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#Daniela Grandinetti
amnesiacarts · 19 years
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HG/ Aural Sculpture(s) and Bad Seeds + ConiglioViola + Jadmx
A cura di Amnesiac Arts e in collaborazione con Komà Gallery 12 Novembre 2005- 08 Gennaio 2006
La mostra in collaborazione con Komà Gallery intende dare un punto di vista accurato del rapporto tra arti visive e musica presentando una versione ampliata di Aural Sculture(s), l’esposizione itinerante ideata da Karin Andersen e Michele Mariano con testo critico di Edoardo Bridda e Christian Rainer, più una sezione video con un lavoro di ConiglioViola ed uno di Jadmx.
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-Aural Sculpture(s) è una raccolta di copertine di Cd realizzate da artisti (oltre 70) operanti in diversi settori dell’arte visiva contemporanea e provenienti da tutta Italia e dall’estero. Le copertine sono “finte” e descrivono identità musicali, più o meno nascoste, dei singoli artisti: un microcosmo di idee e filosofie contemporanee appartenenti alla musica, o perlomeno riscontrabili all’interno di questa. Così i partecipanti alla mostra inventano i loro alter ego, rockstar, folksinger, dee-jay……oppure fondano gruppi virtuali di musica pop, rock, elettronica, jazz,……in ultimo visualizzano, sulle copertine, le proprie ipotetiche uscite discografiche. La “compilation”, così organizzata, di copertine virtuali attraverserà l’Italia seguendo un itinerario destinato a far tappa in alcune delle maggiori città della penisola.
Elenco artisti:
Karin Andersen, Luigi Mastrangelo, Nicola Micatrotta, GianLuca Parente, Christian Rainer,Georgeanne Kalweit,Nark BKB,Alice Pedroletti, Daniela Guerrizio,Roxy in the Box, Massimo Colizzi, Alessandro Rivola , Pino Rizzo, Sara Capatti, Claudia Attimonelli,Alessandra Mancini, Juan Carlos Ceci, Tony Robles, Alice Volta, Elena Rapa, Marc Giloux,Lorena Viale,Smush,Alfredo Ricci,Roberto Ratti,Massimo Lovisco,Fausto Colavecchia,Monica Condini,VRU,Massimo Giacon, Sawako Aramaki, Benjamin Altermatt,Stefania Perdetti,Valeria Borrelli, Mariagrazia Colasanto, Flavio Demarco, SquP,Jennifer Ramsay,Stefano Pasquini,Domenica Bucalo,Paolo Maggi,Roberta Fanti,Daniele Girardi,Michele Santarsiere,Tucha,Rafael Arrabal, Alessandra Traverso, Sergio Dagradi, Bruno Benuzzi, Annalisa Cattani, Fabrizio Rivola, Rachele Salvioli, Eva Sauer, Davide Coltro, Elisa Laraia, Sarah Paupardin, Angelo Paolosanto, Stephanie Portoghese, Fedra Boscaro, Sarah Paupardin, Elia Fabbio, Marina Bolmini, Stefano Marchesini, Paolo Bernardini,Dario Mercuriali, Andrea Facco, Katharina Dieckhoff, Irene Zangheri,Gomez Bueno,Roberto Cascone, Roberto Freak Antoni, Giuseppe Pietroniro,Francesca Grilli,Silke De Vivo, Silvio Giordano, gruppo Sinestetico, Uccibiondi, Cristina Pavesi, Giulia Mazza, Edo Grandinetti, Kai Zen, Maurizio Salconi, Giuseppe Satta, Maseda, Francesco Mestria, Felice Lovisco, Evilia Di Lo Nardo e Daniele Tito, Luca Pagani, Pino Oliva, Mimmo Rubino, gruppo Assocartoons, Andrea Romano, Jadmx, ConiglioViola, Raffaele Iannone, Sergio Perrotta, Luciano Appignani, Michele Somma, Francesco De Molfetta, Vito Palladino, Vito Pace, Marisa Santopietro, Marcello Samela, Antonello Faretta, Michael Rotondi, Antonio Adobbato.
-ConiglioViola presenta un video del progetto "Recuperate Le Vostre Radici Quadrate", una contrapposizione dialettica tra l'estetica degli anni 80 e quella dei giorni nostri, tra "mitologia" e "ironia".
-Jadmx, autore di musica elettronica dall’identità “misteriosa” proporrà invece la video-performance PJTK18 dove è richiesta la partecipazione attiva del pubblico.
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bongianimuseum · 4 years
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“Fragilità e Distacco / 70 Years Ruggero  Maggi”
COMUNICATO  STAMPA
SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY
“Fragilità e Distacco / 70 Years Ruggero  Maggi”
a cura di Sandro Bongiani
Dal 29 agosto al 28 novembre  2020
Inaugurazione: sabato 29 agosto 2020, ore 18.00
 S’inaugura sabato 29 agosto 2020, alle ore 18.00, la mostra  collettiva internazionale a cura di Sandro  Bongiani dal titolo: “Fragilità e Distacco / 70 Years Ruggero Maggi” che lo Spazio  Ophen Virtual Art Gallery di Salerno dedica all’artista italiano Ruggero Maggi, uno dei più interessanti artisti contemporanei nati negli anni cinquanta. Una importante mostra collettiva internazionale in concomitanza anche della speciale ricorrenza del suo settantesimo compleanno, presentando 289 opere di 295 artisti presenti su un totale corpus grafico di ben 388 opere arrivate  da ogni parte del mondo.
Ruggero Maggi inizia la sua attività di artista negli anni '70 con lavori incentrati sulla poesia visiva, sulla mail art, copy-art, laser art e olografia caratterizzati anche dall’inserimento di “estratti” di vita reale. Con il passare degli anni queste strutture “interferenti” all’interno dell’opera sono diventate sempre più evidenti, in un rapporto di intensa “osmosi”, in cui a partire dal 1989 gli arcaici elementi naturali convivono con componenti tecnologici, fino alle opere recenti dove il concetto “Artificiale /Naturale” tra ”sincronismo concettuale e emozionale” assume un ruolo predominante consegnandoci una realtà in cui l’azione umana coincide con quella morale, in un complesso intrico di rimandi e di sollecitazioni. Sandro Bongiani nella presentazione a questa rassegna scrive: “un continuo interesse verso la natura e la dimensione umana in un complesso rimando di sollecitazioni e interferenze, di sottintesi e nascosti richiami in cui l'azione coincide sinteticamente con il tempo provvisorio e oscuro dell’uomo. In questa particolare condizione, la sua ricerca marginale di confine “più vera di natura” ha saputo prendere corpo e manifestarsi in una sintesi poetica accorta che condivide le urgenze estreme della vita ed i contrasti inquieti della nostra malandata  società contemporanea”.
  Artisti presenti:
Christian Alle  Dino Aloi  Antonio Amato Lutz Anders  Leslie Atkins  Paola Baldassini  Franco Ballabeni  Calogero Barba  Fabiola Barna Donatella Baruzzi Pier Roberto Bassi Umberto Basso  Keith Bates  Elisa Battistella  Lutz Beeke Giacomo Beffa  Lancillotto Bellini  Milena Bellomo  C. Mehrl Bennett  John M. Bennett  Luisa Bergamini  Mariarosa Bergamini Pedro Bericat  Carla Bertola Diane Bertrand  Rita Bertrecchi  Massimo Biagi  Gabriele Bianconi  Lucia Biral Manuel  Xio Blanco Antonio Bobò  Rovena Bocci  Norbert Bockmann  Kika Bohr Giovanni Bonanno  Adriano Bonari  Anna Boschi Rosa Bosco  Maria Cecilia Bossi  Marzia Braglia  Hans Braumüller  Rossana Bucci Joachim Buchholz  Anna Maria Buonapace  Viviana Buttarelli  Fulgor C. Silvi  Mirta Caccaro Alfonso Caccavale  Glauco Lendaro Camiless  Loretta Cappanera  Guido Capuano Lamberto Caravita  Cascadia Artpost  Bruno Cassaglia  Antonia Mayol Castello Gianpiero Castiglioni  Renato Cerisola  Bruno Chiarlone  Simonetta Chierici Silvia Cibaldi  Cosmo Cinisomo  Circulaire132 Maria Antonietta Claretto  Anna Maria Cognigni  Ryosuke Cohen  Mabi Col Francesco Cornello  Enzo Correnti Carmela Corsitto  Crackerjack Kid  Maria Credidio  Anna Maria Crescenzi  Laura Cristin Carla Crosio  Rosa Cuccurullo  Crescenzio D'Ambrosio  Nicolò D��Alessandro  Diana Danelli Marc De Hay  Ko De Jonge  Mario De Leo Antonio De Marchi  Teo De Palma  Adolfina De Stefani  Albina Dealessi  Michel Della Vedova  Antonio Di Michele  Debora Di Bella  Elena Di Felice  Maura Di Giulio  Fabio Di Ojuara  Franco Di Pede  Marcello Diotallevi  Giovanna Donnarumma  Mike Dyar Eart Art  Mimmo Emanuele  Rita Esposito Ever Arts  Cinzia Farina  Fernanda Fedi Gretel Fehr Domenico Ferrara Foria Ivana Ferraro  Luc Fierens  Giuseppe Filardi  Anna Finetti Alessandra Finzi  Aaron Flores  Maurizio Follin  Roberto Formigoni  Kiki Franceschi  Nicola Frangione  Piet Franzen SIDAC  Giglio Frigerio  Ivo Galassi Daniele Galdiero  Rosalie Gancie  Antonella Gandini  Attilia Garlaschi  Claudio Gavina  Ombretta Gazzola  Roberta Ghisla  Roberto Gianinetti  Mario Giavino Ed Giecek  Gino Gini  Guglielmo Girolimini  Lino Giussani Coco Gordon  Bruno Gorgone  Daniela Gorla Claudio Grandinetti  Elke Grundmann  Paolo Gubinelli Giovanni Gurioli  _Guroga  Karl Friedrich Hacher  Hanrahan Peter Hide 311065 Uwe Hofig Slanye Huang  Carlo Iacomucci  Ibirico Gennaro Ippolito  Robert James  Benedetta Jandolo  Janus Edition Isabel Jover  Magda Lagerwerf  Felipe Lamadrid  Giusi Lazzari Ettore Le Donne  Nadine Lenain  Pascal Lenoir Alfonso Lentini  Marialisa Leone  Giovanni Leto Pino Lia  Pierpaolo Limongelli Pietro Lista  Oronzo Liuzzi  Serse Luigetti Ruggero Maggi  Olga Maggiora Nadia Magnabosco  Mailarta  MailArtMartha Loredana Manciati  Antonio Mancini  Antonello Mantovani  Angela Marchionni Renzo Margonari  Patrizio Maria  Dorian Ribes Marinho  Laura Marmai Max Marra  Calogero Marrali  Maria Grazia Martina Maribel Martinez  Gianni Ettore Andrea Marussi  Anna Maria Matone  Anja Mattila Michelangelo Mayo  Monica Mazzone  Pierluigi Meda  Massimo Medola  Myriam M. Mercader  Miche Art Universalis  Monica Michelotti  Virginia Milici  Gabi Minedi Antoni Mirò  Annalisa Mitrano  Henning Mittendorf  Mauro Molinari  Domingo Sanz Montero  Maya Lopez Muro  Museuvofmailart  Keiichi Nakamura  Giuliana Natali  Katerina Nikoltsou  Aldo Nodari Pierangela Orecchia  Clemente Padin  Lucia Paese  Franco Panella  Katia Paoletti  Linda Paoli Paola Pareschi  Sjoerd Paridaen  Enzo Patti  Giuseppe Pellegrino  Remy Penard Walter Pennacchi  Mariella Perani  Marisa Pezzoli  Riccardo Pezzoli  Tarcisio Pingitore  Horvath Piroska  Valentina Poli  Veronique Pozzi Painè  Nadia Presotto  Daniele Principe  Tiziana Priori  Gina Pritti Giancarlo Pucci  Fabrizio Randini  Cesar Reglero  Gaetano Ricci   Angelo Ricciardi  Isabella Rigamonti  Carla Rigato Ina Ripari  Costantino Rizzuti  Ilaria Rizzuti  Jaume Rocamora  Gian Paolo Roffi  Claudio Romeo Piero Ronzat  Giovanni Ronzoni  Lorenzo Rosselli  Manuel Ruiz Ruiz  Marialuisa Sabato  Hikmet Sahin Piero Sani  Sergio Sansevrino  Antonella Sassanelli  Antonio Sassu Anna Maria Saviano  Roberto Scala  Duccio Scheggi  Peter Schubert  Lars Schumacher  Jörg Seifert Cesare Serafino  Lucio Serafino Tiziano Serafino  Domenico Severino  Noriko Shimizu  Maria Josè Silva – Mizè  Pietro Silvestro Cecilia Solamito  Luigino Solamito  Alberto Sordi Cristina Sosio  Lucia Spagnuolo  Celina Spelta Ciro Stajano  Honoria Starbuck  Giovanni e Renata Strada  Rod SummersVec  Elisa Taiola Franco Tajariol  Nello Teodori  Ernesto Terlizzi  Gian Paolo Terrone  Elsa Testori Roberto Testori  Thierry Tillier  Paola Toffolon  Renata Torazzo  Micaela Tornaghi  Horst Tress Alan Turner  Stefano Turrini  Mikel Untzlla Sigismund Urban  Valdor   Generoso Vella  Silvia Venuti Ada Vera Verbena  Daniele Virgilio  Alberto Vitacchio  Antonio Zenadocchio  Rolando Zucchini.
 RUGGERO  MAGGI / Biografia
Dal 1973 si occupa di poesia visiva e libri d'artista (Archivio Non Solo Libri); dal 1975 di copy art e arte postale (Archivio Amazon); dal 1976 di laser art, dal 1979 di olografia, dal 1980 di X-ray art e dal 1985 di arte caotica sia come artista - con opere ed installazioni incentrate sullo studio del caos, dell’entropia e dei sistemi frattali - sia come curatore di eventi: “Caos italiano” 1998; “Caos – Caotica Arte Ordinata Scienza” 1999 – 2000; “Isole frattali” 2003, “CaoTiCa” 2004, “Attrazione frattale” 2006, “Caos e Complessità” 2009, “Caos, l’anima del caso” 2010, “Caotica.2014” Lodi e Jesi.
Tra le installazioni olografiche: “Una foresta di pietre” (Media Art Festival - Osnabrück 1988) e “Un semplice punto esclamativo” (Mostra internazionale d’Arte Olografica alla Rocca Paolina di Perugia – 1992); tra le installazioni di laser art: “Morte caotica” e “Una lunga linea silenziosa” (1993), “Il grande libro della vita” e “Il peccatore casuale” (1994), “La nascita delle idee” (1993) esposta nel 1995 al Museo d’Arte di San Paolo (BR).
Suoi lavori sono esposti al Museo di Storia Cinese di Pechino ed alla GAM di Gallarate. Ha inoltre partecipato alla 49./52./54. Biennale di Venezia ed alla 16. Biennale d’arte contemporanea di San Paolo nel 1980.
2006 realizza “Underwood” installazione site-specific per la Galleria d’Arte Moderna di Gallarate.
2007 presenta come curatore il progetto dedicato a Pierre Restany “Camera 312 – promemoria per Pierre” alla 52. Biennale di Venezia.
2008 presenta come curatore il progetto “Profondità 45 – Michelangelo al lavoro” sul rapporto Arte -Tecnologia. Nel 2008 a Villa Glisenti (BS) ed all’Art Centre della Silpakorn University di Bangkok, per un simposio artistico italo-thailandese dedicato alle problematiche del riscaldamento globale, realizza l’installazione “Ecce ovo”.
2009 cura l’installazione site-specific collettiva “Prima o poi ogni muro cade” all’interno di PLAZA: OLTRE IL LIMITE 1989-2009 XX Anniversario della caduta del Muro di Berlino in Galleria del Corso a Milano; evento successivamente presentato a Villa Pomini a Castellanza (VA) e Spazio Luparia a Stresa.
2010 “GenerAction – un promemoria per le generazioni” progetto di Mail Post.it Art presso la Galleria di Arti Visive dell’Università del Melo - Gallarate.
2011/2013/2015/2017 presenta a Venezia con il Patrocinio del Comune di Venezia Padiglione Tibet, progetto presentato successivamente alla Biennale di Venezia, al Museo Diotti di Casalmaggiore (CR), palazzo Ducale di Genova e presso la Biblioteca Laudense di Lodi.
2014 PadiglioneTibet partecipa alla Bienal del Fin del Mundo in Argentina.
2016 “TERRA/materiaprima” progetto di Mail Art presso la Galleria di Arti Visive dell’Università del Melo – Gallarate.
2016 presenta Padiglione Tibet al Castello Visconteo di Pavia.
2017 presenta la 1 Biennale Internazionale di Mail Art a Venezia – Palazzo Zenobio
2018 Padiglione Tibet partecipa alla Vogalonga (Venezia)
2018 installazione “Erosioni in pinzimonio” - Poetry and Pottery Un’inedita avventura fra ceramica e poesia visiva - CAMeC centro arte moderna e contemporanea La Spezia
2018 installazione CaraPace - Museo Tecnico Navale - La Spezia
2019 “Onda Sonora” libro collettivo – V Biennale del Libro d'artista - Napoli
2019 ARTNIGHT Venezia – Padiglione Tibet - videoproiezione 2011.2019. Storia di un padiglione per un paese che non c'è - Magazzini del Sale, Reale Società Canottieri Bucintoro
2019 riceve il Premio alla carriera - PREMIO ARTE IN ARTI E MESTIERI 2019 – XIX EDIZIONE - Fondazione Scuola Arti e Mestieri "F. Bertazzoni" - Suzzara (MN)
2020 “#GlobalViralEmergency / Fate Presto” L’arte tra scienza, natura e tecnologia - Spazio Ophen Virtual Art Gallery – Salerno
  “Fragilità e Distacco / 70 Years Ruggero  Maggi”
SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY  
Via S. Calenda, 105/D  - Salerno,  Tel/3937380225    
e-mail:  [email protected]     
Gallery: http://www.collezionebongianiartmuseum.it  
Orario continuato tutti i giorni dalle 00.00 alle 24.00
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eventiincalabria · 5 years
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Giardini delle Esperidi Festival
SABATO 3 AGOSTO
ore 19.00 Presentazione GdE 2019 Boschi, fate e sirene Interventi: -Maria Faragò (direttore artistico) -Domenico Gallelli (Sindaco di Zagarise) -Antonella Bonaccorsi (Delegata cultura Comune di Zagarise) -Francesco Mauro (Sindaco Sellia Marina) -Francesco Curcio (Commissario Parco della Sila) -Giuseppe Luzzi (Direttore Parco della Sila) -Sebastiano Tarantino (Sindaco Taverna) -Mauro Francesco Minervino (Antropologo e scrittore) -Salvatore Bullotta (Responsabile amministrativo dell’Assessorato regionale alla Cultura) AGRITURISMO CONTRADA GUIDO – SELLIA MARINA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore 20.00 Degustazione “Calabrian food by the Jonian sea” a cura di Anna Aloi (prodotti biologici a Km 0 ) per Igb A Casa Tua e i Giardinieri AGRITURISMO CONTRADA GUIDO – SELLIA MARINA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore 21.00 Concerto World Jazz: OutAut AGRITURISMO CONTRADA GUIDO – SELLIA MARINA EVENTO SU PRENOTAZIONE
VENERDI’ 16 AGOSTO
ore 16.30 Presentazione -Maria Faragò (Direttore artistico) -Domenico Gallelli (Sindaco Zagarise) -Antonella Bonaccorsi (Delegata Cultura Comune di Zagarise) -Sebastiano Tarantino (Sindaco Taverna) -Francesco Mauro (Sindaco Sellia Marina) -Francesco Curcio (Commissario Parco della Sila) -Giuseppe Luzzi (Direttore Parco della Sila) -Andrea Mastrangelo (Associazione Ri-scopriamo La Sila) -Salvatore Piccoli (Grand Hotel Parco dei Pini) -Carmine Lupia (Etnobotanico) GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA
-ore 17.30 Conversazione: Dopo il Grand Tour. La Calabria nelle narrazioni del contemporaneo Andrea di Consoli dialoga con: Mauro Francesco Minervino – Francesco Bevilacqua – Eliana Iorfida GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA ore 19.00 Degustazione “Calabrian food on the mountain” A cura di Anna Aloi per Igb A Casa Tua (prodotti biologici a Km 0) realizzato dai ristoratori di Zagarise: Il Borgo Antichi e nuovi sapori e Pizzeria Football Bar GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore 20.30 Video Mapping Show: “Boschi, fate, sirene” di Enrico Pulice GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA
ore 21.00 Concerto “Fantasia a Due – Canzoni, poesie, musiche e dialoghi sui grandi temi dell’esistenza umana” di Caterina Pontrandolfo e Rodolfo Medina GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA
SABATO 17 AGOSTO
ore 10.00 Conversazioni: Todo cambia con Davide Cerullo intervistato da Mauro Francesco Minervino TEATRO VERDE CENTRO VISITE GARCEA – LOC. MONACO – TAVERNA
ore 11.00 Meditazioni Qi Gong con Rosa Mauriello TEATRO VERDE CENTRO VISITE GARCEA – LOC. MONACO – TAVERNA
ore 12.00 Lesson: Villaggio Mancuso e il Grande Albergo Parco delle fate tra storia e identità a cura di Salvatore Tozzo SALA COVEGNI CENTRO VISITE GARCEA – LOC. MONACO – TAVERNA
ore13.30 Degustazione A cura di Anna Aloi per Igb A Casa Tua realizzata da Albergo della Posta ALBERGO DELLA POSTA – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore14.30 Piccolo Concerto etnofolk di Vincenzo Iaeraci ALBERGO DELLA POSTA – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore16.00 Performance: C‘E’ UN FILO ROSSO NEL BOSCO dell’artista Antonio Pugliese con il flauto di Vincenzo Ieraci GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA
ore 18.30 Concerto nei boschi “L‘arpa, l’incanto e il disincanto” di Daniela Ippolito GRANDE ALBERGO PARCO DELLE FATE – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA
ore 20.00 Degustazione A cura di Anna Aloi per Igb A Casa Tua realizzata da Grand Hotel Parco dei Pini GRAND HOTEL PARCO DEI PINI – VILLAGGIO MANCUSO – TAVERNA EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore 21.30 Teatro nei boschi “La cameriera brillante” di Carlo Goldoni della Compagnia teatrale I Vacantusi con la regia Imma Guarasci TEATRO VERDE CENTRO VISITE GARCEA – LOC. MONACO – TAVERNA
DOMENICA 18 AGOSTO
ore 9.00 Prima della passeggiata… Le Eco-colazioni di Anna Aloi per Igb A Casa Tua VILLAGGIO GRECHI DI TIRIVOLO (ZAGARISE) EVENTO SU PRENOTAZIONE
ore 9.30 Passeggiata poetica: Ai piedi del Monte Gariglione Guida etnobotanica: Carmine Lupia DA VILLAGGIO GRECHI AL RIFUGIO LEONE GRANDINETTI
Lungo il percorso: -Musiche dell’etnomusicologo Pierluigi Virelli e il musicista africano Spiff -Narrazioni: Il legno, la pece e le antiche genti di montagna di Francesco A. Cuteri -Performance teatrale: Tratta da “Donne che corrono coi Lupi” di Clarissa Pinkola Estes con Imma Guarasci per Maschera e volto -Presentazione libro: “Volare è potere” Il Filo Rosso Editore di Simone Francesco Mandarini presenta Marisa Raimondo
ore 13.30 Pic-nic d’autore A cura di Anna Aloi per Igb A Casa Tua realizzato dai ristoratori di Zagarise: Il Borgo Antichi e nuovi sapori e Pizzeria Football Bar accompagnati dalla musica di Pierluigi Virelli e Spiff VILLAGGIO GRECHI – TIRIVOLO (ZAGARISE) EVENTO SU PRENOTAZIONE
LUNEDI’ 19 AGOSTO
ore 18.00 Visita del Parco Botanico degli Ulivi di Zagarise
ore 18.10 Stazioni poetiche con Rosellina Carone
ore 18.30 Presentazione libro “La casa in Crimea” di Olga Fotino The Freak Editore presenta Marisa Raimondo PARCO BOTANICO DEGLI ULIVI – ZAGARISE
ore 20.00 Degustazione “Calabrian Street Food” a cura di Anna Aloi per Igb A Casa Tua realizzato dai ristoratori di Zagarise: Il Borgo Antichi e nuovi sapori e Pizzeria Football Bar PIAZZA ALDO MORO – ZAGARISE EVENTO SU PRENOTAZIONE PER I NON RESIDENTI
ore 22.00 Concerto Sabatum Quartet PIAZZA ALDO MORO – ZAGARISE
http://www.eventiincalabria.it/eventi/giardini-delle-esperidi-festival-3/
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lanaveonline · 4 years
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Malvinas en el cine
La guerra de Malvinas marcó la historia argentina y de cada uno de nosotros. La memoria ayuda a revisar momentos trágicos y oscuros para encarar el presente, ese pasado nos define como sociedad. El cine es también un espacio para recordar y reflexionar. Hay distintas obras audiovisuales que tratan el tema de la guerra desde distintas perspectivas, menciono algunas:
-“Teatro de Guerra”, de Lola Arias, transposición al cine de la obra Campo Minado. Un grupo de ex combatientes argentinos e ingleses, y en esto radica el punto fuerte, reviven esa historia y construyen lazos. Se puede ver online en la página del Cine El Cairo de Rosario.
-“Exilio de Malvinas”, de Federico Palma. Tres malvinenses rearman su vida en el continente argentino. Disponible para ver en la plataforma de Vimeo.
-El cortometraje “Las Aspirantes”, de Gretel Suarez, que pone en primer plano un rol olvidado, el de las mujeres en la guerra, arroja luz sobre un grupo de enfermeras y su reclamo actual por el reconocimiento.
En este caso, los invitamos especialmente a ver un estreno. Días previos a la cuarentena obligatoria se estrenó en salas “Ni héroe ni traidor”, largometraje de ficción dirigido por Nicolás Savignone, y protagonizado por Juan Grandinetti, Inéz Estévez, Rafael Spregelburd, y Héctor Bidonde. Interrumpidas las funciones por el contexto, la película forma parte de los estrenos en Cinear Play, la plataforma del INCAA que lanzó esta semana esta sección para que el cine argentino pueda seguir llegando a los espectadores, y en este caso, a los hogares. Conversamos con el director sobre la realización de la película y lo compartimos con ustedes.
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-¿Cómo llegás a la historia de Ni héroe ni traidor?
Nicolás: -Malvinas fue algo que siempre me interesó, quizás por que tengo recuerdos muy tristes de esos días. El 2 de abril murió mi abuelo materno y en mi casa había un ambiente de mucha tristeza. En el año 2012, Susana Torres Molina, en un taller de dramaturgia en la UNA nos propone escribir sobre nuestra historia, y es ahí cuando tomo el impulso para comenzar a escribir el guión de la película.
En la película un grupo de amigos ve atravesada su relación por la guerra, ¿por qué contar la historia de Malvinas desde la perspectiva de los jóvenes?
Nicolás: -Los jóvenes fueron los protagonistas, esos momentos de euforia, de patriotismo, de angustia, de decepción, atravesó a toda una generación. Todos fueron tocados por la locura de la guerra, aquellos que fueron y los que no también. Si algo nos dejó como enseñanza esta terrible desventura, es que no sólo matan las balas o las granadas, sino también los delirios de grandeza del poder de turno, el abandono y la decidía que luego sufrieron los combatientes.
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-Más allá de la historia central, están las otras historias, la relación padres - hijos, el rol del hombre en una familia, el grupo de amigos como referencia y desafío, ¿cómo fueron apareciendo estas otras historias?
Nicolás: -El guión comienza a construirse desde la relación entre padre e hijo, las primeras escenas nacen de mis recuerdos de la infancia, de papá escuchando la radio y comentando, de mi mamá triste por la muerte de mi abuelo. De ahí parte la película, desde ese dolor interno que aún persiste. Luego viene todo el proceso de escritura en donde se empieza a abrir la película e incorporación de esas otras voces que van a enriquecer la trama. Es interesante ver a Matías como se relaciona con los diferentes personajes, con la madre todavía es un niño, pero con su padre saca todo su valor para desafiarlo, con su amigo Diego trata de entenderlo y ayudarlo. Así se despliegan las diferentes caras del personaje.
-¿Cómo fue el trabajo con los actores?
Nicolás: -Fue un trabajo muy intenso que comenzó varios meses antes del rodaje, sobre todo con los chicos. Para mi fue una gran experiencia trabajar con este gran elenco. Era importante lograr una buena conexión entre los integrantes del grupo de amigos. Ensayamos los festejos, las peleas, el partido de fútbol, fue una experiencia grupal muy interesante. También ensayamos mucho con Verónica y Juan, era importante que tengan una relación fluida. Con Inés, Rafael, Héctor, Mara y Fabián, fue un placer, cada uno puso su impronta, su talento e hicieron crecer muchísimo a sus personajes.
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-¿Cómo fue el trabajo de investigación para la reconstrucción de época?
Nicolás: -Arrancó en el 2012 con el proceso de escritura y continuó hasta el final de la película, en cada momento tuvimos que ser muy cuidadosos, con cada detalle, desde las palabras que se dicen hasta la temperatura color de la luminaria en las calles. El arte en los interiores, el vestuario, los cortes de pelo, todo tuvo que ser pensado y estudiado para hacer la reconstrucción de época. Fue un trabajo arduo, pero todo pareció fácil gracias al gran equipo que trabajó en la película.
-¿Cómo creés que puede el estreno en una plataforma online potenciar y favorecer al cine argentino?
Nicolás: -Creo que en esta situación extraordinaria es una salida válida y completamente necesaria para que la película pueda llegar a la gente. En lo personal, soy amante de la pantalla grande, de ese ritual de ir al cine, pero los tiempos cambian. Las distribuidoras están pasando un momento muy duro y posiblemente esta sea una nueva forma de estrenar, en el futuro, aquellas películas que no consiguen salas. En ese sentido, creo que será de gran ayuda para las películas independientes.
“Ni héroe ni traidor”, se puede ver en Cinear Play de forma gratuita: https://play.cine.ar/
Daniela Pereyra
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italianaradio · 5 years
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Cabaret. Festival “Facce da bronzi”, al via le selezioni anche a Milano
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Cabaret. Festival “Facce da bronzi”, al via le selezioni anche a Milano
Cabaret. Festival “Facce da bronzi”, al via le selezioni anche a Milano
Dopo la tappa romana dello scorso dicembre, il Festival Nazionale del cabaret “Facce da bronzi”, con la direzione artistica dell’autore di Zelig Alessio Tagliento, prosegue le selezioni in tutta Italia alla ricerca dei migliori talenti della comicità italiana. Il Festival, ideato e prodotto dall’associazione culturale arte e spettacolo “Calabria dietro le quinte” e sostenuto dalla Regione Calabria con i fondi PAC 2014-2020, toccherà sabato 18 gennaio la città di Milano con una selezione per il nord Italia. Lo spettacolo, patrocinato dalla Città Metropolitana lombarda, sarà presentato da Sonia Collini e Claudio Zucca dell’Accademia del comico, ente partner del festival, e vedrà coinvolti dieci brillanti comici: Amedeo Abbate, Andrea Nani, Daniela Carta e Giorgio Como da Milano, Cristian Cecchetto da Vicenza, Gianluca Sallemi dal torinese, Francesca Falchi da Cagliari, Marco Bettelli da Bologna, Samuele Rossi da Lucca e Simone Bandecchi dalla provincia di Pisa. I comici in gara saranno valutati da una giuria tecnica composta da personaggi dello spettacolo, in particolare saranno presenti: il direttore organizzativo del Festival Giuseppe Mazzacuva, il comico di Zelig Tv Vincenzo Albano, il comico di Zelig e docente dell’accademia Angelo Pisani, lo sceneggiatore fumettista Diego Cajelli e l’autore di Zelig, nonché direttore artistico del festival Alessio Tagliento, che oltre a vestire i panni dei giurati regaleranno al pubblico una speciale performance comica. Un vero e proprio show comico, dove gli artisti metteranno in scena sketch originali e pezzi di repertorio per conquistare in sei minuti un posto nell’ambita finale del 29 febbraio al teatro Francesco Cilea di Reggio Calabria, presentata dall’attore del Bagaglino Gigi Miseferi e con ospite speciale il comico Pino Campagna dal programma televisivo Zelig. Ma prima della finalissima l festival coinvolgerà anche la città di Lamezia Terme, con una selezione artistica per il sud Italia al teatro Grandinetti nell’ambito della rassegna “Vacatiandu-2019/2020” organizzata dall’associazione i Vacantusi, partner del progetto. Per info sullo spettacolo di Milano e curiosità sul festival consultare il sito www.festivalfaccedabronzi.it e la pagina facebook del festival @faccedabronzi
Dopo la tappa romana dello scorso dicembre, il Festival Nazionale del cabaret “Facce da bronzi”, con la direzione artistica dell’autore di Zelig Alessio Tagliento, prosegue le selezioni in tutta Italia alla ricerca dei migliori talenti della comicità italiana. Il Festival, ideato e prodotto dall’associazione culturale arte e spettacolo “Calabria dietro le quinte” e sostenuto dalla Regione Calabria con i fondi PAC 2014-2020, toccherà sabato 18 gennaio la città di Milano con una selezione per il nord Italia. Lo spettacolo, patrocinato dalla Città Metropolitana lombarda, sarà presentato da Sonia Collini e Claudio Zucca dell’Accademia del comico, ente partner del festival, e vedrà coinvolti dieci brillanti comici: Amedeo Abbate, Andrea Nani, Daniela Carta e Giorgio Como da Milano, Cristian Cecchetto da Vicenza, Gianluca Sallemi dal torinese, Francesca Falchi da Cagliari, Marco Bettelli da Bologna, Samuele Rossi da Lucca e Simone Bandecchi dalla provincia di Pisa. I comici in gara saranno valutati da una giuria tecnica composta da personaggi dello spettacolo, in particolare saranno presenti: il direttore organizzativo del Festival Giuseppe Mazzacuva, il comico di Zelig Tv Vincenzo Albano, il comico di Zelig e docente dell’accademia Angelo Pisani, lo sceneggiatore fumettista Diego Cajelli e l’autore di Zelig, nonché direttore artistico del festival Alessio Tagliento, che oltre a vestire i panni dei giurati regaleranno al pubblico una speciale performance comica. Un vero e proprio show comico, dove gli artisti metteranno in scena sketch originali e pezzi di repertorio per conquistare in sei minuti un posto nell’ambita finale del 29 febbraio al teatro Francesco Cilea di Reggio Calabria, presentata dall’attore del Bagaglino Gigi Miseferi e con ospite speciale il comico Pino Campagna dal programma televisivo Zelig. Ma prima della finalissima l festival coinvolgerà anche la città di Lamezia Terme, con una selezione artistica per il sud Italia al teatro Grandinetti nell’ambito della rassegna “Vacatiandu-2019/2020” organizzata dall’associazione i Vacantusi, partner del progetto. Per info sullo spettacolo di Milano e curiosità sul festival consultare il sito www.festivalfaccedabronzi.it e la pagina facebook del festival @faccedabronzi
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Zhang Yimou trae al festival de Toronto su épica claroscura "Shadow"
Toronto (Canadá), 10 sep (EFE).- Tras su estreno en la Mostra de Venecia, el director chino Zhang Yimou trae hoy al Festival Internacional de Cine de Toronto (TIFF) su largometraje épico "Shadow" sobre uno de los periodos más sangrientos de la historia de China. "Shadow", interpretada entre otros por Deng Chao, Sun Li y Zheng Kai, es uno de los dos estrenos programados hoy por TIFF en la sección de Galas, reservada por la organización del festival canadiense para las películas más destacadas de cada jornada y con aspiraciones a llegar a los Óscar. La segunda cinta del programa de Galas es "The Public", del director estadounidense Emilio Estevez, en la que también interviene como actor junto a Jacob Vargas, Gabrielle Union, Taylor Schilling, Jeffrey Wright, Christian Slater, Jena Malone y Alec Baldwin. Con "Shadow", Zhang Yimou ha vuelto a asombrar a la crítica y al público rodando una película, donde el claroscuro predomina en su iluminación, frente los rojos que caracterizaron algunos de sus anteriores filmes, como "Hero" (2002) o "La casa de las dagas voladoras" (2004). Esta vez, el director chino narra la batalla en uno de los reinos chinos y las intrigas palaciegas paralelas a las que se tiene que enfrentar un brillante estratega militar para conquistar una ciudad amurallada. Mientras, "The Public" es una exploración de algunos de los problemas sociales más graves que afectan hoy en día a Estados Unidos: las enfermedades mentales, los sintecho y la utilización de la Policía para reprimir a las poblaciones más marginadas. Si "The Public" no parece que vaya a llegar a la carrera de las preciadas estatuillas doradas de Hollywood, la que sí que podría hacerlo es "A Star is Born", aclamada hoy por la crítica tras ser protagonista ayer de la sección Galas del TIFF. Ese filme supone el debut como director del actor Bradley Cooper con Lady Gaga como intérprete. Como señaló hoy "Hollywood Reporter", al parecer "Cooper puede dirigir y cantar y Lady Gaga puede actuar, lo que deja a Warner Bros. con un candidato" para los Óscar con la cuarta reiteración del clásico título de Hollywood "A Star is Born". Por otro lado, TIFF ha programado para hoy el estreno en Norteamérica de "ROMA", del director mexicano Alfonso Cuarón, un film semiautobiográfico, que narra la vida de una familia de clase media mexicana en la década de los 70, y que acaba de llegar de Venecia, donde ha sido coronada como mejor película en la 75 edición de la Mostra. Entre los filmes en español, este lunes también está previsto el estreno mundial de "Quién te cantará", del realizador español Carlos Vermut e interpretado por Najwa Nimri, Eva Llorach, Carmen Elías y Natalia de Molina. En esta película, Nimri interpreta a Lila, una conocida cantante que ha desaparecido del mundo de la música durante una década y que necesita la ayuda de una de sus seguidoras (Llorach) para recordar cómo actuar en público de la misma forma que en el pasado. Otro estreno mundial es "Rojo", una coproducción entre Argentina, Brasil, Francia, Holanda y Alemania, del director argentino Benjamín Naishtat ("Historia del miedo", 2014), y que cuenta con Darío Grandinetti, Andrea Frigerio, Alfredo Castro y Diego Cremonesi. El filme se desarrolla en la Argentina de mediados de la década de los 70 y se centra en la historia de un abogado de una pequeña localidad, cuya tranquila vida peligra cuando un detective empieza a hacer preguntas. De Argentina, TIFF también ha incluido hoy las proyecciones de "Sueño Florianópolis", de Ana Katz ("El juego de la silla", 2002), y "La Quietud" de Pablo Trapero, con Martina Gusman, Bérénice Bejo, Édgar Ramírez y Joaquín Furriel. Del cine chileno, el festival acoge hoy el estreno norteamericano de "Tarde para morir joven" de Dominga Sotomayor ("De jueves a domingo", 2012) con Demian Hernández, Antar Machado y Magdalena Tótoro. También este lunes se proyecta la única película costarricense de la 43 edición del TIFF, "Cascos indomables", de Neto Villalobos con Arturo Pardo, Daniela Mora y Harvey Monestel. La jornada se completa, por parte de las películas de habla española, con "Pájaros de verano" de los colombianos Cristina Gallego y Ciro Guerra; "La Camarista", la opera prima de la mexicana de Lila Avilés; y la uruguaya "Belmonte", la cuarta película de Federico Veiroj con Gonzalo Delgado, Olivia Molinaro Eijo y Tomás Wahrmann. EFE
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cosenzapage · 6 years
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“La malasorte” il nuovo romanzo di Daniela Grandinetti, la presentazione ufficiale il 5 aprile a Lamezia Terme al Caffè Letterario “Chiostro”
- #CosenzaPage LAMEZIA TERME (CATANZARO) – Sarà presentato a Lamezia giovedì 5 aprile il nuovo romanzo della lametina Daniela Grandinetti alla sua seconda prova dopo Il mistero della casa del vento. Negli ultimi anni l’autrice ha vinto numerosi premi letterari nazionali (tra i quali i “Racconti nella rete...
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Nuovo evento pubblicato http://eventicatanzaro.it/event/libreria-tavella-annarosa-macr-presenta-corpo-estraneo/
LIBRERIA TAVELLA - Annarosa Macr presenta Corpo Estraneo
Annarosa Macrì, autrice di questo bellissimo romanzo, non ha certo bisogno di presentazioni. Giornalista Rai da circa quarant’anni, ha realizzato inchieste e documentari sia in Italia che all’estero. Per anni volto delle testate regionali, ha avuto l’onore di lavorare con una firma di spicco del giornalismo italiano, Enzo Biagi, collaborando come redattrice e autrice per i suoi programmi televisivi “Una Storia” e “Il fatto”.
“Corpo estraneo” edito da Rubbettino Editore è un romanzo in parte autobiografico: protagonista è Bianca, di mestiere giornalista, che per professione racconta le vite degli altri. Un lavoro emotivamente coinvolgente, che però, spesso, la porta a trascurare la propria, di vita. Un giorno, però, l’atroce sospetto di una malattia, la porta a riflettere su sè stessa e sul suo passato, in particolare sulle donne importanti che, per mestiere o per connessione sentimentale, ha incrociato nel suo cammino di vita, e che lo hanno attraversato, in un certo qual modo, cambiato.
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Conversa con l’autrice
Daniela Grandinetti, Docente
Vi aspettiamo in libreria!
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pangeanews · 4 years
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“Perché una storia così, una storia così terribile, non era mai stata raccontata?”. Tre domande ad Antonio Pagliaro
Antonio, tu hai scritto in prevalenza thriller/noir ambientati in Sicilia: cosa ti ha spinto questa volta a indagare e raccontare la vicenda realmente accaduta di tre bambine uccise a Marsala negli anni ’70?
Fra i thriller, che però preferisco chiamare noir, c’era già stata nel 2010 la parentesi di Giapponese cannibale, un breve true crime che racconta la storia di Issei Sagawa. Già allora mi resi conto che raccontare (e anche leggere) storie vere, “trascinare la realtà dentro i confini della narrativa” come dice Carrère, è la cosa che mi piace di più. Credo che sia la cosa più difficile e affascinante. Da allora avrei scritto solo true crime se avessero un mercato almeno decente. Invece no, non so se la gente non ne legga perché non se ne pubblicano (quei pochi che si pubblicano sono spesso pessimi, io stesso faccio grande fatica a trovarne di buoni in italiano, mentre nel mercato anglosassone sono molti), oppure non se ne pubblicano perché la gente non li legge (in questo caso: come fanno gli editori a saperlo?). La storia, poi, è una storia di cui avevo sbiaditi ricordi. Magari non della storia mentre stava avvenendo, in fondo avevo tre anni, ma di ciò che accadde dopo e durò per anni, le indagini, gli arresti, i processi. Ci sono, nella mia memoria, pezzi di telegiornale, prime pagine con caratteri cubitali, genitori che mormorano e poi si zittiscono. Qualche anno fa avrei voluto leggerne, ma ho scoperto che in fondo nessuno l’aveva raccontata dall’inizio alla fine. Sì, c’è uno splendido reportage di Vincenzo Consolo, ma è solo il racconto di una parte del secondo processo. Perché una storia così, probabilmente la storia più terribile mai accaduta in Sicilia, e in Sicilia di storie terribili ne sono successe, non era mai stata raccontata? Ho provato a farlo io.
Il libro si colloca tra thriller e reportage: la narrazione è condotta con la mano esperta di chi sa mantenere alta la tensione, pur nella ricchezza di riferimenti processuali e di ricostruzione precisa non solo dei fatti, ma anche del quadro complessivo, non solo siciliano, ma italiano, nel quale si sono svolti. Quanto tempo hai impiegato per scriverlo e quanto spazio hai riservato all’immaginazione rispetto ai fatti di cronaca?
C’è un tempo di gestazione, lunghissimo, in cui ho raccolto materiale e idee. Molti anni. Un tempo più breve in cui ho incontrato persone che in qualche modo erano state parte della storia. Poi la scrittura non ha preso molto tempo, alcuni mesi. Ho cercato di essere fedele a quanto davvero successo. Non sempre questo è stato possibile: sia perché a volte le cronache del tempo erano contraddittorie, sia perché molte cose che accadono e che sono documentate hanno bisogno di essere “raccordate”, e i raccordi bisogna inventarseli. Però dopo tanto studio, i personaggi, che in realtà sono persone, li conosci e capisci anche come si muovono, come parlano, come agiscono.
Sui fatti, siamo negli anni ’70, irrompe la TV: Rischiatutto, Canzonissima, il Festival di Sanremo. È il primo caso che si impose all’attenzione anche grazie alla televisione? Quanto ha influito, se ha influito, la diffusione mediatica?
Secondo me non è il primo caso che si impose all’attenzione grazie alla televisione. Il televisore era ancora un bene di lusso, si guardava per lo più nei circoli, trasmetteva poche ore al giorno e non aveva ancora scoperto la cronaca morbosa. La gente guardava “Rischiatutto”, non “Chi l’ha visto?”. I marsalesi seguivano il caso alla radio e sui quotidiani, ma soprattutto nelle piazze, dove c’erano grandi assemblee. Per molti, per i più poveri, la piazza era l’unico modo di avere notizie. Questo poi aveva una conseguenza nefasta: queste folle diventavano facilmente folle nere, assetate di vendetta contro il primo malcapitato. La tv cambierà tutto, credo, con la tragedia di Vermicino, ma Marsala accade dieci anni prima.
*
L’autore: Antonio Pagliaro. Palermitano, è autore dei romanzi Il sangue degli altri (Sironi, 2007), I cani di via Lincoln (Laurana, 2010), La notte del gatto nero (Guanda, 2012), Il bacio della bielorussa (Guanda, 2015) e del racconto lungo Il giapponese cannibale (Senzapatria, 2010). Ha curato per l’editore Laurana l’antologia Palermo criminale. Il grande romanzo della città (2014). Il suo sito web è antoniopagliaro.com
La lettura. Un true crime, come lo ha definito l’autore nell’intervista: un genere poco praticato in Italia e di conseguenza poco frequentato dai lettori. In effetti Storia terribile delle bambine di Marsala è un true crime nella misura in cui racconta la vicenda del Mostro di Marsala che nell’autunno del 1971 uccise tre bambine di nove, sette e cinque anni: un crimine orrendo che all’epoca fece scalpore. Tuttavia, pur con la veridicità degli eventi e i riferimenti costanti alla cronaca dei fatti, nonché a quelli processuali (che sono riportati con dovizia di particolari) Antonio Pagliaro costruisce una narrazione rapida, sostenuta da una prosa asciutta dal ritmo incalzante, calibrata perfettamente; non mi sono distratta neanche un attimo, né mai staccata dalla pagina. L’immersione totale nella vicenda, che dipinge un quadro non solo del fatto di cronaca, ma di una città, Marsala (“una città povera, con il reddito pro-capite tra i più bassi d’Italia”) della Sicilia e di un’Italia intera, lascia lo spazio alla riflessione, al dubbio, quando “la storia semplice” di memoria “sciasciana” si complica e ci si rende conto che verità processuale e verità storica non sono sempre sullo stesso piano e non sempre coincidono. All’epoca (come nell’altro famoso caso del Mostro di Firenze) sono in pochi e credere che Michele Vinci, zio di una delle vittime, abbia agito da solo e nel corso del tempo emergono dettagli sempre più inquietanti, alcuni rivelati dallo stesso Vinci, che prima afferma, poi nega, racconta storie sempre diverse. Chi c’è davvero dietro quel delitto? Orge sataniche che avrebbero coinvolto qualche nome importante? La mafia? Un complotto? Un avvertimento? Persone che non possono essere infangate da un’accusa? E ancora: Vinci è nel pieno delle sue facoltà mentali? È sano o folle, ha diritto all’infermità mentale o ha preso in giro tutti? Sta di fatto che Antonella, Ninfa e Virginia “nisciru e un turnarunu chiù”; seimila cinquecento pagine di atti e l’assassino è un marsalese normale, perché “in giro c’è gente cattiva.” Vinci, peraltro, sarà condannato e sconterà 29 anni di carcere, e forse nessuno conosce la verità. Uno scrittore brillante, Antonio Pagliaro, che ci ha consegnato una storia da leggere assolutamente, non solo perché raccontata in maniera egregia, e non è poco, ma perché ci restituisce la memoria di tre innocenti: tre bambine, alle quali rivolgere il  nostro sguardo e alle quali l’autore dedica questa storia.
La citazione. “La pena non può scaturire dell’emozione. È dura spiegare che Vinci non è un mostro ma vittima. I mostri non esistono. Come un tempo le streghe, i mostri simboleggiano solo la nostra capacità di comprendere” (Elio Esposito, difensore di Michele Vinci)
“A volte le storie succedono insieme, ma non si intrecciano. A volte vicende che dovrebbero rimanere segrete diventano pubbliche perché una storia più grande alza coperchi. Ma i coperchi possiamo tenerli chiusi: la storia delle bambine di Marsala è solo una terribile storia semplice” (Antonio Pagliaro, in Appendice)
Daniela Grandinetti
*In copertina: immagine tratta da “l’Unità”; il 12 novembre 1971 “carabinieri e vigili del fuoco ispezionano il pozzo dove sono state trovate uccise le bambine Ninfa e Virginia Marchese”
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pangeanews · 4 years
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“Se mi fa vergognare, allora è la storia giusta”. Tre domande ad Alessio Forgione, autore di “Giovanissimi”
Giovanissimi narra un mondo di adolescenti a Napoli e Marocco, il protagonista, ha 14 anni. Combattono con il vuoto e l’assenza. È la storia che ti piaceva raccontare o è anche un riferimento più generale a una generazione?
Io scelgo la storia da raccontare che più m’induce vergogna. Se mi fa vergognare tantissimo allora incomincio a pensarci e a furia di pensarci diventa un’ossessione, e siccome sono un pigro mancato e un ossessivo compiuto non incomincio fino a che non posso fare altrimenti. Dopo, mi vergogno tra me e me, poi mi vergogno un po’ in pubblico e, finito il giro, ricomincio con un’altra vergogna.
Leggere è piacevole, scrivere no. Se allo scrittore piace scrivere sono abbastanza certo che ne verrà fuori un libro brutto e vanitoso e che non si tratta di uno scrittore, in questo caso, ma di un grafomane.
Generazione, generazionale e via dicendo sono parole che, abbinate ai libri, sottolineano l’importanza e l’aggregazione insita in un’opera: è capitato tanto a Giovanissimi quanto a Napoli mon amour, il mio precedente romanzo, e ne sono lieto, molto, ma non era mia intenzione, perché non ci credo a queste cose. O meglio: non credo che possano accadere a prescindere. Piuttosto, l’arte non può che essere individuale: parlare di un soggetto e parlarne così bene e approfonditamente da arrivare nel punto dove risiedono una parte delle personalità di tutti.
C’è una geometria nei rapporti tra i ragazzi, un po’ come nel gioco del calcio che pratica Marocco: Lunno, Gioiello, Fusco, Petrone, Marco, poi Maria Rosaria e Serena. A volte sono i gesti, i silenzi della noia, del caldo, gli scoppi di felicità e i cazzotti delle controversie. Linee che definiscono azioni e reazioni, un’atmosfera che fa respirare l’inquietudine dell’assenza. Gli schemi del gioco non funzionano e il goal che aspetti non arriva?
In Giovanissimi il calcio ha la sola funzione di contestualizzare Marocco, il protagonista, e di renderlo isolato rispetto alla sua vita vera. Perché quando hai un talento, piccolo o grande che sia, quel talento ti rende un po’ unico, ponendoti fuori dal branco, e questo per dire che il calcio è irrilevante in questa storia: c’è all’inizio del romanzo e, pagina dopo pagina, va scomparendo, perché Marocco incontra cose, persone, situazioni che, a differenza dello sport, lo appassionano davvero.
Per me, almeno da quanto ho capito fino ad oggi, la vita non ha schemi: ad una data azione non corrisponde, sempre, la reazione attesa e ogni volta accade quel che accade. Infatti, il libro narra del tentativo di Marocco di vincere l’attesa smettendo di aspettare, il suo lanciarsi nell’amore e verso la vita, e poi la vita che arriva.
Non so, dunque. Io ho trentaquattro anni e non farei un figlio nemmeno se mi pagassero, per le responsabilità, i soldi, l’inquinamento acustico e così via e tanti mie coetanei non li fanno perché pensano di dover trovare prima il lavoro giusto, poi la casa giusta, fino a che tutto è giusto. Io stimo molto quelli che lo fanno e basta, costi quel che costi, occupano un posto e si attaccano sul contatore di qualcun altro. Loro sono dei romantici, non io.
Il padre di Marocco, abbandonato dalla moglie, uomo di poche parole, eloquente sul piano della comunicazione emotiva. Con le difficoltà di essere padre di un adolescente che cresce da solo, compie gesti che riescono a dare una direzione alla vita di Marocco e i due hanno una relazione strana e controversa, fatta di silenzi e condivisione dello stesso vuoto. Ho trovato una sorta di somiglianza tra Lunno, il migliore amico di Marocco, e il padre: entrambi mi sono sembrati la realtà che rompe l’equilibrio dei sogni degli adolescenti. Un po’ come la città in cui è ambientato il romanzo, Napoli, che dà e toglie?
Se il romanzo fosse stato ambientato a Londra nessuno avrebbe pensato ad una città che dà e toglie, perché Londra è Londra, e gli italiani hanno un’idea e non gliela togli: Londra è grattacieli, soldi e invece, a ben vedere, è una città incredibilmente povera, popolata di persone povere povere povere, con una povertà che gli scende fin dentro l’anima e gli compromette prima il linguaggio e dopo i pensieri. Invece la città di Giovanissimi è Napoli, che non è Napoli ma una delle sue periferie, ed è la città a dare e togliere, perché alla parola Napoli dobbiamo abbinare le immagini ricorrenti che abbiamo nella libreria della nostra memoria, che c’hanno infilato con la forza e di proposito e allora Napoli è questo e quello, dà e prende ed io sono davvero stanco delle visioni parziali, limitate e limitanti. Napoli, nonostante la sua collocazione geografica nel mondo, è tanto spaccio a cielo aperto quanto una capitale culturale di questo pianeta. A ben vedere, i soli prodotti culturali italiani che funzionano e vengono esportati provengono da Napoli, o meglio: c’è Napoli dentro, un paesaggio che però saccheggiano qui e non altrove, perché Napoli funziona, ha una storia da raccontare, sì, sempre la stessa, ma almeno ne ha una. E non fa niente che se parli con un americano un po’ così e gli dici che sei italiano lui strabuzza gli occhi e risponde “Pizza… Mare… Sole… Caffè…” e questa, che è l’idea che buona parte del mondo ha dell’Italia, non è l’Italia, ma Napoli, posto che a Napoli ci sono migliaia di cose importanti, e non solo queste sciocchezze. E se fosse la nazione, quindi? Se fosse l’Italia a dare e togliere? Qualcuno ci ha mai provato a pensare a questa cosa? Napoli dà e toglie come qualsiasi altro posto del pianeta: io vengo da Soccavo, dove vivo tutt’ora, ovvero nello stesso quartiere di Marocco, e non sono un disoccupato né spaccio, ma uno scrittore, e non sono più intelligente di quello del palazzone di fronte che vende l’eroina, e siamo cresciuti nello stesso posto e siamo stati obbligati a frequentare le scuole fino alla stessa età. Dunque, qual è l’ente che dà e toglie? Napoli? Siamo sicuri? E se Napoli fosse il problema di e per diversi milioni di italiani, com’è che nessuno viene qui ad aggiustare e risolvere il problema? A me, personalmente, Napoli ha dato tutto: è stata il miglior genitore possibile. Punto.
*
La lettura. Le risposte di Alessio Forgione mi hanno (positivamente) colpito, come quando si gioca alla battaglia navale e beccano la tua corazzata: colpita e affondata. Mi sono sentita (positivamente) di fronte a un interlocutore che tra le righe mi ha detto: e su dai, non blaterare troppo, Giovanissimi è così e così. Risposte taglienti e  precise. Nette. Alessio Forgione è un po’ come Ken Loach che ti porta negli interstizi della vita comune (nel caso di Giovanissimi quella di adolescenti che crescono a Soccavo, un quartiere napoletano) e non ti fornisce alcuna risposta e men che meno un rimedio. Alessio Forgione è essenziale, rapido, incisivo e, proprio come Ken Loach, poetico perché senza fronzoli. Nell’intervista Alessio afferma “io scelgo la storia da raccontare che più m’induce vergogna”, Ken Loach ha definito il suo cinema “un rifiuto ragionato di accettare l’inaccettabile”. Ammetto di amare molto Ken Loach e dunque ho amato Giovanissimi. Il romanzo va letto per un semplice motivo che non saprei dire altrimenti: è bellissimo; quando sono arrivata alle ultime pagine ho rallentato la lettura, avrei voluto che durasse, che non finisse. Comprendi il finale e pensi no, magari ne avrà scelto un altro, dio ti prego fa’ che ne abbia scelto un altro, ma sai che non è possibile e il finale arriva ed è quello, implacabile e teso come tutta la narrazione. Poi chiudi il libro e ti si apre il vuoto dell’assenza, fai fatica a infilarti in altre pagine, diverse da quelle che hai appena letto. Hai bisogno di dire a Marocco, il protagonista: dammi la mano, resta ancora qui, non te ne andare.
La citazione.“Ci dissanguiamo costantemente e che tutto sanguini, per favore, per sempre, allora, perché il sangue è quello che c’è prima che la vita cominci. La vita. La vita non è altro che un’inconsapevole attesa. Poi arriva, e fa male”.
L’autore. Alessio Forgione è nato a Napoli nel 1986. Scrive perché ama leggere e ama leggere perché crede che una sola vita non sia abbastanza. Il suo romanzo d’esordio, Napoli mon amour, ha vinto il Premio Berto 2019 e il Premio Intersezioni Italia-Russia; in corso di traduzione in Francia e Russia, verrà portato in scena al Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno.
*In copertina: Alessio Forgione, autore di “Giovanissimi” (l’immagine è tratta da qui)
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pangeanews · 4 years
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Nell’antica dimora della Grande Madre. Tre domande a Maria Rosa Cutrufelli. “La malattia del nostro mondo è la sterilità”
Partiamo dal titolo del romanzo, molto suggestivo, a cosa vorrebbe alludere il titolo che mette “le madri” su un’isola?
Le isole sono luoghi che proteggono e al tempo stesso ‘espongono’. Sono approdi e insieme luoghi da cui si parte per cercare un altrove. Forse proprio per questa loro natura ambigua, sono spesso culla di storie arcaiche e primigenie: in sostanza, luoghi del mito. E infatti l’isola del romanzo è l’antica dimora della Grande Madre, di Demetra, dea della vita che sempre si rinnova. E nel romanzo è proprio questo che cercano le quattro protagoniste: un luogo dove la vita possa di nuovo trionfare.
Il romanzo è ambientato in un mondo (non troppo lontano da noi) nel quale a causa di cambiamenti climatici si è diffusa la “malattia del vuoto”. Che genere di malattia è?
È una malattia che il nostro mondo purtroppo conosce molto bene: la sterilità. Ogni anno l’ISTAT ci ricorda che l’Italia è in pieno calo demografico, e così tutto il ricco mondo occidentale. Una malattia che ha molte cause: una di queste, come hanno riconosciuto i medici, è sicuramente l’inquinamento, che ha effetti a lungo termine sulle cellule riproduttive. Dunque la ‘malattia del vuoto’, di cui parlo nel romanzo, non è propriamente un’invenzione: è qualcosa che esiste già e a cui dovremmo mettere riparo, evitando di riversare nel ventre della terra fiumi di veleni chimici.
Livia, Mariama, Kateryna, Sara: donne che provengono da luoghi molto diversi e che si ritrovano nel medesimo posto, La casa della maternità, a far fronte allo stesso problema, se pur in maniera diversa. Sembri attribuire alle donne, nella catastrofe che imperversa, un ruolo salvifico. Come?
È vero, le donne nel romanzo hanno un ruolo salvifico. Non per una presunta ‘bontà’ innata, ma perché sono capaci di intessere fra loro relazioni di mutuo aiuto e di solidarietà. In sostanza, perché sono capaci di prendersi cura l’una dell’altra. E anche questa non è una capacità ‘innata’, ma il frutto dell’esperienza, della volontà di cambiare le cose e di rendere il mondo più vivibile e felice (se possibile).
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La lettura. Ho letto il romanzo di Maria Rosa Cutrufelli L’isola delle madri con molto interesse. Un libro importante, non soltanto per il tema trattato, ma anche per il modo con cui è condotta la narrazione, delicata ma incisiva. Racconta una realtà apparentemente lontana, un mondo futuro, ma non così tanto: cammina con fatti che sono già tra noi, dei quali si parla, si scrive e si studia, tuttavia non abbastanza, o quanto meno non in modo incisivo da invertire la rotta. I romanzi servono anche a questo: le storie possono essere un pungolo, spingerci a riflettere ed agire, a prendere posizioni. Una storia di quattro donne dei nostri tempi, Livia docente universitaria che combatte con il desiderio di un figlio; Mariama, che parte dal continente povero e cammina, ha solo i suoi piedi per camminare verso una vita migliore; Kateryna, che dall’est approda sull’isola e insieme a Sara lavora presso La Casa della maternità, la prima come infermiera l’altra come direttrice. Tutte e quattro combattono la nuova malattia “la malattia del vuoto” e insieme procedono per sconfiggerla. Alla fine sarà Nina, la donna nuova, nata dall’incontro delle quattro protagoniste, che a proposito della vita delle tartarughe marine dirà: “«Vuoi dire le tartarughe adulte? Le madri? Eeh… Quelle se ne sono andate da un pezzo. Di sicuro non sono madri ansiose! Scavano il nido, lo coprono con grande cura, questo sì, almeno un metro di sabbia, ma non appena hanno finito se ne vanno per i fatti loro. Il mare le attende». Con la loro storia”. I piccoli delle tartarughe alla nascita, goffi, correranno “corrono come possono per immergersi e sparire, finalmente, dentro gli abissi marini: vanno a cercare le loro madri. La loro storia”.
La citazione. “Se ne stanno raggruppate in un angolo. Una fruga dentro un cestello di plastica, un’altra strofina le mani sopra un grembiule allacciato in cintura, come per pulirsi o asciugarsi, un’altra ancora butta indietro la testa mostrando l’arco della gola. Sara le fissa una per una, le scruta con attenzione crescente, le studia, le esamina. E all’improvviso sa cosa manca e qual è la natura di quel silenzio irreale che preme contro le sue tempie: i bambini! dove diavolo sono finiti tutti i bambini?”.
Maria Rosa Cutrufelli è nata a Messina, ha studiato a Bologna e attualmente vive a Roma. Ha pubblicato otto romanzi, tre libri di viaggio, un libro per ragazzi e numerosi saggi. Fra i romanzi ricordiamo: La donna che visse per un sogno (finalista al premio Strega nel 2004), Complice il dubbio (da cui è stato tratto il film Le complici) e Il giudice delle donne (tutti pubblicati da Frassinelli). Il suo ultimo saggio è Scrivere con l’inchiostro bianco (Iacobelli). Ha curato antologie di racconti, scritto radiodrammi, collaborato a riviste e quotidiani nazionali. Ha fatto parte della redazione di “Noi Donne”, fondato e diretto la rivista “Tuttestorie” e insegnato Scrittura creativa all’Università La Sapienza di Roma. I suoi libri hanno vinto diversi premi e sono stati tradotti in una ventina di lingue.
a cura di Daniela Grandinetti
*In copertina: Frank Bernard Dicksee, “The Mirror”, 1896
L'articolo Nell’antica dimora della Grande Madre. Tre domande a Maria Rosa Cutrufelli. “La malattia del nostro mondo è la sterilità” proviene da Pangea.
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pangeanews · 4 years
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“Il bosco sta lì indipendentemente da noi: ci precede e ci sopravviverà”. Tre domande a Sandro Campani
“Il Paese”: quasi un personaggio, come nel precedente romanzo Il giro del miele. È il luogo dell’appartenenza in senso positivo e negativo: se da un lato il paese dà una dimensione, dall’altro chiude altri orizzonti. Che “paese” è quello del romanzo I passi nel bosco?
È, come per tutte le mie storie, un paese immaginario in una valle immaginaria dell’appennino Tosco-emiliano. Ma, a pensarci, è una dimensione su cui non ho mai ragionato, ed è buffo, perché ci sono cresciuto, in un paese, fatto di borgate sparse e piccolissime (che d’inverno erano praticamente vuote, alla completa mercé di noi bambini, e d’estate si riempivano di villeggianti). La dimensione del paese come centro in cui vedi costantemente chi c’è davanti al bar, sai tutto di tutti, e ti senti oppresso dal costante controllo dello sguardo degli altri, l’ho provata soltanto di striscio, quando si andava “a corte”, e cioè nel centro della mia frazione; e pensando al fatto che da questo me ne sono andato (visto che abito in un luogo relativamente più comodo alla città, adesso, ma molto più isolato) mi verrebbe da dire che il paese non scaturisca da quello che scrivo come analisi consapevole di una presenza, ma quasi trasudando, perché a un paese appartieni anche senza volerlo né saperlo. È un rapporto che non puoi risolvere: o ti ci schiacci dentro e ne subisci la grettezza, o ti ci assesti e ne riproduci la grettezza, o te ne vai: e se te ne vai, resti strappato in due e sradicato; sempre fuori posto. Non riesci a stare in un posto più grande: l’inutilità, la fatuità affannata del grande e del veloce ti sono chiare; il non senso di tutto ti è chiarissimo. Per questo agli altri Luchino fa paura: perché in mezzo a questo non senso, a questa grandezza, alla casuale intercambiabilità degli orizzonti, Luchino ci sguazza.
Possiamo dire che protagonisti sono due, Antonello e Luchino: due personaggi antitetici. Spietato nel suo bisogno di affermazione il primo, libero e anticonformista l’altro. Luchino è ciò che tutti vorrebbero essere, l’unico che dal paese va e torna. Quale la dinamica di questi due protagonisti così diversi?
Luchino è quello che si prende distrattamente tutto perché non dà importanza a nulla; quello la cui assenza incanta, quello che viene coccolato da tutti, che riceve tutto in dono perché non chiede niente: è un po’ come la parabola di Gesù sui gigli del campo e gli uccelli del cielo: il Signore non pensa forse a loro? Antonello è l’opposto: la conquista rabbiosa di una posizione, il definirsi attraverso il potere e la presenza; Antonello c’è sempre, sempre, sempre. Presidia il suo territorio, costringe gli altri a subire la sua stella. Colpo su colpo ha accumulato la sua roba, il suo giudizio utilitaristico sul mondo e sulla gente; eppure Antonello sa che di fronte alla noncuranza di Luchino, perderà. La partita che c’è per lui, non c’è per l’altro: Luchino puoi persino lasciarlo pestare a sangue, denudare e buttare in un roveto, ma non otterrai niente: lui fluttua in un’altra dimensione, e tu rimani frustrato. Antonello, dentro di sé, capisce di essere un perdente. Questo scarto che gli brucia dentro ne fa probabilmente il personaggio più complesso del romanzo, quello a cui in fondo è affidato il ruolo dell’antagonista in un duello. Anche l’uso dello spazio lo rimarca: Luchino non è in nessun luogo ma aleggia nei discorsi di tutti, le voci si alternano, e girano in tondo, mentre Antonello rimane da solo, a chiudere il libro con una tirata, accerchiato dagli altri, che non sanno niente di quello che gli si è incancrenito dentro e lo fa star male, ne vedono solo gli effetti: pare che a loro interessi soltanto di vederlo cadere, e lui lo sa. C’era una storia di Topolino in cui Zio Paperone si innamorava di un cane da corsa, e vedendoci un profitto lo strappava al suo proprietario, in campagna; lo portava a gareggiare nelle grandi occasioni; alla fine tutto si risolveva in una grande tristezza, il cane veniva riportato indietro, e Zio Paperone diceva: preferisco che sia il campione del suo paesino, piuttosto che uno fra i tanti in città. Per tornare al paese: Luchino è andato, Antonello è restato; lui è il campione nel suo paesino: il prezzo è di essere odiato da tutti, e incompreso.
Il bosco: si potrebbe definire un altro protagonista della vicenda. Ha una voce. La lettura del romanzo mi ha riportato a un autore, Thomas Hardy, e al suo Nel bosco. In quest’ultimo la natura è simbiosi, vita. Com’è invece il bosco nel tuo romanzo?
È quello, e anche altro. Gli possiamo attribuire un aspetto salvifico, ad esempio, ma il bosco non sta lì per controbilanciare la nostra perdizione e il nostro esserci votati al demonio della vita accelerata, a ricordarci le cose positive, il contatto con la natura, eccetera; queste sensazioni possiamo sentirle, ma il bosco sta lì indipendentemente da noi: ci precede e ci sopravviverà. Contiene una quantità di cose sconosciute che sono al di sopra della nostra portata; contiene un tempo molto più lungo del nostro, e più certo; un tempo che va indietro a quando noi non avevamo nemmeno consapevolezza di esistere, e un tempo che continuerà quando saremo morti. Per questo possiamo cercare nel bosco tutti i segni che desideriamo, ma il punto è che non esiste in relazione a noi: esiste al di là di noi. Siamo noi che abbiamo bisogno di metterci in relazione con il bosco – e ciascuno dei miei personaggi lo fa a suo modo. Quello che succede in Appennino, ma credo ovunque in montagna in questo tempo, è che il bosco sta tornando a riprendersi gli spazi che l’uomo gli aveva strappato a fatica: se guardi le valli dall’alto, e le confronti con foto anche solo di dieci anni fa, per non parlare di trenta, vedi che il verde scuro si sta richiudendo sul verde chiaro dei prati. I prati coltivati erano il segno dell’uomo che viveva e lavorava quotidianamente qui; il bosco non più manutenuto, disordinato e sporco, è quello che succede quando l’uomo se va. La comunità umana sparisce, i paesi si spopolano. Non è mia intenzione dare del bosco un’immagine rassicurante; quello che fanno i personaggi del libro è cercare di pulire e riassestare un luogo che era allo sbando: per qualcuno di loro è un compito puramente pratico, uno ha un rapporto animistico con un albero in particolare, per qualcun altro quel taglio significa tenere vivo il ricordo di un morto. Per Luisa, sì, è una presenza piena di simboli e di sinestesie, da cui lei si lascia prendere, ma accetta di non poter capire: in questo, forse, il rapporto di Luisa con il bosco è il mio.
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Lui è Sandro Campani; photo Pietro Campani
La mia lettura. Vivo in una casa isolata, vicina a un bosco, pertanto ho respirato il romanzo di Sandro Campani dalla prima all’ultima pagina. Per goderne della lettura però non bisogna per forza aver fatto una scelta così estrema: sono la parola e la storia la vera forza di questo romanzo;  ascoltiamo le diverse voci dei personaggi le cui azioni, i cui pensieri, sono determinati da un personaggio che non c’è, che tutti – per un motivo o per un altro – aspettano: Luchino. Ma arriverà Luchino? Chi lo sa, Luchino è imprevedibile.
C’è il paese-mondo, luogo nel quale tutti si conoscono, dove gira la giostra dei sentimenti e dei rapporti (l’invidia, l’amore, l’inganno, la disillusione, l’incapacità, il fallimento) e dal quale si vorrebbe fuggire senza riuscirci perché non tutti sono coraggiosi come Luchino. Il paese che somiglia alla stanza che abitavamo da ragazzi nella quale mettevamo i poster che amavamo, dove dormivamo la notte stipando i nostri sogni sul cuscino, ma che poi odiavamo di giorno, quando gli adulti invadevano i nostri spazi con le loro parole, i loro rumori, e gli umori. Il paese e il suo bar, quello dove tutti si incontrano, epicentro dei racconti e dei pensieri, il punto di osservazione dell’esistenza propria e altrui, il posto dove scegliere di raccontare menzogne o dire la verità. E sopra ogni cosa, là, in alto, il bosco, che tutti frequentano per il taglio, ma che nessuno possiede: rimane misterioso, bello e imprendibile, come Luchino. Una storia che rivela un autore sensibile e alchemico (come già per il precedente romanzo Il giro del miele), che sa usare alla perfezione gli ingraggi della narrazione e della lingua, provocando meraviglia.
Nel bosco puoi riconoscere i segni, ma soltanto se lo conosci a fondo, come Luisa, la prima “voce” del romanzo che pronuncia le parole incipit del romanzo: “Io temo l’odore dei salici, amo quello delle querce; riconosco i passi di Luchino sulle foglie”. Luisa che sa riconoscere i passi di Luchino non dalla sua camminata, ma dai suoi “piedi”, ovvero dai suoi Passi nel bosco.
L’autore. Sandro Campani vive e lavora in un paese dell’Appennino tosco-emiliano, dove è nato nel 1974. Ha pubblicato È dolcissimo non appartenerti piú (Playground 2005), Nel paese del Magnano (Italic Pequod 2010) e La terra nera (Rizzoli 2013). Per Einaudi ha pubblicato Il giro del miele (2017) e I passi nel bosco (2020).
Daniela Grandinetti
*In copertina: Isaac Levitan, “Foresta”, 1885-1889
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pangeanews · 4 years
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“Come potremmo diventare noi stessi senza un’eredità, senza un maestro?”. Tre domande a Roberto Contu, autore di “Insegnanti”
Insegnanti (Il più e il meglio). Titolo che è una citazione da Pinocchio di Collodi. Perché un libro sugli insegnanti?
Ci sono tanti argomenti che potrei elencare. Almeno il prologo e l’epilogo di questo libretto insistono sulle motivazioni che mi hanno fatto pensare, in questo tempo storico, alla necessità di un nuovo racconto di questa figura straordinaria che è l’insegnante: quella donna o quell’uomo ai quali la società affida gran parte del lavoro di costruzione del futuro di noi tutti. Ma visto che si tratta di una domanda fattami da un’insegnante come te, Daniela, non posso non sentirmi libero di aggiungere un referto personale, con la fiducia di essere capito. Io faccio l’insegnante e la prima implicazione è che ciò mi rende contento. Sono contento di andare a scuola, sono contento che la mia vita si stia consumando tra quei corridoi e quelle aule, sono contento all’idea di passare, ancora e spero, tanti anni a scuola. Contento significa contenuto. La scuola mi contiene e mi riempie da anni. Un maestro un giorno mi disse che per scrivere qualcosa occorre essere saturati da un’esperienza, un libro, un dolore, una gioia. Credo che questi anni mi abbiano contenuto e riempito tanto da generare un costante e immeritato eccesso di vita, che a un certo punto si è cristallizzato anche nella forma (imperfetta) di questo libretto.
Nel tuo libro si respira una grande passione per la tua professione, ma fuori “dall’aula insegnanti”. Inoltre, oltre la retorica, ammetti di commuoverti ancora di fronte a Don Milani che affida la costruzione del futuro ai “maestri”. Quale il significato della prima affermazione e com’è sentirsi un insegnante appagato per quello che fa e farà in tempi in cui ai maestri non è più attribuita la funzione che avevano un tempo?
L’aula insegnanti è un posto particolare: è l’unico posto nel quale, per una specie di legge non scritta, gli studenti non possono entrare. In linea di principio è sano che esista l’aula insegnanti: c’è una asimmetria fertile tra docenti e discenti che va organizzata, discussa, resa prassi in un tempo e in un luogo che non prevedano la presenza degli studenti. Qualche volta però capita che l’aula insegnanti divenga il luogo della fuga, il posto della lamentela e del malessere del docente, il posto del rifiuto più o meno conscio degli studenti. Metto simbolicamente in questo secondo tipo di aula insegnanti un modo di vivere la scuola che sento distante, che mi affatica, che non mi interessa. Si tratta di un’astrazione, di uno stratagemma retorico, certo. Uno degli intenti del libro però è proprio quello di testimoniare l’esperienza di entrare e uscire continuamente da quell’aula insegnanti, ricchi dello stupore e rigenerati dalla fatica in virtù di quanto si è vissuto in classe, tra gli studenti.  Riguardo il secondo spunto. È vero, viviamo tempi in cui ai maestri parrebbe apparentemente negata una funzione e per altro mi ritrovo nel tuo uso al plurale, maestri, non maestro: l’educazione è una faccenda collettiva, non da novelli Keating solitari. Eppure, come disse Bauman in un libretto prezioso (Elogio della letteratura): «Come potremmo diventare noi stessi senza un’eredità, senza un maestro, senza la sua voce, senza un messaggio profondo?» Credo si tratti di un’esigenza ineludibile, silenziosa, magari apparentemente contraddetta dal senso comune ma che si risignifica ai nostri occhi ogni volta che entriamo in classe, anche oggi, anche in questo tempo.
Il tuo libro è uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia e della chiusura della scuola. Cosa aggiungeresti se potessi scrivere un capitolo sulla scuola in questi ultimi mesi di didattica a distanza?
Sarebbe facile fare una conta di ciò che ho accettato, di ciò che ho rifiutato. L’abbiamo fatto tutti ed è giusto che ciò accada. Ma forse, più che raccontare quello che è stato, proverei a ragionare su quello che sarà, quando gradualmente torneremo a stare l’uno difronte all’altro. Ci sarà il tempo della rielaborazione, dell’emergere delle ferite sottopelle, del presentarsi dei mille muri che potrebbero tenerci distanti anche quando saremo chiamati a riaccostarci. Per certi aspetti ci ritroveremo in un terra desolata, ma credo sarà importante portare alla luce quanto a un certo punto è stato chiaro a tutti: non siamo senza l’altro, non vogliamo rinunciare all’altro.
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La mia lettura. Nella produzione di romanzi e/o saggi sulla scuola, finalmente un libro che parla di scuola in modo “serio” e fuori dal teatrino dei luoghi comuni abusati: e se è vero che i libri non cambiano la vita, a volte – quando l’incontro capita nel momento giusto come è successo a me – ti impongono dubbi, ti fanno domande, e possono fornirti perfino delle risposte. Roberto Contu parla con umiltà e generosità della sua professione di insegnante e ci ricorda quanto grandi siano le conseguenze di un insegnamento attento e competente. Ci ricorda quanto siano importanti le conoscenze (le competenze e le misurazioni lasciamole alla Fondazione Agnelli e ai ministri di turno) e quanto sia possibile “staccarsi” dal conformismo che livella il sapere al minimo indispensabile. Ci ricorda, ad esempio, quanto sia difficile far amare Petrarca a ragazzi nativi digitali che frequentano una classe terza di un qualsiasi istituto tecnico e ci racconta quanto tempo trascorre a preparare “quella” lezione perché quei ragazzi possano cogliere la modernità di un autore, possano entrare nella complessità del pensiero, noi che oramai siamo abituati a pensare che tutto debba essere alla loro portata e il nostro compito ridotto a quello di “facilitatori”. Ho letto questo libro come un dono, io, insegnante, e ne consiglio la lettura non soltanto a chi vive nel mondo della scuola, ma a chiunque, perché si racconta una realtà della quale molto si parla ma poco si conosce davvero: la costruzione del futuro migliore possibile dipende dall’azione di insegnanti come Roberto Contu, che si interroga continuamente sul senso dell’insegnamento e fa credere nel valore della scuola, come è giusto che sia. Roberto alla fine ringrazia chi ha letto. Io ringrazio lui, per averlo letto. Ultimo, ma non meno importante: l’edizione Aguaplano/Glitch ha creato un oggetto meraviglioso
La Citazione. “Ma poi mi dico che forse, ben più delle parole, basterebbe camminare consapevolmente per un corridoio di una delle nostre scuole italiane in una mattina qualsiasi e magari ascoltare il brusio delle aule, lo scalpicciare di qualche docente che corre per una fotocopia, l’attuffarsi di uno straccio nel secchio di qualche collaboratore, forse, ben più che con le parole, semplicemente in questo modo potremmo far percepire con certezza al mondo intero ciò che la scuola è: un’immensa e organizzata industria umana adatta a produrre quotidianamente senso e futuro (…) Guardo i loro volti. Vedo il loro sguardo. Sento i muri e i vetri che tremano al loro passaggio. Qualche volta vedo volare una sedia, molto più spesso vedo librarsi sorrisi che mi dicono con parole di fuoco la vita. Ecco, per questo ne vale la pena, per questo varrà sempre la pena”.
Roberto Contu insegna lettere nella scuola secondaria superiore. Si occupa di letteratura italiana contemporanea e di didattica della letteratura ed è redattore del blog La letteratura e noi. Nel 2017 ha pubblicato Il vangelo secondo il ragazzo (Castelvecchi) e nel 2015, per i tipi di Aguaplano, Anni di piombo, penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni complicati).
Daniela Grandinetti
*In copertina: Nikolaij Bogdanov-Belskij, “Lezione di aritmetica”, 1895
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pangeanews · 4 years
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“No, io non mi faccio mettere in scacco da due righe verticali, le precedo”. Un libro in 3D: tre domande a Lidia Popolano, autrice di “Rinascite”
Rinascite è il titolo del tuo libro, ci racconti come nasce quest’opera così particolare?
C’è un periodo molto lungo della mia vita in cui ho tenuto per me riflessioni, dialoghi, emozioni, studi. Vivo questo periodo come un crogiolo di anima (se così vogliamo chiamarla) che ha trovato la strada per esprimersi, a partire da circa venti anni fa, nel mio primo romanzo, ma anche in questa sorta di prosa e nella poesia. Qualcuno ha intravisto della poesia anche in quest’opera. Non so se questo sia vero, ma so che in tutti i miei lavori si scorgono tracce di altri generi letterari.
Abbiamo definito “opera” il tuo libro, perché di difficile classificazione. Nella Prefazione Davide Grittani ci avverte: “Questo libro è così intimo che anche i racconti in esso contenuti finiscono per nascondersi, al punto che per rinvenirne il senso e la sostanza bisogna liberarsi dall’idea – mi si perdoni l’intreccio – che si tratti di racconti”. Come definiresti quello che hai scritto, così intessuto del tuo mondo intimo e personale?
Una mia lettrice attenta ha definito quest’opera come una raccolta di brevi personal essay. C’è del vero, ma con una differenza essenziale: nel personal essay, lo scrittore usa la forma del racconto per parlare di sé. Nel racconto in prima persona, invece, abbiamo qualcosa che si presenta come un enunciato di realtà, ma invece è fiction. D’altro canto, come dice Käte Hamburger nel suo La logica della letteratura, il principio discriminante fondamentale, nei generi di statuto incerto, è la volontà artistica dell’autore, non la forma. Ciò che mi ha spinta è stata la volontà di dare voce a emozioni e convinzioni di alcuni personaggi di finzione, ossia fittivi, senza osservarli dall’esterno, ma lasciando che parlassero in prima persona. Ma se invece di personaggi fittivi, fossero state a parlare le diverse sfumature della mia personalità, in fondo, per il lettore cosa sarebbe cambiato?
Il libro è scritto in modo curato, uno stile definito e maturo, si sente che c’è una predilezione per la “bella scrittura”, a tratti poetica; come metti in relazione questa esigenza con un mercato editoriale sempre più propenso a non rischiare nel pubblicare opere che non contemplino i canoni della fiction?
Devo dire che le proposte editoriali non mi sono mancate. In questo caso, poi, l’editore ha creduto fortemente in quest’opera. Premesso che ciò che conta per me è l’origine dell’impulso che mi spinge a scrivere e non il fine, il soggetto del mio lavoro non sono io, quindi il lavoro si ascrive nel genere del racconto in prima persona entro il contesto della fiction, come ho precisato nella precedente risposta.
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La lettura. “Io non mi metto mai seduta davanti un foglio bianco, mi terrorizzerebbe o mi costringerebbe a tracciare scalette, mappe, estratti, contare le righe, contare i caratteri. Tutta roba buona per la scuola o per quando devi scrivere su commissione. No, io non mi faccio mettere in scacco da due righe verticali, le precedo”. È l’incipit di questo piccolo gioiello letterario che è Rinascite; l’autrice mette subito in guardia dunque, ci sfida: non siamo di fronte a un’opera qualunque, ma questa è “l’opera” creativa di ogni mente che operi una ricerca libera e dia ad essa una forma, dunque arte. Libro che si legge con il sesto senso della sensibilità (che sta in ogni singola parola/ riga); in cui lettore e opera sono in dialogo costante, esattamente come accade, a mio avviso, con le espressioni artistiche di arte contemporanea, siano esse musica, pittura, teatro o letteratura. Una voce fuori dal coro dunque, raffinata e nel contempo semplice nella suo essere audace. Credo sia soprattutto quest’ultimo il grande pregio di Rinascite: (l’apparente) semplicità, caratteristica difficile da raggiungere perché richiede innanzi tutti grande perizia e, in secondo luogo, una buona dose di coraggio. E di questi tempi, meno male che scrittrici come Lidia Popolano credono ancora nel valore della letteratura, quella vera.
*
L’autrice. Studiosa di neuroetica, vive a Roma, dedicandosi all’attività creativa. Ha scritto e diretto i monologhi itineranti Di notte per i vicoli di Roma antica e Il Grande Cinema per le strade di Roma patrocinati da Roma Capitale e Fondazione Cinema per Roma (2007-2013). Ha pubblicato per 96, rue-De-La Fontaine, il romanzo Come l’impronta di un quadro (2017), Menzione Speciale della Presidenza, Premio Wilde 2019, e 2° Premio, Concorso Poeta per caso 2018. Ha vinto il Premio Nabokov 2019 con la silloge poetica inedita Abitare mura diroccate.
Daniela Grandinetti
*John Singer Sargent, “Claude Monet Painting by the Edge of a Wood”, 1885
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pangeanews · 5 years
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Gli uomini, d’altronde, sono abitati dalle ombre. Per questo ho scritto “Il Brigatista”. Un romanzo in 3D: tre domande ad Antonio Iovane
Il brigatista narra i dieci anni che sconvolsero l’Italia: gli anni ’70, la strategia della tensione, il terrorismo. Da dove è partita l’esigenza di raccontare quegli anni, così già ampiamente esplorati?
È vero, sono stati esplorati dal punto di vista saggistico, ma il romanzo li ha sempre schivati. I romanzi sulle BR solitamente hanno messo la lotta armata sullo sfondo, mentre in primo piano trovavano spazio vicende di altro tipo – famigliari, intimistiche, storie d’amore; oppure hanno sempre raccontato una parte limitata di quel decennio, prevalentemente la vicenda Moro. Ma se isoliamo una sezione perdiamo il fenomeno storico, che si comprende solo nella sua intera parabola: dall’inizio, con le ragioni che hanno determinato la sua nascita, fino alla sua fine e alle ragioni che ne hanno deciso il collasso. È quello che ho cercato di fare con “Il brigatista”: raccontare la lotta armata nella sua evoluzione, inserendo nel campo scenico i protagonisti e chiedendo loro di agire, di spiegarmi, fare in modo che fossero loro a raccontarmi senza pregiudizi. In sintesi: volevo capire.
Leggendo il romanzo entriamo nella mente di un brigatista, Jacopo Varega, che si racconta a una giornalista, Ornella Gianca. Come hai costruito questo personaggio, tra finzione e realtà?
Il mio protagonista non doveva/poteva essere un brigatista integralista, quello che in gergo viene chiamato irriducibile. Avevo bisogno di un personaggio combattuto, dalle certezze limitate per esplorare quella zona di confine tra risolutezza e dubbio, perché il romanzo si trova sempre più a suo agio nelle zone di confine, il romanzo è il regno dell’ambivalenza. Leggendo la memorialistica di quegli anni ho trovato queste caratteristiche in Patrizio Peci che mi ha ispirato il personaggio di Varega. È stato un uomo combattuto, che riconosceva errori e rivendicava scelte. Un uomo abitato da ombre, come tutti.
Nel romanzo la Storia si coniuga con un affresco narrativo romanzato di quel decennio, i due elementi sono in perfetto equilibrio. Come hai lavorato per coniugare verità storica, che nelle pagine si avverte, a una finzione romanzesca?
Nella mia idea di romanzo, non è la Storia a muovere i personaggi, ma sono i personaggi a muovere la Storia. Così, dopo il lavoro di documentazione, che ha richiesto un periodo piuttosto lungo, per l’arruolamento dei personaggi mi sono chiesto: chi ha potuto muovere la ruota di quella Storia? Da qui ho scelto i miei attori: i brigatisti, in tutte le loro sfaccettature; la famiglia Fornati, funzionale al racconto del rapimento Moro dal momento che abita al piano superiore rispetto al nascondiglio; gli uomini di dalla Chiesa, con Salvatore de Rosa in primo piano; i “pistaroli”, col vasto dibattito di quegli anni su strategia della tensione e opposti estremismi; e infine la giornalista Ornella Gianca, che lega Storia e storie. Ho montato poi il romanzo in modo che ciascun personaggio contribuisse a muovere la ruota. Infine ho scelto la domanda che muove tutto il romanzo: chi è il traditore? Lo sviluppo thriller che quella domanda genera mi ha consentito di restituire ritmo a tutto il racconto.
Daniela Grandinetti
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La lettura. Si legge come un thriller, si entra nei meccanismi delle scelte di un brigatista, si percorre la storia di un decennio implacabile per questo paese. C’è il piglio giornalistico unito a una grande capacità narrativa. Per me, uno dei migliori romanzi letti negli ultimi tempi e sicuramente il più bello tra quelli che hanno raccontato gli anni di piombo, prezioso, direi, se si vuol comprendere i fatti accaduti in quel decennio.
L’autore. Antonio Iovane nato e vive a Roma. Giornalista, conduce una trasmissione radiofonica (Capital Newsroom) insieme a Ernesto Assante su Radio Capital. Ha pubblicato due libri per Barbera editore: La gang dei senzamore (2005) e Ti credevo più romantico (2006).
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pangeanews · 5 years
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“È stato qualcosa di inaudito, ho impiegato 15 anni a scrivere il romanzo su Piazza Fontana”. Un libro in 3D: dialogo con Valerio Aiolli
12 dicembre 1969: Nero ananas inizia con il botto, quello di Piazza Fontana. Da dove nasce l’esigenza di raccontare la storia quegli anni?
Quando inizio a scrivere una “cosa”, che sia un racconto breve o un romanzo lungo, non ho mai ben chiari i motivi per cui lo faccio. Si tratta più di un’energia quasi fisica che si mette in moto dentro di me e che mi spinge a prendere una strada che ignoro se si fermerà dopo quindici minuti, quindici mesi o quindici anni. Le motivazioni raccontabili le metto a fuoco via via, spesso a lavoro finito. In questo caso credo si sia trattato della confluenza di un elemento privato e di uno pubblico. Nel 1969 avevo otto anni e percepii distintamente che era accaduto qualcosa di inaudito. Lo vidi dalle facce dei miei genitori, da cosa si diceva in casa, dal tono di voce dei giornalisti in televisione, dalle prime pagine dei giornali. Ogni generazione ha, purtroppo, la tragedia che segna il passaggio a un’età più adulta e più cupa, quella fu la nostra, la mia. Quel botto però andò ben al di là di un evento generazionale. Segnò l’inizio di un periodo di sconvolgimenti politici e civili che furono un vero e proprio cambio di scenario nella nostra storia. Oltretutto, nonostante i tanti processi e il tanto tempo trascorso, è stato così denso il fumo di quella bomba (e di quelle successive) da impedire, nonostante tutto il tempo trascorso, di vederci chiaro. Così, devo aver pensato, entrare dentro quel fumo, quella nebbia, con gli strumenti della letteratura, della narrazione, poteva servirmi a conoscere qualcosa di più, e a farlo conoscere a chi avrebbe letto il libro, se mai fossi riuscito a finirlo.
Il romanzo ha avuto una lunga gestazione e un percorso complesso prima di vedere la fine e l’uscita per Voland. Quali sono stati i dubbi e perché è stato difficile scriverlo?
Sì, è stato difficile. Lungo, appassionante e difficile. Come una di quelle storie d’amore che a un certo punto devono finire, ma che ti ricorderai per tutta la vita. Intanto, la documentazione. Reperire e leggere (o guardare nel caso di filmati) tutto il materiale uscito su quegli anni: gli articoli dei quotidiani e dei periodici dell’epoca, libri, rinvii a giudizio, sentenze-ordinanze, ricostruzioni giornalistiche, interviste, memoriali. Ho iniziato a lavorarci più o meno nel 2002 e per un po’ di tempo ho fatto solo quello: leggere, segnare le cose che mi sembravano importanti, metterle in relazione tra loro. Difficoltà nella difficoltà: continuavano a uscire nuovi libri, nuove interviste, sarei potuto andare avanti all’infinito. A un certo punto mi dissi: basta, tu non vuoi scrivere il saggio dei saggi, ma un romanzo. Quello che hai letto è più che sufficiente. Ora comincia a organizzarlo. E qui nacque la seconda difficoltà: inventare una struttura, un modo di raccontare questa storia che mettesse insieme tutti i piani narrativi (da quelli pubblici a quelli privati) e tutti gli eventi di cui era composta, senza creare un guazzabuglio inestricabile per il lettore. Da qui la scelta di alternare la prima, la seconda, la terza persona, e altre caratteristiche stilistiche usate nel testo. Infine la scrittura: il punto decisivo. C’era un’alternanza di punti di vista e di registri (dal ragazzino a un capo di governo, da un terrorista glaciale a un anarchico sbandato, ecc.) da rendere al meglio. Terminare un capitolo del ragazzino e immergermi nel buio mondo di un uomo che decide di usare bombe per scopi politici, per esempio, non era facile, e a volte mi obbligava a lunghe pause per trovare in me il respiro necessario al nuovo tratto di cammino. Tutto questo ha fatto sì che il processo di stesura sia durato una quindicina d’anni. Per fortuna nelle pause ho scritto e pubblicato un altro po’ di libri…
Nero ananas è un romanzo corale: molti personaggi sono realmente esistiti, quasi tutti riconducibili all’eversione di destra di quegli anni, un’area composita nella quale convivevano molte anime. Spicca su tutti il ragazzino la cui sorella sparisce di casa, quasi ingoiata dal mistero degli eventi che stanno accadendo. Durante una vacanza si trova catapultato nei moti di Reggio Calabria (altro episodio sconosciuto e dimenticato) e li vive come un’avventura, “una cosa bellissima”.  È la perdita dell’innocenza, che da personale si fa collettiva: quanta consapevolezza abbiamo del modo in cui quegli anni hanno inciso nella nostra storia? Il tuo romanzo, così vibrante nella scrittura, ci vuole riportare agli interrogativi senza risposte di quegli anni, pagati da centinaia di innocenti?
Con “Nero ananas” Valerio Aiolli è stato selezionato tra i 12 del Premio Strega. Tra i suoi romanzi ricordiamo “Fuori tempo” (Rizzoli, 2004) e “Ali di sabbia” (Alet, 2007)
Io credo alla letteratura come forma di conoscenza. Abbiamo tante forme di conoscenza (di noi stessi e del mondo) a nostra disposizione: la scienza, la filosofia, la storia. Anche, in un certo senso, le religioni. Quando leggo un libro di narrativa, riesco ad appassionarmi solo se, al di là della vicenda che mi sta raccontando, riesce a farmi intravedere un pezzettino in più di me stesso e del mondo. Con Nero ananas io non avevo l’intenzione di dare risposte ai tanti interrogativi rimasti aperti riguardo a quegli anni. Volevo raccontare da dentro alcuni dei personaggi che li hanno navigati, far emergere le loro vite non attraverso gli eventi, ma attraverso le pulsioni, i ragionamenti, le allucinazioni, gli errori, le ipocrisie, le follie che hanno portato a quegli eventi. Volevo esprimere la vita di quegli anni, con tutte le sue contraddizioni. Che forse può essere uno specchio, deformato quanto si vuole, per capire un millimetro di più chi siamo e cosa abbiamo intorno. Credo, alla fine, di aver proposto con questo libro più domande che risposte. E la cosa, mi sa, non mi dispiace.
Daniela Grandinetti
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La Lettura: Nero ananas insegue sin dalle prime pagine, non è un romanzo confezionato per compiacere il lettore, di quelli che si dimenticano il giorno dopo, è scritto con una variabilità di registri confacenti ai numerosi attori delle vicende. Un mosaico di voci e fatti che una volta saltato per aria vi costringerà a star lì a rimettere insieme i pezzi, proprio come la (S)toria, la nostra, alla base della narrazione. Raccontata mirabilmente.
L’autore: È nato nel 1961 a Firenze, dove vive. Ha esordito nel 1995 con la raccolta di racconti Male ai piedi. Il suo primo romanzo, Io e mio fratello (E/O, 1999), è stato tradotto anche in Germania e Ungheria. Sono seguiti Luce profuga (E/O, 2001), A rotta di collo (E/O, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007), Il sonnambulo (Gaffi, 2014) e Il carteggio Bellosguardo (Italo Svevo Edizioni, 2017). Per Voland ha pubblicato Lo stesso vento nel 2016 e Nero ananas nel 2019, con il quale è stato selezionato tra i dodici candidati del Premio Strega.
*In copertina: la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, dopo l’esplosione del 12 dicembre 1969
L'articolo “È stato qualcosa di inaudito, ho impiegato 15 anni a scrivere il romanzo su Piazza Fontana”. Un libro in 3D: dialogo con Valerio Aiolli proviene da Pangea.
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