea di ‘dialogo educativo’, essa non è peggiore di quella degli austeri tempi della Repubblica romana!». Ancora: «E quanto alla dieta, la medicina antica, di cui Plinio il Giovane, nel suo epistolario, dimostra di avere assimilato la lezione, aveva un approccio che oggi potremmo quasi definire ‘olistico’, nel senso che badava al mantenimento dell’armonia e della salute del corpo e dello spirito nella loro totalità, non a far perdere X chili in Y giorni: in questo, bisogna dirlo, i nostri maiores erano molto più avanti di noi!». Pertanto, Dieta Lemme, adiós!
*
A questo punto giova fare delle ultime considerazioni. In un momento in cui provvisorietà e caos sembrano fluttuare tra l’ondivago ed il nubivago, il Classico, proporzionato dalle leggi della natura delle cose, ci rammemora quanto siamo snaturati. Come non ricordare, giusto per l’appunto, sia pure en passant, un tweet di papa Francesco di qualche giorno fa «oggi, con gratitudine a Dio, ricordiamo che il nostro corpo contiene gli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora»,  il cui originale in stile cesariano era sì scritto, se non vado errando: «hodie, grato erga Deum animo memoramus nostrum corpus elementa continere orbis terrarum, eius aër ille est qui nobis dat respirationem eiusque aua nos vivificat et restaurat». Non solo. Il Classico ci raschia le arteriole del cuore (heart) impastandoci di terra (earth), soprattutto ora in cui, presi dal peso voluttuoso e delittuoso dell’inutile, si fa fatica addirittura a decrittare un’emerita acca. In medio «non stat» il virtual ma la «virtus» e quella, idealmente parlando, è materiale, perché si nutre di contatti e di sensi: ricordiamocelo! Il Classico mette in riga, o meglio rimette in classe: meglio, dal momento che ognuno oggidì sembra andare per conto proprio nella direzione del non so ma poi si vedrà. Solo il Classico rende riconoscibili le cose: farlo fuori, è non darsi delle possibilità, ed il peggio è lasciarsi informi, se non amorfi, ahinoi!  Dulcis in fundo: il Classico educa al rigore, alla costanza e alla formalizzazione del pensiero. Serve per immunizzarsi da tante sciatterie, eccome se non torna utile: provare per credere! In atto c’è «un’autentica peste del linguaggio, da cui lo studio del latino vaccina», denunciava, non tanto illo tempore, il buon Calvino. Sostanzialmente è una necessaria profilassi da tenere in prospettiva, come quella che attendiamo per il coronavirus: né più e né meno. Siccome non posso tramare contra la trama, anche perché l’ho spoilerato un bel po’, mi fermo a questa sorta di trailer per destare le antenne della curiositas: le suggestioni non lasceranno impermeabili i nostri lettori; anzi, le più belle idee che hanno permeato il mondo, di cui tutti siamo coinquilini sulle spalle dei Giganti, di buon grado le alimenteranno. D’influenza classica noi vivi-AMO, vaccinandoci dalle banalità: che sia un memento!  Auguri di benvenuto ad un libro di degna collocazione bibliotecaria.
Francesco Polopoli
*In copertina: Marlon Brando è Marco Antonio nel “Giulio Cesare” di Joseph L. Mankiewicz del 1953
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planethelliconia · 6 years ago
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Pontiggia & Troisi
L’Italia che finisce è rappresentata da due opere in apparenza senza alcun collegamento tra loro: il romanzo “La grande sera” di Giuseppe Pontiggia, 1989, e il film “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” di Massimo Troisi, 1991.
Ho letto “La Grande Sera” nelle due diverse edizioni, l’ho riletta parecchie volte, così come ho visto il film “Speravo fosse amore e invece era un calesse” tante volte, scena per scena.
Questa breve considerazione è frutto della meditazione su queste due opere, che sono come due colonne, attraversate le quali, gli italiani sono precipitati in un mondo capovolto, in quell’altra Italia, alla quale il “parlar” è “indarno”[1].
Entrambe le opere finiscono con una silenziosa, incomprensibile, uscita di scena, una fine-fine che lascia profondo stupore e amarezza nel lettore/spettatore.
Dei protagonisti non resterà nulla, assolutamente nulla; essi svaniscono e basta: quanto è lontana la “coscienza” di “Mattia Pascal”![2]
In queste opere la parola “speranza” semplicemente NON esiste, come se fosse un’ammissione della sua omissione, o viceversa. Nessuna tragedia in corso o all’orizzonte.
Le persone coinvolte in queste storie scorrono sulle loro vite, impermeabili; per loro il domani non esiste, esse sono chiuse nella stasi di un presente indefinito in cui non riescono nemmeno a fallire, o, almeno, a rendersene conto.
Tutto il resto non importa.
Questa è l’Italia che chiude forse per sempre la sua storia; per lei resterà una mediocre e continua post-contemporaneità; senza forse saperlo, Troisi e Pontiggia lo avevano intuito estendendo, espandendo la propria intuizione, allo stremo, all’estremo, come fanno appunto i geni inconsapevoli!
[1] Petrarca “Canzoniere”, “Italia mia, benché ‘l parlar s’indarno”.
[2] Italo Svevo “La coscienza di Zeno” + Luigi Pirandello “Il fu Mattia Pascal”.
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Libri| "Le facce" di Rudy Marra
di Paolo Vincenti
  Dopo “L’utente potrebbe avere il terminale spento” (Edizioni Zona) del 2007, “Le facce. Dal diario del dottor Frank Saltarino. Storie di ordinaria incomunicabilità” (Edizioni Zona 2015) è il secondo romanzo di Rudy Marra, conosciuto ai più come cantautore di talento sebbene lontano dalle scene da molti anni.
Marra continua a comporre e a cantare, lontano dai circuiti promozionali ufficiali. Ma se la grande industria discografica sembra essersi scordata di lui, d’altro canto sembra che lui non ne soffra particolarmente, impegnato come è a portare in giro per l’ Italia i suoi incendiari recital concerti e affaccendato anche in altre e più private incombenze.
  Il libro è un romanzo breve. Al mondo della comunicazione Rudy Marra è molto attento, anche per studi fatti: è laureato in Sociologia all’Università di Urbino. Il dottor Frank Saltarino del titolo, come spiega l’autore nella Prefazione, è uno psichiatra italo-americano, vissuto nella prima metà del Novecento, che ha lasciato un ricco diario da cui l’editore del libro attinge per questo racconto e per altri che probabilmente ne verranno. Il libro infatti sembra quasi precludere ad un seguito, ad una saga a puntate, magari, dei vari casi clinici trattati dal medico.
Il movente del libro è la confessione di un paziente del dottor Frank Saltarino, il quale, per paradosso, ma nemmeno tanto, finisce fra quegli stessi “pazzi” che egli ha avuto in cura per molti anni. Cioè, termina la propria vita in un centro di igiene mentale, vittima forse della sua professione, del logoramento dovuto al suo diuturno esercizio.
Il paziente di cui viene pubblicata la confessione è un pittore che dipinge facce sulle sue tele coi colori ad olio e che è ossessionato dalla corrispondenza dei suoi dipinti con le persone ritratte, nella tormentata ricerca di una impossibile armonia fra realtà e finzione, fra vero e verosimile. Egli vorrebbe dare vita ai propri ritratti. Allora inizia tutta una serie di sperimentazioni, sia sui materiali, che sui colori, che sugli stessi modelli, i soggetti da ritrarre, nella febbrile ricerca del vero, nella spasmodica tensione verso il ritratto perfetto.
Sullo sfondo, la New Orleans del jazz e del woodoo, di Billie Holiday e Louis Armstrong, di George Lewis e Emma Barret, con un ossessivo motivetto, St. Thomas, di Sonny Rollins, che accompagna tutta la narrazione. Fra il delta del Mississipi che attraversa il ventre della città e il Quartiere Francese dove abita il pittore, si snoda la trama allucinata del racconto, con la lunga teoria di tentativi andati a vuoto nella ricerca pittorica, frustrata dalla incipiente schizofrenia che lambisce, fino a devastare, la fragile psiche del protagonista. Così il pittore di facce inizia ad accumulare copie di copie sempre dello stesso soggetto, una grassa negra, Mamy, la sua donna delle pulizie, e queste copie diventano sempre più simili all’originale, apparentemente uguali, ma in realtà ognuna di esse contiene un lieve miglioramento, fino a quando il pittore non raggiunge il suo scopo, ossia quello di confondere l’originale con il ritratto. Ma ancora qualcosa manca, resta anche ora, seppure impercettibile ai più, una lievissima differenza, fra vero e dipinto. E questo lo porta alla dannazione.
Si avverte il richiamo di Goethe e la “Teoria dei colori” in questo racconto, ma fonte di ispirazione può anche esser stato il noto aneddoto che si tramanda su Michelangelo il quale di fronte alla perfezione delle forme del suo Mosè avrebbe gridato “perché non parli?”.
Fra fumo e birra, nella follia parossistica del pittore di facce, leggiamo questo racconto breve ma intenso, che rievoca le atmosfere di certa letteratura americana, come quella della Beat Generation, di Kerouac, di Burroughs, vagamente anche Bukowsky. In effetti la scrittura è dinamica, quasi cinematografica e il linguaggio usato, confidenziale, basso, “sporcato”, per utilizzare un termine prestato dalla musica. In effetti, potremmo definire questa scrittura, per certi versi, molto musicale, e non vi è da meravigliarsi, data la provenienza del suo autore. Che dire poi del movente che offre pretesto e contesto a Marra di scrivere questa short story, ossia la confessione di un malato di mente? A partire dall’inizio del Novecento, con le teorie di Freud, i rapporti fra letteratura e psicanalisi sono sempre stati molto stretti. Pensiamo a “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo o a “La signorina Else” di Arthur Schnitzler, connazionale di Freud e medico psichiatra come lui, autore anche di  “Doppio sogno” da cui il regista Stanley Kubrick ha tratto nel 1999 il film Eyes Wide Shut. Lo stesso Freud ha analizzato questi rapporti nei suoi interessanti “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio” con uno studio psicanalitico sul romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, le annotazioni psicobiografiche su Leonardo da Vinci e la teoria sul perturbante, e poi con il saggio “Dostoevskij e il parricidio”. Tanti gli scrittori nel corso del Novecento che hanno contratto un debito di riconoscenza con la psicanalisi, da T.S. Eliot a Stefan Zweig, da Thomas Mann a Robert Musil, da D.H. Lawrence, a Hjalmar Bergman, ma anche gli scrittori del “flusso di coscienza” come James Joyce e Virginia Woolf. Rudy Marra si inserisce in questo fortunato filone che ultimamente anche in tv sta dando i suoi frutti, pensiamo a “Mental” trasmesso in Italia da Fox, a “Perception”, sempre su Fox , o più recentemente a “In treatment”, serie italiana trasmessa da Sky.
Anche nel libro in parola si tratta di autoanalisi, come ne “La coscienza di Zeno”, un caso clinico, in cui il protagonista del racconto espone al medico curante gli accadimenti della propria vita, li scrive su un diario, e affastella tentativi di spiegare le cause che lo hanno portato a quella ossessione per i colori, e per il vero più vero, divenuta patologica. Un libro da gustare e, anche per la sua mole contenuta, leggere tutto d’un fiato.
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140eoltre · 8 years ago
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PAVESE [malessere di]: forma di malinconia estremamente contagiosa, diffusa specialmente nella zona delle Langhe, contraibile nei pomeriggi domenicali, persi nella bruma autunnale, dopo aver bevuto troppi bicchieri di Nebbiolo.
MARCO ROSSARI, Piccolo dizionario delle malattie letterarie, Italo Svevo edizioni, Roma 2016, p. 42
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gregor-samsung · 7 years ago
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I miei rapporti con il paese straniero sono freddi, ma per nulla distaccati; spesso anche polemici, rabbiosi in modo viscerale. Il senso di estraneità prende la forma di un'irritazione e un risentimento sproporzionati rispetto alle ragioni che ne sono la causa. Abitata (e abbattuta) dalla sensazione persistente che quello in cui ho scelto di stare è un mondo alieno, che in niente mi assomiglia. Universo solo all'apparenza vivace, orgoglioso della propria mescolanza; in verità invece anodino, stretto tra i margini di un forzata cortesia e un eccesso di etichetta al limite del grottesco. Dove tutto è programmato al millimetro con nevrotico anticipo; dove bastano i siparietti quotidiani di "bonjour madame" e "bonsoir monsieur" a spazientirmi; dove ritmi troppo convulsi e schedulati sono forieri di nevrosi, patologie e altri malesseri più o meno immaginari dei quali vedo molti soffrire, ripiegandosi su strane manie o veri blocchi psicologici. Troppi, e vincolanti e inibitori, i codici sociali. Patologica l'assenza di spontaneità (e casualità) negli scambi umani, impacciati da un'omologazione dei comportamenti rigida al punto da privare le stesse relazioni dello spazio necessario, vitale che dev'essere lasciato all'imprevisto - a soluzioni inattese, casuali, ben più felici di tanto ossessivo programmare. Polemica, la mia, che non risparmia nessuna circostanza "sociale" né privata. Rifiuto costruitosi in modo progressivo: prima, agli inizi del mio vivere all'estero, la stessa vis polemica la riversavo sul mio paese, l'Italia. Il pressapochismo, l'inefficienza di strutture e infrastrutture, la disonestà di tanti meccanismi regolatori del potere - quanto avevo appena lasciato mi appariva guasto, marcio in maniera scandalosa. Inveivo, così da lontano trovando legittimazione da un lato alla mia scelta di vivere altrove, dall'altro al mio tentativo di sentirmi "a casa" nel posto nuovo. Rendere il mio paese bersaglio della mia indignazione era stabilire una distanza, però continuando a tenere vicini i luoghi nel pensiero. Quanto a me, restavo io: troppo rabbiosa, pronta a scagliarmi con veemenza contro scorrettezze, scandali, altre vergogne del mio paese (in circostanze che mutano, anche il perdurare delle nostre reazioni può essere garanzia di continuità). Poi, in modo impercettibile, il medesimo livore s'è spostato sulla realtà più vicina: quella straniera, lì dove si svolge la mia vita quotidiana. Senza diminuire di grado, l'insofferenza ha cambiato di segno. Un voltafaccia interiore che con vago allarme ho interpretato essere spia di incipiente radicamento. Perché dirottare rabbia e scontento su quello dei due mondi che è più prossimo "fisicamente", è tentativo di interiorizzare un trasloco sino a quel momento rimasto allo stadio solo spaziale. Ricongiungersi della mente al corpo, così da raccorciare quello scarto doloroso che è il "déplacement".
Lisa Ginzburg, Buongiorno mezzanotte, torno a casa, Edizioni Italo Svevo, 2018.
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pangeanews · 5 years ago
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“È stato qualcosa di inaudito, ho impiegato 15 anni a scrivere il romanzo su Piazza Fontana”. Un libro in 3D: dialogo con Valerio Aiolli
12 dicembre 1969: Nero ananas inizia con il botto, quello di Piazza Fontana. Da dove nasce l’esigenza di raccontare la storia quegli anni?
Quando inizio a scrivere una “cosa”, che sia un racconto breve o un romanzo lungo, non ho mai ben chiari i motivi per cui lo faccio. Si tratta più di un’energia quasi fisica che si mette in moto dentro di me e che mi spinge a prendere una strada che ignoro se si fermerà dopo quindici minuti, quindici mesi o quindici anni. Le motivazioni raccontabili le metto a fuoco via via, spesso a lavoro finito. In questo caso credo si sia trattato della confluenza di un elemento privato e di uno pubblico. Nel 1969 avevo otto anni e percepii distintamente che era accaduto qualcosa di inaudito. Lo vidi dalle facce dei miei genitori, da cosa si diceva in casa, dal tono di voce dei giornalisti in televisione, dalle prime pagine dei giornali. Ogni generazione ha, purtroppo, la tragedia che segna il passaggio a un’età più adulta e più cupa, quella fu la nostra, la mia. Quel botto però andò ben al di là di un evento generazionale. Segnò l’inizio di un periodo di sconvolgimenti politici e civili che furono un vero e proprio cambio di scenario nella nostra storia. Oltretutto, nonostante i tanti processi e il tanto tempo trascorso, è stato così denso il fumo di quella bomba (e di quelle successive) da impedire, nonostante tutto il tempo trascorso, di vederci chiaro. Così, devo aver pensato, entrare dentro quel fumo, quella nebbia, con gli strumenti della letteratura, della narrazione, poteva servirmi a conoscere qualcosa di più, e a farlo conoscere a chi avrebbe letto il libro, se mai fossi riuscito a finirlo.
Il romanzo ha avuto una lunga gestazione e un percorso complesso prima di vedere la fine e l’uscita per Voland. Quali sono stati i dubbi e perché è stato difficile scriverlo?
Sì, è stato difficile. Lungo, appassionante e difficile. Come una di quelle storie d’amore che a un certo punto devono finire, ma che ti ricorderai per tutta la vita. Intanto, la documentazione. Reperire e leggere (o guardare nel caso di filmati) tutto il materiale uscito su quegli anni: gli articoli dei quotidiani e dei periodici dell’epoca, libri, rinvii a giudizio, sentenze-ordinanze, ricostruzioni giornalistiche, interviste, memoriali. Ho iniziato a lavorarci più o meno nel 2002 e per un po’ di tempo ho fatto solo quello: leggere, segnare le cose che mi sembravano importanti, metterle in relazione tra loro. Difficoltà nella difficoltà: continuavano a uscire nuovi libri, nuove interviste, sarei potuto andare avanti all’infinito. A un certo punto mi dissi: basta, tu non vuoi scrivere il saggio dei saggi, ma un romanzo. Quello che hai letto è più che sufficiente. Ora comincia a organizzarlo. E qui nacque la seconda difficoltà: inventare una struttura, un modo di raccontare questa storia che mettesse insieme tutti i piani narrativi (da quelli pubblici a quelli privati) e tutti gli eventi di cui era composta, senza creare un guazzabuglio inestricabile per il lettore. Da qui la scelta di alternare la prima, la seconda, la terza persona, e altre caratteristiche stilistiche usate nel testo. Infine la scrittura: il punto decisivo. C’era un’alternanza di punti di vista e di registri (dal ragazzino a un capo di governo, da un terrorista glaciale a un anarchico sbandato, ecc.) da rendere al meglio. Terminare un capitolo del ragazzino e immergermi nel buio mondo di un uomo che decide di usare bombe per scopi politici, per esempio, non era facile, e a volte mi obbligava a lunghe pause per trovare in me il respiro necessario al nuovo tratto di cammino. Tutto questo ha fatto sì che il processo di stesura sia durato una quindicina d’anni. Per fortuna nelle pause ho scritto e pubblicato un altro po’ di libri…
Nero ananas è un romanzo corale: molti personaggi sono realmente esistiti, quasi tutti riconducibili all’eversione di destra di quegli anni, un’area composita nella quale convivevano molte anime. Spicca su tutti il ragazzino la cui sorella sparisce di casa, quasi ingoiata dal mistero degli eventi che stanno accadendo. Durante una vacanza si trova catapultato nei moti di Reggio Calabria (altro episodio sconosciuto e dimenticato) e li vive come un’avventura, “una cosa bellissima”.  È la perdita dell’innocenza, che da personale si fa collettiva: quanta consapevolezza abbiamo del modo in cui quegli anni hanno inciso nella nostra storia? Il tuo romanzo, così vibrante nella scrittura, ci vuole riportare agli interrogativi senza risposte di quegli anni, pagati da centinaia di innocenti?
Con “Nero ananas” Valerio Aiolli è stato selezionato tra i 12 del Premio Strega. Tra i suoi romanzi ricordiamo “Fuori tempo” (Rizzoli, 2004) e “Ali di sabbia” (Alet, 2007)
Io credo alla letteratura come forma di conoscenza. Abbiamo tante forme di conoscenza (di noi stessi e del mondo) a nostra disposizione: la scienza, la filosofia, la storia. Anche, in un certo senso, le religioni. Quando leggo un libro di narrativa, riesco ad appassionarmi solo se, al di là della vicenda che mi sta raccontando, riesce a farmi intravedere un pezzettino in più di me stesso e del mondo. Con Nero ananas io non avevo l’intenzione di dare risposte ai tanti interrogativi rimasti aperti riguardo a quegli anni. Volevo raccontare da dentro alcuni dei personaggi che li hanno navigati, far emergere le loro vite non attraverso gli eventi, ma attraverso le pulsioni, i ragionamenti, le allucinazioni, gli errori, le ipocrisie, le follie che hanno portato a quegli eventi. Volevo esprimere la vita di quegli anni, con tutte le sue contraddizioni. Che forse può essere uno specchio, deformato quanto si vuole, per capire un millimetro di più chi siamo e cosa abbiamo intorno. Credo, alla fine, di aver proposto con questo libro più domande che risposte. E la cosa, mi sa, non mi dispiace.
Daniela Grandinetti
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La Lettura: Nero ananas insegue sin dalle prime pagine, non è un romanzo confezionato per compiacere il lettore, di quelli che si dimenticano il giorno dopo, è scritto con una variabilità di registri confacenti ai numerosi attori delle vicende. Un mosaico di voci e fatti che una volta saltato per aria vi costringerà a star lì a rimettere insieme i pezzi, proprio come la (S)toria, la nostra, alla base della narrazione. Raccontata mirabilmente.
L’autore: È nato nel 1961 a Firenze, dove vive. Ha esordito nel 1995 con la raccolta di racconti Male ai piedi. Il suo primo romanzo, Io e mio fratello (E/O, 1999), è stato tradotto anche in Germania e Ungheria. Sono seguiti Luce profuga (E/O, 2001), A rotta di collo (E/O, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007), Il sonnambulo (Gaffi, 2014) e Il carteggio Bellosguardo (Italo Svevo Edizioni, 2017). Per Voland ha pubblicato Lo stesso vento nel 2016 e Nero ananas nel 2019, con il quale è stato selezionato tra i dodici candidati del Premio Strega.
*In copertina: la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, dopo l’esplosione del 12 dicembre 1969
L'articolo “È stato qualcosa di inaudito, ho impiegato 15 anni a scrivere il romanzo su Piazza Fontana”. Un libro in 3D: dialogo con Valerio Aiolli proviene da Pangea.
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