#Emily Dickinson e il mistero
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pier-carlo-universe · 5 days ago
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La Luna non era che un Mento Dorato. Emily Dickinson e l’elogio poetico della Luna: un viaggio tra bellezza, simbolismo e mistero
Un titolo che risplende: "La Luna non era che un Mento Dorato"
Un titolo che risplende: “La Luna non era che un Mento Dorato” Emily Dickinson, una delle voci poetiche più straordinarie della letteratura americana, torna a incantare con questa composizione senza tempo dedicata alla Luna. Con le sue immagini dense di metafore e la sua visione unica della natura, Dickinson regala al lettore un’intensa esperienza sensoriale ed emozionale. Questa poesia celebra…
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radiosciampli-blog · 7 years ago
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Sei tu ciò che volevo? Và via, i miei denti sono cresciuti. Soddisfa un palato meno esigente non affamato da tanto tempo. E adesso sappi che, mentre aspettavo il mistero del cibo è aumentato finchè l'ho ripudiato: ne ho fatto a meno a pranzo come Dio. Emily Dickinson
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randomnotesonrandomness · 5 years ago
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Nota del traduttore
Translator’s note 
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English below
Ho tradotto Sottovoce in un posto meraviglioso, da fiaba, da non crederci.
Un po' come i disegni che ti fanno fare all'asilo. Disegna un paesaggio felice. E io facevo una casetta di legno, un fiume, quattro abeti, una nuvola, un cervo (un cilindro orizzontale con dei rami in testa e le zampe come matite, bruttino).
Ero in Canada, in una residenza per traduttori all'interno di un parco naturale. Tu stai lì e traduci, non devi pensare ad altro. Diventi un animaletto che mangia, dorme, cammina nei boschi e traduce. Non devi pensare a cose mondane come pulire, riordinare, fare la spesa, cucinare... e ogni due giorni c'è una tavola rotonda sulla traduzione. Sei con venti traduttori e parli quasi sempre di parole. Poi fai le passeggiate per pulirti la testa nel verde, nei verdi. Sono dei verdi che non avevo mai visto prima, o forse sì, nei ramarri o in certe rane, nei serpenti d'acqua, nelle piume delle anatre. Sono verdi di animali.
Nel verde ci sono sempre i cervi che non hanno paura degli umani e sembrano il cuore di un diorama, ci sono gli alci che assomigliano ai cavalli, ci sono i cani della prateria ciccioni e curiosi che corrono sempre e poi si alzano dritti sulle zampe dietro per guardarti meglio. Sei lì che cammini in un bosco e fai sempre piano, un po' perché il bosco è silenzioso, con il tappeto di aghi e la moquette di muschio, un po' perché è così bello che sembra fragile e in effetti lo è, un po' perché speri di vedere un orso. Ti dicono di far rumore per allontanarli, ma io facevo sempre piano perché volevo vederlo, l'orso. Però  non l'ho visto lo stesso, purtroppo.
Ogni tanto spunta un animale e tu pensi, oh. E non trovi parole. Rimani lì con il battito che accelera e sorridi come se avessi visto la Madonna. Invece gli animali sono veri, hanno il pelo folto e i denti che sembrano sorriderti e gli occhi che ti fissano e quindi sono molto più magici della Madonna. D'altronde, Emily Dickinson diceva che sono migliori degli esseri umani 'perché sanno, ma non dicono'.
Questo paradiso è durato tre settimane. E in mezzo a quelle giornate piene di parole e di oh e ah davanti agli animaletti, per quattro giorni, come da programma, mi ha raggiunto Sarah Manguso. I traduttori selezionati hanno il privilegio di far invitare l'autore su cui stanno lavorando. Tombola.
In questi piccoli quadri che compongono Sottovoce ci sono un po' di cervi, e dei posti nel verde, oltre a case, scuole, ospedali. Io non sapevo dove si svolgessero queste scene, Manguso non lo dice quasi mai. Ma ero certa che quando c'erano i cervi erano residenze per scrittori, e ho capito d'istinto di dover mantenere il mistero. Tradurre Vergogna è stato tutto un levare. E un lavoro complicato per custodire il mistero.
Quando ho conosciuto Sarah ero stupita perché me l'ero immaginata minuta e nervosa. Invece è una donna molto alta e solida, sorridente, con gli occhi verdi, enormi. Penso abbia una laurea in guardare. La sera stessa ci siamo messe a parlare di case, non so bene perché, e io le ho fatto vedere una foto della mia casa spoglia e le ho detto che non tengo le cose e anzi ho imparato da Andanza a conservare un po' più di oggetti e lei ha detto 'Oh. Che sogno. Anch'io amo le case spoglie.' Era stupefatta all'idea che avessi imparato qualcosa da lei. Insomma ci siamo piaciute subito. In quei quattro giorni abbiamo passato tutti i pomeriggi a lavorare su piccole cose da limare e ridurre, a sfrondare, a parlare per capire, e per decidere cosa levare ancora. “Ancora. Leviamo anche questo. No questa frase non va neanche in inglese, togliamola del tutto. È più bello in italiano, più pulito. Così rimane la parola pura” e ci veniva da ridere, eravamo quasi euforiche per tutta quella pulizia. Un po' come fare ordine in casa, cosa che piace a entrambe. E poi durante le passeggiate nei boschi e sul fiume e abbiamo incontrato gli animali e siamo rimaste senza parole insieme, che è una cosa speciale. Prima che partisse le ho spiegato il gioco dei riccioli dei soffioni che facevo sempre da piccola e pensavo fosse famoso in tutto il mondo (la megalomania di chi è nato in provincia), invece non lo conosceva. Prendi un gambo, lo giri al contrario tenendo la corolla, lo dividi in quattro e poi con l'indice spingi in basso creando quattro ciocche. Poi riempi una ciotola d'acqua e ci butti dentro il gambo e in qualche minuto le ciocche diventano ricci compatti, serrati. E lei mi ha fatto un complimento indimenticabile che fa anche un po' ridere. Mi ha detto “Sono rapita da ogni parola che dici sulle mie parole. E poi riesci a rendere interessante anche un soffione.”
Questo libro ha poche parole, ma sono tutte scelte, pulite, lucidate tante volte, e da due persone insieme, scrittrice e traduttrice. E poi ancora levigate in redazione. Rimane una cosa compatta e magica come un ricciolo di soffione che ti fa, spero, ammutolire dalla bellezza. Come quando cammini piano nella foresta sperando di vedere un orso, e non lo vedi ma sei felice lo stesso.
I translated Hard to Admit, Harder to Escape in a wonderful place, a fairy tale, almost surreal.
A bit like the drawings they ask you to do in kindergarten. Draw a happy landscape. And I used to draw a little wooden house, a river, four fir trees, a cloud, a deer (a horizontal cylinder with branches on its head and legs like pencils, quite ugly).
I was in a translators' residency in the middle of a national park in Alberta, Canada. You are invited for three weeks and all you have to do is work on your project, without having to think about anything else. You become like a little animal that eats, sleeps, walks in the woods and translates. You don't have to bother about worldly things like cleaning, tidying up, shopping, cooking ... and every two days there's a round table. You are with twenty translators and you basically always talk about words. Then you go for long walks to clear your head in the green, in the greens. Greens I had never seen before, or maybe yes, on lizards or certain frogs, on snakes, the feathers of ducks. Animal greens.
In the green there are deer which are not afraid of humans and they are the heart of a diorama. There are elks that resemble horses, there are prairie dogs, chubby and curious and always running, apart from when they stop all of a sudden and get up straight on their hind legs to stare at you. You take long walks in the woods, silent and careful, partly because the forest is quiet, with carpets of needles and rugs of moss, partly because it  seems fragile and in fact it is, and also because you hope to see a bear. Everyone tells you to be loud and make noise in order to drive them away, but I never listened because I so wanted to see the bear. But alas, despite all my careful steps I didn't.
From time to time a creature appears and you are like, oh. And you don't find the words. You stay still with your heart racing, smiling as if you had seen the Madonna. But the animals are real, they have thick hair and teeth that seem to grin and eyes that stare at you and therefore they are much more magical than the Madonna. After all, Emily Dickinson said  (about dogs, but still)  they are better than human beings 'because they know, but  do not tell'.
So I lived in this paradise for three weeks. And in the midst of those days full of words and of oh and ah in front of animals small and big, Sarah Manguso joined me for four days. Selected translators have the privilege of inviting the author they are working on. Bingo. In the tiny paintings that make up Hard to Admit, Harder to Escape there are deer and places in the green, as well as houses, schools, hospitals. I did not know where these scenes took place, Manguso hardly ever specifies it. But I was sure that when deer were mentioned, they were in writers' residences and I knew instinctively that I had to keep the mystery. Translating Hard to Admit, Harder to Escape was all a levare, removing, subtracting. And it was an uncanny  job to keep the mystery in the translation. When I met Sarah I was surprised because I imagined her petite and nervous. Instead she is a very tall and strong woman, smiling, with huge green eyes. I reckon she has a degree in looking. The same evening we started talking about houses, I do not know why, and I showed her a picture of my very spare flat. I told her that I tend to discard memories and  things and that I learned while translating Andanza/Ongoingness to keep a little more. She said 'Oh. That's a dream. I love bare spaces too." She was amazed at the idea that I had learned something from her. We instantly liked each other. In those four days we spent every afternoon working on small things to be polished and cut, we pruned, we discussed and decided what else to eliminate. She kept saying:"Yes. We should also chop this. No, this sentence doesn't even work in English, so take it out completely. It's more beautiful in Italian, cleaner. Pure words only" and we giggled a lot, elated by all that cleaning. A bit like tidying up home, something which we both like. And then during our walks in the woods and along the river we met the animals and we were speechless together, which is a very special thing. Before she left I explained the game with dandelions that I always played when I was a kid, sure it was famous all over the world - the megalomania of country dwellers. She did not know it. You take a stem, turn it upside down holding the corolla, divide it into four and then with the index finger you push down creating four curls. Then you fill a bowl with water and throw them in and a few minutes later the curly stems become tight, compact locks. And Sarah came up with  an unforgettable compliment that also made me laugh. She told me something like "I am enchanted by every word you say about my words. You manage to turn even a dandelion into something fascinating!" This book has very few words, but they are all chosen, cleaned, polished many times, and by two people together, writer and translator. And then smoothed again by the editor and me, hopefully producing something as compact and magical as a dandelion that leaves you speechless for its beauty. Like when you move slowly and quietly in the forest hoping to see a bear, and you do not see it but you're happy anyway.
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filippobiancoenero · 7 years ago
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Il Tramonto che scherma, rivela – intensificando ciò che vediamo con minacce d’Ametista e Fossati di Mistero. (Emily Dickinson) #poetry #photooftheday #blackandwhitephotography #mondolfo (presso Mondolfo)
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simonarinaldi · 5 years ago
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Cara Sue - Emily Dickinson
Cara Sue – Emily Dickinson
Emily Dickinson
Cara Sue –
Una Promessa è più salda di una Speranza, anche se non è reputata così tanto – La Speranza non ha mai conosciuto Orizzonte – Lo Sgomento è la prima mano che ci viene tesa – Il primo velame della Disperazione non dev’essere lasciato durare – Perché serrerebbe lo Spirito, e nessuna intercessione potrebbe darsi – L’Intimità col Mistero, dopo un lungo Intervallo, ne…
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painfulpresent · 5 years ago
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GIUSEPPE UNGARETTIMattino
M’illumino d’immenso.
FERNANDO PESSOAVoglio, avrò
Voglio, avrò — se non qui, in altro luogo che ancora non so. Niente ho perduto. Tutto sarò.
EMILY DICKINSON La speranza
La speranza è un essere piumato che si posa sull’anima, canta melodie senza parole e non finisce mai. La brezza ne diffonde l’armonia, e solo una tempesta violentissima potrebbe sconcertare l’uccellino che ha consolato tanti. L’ho ascoltato nella terra più fredda e sui più strani mari. Eppure neanche nella necessità ha chiesto mai una briciola – a me.
HENRY WADSWORTH LONGFELLOWGiorno di pioggia
La giornata è fredda, e scura, e cupa Piove, e il vento non è mai stanco La vite si aggrappa ancora al muro in rovina, Ma ad ogni raffica le foglie morte cadono, E i giorni sono scuri e cupi. La mia vita è fredda e scura e cupa; Piove, e il vento non è mai stanco; I miei pensieri si aggrappano ancora al passato in rovina, Ma le speranze della gioventù cadono fitte nell’esplosione, E i giorni sono scuri e cupi. Fermati, cuore triste!  E smettila di lamentarti; Dietro le nuvole il sole sta ancora splendendo Il tuo destino è il destino comune di tutti Nella vita di ognuno di noi deve cadere un pò di pioggia. Alcuni giorni devono essere scuri e cupi.
PABLO NERUDA Ode alla speranza
Crepuscolo marino, in mezzo alla mia vita, le onde come uve, la solitudine del cielo, mi colmi e mi trabocchi, tutto il mare, tutto il cielo, movimento e spazio, i battaglioni bianchi della schiuma, la terra color arancia , la cintura incendiata del sole in agonia, tanti doni e doni, uccelli che vanno verso i loro sogni, e il mare, il mare, aroma sospeso, coro di sale sonoro, e nel frattempo, noi, gli uomini, vicino all’acqua, che lottiamo e speriamo vicino al mare, speriamo.
Le onde dicono alla costa salda: Tutto sarà compiuto.
RABINDRANATH TAGOREL’alba
Ogni Alba porta un nuovo giorno, lavando con la luce della speranza le macchie e la polvere dello spirito vuoto di ogni giorno passato. Vuoi celare te stesso! Il cuore non ubbidisce, diffonde luce dagli occhi.
Nella vita non c’è speranza di evitare il dolore: che tu possa trovare nell’animo la forza per sopportarlo.
Cieco, non sai che l’andare e il venire camminano sulla stessa strada? Se sbarri la strada all’andata perdi la speranza del ritorno…
GIANNI RODARISperanza
Se io avessi una botteguccia fatta di una sola stanza vorrei mettermi a vendere sai cosa? La speranza.
“Speranza a buon mercato!” Per un soldo ne darei ad un solo cliente quanto basta per sei.
E alla povera gente che non ha da campare darei tutta la mia speranza senza fargliela pagare.
PABLO NERUDASperanza
Ti saluto, Speranza, tu che vieni da lontano inonda col tuo canto i tristi cuori. Tu che dai nuove ali ai sogni vecchi. Tu che riempi l’anima di bianche illusioni. Ti saluto, Speranza, forgerai i sogni in quelle deserte, disilluse vite in cui fuggì la possibilità di un futuro sorridente, ed in quelle che sanguinano le recenti ferite. Al tuo soffio divino fuggiranno i dolori quale timido stormo sprovvisto di nido, ed un’aurora radiante coi suoi bei colori annuncerà alle anime che l’amore è venuto.
MADRE TERESA DI CALCUTTAInno alla vita
La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne realtà.
La vita è una sfida, affrontala.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.
La vita è ricchezza, valorizzala.
La vita è amore, vivilo.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La via è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, accettala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è la vita, difendila.
MARIANGELA GUALTERIBambina mia
Bambina mia, Per te avrei dato tutti i giardini del mio regno, se fossi stata regina, fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma. Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine, polveri pesanti su tutto lo scenario battiti molto forti palpebre cucite tutto intorno. Ira nelle periferie della specie. E al centro, ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano come una bestia zoppa e questo mondo come una palla alla fine. Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e di sangue. Lo fa perché è facile farlo. Noi siamo solo confusi,credi. Ma sentiamo. Sentiamo ancora. Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci di amare qualcosa. Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora, a te tocca la lavatura di queste croste delle cortecce vive. C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto. Io ora lo vedo di piu’. C’è splendore. Non avere paura. Ciao faccia bella, gioia piu’ grande. L’amore è il tuo destino. Sempre. Nient’altro. Nient’altro. Nient’altro.
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pasqualedesensi · 8 years ago
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OPENING 07.05. 2017 fino al 14.05.2017 Residenza in via dei neroni, San Benedetto del Tronto (AP)  Openhouse Lab_Art_Event  
a cura di Solidea Ruggiero
VERNISSAGE dalle ore 18.00 FINISSAGE Domenica 14 maggio con presentazione del catalogo della mostra ARTISTI: INSTALLAZIONE/PERFORMANCE OSPITE ISTALLAZIONE Urbana: “MeP” MOVIMENTO DELL’EMANCIPAZIONE DELLA POESIA MICHELE MARIANO curatore della realtà, “1800 Secondi” Il Wormhole per l’invisibilità GIORGIO CIPOLLETTA installazione e performance BOOKQUAKE TONI ZAPPA installazione e performance “IL VUOTO E’ PIENO” AMANDA TRULIO dancer perfomer VIDEOINSTALLAZIONE NAVEGASION (Giorgio Maria Cornelio e Luca Rossi) Ogni Roveto un Dio che arde RITA VITALI ROSATI Mastica e sputa MINIMAL CINEMA ( Claudio Romano e Betty L’Innocente) Slow animals PITTURA/COLLAGE/ DISEGNO Liana Zanfrisco Michele Guidarini+ Pasquale De Sensi Nicola Alessandrini Hernan Chavar FOTOGRAFIA Massimo Attardi Luca Bortolato Marco Casolino Alessandro Ficca Chiara Francesca Cirillo Fabio Trisorio “Un’opera d’arte è soprattutto un’avventura della mente.” Eugène Ionesco 
“Il primo atto di vita avviene nella mente, il primo sforzo di coscienza, il primo indizio verso il mistero della realtà. La mente è il nostro primordiale habitat naturale, il primo intimo luogo sin dalla placenta, in cui una parte della nostra identità prende forma, abita, comprende i segni, costruisce i linguaggi, cresce assieme ai cambiamenti, le espressioni, gli umori: è così poi che il nostro cervello in continuo dialogo, redige tutto, metabolizza l’esterno, e ci fa agire. È il nostro spazio riservato, profondo, espandibile, visionario, segreto, solitario e a volte invalicabile. Per certi essere umani è addirittura insopportabile la convivenza con se stessi, penosa, faticosa, fino a diventare una gabbia, un isolamento, una costrizione: quando ci si sente come ospiti, quando ci si allontana dalla propria appartenenza e si diventa l’assenza stessa del nostro io, e il limine tra la caduta e il perdersi è così pericolante che tutti gli equilibri cedono, scivolano, si spezzano. Ma la mente umana è anche e soprattutto un grande viaggio, un’esperienza continua che vira affianco alla vita stessa, trasforma i significati e il continuo senso delle cose, che ci fa dichiarare espressione di vita, plurima, moltiplicabile nella sua infinita unicità, forse condivisibile o forse non sempre abitabile. Il cervello umano ha contorni, e scale, mura, finestre e vie e paesaggi e strade che in alcuni casi possiamo vivere solo da soli, e in altri casi siamo pronti a spalancare le entrate.” Solidea Ruggiero “La mente è più grande del cielo Perché se li metti fianco a fianco L’una contiene l’altro Facilmente.” Emily Dickinson Direzione artistica, ideazione e cura: Solidea Ruggiero Supervisione artistica e Sviluppo: Andrea Castelletti Coordinazione artistica e comunicazione: Nicoletta Ficca Logistica e coordinazioni tecniche: Paolo Lanciotti L’Associazione Culturale #OpenHouse Art-Lab -Event nasce con l’intento primario di ricercare e individuare delle locations itineranti, da poter reinterpretare, promuovere, sostenere e rivalutare attraverso proposte di progetti culturali e artistici e che facciano da contenitore dei diversi eventi che andremmo a progettare e sviluppare. Spazi privati o pubblici, esterni o interni, dove creare nuovi circuiti e sviluppare progetti, workshop, laboratori, eventi, mostre, editoria, residenze d’arte e di personaggi del mondo della cultura, tavole rotonde, proiezioni e presentazioni, cercando di conoscere, coinvolgere e promuovere artisti, creativi, creando occasioni di appuntamento reali per avvicinare la più ampia tipologia di pubblico e porla in dialogo diretto, diventando ogni volta un nuovo contenitore, con lo scopo di divulgare l’arte in tutte le sue forme e evoluzioni contemporanee a sostegno e in collaborazione anche di progetti sociali. La nostra è una cura totalmente indipendente che abbraccia varie collaborazioni, e si basa sulla ricerca, lo studio e l’individuazione dei vari linguaggi artistici, con una attenzione di riferimento alle collaborazioni verso il mondo del design e dell’architettura, per il supporto e lo sviluppo degli spazi individuati e le installazioni delle mostre stesse, mettendo assieme figure competenti, professionali e appassionate. Siamo un’associazione culturale che opera in maniera itinerante e trasversale.
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pier-carlo-universe · 3 days ago
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La Luna non era che un Mento Dorato di Emily Dickinson: un ritratto celestiale e intimo della Luna. Recensione di Alessandria today
Emily Dickinson, con la sua inconfondibile voce poetica, dipinge la Luna come una figura quasi umana, adornata di mistero e grazia, in una delle sue opere più evocative e simboliche.
Emily Dickinson, con la sua inconfondibile voce poetica, dipinge la Luna come una figura quasi umana, adornata di mistero e grazia, in una delle sue opere più evocative e simboliche. Attraverso metafore delicate e immagini brillanti, questa poesia esplora il rapporto tra il cielo e la Terra, rivelando il fascino eterno del nostro satellite naturale. La poesia: un ritratto intimo della…
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pier-carlo-universe · 16 days ago
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Emily Dickinson e “Tutto imparammo dell’amore”: Un Viaggio nella Profondità del Sentimento. Recensione di Alessandria today
La poetessa americana esplora l’amore come rivelazione e mistero attraverso il linguaggio lirico e introspettivo
La poetessa americana esplora l’amore come rivelazione e mistero attraverso il linguaggio lirico e introspettivo. “Tutto imparammo dell’amore”: Emily Dickinson e l’esplorazione dell’amore come enigma In “Tutto imparammo dell’amore”, Emily Dickinson affronta il tema dell’amore con una delicatezza e una profondità rare. La poetessa americana ci guida attraverso una riflessione intima e quasi…
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pangeanews · 6 years ago
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“Per lei la natura è una casa popolata di spettri”: Silvio Raffo racconta “La bella di Amherst”, l’opera teatrale di William Luce sulla vita di Emily Dickinson
Nel paese dei libri tradotti è inevitabile che certe figure come autore e traduttore finiscano quasi per coincidere. Emily Dickinson e Silvio Raffo, per esempio, sembrano ormai un’entità unica. Non fosse altro perché Raffo ha dedicato una vita alla nota poetessa americana e ne ha segnato la ricezione in Italia. La Dickinson che possiamo leggere nel ‘Meridiano’ Mondadori, per intenderci, è in massima parte frutto della sua interpretazione e trasposizione.
Ma, tra le varie cose, Raffo non si è dedicato unicamente ai testi poetici dell’autrice. Ha anche scritto una biografia sul suo conto e si è inoltre impegnato di recente nel riportare in lingua italiana un testo teatrale di William Luce, La bella di Amherst (La Vita Felice, 2018), avente come soggetto proprio la vita della poetessa. Noi di Pangea l’abbiamo raggiunto per farci raccontare quella che oramai è la decima opera da lui curata sulla sua amata Emily. Cogliendo l’occasione, abbiamo approfittato anche per paragonare la pièce teatrale con il film del 2016, A Quiet Passion, vertente anch’esso sulla vita di uno dei più singolari fenomeni della poesia mondiale.
Sulla vita della Dickinson è stato scritto e prodotto tanto: il film, le biografie. Ora lei ha tradotto anche quest’opera teatrale, La bella di Amherst di William Luce. A suo avviso perché la vita della poetessa più famosa d’America interessa tanto il pubblico, pur essendo stata la sua un’esistenza da reclusa.
La reclusione è chiaramente l’aspetto che fa maggiormente colpo. È la prima cosa che si dice della Dickinson: visse rinchiusa e sempre vestita di bianco, dal 1862 fino alla morte. La cosa colpisce perché non è certo usuale che una donna rimanga chiusa in casa per trent’anni, indossando capi di un unico colore. Dal mio punto di vista, sarebbe ancor più interessante scoprire se si sia rinchiusa di sua spontanea volontà o meno. Pare da recenti studi che soffrisse di una malattia nervosa, simile all’epilessia. Nella sua famiglia c’erano già stati tre casi di questo male. Naturalmente non lo sappiamo con certezza. Ci si potrebbe domandare a tal proposito perché andassero a prendere le medicine per Emily a Boston, malgrado l’emporio di Amherst fosse assolutamente ben fornito. Ciò è quantomeno singolare. Alla luce di quanto detto, viene anche da pensare a tutte quelle sue poesie che parlano di nervi, di piccole morti, a quando dice “perduta al punto di essere salva, ero morta”, parlando di sé come se la morte fosse già venuta a trovarla diverse volte. Tutti questi fattori potrebbero conciliarsi con la tesi di un leggero disturbo nervoso che avrebbe indotto i genitori a preservarla sotto una campana di vetro. Inoltre, perché le faccende di casa le faceva tutte la sorella e lei no? Aveva forse qualcosa di particolare, inerente alla salute? Non potendo avere risposte definitive, l’interrogativo sulla sua reclusione resta un mistero.
Io ritengo vi sia inoltre un altro aspetto molto interessante nella vita della Dickinson e che questo abbia avuto non poco peso nella fascinazione suscitata presso il pubblico. Parlo della coesistenza di un piano estremamente ordinario e quotidiano unito a questa sua costante tendenza e aspirazione verso il trascendente. Condivide?
Assolutamente. A esso va aggiunto il fatto di essere una donna che basta a sé stessa, cosa che ha indotto alcune a vedervi una pioniera, non dico del femminismo, però dell’autosufficienza femminile. Questo è senz’altro un elemento che la rende molto moderna. Lei sembrava apparentemente un’ancella della famiglia, ma non lo era. In realtà, era totalmente piena di sé. Si dedicava alle piccole cose, come cucinare la blackcake per suo padre, ma raramente. E poi calava dalla finestra dei dolci per i bambini di Amherst, tra i quali si era guadagnata la fama di una fatina, di una bizzarra signorina.
Anche il recente film sulla Dickinson, A Quiet Passion, insiste molto sull’idea di una donna che basta a sé stessa. Trascura però, o banalizza, la questione del trascendente, del divino, che la poetessa vede in connessione all’elemento naturale. Non trova anche lei che si sorvoli con troppa leggerezza su questo punto, per mettere in luce altri aspetti che la potrebbero avvicinare maggiormente al femminismo?
Sono d’accordo. Bisognerebbe in tal senso dare maggior risalto per esempio all’influenza che ebbe, in gioventù, la lettura di Emerson e quindi l’incontro con il trascendentalismo. Da questa lettura rimase particolarmente colpita, anche se non bisogna dimenticare che più di tutto faceva parte della sua natura vedere il mistero ovunque. Per lei, la natura è una casa popolata di spettri. L’elemento del trascendente, a ogni modo, c’è anche nella cultura che in parte si respirava in casa sua, in cui si pregava molto spesso. La Dickinson però non fu mai un’ortodossa. Anche nel collegio che frequentò vi furono non pochi momenti di imbarazzo, perché lei non si voleva proclamare una vera cristiana. Con quella strega della direttrice, Miss Lion del Mount Hall College, ci furono grandi attriti, ma Emily non volle mai fingere o essere ipocrita. Il suo spirito ribelle la portava a vivere la religione in maniera mistica, senza obblighi di partecipazione a riti istituzionalizzati. “C’è chi osserva la festa andando al tempio, io la osservo restando a casa…”: questi versi chiariscono bene il punto, ci raccontano della sua insofferenza verso qualsiasi Vangelo, dogma o canone. Non scordiamoci che la nostra poetessa è un’individualista, con un ego enorme: “il mio io è una colonna”. Ed è questo suo fortissimo io a sentire il mistero. La realtà pertanto le interessa relativamente, unicamente nella misura in cui le permette di andare oltre. La sua attenzione è rivolta verso gli spettri che abitano la natura, più che verso la natura in sé nei suoi meccanismi concreti. Potremmo dire addirittura che da questa ha sempre un po’ rifuggito, a cominciare dall’aspetto sessuale. Restava piuttosto in ascolto di questi richiami, delle presenze. Non si tratta, a ogni modo, di allucinazioni di una zitella pazza. La sua è una solitudine estrema intervallata da colloqui anche molto rilassati, potremmo dire quasi banali, con la sorella e dalla lettura di romanzetti rosa. Ma essendo più profonda di quello che fa e dice è sempre visitata da questi ospiti. Nelle sue parole, non può essere sola, tra “compagni inafferrabili che eludono la chiave”. Come dobbiamo interpretare questi versi? Intuitivamente, io che le assomiglio non poco, penso che queste siano delle proiezioni della sua psiche che le fanno compagnia, quelli che i greci chiamavano daimones. La natura effettivamente è misteriosa, se la guardiamo non con l’occhio dello scienziato, ma con quello del poeta. Ci presenta innumerevoli spunti, interrogativi, e misteri. Emily coglieva tutto ciò e, pertanto, quel che è umano e contingente le sembra insufficiente. Per una persona con le sue esigenze, tutto quello che rientra nell’ordinario è certo abbastanza deludente. Chi potrebbe accontentarla? Nulla e nessuno. Eppure, è molto attaccata alle sue cose, alla casa, ai familiari che però risultano tutti un po’ sotto rispetto a lei, che sembra sempre trovarsi ad altezze vertiginose. Anche quando parla dei suoi parenti, lo fa con un occhio molto critico. Ha timore del padre, però le sembra un po’ ridicolo con quella mania della puntualità, con questi suoi riti e l’osservanza dei dogmi. Lei è altrove. Così occupata a inseguire il mistero dell’essere che l’esistere passa in secondo piano. La natura la affascina, ma come stanza di un misterioso altrove che la abita, in un continuo trasumanare. Tanto più il corpo è solo, quanto più il pensiero trova compensazione a questa solitudine nelle fantasticherie. Questi fantasmi sono anche nelle cose. In fondo, nella Dickinson ci sono anche in una certa misura il tao, lo zen. Se lei guarda un oggetto, un tavolo, una tazza, una porta, le vede tutte come misteriose forme di concretizzazione di ciò che è il mistero della vita, della natura – ecco spiegato perché le indica sempre con la lettera maiuscola. L’essenza del suo pensiero è che ognuno di noi è, plotinianamente, una scintilla del divino e questa lo rende unico, simile a Dio stesso. Il resto è menzogna: la realtà, la storia, la miseria.
Nell’opera teatrale lei pensa sia ben rappresentata questa dimensione del mistero?
Sicuramente più che nel film. La pièce teatrale predilige, comunque, la leggerezza e questa mi pare la scelta migliore da parte dell’autore. In ultimo, questa specie di colosso che è la Dickinson, è anche molto scanzonato. Le piace sminuire il peso enorme di questa “bomba”, come la chiama in una sua poesia, che sente dentro di sé, scherzando, facendo la scioccherella. Nel film viene accentuato l’aspetto tragico della sua solitudine. È vero che lei ne soffriva, ma secondo me è più forte il piacere che le deriva dal suo immaginare.
A suo avviso il punto di forza della trasposizione teatrale sta quindi nell’essere riuscita a rendere questo aspetto della leggerezza…
Sì, esattamente. Trovo che nel porre l’accento su quest’aspetto sia maggiormente realistica – non per niente l’autore ha attinto alle lettere. La Dickinson ne scriveva tantissime e raccontava le sue cose alle amiche, ma sempre con questo tono scherzoso, molto ironico. Tutti fanno la figura di persone limitate nella sua trasposizione sbarazzina e indisciplinata. La sua intelligenza mostruosa riesce sempre a scorgere i lati deboli di tutti. Nei rapporti è comunque molto educata, gentile, buona. Rifugge sempre dagli inutili scontri della commedia umana, che considera una farsa, e vive del suo pensiero che la solleva verso le vette più eccelse.
Ma, quindi, fra la trasposizione filmica e l’opera teatrale scegliamo la seconda perché più efficace e veritiera nella resa dell’esistenza dickinsoniana?
Sì, perché dà più l’impressione di un approfondimento graduale di conoscenza. Il film, invece, che è pure un’opera di notevole valore, non è riuscito a coglierne la vera essenza. L’ha vista più come una persona visitata dall’ombra e dallo strazio di quanto non fosse in realtà. La Dickinson aveva un io troppo solido per sentirsi sconfitta. Il filo che la legava all’invisibile, al trascendente, era troppo forte perché anche la cosa più terribile inerente all’umano e alla fisicità risultasse altrettanto importante. Nel film c’è poco del suo rapporto con la natura e con il divino. Dà troppa importanza alle questioni umane. Mette molto in primo piano questi aspetti quasi da gossip, colorando molti passaggi anche con vere e proprie invenzioni. La pièce al contrario non inventa nulla, non aggiunge una parola a quelle che Emily scrisse nelle lettere ed è fedelissima alla realtà, alla sua natura così spiritosa. E poi è stata portata a livelli altissimi da Julie Harris, la migliore interprete di Emily Dickinson. Tutte queste sfumature il film non le rende, invece la commedia sì. E lo fa nella maniera giusta, in quella miracolosa miscela di forza, potenza e leggerezza. È magistrale quando alla fine, dopo aver recitato invasata la poesia sulla morte, dice “Ah, quella ricetta del pan di zenzero, la prossima volta che ci vediamo, ve la do”. Il divino dono della leggerezza, nel film non si vede, nella commedia sì.
Dal suo punto di vista, si può dare una poesia quale quella della Dickinson senza una esistenza così stravagante?
No, non si può. La sua esistenza è perfettamente congruente. Se fosse stata diversa, la poesia non sarebbe stata la stessa. Non ci sono stonature. E credo che la scelta della reclusione, magari indotta, a lei sia andata assolutamente a genio. La casa dei genitori è un simbolo della casa metafisica e infatti la amò tantissimo. In ogni caso, anche se non fu una scelta, la caricò ancora di più nella sua tensione verso l’assoluto.
Matteo Fais
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pangeanews · 6 years ago
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Vogliono tramutare Emily Dickinson nella Madonna delle femministe. Ecco perché leggere una poesia al giorno del “mito” vi cambierà occhi, lingua, cervello
C’è stato un momento. Quel momento fu un apice. E fu rapace. Siamo nell’Ottocento, e non conta la scansione prometeica della cronologia e neppure la trincea ‘sociologica’. Accade che appaiano degli uomini. A diverse latitudini. Non si conoscono. Questi uomini hanno un linguaggio. E cambiano per sempre il modo di guardare le cose, di nominarle, perfino. Friedrich Hölderlin in Germania, Arthur Rimbaud in Francia, Giacomo Leopardi in Italia, Emily Dickinson negli Stati Uniti d’America. Questi quattro angeli portano lingue diverse ma sono accomunati da un fatto. Vissuti nell’Ottocento, sono i più grandi poeti del Novecento. Di oggi. Di sempre. Voglio dire. La loro poesia nasce già ‘postuma’, è scritta per chi verrà dopo di loro, è un dono ai venienti, ai nascituri, a chi deve ancora nascere. La cosa è straordinaria. Entrambi, sono accomunati da silente sfrenatezza, da una poesia che è oltranza, che oltraggia il lettore comune, che rompe le convenzioni. Sono poeti irrefrenabili, inauditi, di cui non sai darti ragione perché ti si spappola il cervello, come un fiore marcito. Per la storia della poesia, questi poeti inaugurano un nuovo modo di fare poesia – per la storia dell’uomo, impongono nuovi occhi sul mondo. Rinominano le cose, appunto. Sono di una purezza tale da eludere perfino la parola ‘poeta’. Bene. L’occasione per ribadire questa idea, talmente abbagliante da risuonare banale, è un film. A Quiet Passion. Uscito nel 2016, flirtando con un anniversario – i 130 dalla morte – il film racconta la vita di Emily Dickinson. In realtà, c’è poco da raccontare, ma c’è molto da leggere: fare un film su un poeta – a meno che non sia Byron o D’Annunzio – è giocare a rugby su una lastra di vetro sospesa nel vuoto. Mi fido di quanto ha scritto ‘il Mereghetti’ sul Corriere della Sera: il regista – Terence Davies – è bravo, la protagonista, Cynthia Nixon, “l’Amanda di Sex and the City” (qui trovate un suo bel profilo) è brava pure lei, il film si fa vedere, è piuttosto raffinato. Andatelo a vedere. Meglio un film sulla Dickinson, supereroe della poesia, che l’ennesimo film sul solito supereroe della Marvel, un atto di bullismo bulimico contro i poveri spettatori paganti. Spiando qua e là e leggendo su e giù, però, una cosa mi irrita assai. Il regista, riportano le italiche cronache, ha detto, parlando di Emily, “era divertente, aveva un grande umorismo, e faceva tutte quelle cose che noi esseri umani facciamo”. Di certo, Emily era ironica, fino al cinismo, ovviamente era un essere umano – ma non come noi, forse più di noi, sapeva essere vespa e vispa, albero e nuvola, amante e virile – ma non userei mai l’aggettivo divertente per descriverla. Io la immagino come una fiamma. “Era una santa”, mi dice, piuttosto, Isabella Santacroce. “Mi basterebbe attraversare le pareti. Far apparire Emily Dickinson. Parlare con lei”. Emily Dickinson, la poetessa che scrive 2mila poesie e ne pubblica in vita una manciata, Lei, la rara, che decide la clausura nel suo mondo, fino a fare della propria stanza l’ombelico del creato e delle tende il verbo di un dio analfabeta. “Ad Amherst… è chiamata il mito. Non esce di casa da quindici anni… è sotto molti aspetti un genio. Veste di bianco, si pettina come usava quindici anni fa, quando scelse la reclusione. Ha voluto che io cantassi per lei, ma senza incontrarmi… Quando ho finito mi ha fatto avere un bicchiere di sherry e una poesia…”, appunta, il 15 settembre del 1881, Mabel Loomis. Emily, linguaggio addestrato dai millenni, che pietrifica chi lo attraversa, qualcosa di simile a Eraclito (“Vela il tramonto e svela:/ incanta ciò che vedi/ minaccia d’ametista/ e fosse di mistero”), alla parola che avvia la rivoluzione della terra (“Questi sono gli affluenti della mente –/ i suoi emissari – se li vuoi vedere/ ascendi con me la vetta/ dell’immortalità –”). Emily non va vista – il vedere rimuove l’enigma, riduce il sacro a un biglietto d’ingresso – ma va letta, leccandone i versi, semmai. Le lettere, ad esempio, vanno crocefisse di sottolineature (“Quanto al fatto ‘che rifuggo da Uomini e Donne’ – è perché parlano di cose Consacrate, ad alta voce – e mettono in imbarazzo il mio Cane”, scrive, “agosto 1862”, a Thomas W. Higginson, ed è così, Emily va sussurrata, non berciata sul grande schermo, va letta al buio sapendone la luce). Ecco. Nel film Emily sembra una proto femminista, l’ennesimo ritratto della femmina che si ribella alle consuetudini patriarcali, magari una Madonna lesbo. Emily va letta. In Italia, per altro, gli adoratori sono tanti, solidi. Già nel 1938, pur con una punta di paura, Mario Praz la esalta (“In uno stile audacissimo di modernità, talora involuto per troppa compattezza, talora diretto come grido dell’anima, le brevi poesie della D. costituiscono una delle più notevoli serie di confessioni liriche che la letteratura ricordi”). Molto tradotta dai poeti – ma Mario Luzi è notevolmente pessimo, mentre Amelia Rosselli ha la stessa tempra e temperatura d’ossessione retorica – la Dickinson potete leggerla, tutta, qui, per grazia di Giuseppe Ierolli; l’Emily Dickinson Archive, invece, è qui, dove potete sfogliare i suoi manoscritti, e lasciarvi soggiogare dal suo mondo. La Dickinson è una terapia contro l’ovvio e l’osceno: basta una poesia al giorno per forgiare nuovi occhi, darvi una lingua d’argento e un cervello meno scemo. Provate. (d.b.)
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radiosciampli-blog · 7 years ago
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Sei tu ciò che volevo? Và via, i miei denti sono cresciuti. Soddisfa un palato meno esigente non affamato da tanto tempo. E adesso sappi che, mentre aspettavo il mistero del cibo è aumentato finchè l'ho ripudiato: ne ho fatto a meno a pranzo come Dio. Emily Dickinson
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filippobiancoenero · 7 years ago
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Il Tramonto che scherma, rivela – intensificando ciò che vediamo con minacce d’Ametista e Fossati di Mistero. (Emily Dickinson) #poetry #photooftheday #blackandwhitephotography #mondolfo
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pangeanews · 4 years ago
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“La Vita che abbiamo è molto grande. La Vita che vedremo ancora più grande”. Emily Dickinson, più forte di ogni morte
Il rimpianto del presente – vita-morte
È un ossimoro, il rimpianto del presente, eppure lo stato d’animo insegue Emily Dickinson molto presto: l’adolescente veste una precoce pensosità, una tendenza – anomala per l’età – a volgersi indietro. Vibra di malinconia alla sensazione che il meglio sia già passato o stia passando, proprio nell’istante in cui lo vive: “I fanciulli che eravamo sono sepolti e le loro ombre continuano faticosamente il loro cammino” scrive all’amica Abiah Root, a fine 1850.
Ha 20 anni, ma è poco più che bambina quando inizia a provarla, questa nostalgia insolita per cose ed esseri che l’incantano, o che le regalano abbagli di felicità. E sempre accompagnata al timore che – oscuramente o precocemente – il tempo possa inghiottirli come i fantastici “monelli cremisi” del tramonto, che vede inceneriti dal buio sopra il tetto di casa.
*
Il rimpianto del presente si fa canto d’assenza quando, una dopo l’altra, la vita le toglie presenze importanti. La Morte diventa allora un altro nome del confine – invalicabile ma più certo dell’ago nella bussola che punta il nord –, il territorio franco tra estasi e annientamento, sacro e profano, eterno e finito: “Certo dobbiamo valere meno della Morte, per poter essere dalla Morte diminuiti” (a Higginson, settembre 1877).
La morte è l’“oscuro Straniero” (gennaio 1878), il “compiacente Corteggiatore / che alla fine vince” (1445), perché tocca tutto e tutti senza distinzioni: “Le dita lunghe – democratiche – della Morte / Cancellano ogni Marchio” (970). È tanto libero che, scrive in una lettera, gela i fiori in giardino e ugualmente strappa alla vita la figlia di un domestico, il giardiniere dei Dickinson.
Soprattutto, la morte le ricorda che “La Felicità è innaturale” (a Catherine Scott Turner, fine 1859).
*
Il 5 ottobre 1883 l’“oscuro Straniero” visita di nuovo i Dickinson – l’anno prima era venuto per la madre: adesso è per il nipote Gilbert, figlio del fratello Austin e sua moglie Susan. Sue, per la famiglia e gli amici: con lei Emily ha avuto un intenso rapporto intellettuale e affettivo.
Il bambino ha otto anni: è stato suo pari, complice, compagno di giochi.
Nell’infanzia Emily ha sempre ritrovato le origini della poesia: facilità all’abbandono, fantasia, capacità visionaria. Desiderio d’amore: il “dolce lupo” che ferisce con zanne più profonde, perché è più avido nell’infanzia, prima dei ragionamenti. Ha sempre partecipato maliziosa e solerte ai giochi del nipote e dei suoi piccoli amici, ha favorito tutte le mascherate e incitato tutte le avventure dei bambini: ogni invenzione è insubordinazione alle regole, avventura e pericolo. Dalla sua finestra alla Homestead, la figurina vestita di bianco cala spesso un cestino pieno di cibo e frutta per la merenda degli ‘avventurieri’.
Alla morte di Gib – così lo chiamano in casa –, Emily è atterrita dalla violenza del vuoto: per la prima volta in 15 anni esce di casa, corre agli Evergreens, la casa del fratello e Sue. Non uscirà mai più dalla Homestead.
Appena trova la forza, intinge la penna nell’inchiostro e scrive alla cognata Sue: “Gilbert godeva dei segreti – la sua vita ne era come ansimante. Con che minaccia di luce gridava “Non dirlo, zia Emily!” … Ora il mio compagno di giochi asceso al Cielo deve istruire me… Non conosceva momenti avari – la sua vita era piena di tesori – i giocattoli dei dervisci erano meno stravaganti dei suoi… Lo vedo nella stella e ritrovo la sua velocità in ogni cosa che vola… Perché avrebbe dovuto aspettare, se ha lasciato a noi la notte…”.
*
Morto Gilbert, la sua poesia sconfinerà sempre più con una dimensione cosmica dove lei sembra esercitarsi – ogni giorno – in ricerca misteriosa, scambio di segni che tentano di ricostruire un ordine nuovo, di là dalla vita e dalla morte: “l’assenza del Mago non / Rompe l’Incantesimo” (1383).
Inizia a vivere trincerata in una solitudine totale, in “intimità con il mistero”, ormai abituata al commercio con “una sontuosa Afflizione” (1382), la consapevolezza di essere rimasta indietro, sola. Perché la morte è
come un volo d’uccelli verso il Sud prima che venga il ghiaccio, a cercare latitudini migliori – e noi siamo gli uccelli che rimangono (335).
*
Dopo pochi mesi, è la scomparsa del giudice Lord (13 marzo 1884) a derubarla dell’ultimo, amatissimo, complice e amico. E allora Emily è tentata di lasciarsi andare e partire come il pettirosso, la cui femmina tries her Wings “prova le ali” e abbandona il nido quando il suo compagno è scomparso:
Quand’è vuoto, quand’è muto, Il Pettirosso chiude a chiave il Nido, e prova le sue Ali. Non conosce la Via Ma si mette in Viaggio Verso vociferate primavere – (1606)
*
L’ondulare dell’ala contro l’orizzonte disegna il volo – degli uccelli, degli auguri e delle nuvole, dell’aquila – o un simbolo: il finito terrestre e mortale che si eleva all’infinito eterno. La lingua è quella di un oracolo.
“Sapessi pregare, (…) ma sono pagana…” confessa. E pagano è anche questo rimpianto cocente dei sopravvissuti, dei vivi, per chi non c’è più: “non esiste tormento simile a quello che si prova per coloro che amiamo, (…) non esiste gioia pari a quella che lasciano dietro di sé, sigillata, ma Morire è come una Notte Selvaggia e una nuova Strada” (ottobre 1869).
*
Il rimpianto del presente si è perduto in quella notte, lungo quel cammino al buio. È la virata nell’atteggiamento verso vita e morte: il presente non ha più consistenza né peso, è solo una serie di giorni che si scavalcano l’un l’altro, in vista di un ‘altrove’ che ripristini almeno in parte un equilibrio.
A quell’equilibrio si tende, impassibile e vorace. Oltre il “bianco nutrimento” della disperazione (640), Emily è infatti sicura della possibilità di una svolta, il respiro diverso ma non sottratto: “Sono certa che rivedremo quelli che più abbiamo amato. È dolce pensare che sono al sicuro di là dalla morte, e che non ci resta che oltrepassarla per riavere i loro volti” (febbraio 1870). Anche se l’amore è lascito ambiguo:
Tu mi lasciasti, amore, due retaggi: Un retaggio d’amore (…) E mi lasciasti regni di dolore – Capaci come il mare, Fra l’Eterno e il Tempo – La tua presenza e me. (644)
*
Lui, sua madre, Gilbert, adesso li dovrà cercare in alto, oltre la scia della cometa. Con momenti visionari e ricadute nello sconforto, il vuoto annichilente dell’assenza, lo sgomento, il cuore “che si spaura”. La scomparsa di Lord le mostra “l’immortalità / Trincerata in una stella” (1525), e in una lettera all’esecutore testamentario dell’uomo che amava Emily acclude alcuni suoi versi. Vuole che quelle sue parole scortino Lord nel suo cammino celeste:
Parti per il tuo viaggio sconfinato! Le Stelle che incontri Sono simili a Te – Non è forse ogni Stella un Asterisco A indicare una Vita umana? (1638)
*
Abbraccia la solitudine con fervore di mistica: l’esclusione volontaria imita la silenziosa pazienza notturna del ragno che tesse “arazzi invadenti” in ragnatele, proprio come lei srotola i “fili di perla” della sua poesia (605). Sprofonda in sé, sottratta al mondo ma pronta ad accogliere gli assalti dell’invisibile.
Da un certo punto in avanti, per lei esistono solo lo spazio chiuso della sua stanza e l’immenso spazio aperto dell’anima: “Ci lasciano in balia dell’Infinito / Vasta è l’Eternità” (350).
L’immortalità di ogni giorno – la poesia – è un ponte gettato sul vuoto, “seconda vista” che trasforma la natura, il giardino, la stessa casa in immagini visionarie – “segretezza polare”. Le cose perdono i confini, diventano altro, metafore continue. Lei le nomina per sconvolgerle e ricreare nuove simmetrie, nuovi rapporti, solo suoi.
Lo spazio della visione si scompone e sovrappone al reale, spalanca una geografia favolosa di orizzonti privati: un leopardiano “andare lontano” in silente naufragio è la sua misura. Un modo di vivere diverso in “finita immensità”: “la Vita è Miracolo e la Morte, [è] innocua come un’Ape, fatta eccezione per quelli che fuggono” (a Higginson, settembre 1864).
*
Il rimpianto del presente si rovescia di senso, ed Emily lo scaglia come un funambolo verso e oltre il futuro. Continua a scriverne, a parlarne anche con le amiche, sembra un’invasata, gli occhi rivolti ormai solo a quella dimensione. Acclude versi in una lettera a Elizabeth Holland:
La Vita che abbiamo è molto grande. La Vita che vedremo Ancora più grande, (…) perché È Infinito. (a E. Holland, ottobre 1870)
Mentre la fine si avvicina, lei sembra acquisire una ‘doppia vista’, salire da stambecco per più ardue cime, aprire l’anima a “istanti superiori / Che la colgono – sola”. Sgomento ed esultanza, questo “mortale annullamento” è vago “come un’apparizione / al servizio dell’aria”. Ha la “forma smisurata / dell’Eternità” (306)
*
Alla sua morte – il 15 maggio 1886 – è Sue, la cognata e amica a cui è stata legata in sorridente connivenza di ragazze con tanti sogni – “noi due, noi i soli poeti” – è Sue a comporre il vibrante necrologio che appare senza firma il 18 sul giornale cittadino: “La sua arguzia era come una lama di Damasco scintillante al sole. La sua fulminea estasi lirica somigliava alla nota prolungata di un cantore nei boschi di giugno, a mezzogiorno: lo si ascolta, ma non lo si può vedere”.
Il rimpianto del presente – eterno – l’ha presa con sé.
Paola Tonussi
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pangeanews · 4 years ago
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“Irriducibile e apostata, eretica e libera, sovversiva e radicale”. Emily Dickinson, il genio che fece della propria stanza il centro del mondo
Nell’abbozzo di un suo saggio giovanile, intitolato La poesia o le leggi misteriose, Marcel Proust, analizzando la scissione perenne del poeta in due personalità contrastanti, faceva un curioso paragone con lo sdoppiamento tra il dottor Jekyll e Mr. Hyde, della celebre novella di Stevenson: il fatto è, scrive Proust, che il poeta sempre «lavora su se stesso: nel momento in cui lo trovate, l’altro non c’è più. Come quando cercavate di scoprire che cosa Hyde facesse a Jekyll: quando vedevate Jekyll, non c’era più traccia di Hyde, e quando vedevate Hyde, nessuna traccia di Jekyll. Lo trovate sempre solo». Solo, e con l’aria smarrita, come se avesse appena commesso un delitto e fosse stato scoperto. A che cosa voleva alludere Proust con questa immagine del double, se non al fatto che il poeta vive sempre diviso tra un suo côté sociale, mondano, pratico (il dottor Jekyll) e un altro invece solitario, alieno da tutto e da tutti, dove è dedito in modo criminoso alla sua opera, «chiuso nella sua stanza»?
*
Qualunque autore sa che il proprio io più autentico coincide con l’atto (delittuoso, maniacale) della scrittura, il quale risponde a delle «leggi misteriose», ma sa anche che non può rinunciare al suo io più comune, quello che intesse relazioni sociali, che vive nel rispetto delle leggi e della tradizione. Eppure, come ogni regola, anche questa ha le sue eccezioni: la più clamorosa, la più fulgida è quella di Emily Dickinson, tra le voci poetiche più alte della letteratura americana (e mondiale), la donna che fece della sua vita una prigione domestica per consacrarsi totalmente alla sua opera: tutto ciò che visse (la passione per il giardinaggio, per gli uccelli e per il suo terranova Carlo, gli amori – platonici o reali, vagheggiati o consumati – per la cognata Sue, per il reverendo Wadsworth e per il vecchio giudice Lord, ma soprattutto la scrittura) lo visse nei confini ristretti della sua casa – ad Amherst, una cittadina del Massachussets – dove ha vissuto ininterrottamente dal 1855 fino alla morte, avvenuta il 15 maggio 1886. Niente mondanità, niente matrimonio, nessuna vita sociale, nessuna scissione della personalità. Niente dottor Jekyll, insomma, ma piuttosto un Mr. Hyde che ha scelto di seguire solo ed esclusivamente le «leggi misteriose» della poesia, «chiuso nella sua stanza», come scriveva Proust, con tutti i rischi che questa scelta comporta. Ma che cosa si nascondeva dietro questa totale ed estrema dedizione alla poesia?
*
Nel suo reportage ad Amherst, appena uscito per Mattioli 1885, Benedetta Centovalli cerca di indagare il mistero di questa «Imperatrice del Calvario», di colei che seppe trasformare la sua camera nel mondo intero. Nella stanza di Emily (questo il titolo del volumetto, originariamente scritto per la collana ‘I centotrentacinque’ diretta da Filippo Tuena e adesso ripubblicato in Aperture) la Centovalli ci offre un resoconto elegante, di tocco lieve e dal tono impeccabile, di un pellegrinaggio che l’autrice ha compiuto nella casa della Dickinson, e allo stesso tempo di un viaggio nella sua vita e nella sua poesia. Un viaggio di spiccata sensibilità e di amorevole rispetto (oltre che di un’ammirevole capacità selettiva). La Dickinson che emerge da queste pagine è sfrondata da ogni incrostazione retorica: il suo ritratto si allontana da quello stucchevole che spesso è stato tratteggiato della fanciulla tutta silenzi e sentimenti repressi, della zitella che si vestiva di bianco e girava con due gigli in mano. È una Emily «irriducibile e apostata, eretica e libera, sovversiva e radicale», la Dickinson che scopriamo in questo libro, una donna dalla sessualità perturbante per la mentalità puritana del suo ambiente, che nei versi si dispiega fiammeggiante e fluida («Notti selvagge! Notti selvagge!/ Fossi io vicino a te/ Notti selvagge sarebbero/ Il nostro piacere») o sfacciatamente erotica (come nella poesia «D’inverno nella mia stanza» dove in sogno un verme «rosa, molle e caldo» si trasforma in un fallico e svettante serpente «circondato di potere»), una donna che rifiuta di sottostare alle convenzioni dell’epoca, ma soprattutto un poeta sempre più consapevole della grandezza della sua poesia, e quanto più consapevole, tanto più complessi, oscuri diventano i suoi versi.
*
Uno dei maggiori meriti di questo breve libro della Centovalli è quello di aver spostato l’attenzione del lettore dall’influenza della vita della Dickinson sulla sua opera all’influenza che, al contrario, la sua opera ha avuto sulla sua vita. Un capovolgimento necessario per cambiare una chiave di lettura ormai piuttosto logora. «A poco più di trent’anni – scrive la Centovalli – aveva deciso che il perimetro della sua casa e poi quello della sua stanza le potevano bastare e che ciò che del mondo sapeva le era sufficiente per scrivere». Questo mi fa venire in mente una frase di un’altra grande scrittrice americana, Flannery O’Connor, che scrisse: «Chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia, possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni». Non è, forse, quello che sempre fanno gli scrittori? Allestire un perpetuo teatro per i fantasmi della propria infanzia? E per farlo, occorre dedizione, concentrazione e solitudine. Il poeta/Mr. Hyde, scriveva Proust nell’abbozzo giovanile, lo trovate sempre solo. L’autoreclusione, dunque.
*
Emily scriveva di notte, nella sua stanza, al lume della sua lampada, come Kafka. Come Kafka (anzi con più radicalità ancora), a parte qualche rara pubblicazione, decise di lasciare inedita la sua opera, dopo le perplessità espresse dal suo amico Thomas Wentworth Higginson, eroe della guerra civile, convinto abolizionista, ma letterato di terz’ordine. Decise, dunque, di rinunciare («La Rinuncia – scrisse, con audacissimo ossimoro – è una penetrante virtù»). La Centovalli apparenta questo rifiuto a quello dello scrivano Bartleby, del contemporaneo Melville: I would prefer not to. O a quello, potrei aggiungere, del misterioso Wakefield di Hawthorne, il primo personaggio agito della letteratura moderna, quello cioè il cui comportamento risulta oscuro sia ai lettori che a se stesso: la sua decisione di abbandonare la casa e la moglie, da un giorno all’altro, trasferendosi in un appartamento a pochi isolati più lontano, dove vivrà per vent’anni, limitandosi a spiare la vita della moglie che intanto lo ha dato per morto, salvo poi ritornare altrettanto inaspettatamente, per riprendere la sua vita di sempre come se nulla fosse, non ha infatti alcuna motivazione apparente. Le cause restano sconosciute e incomprensibili: Wakefield è un dannato della terra, con una vocazione alla solitudine; uno spettatore della vita, colui che ha fatto dell’assenza il centro dell’esistenza, come tanti personaggi che popoleranno la letteratura del Novecento.
*
Anche la Dickinson, anticipando l’ineffabile Walser, desiderava scomparire, non portare il peso, così ordinario, così insopportabile, di essere Somebody («Io non sono Nessuno! Tu chi sei?»): pubblicare era per lei una follia, una «Vendita all’asta/ della Mente dell’Uomo»). Ed è per questo che chiede un parere sulla sua poesia a una persona che non avrebbe mai potuto capire «la sua originalità, il timbro personale e libero, la sua andatura “spasmodica e “incontrollata”, la presunta oscurità e l’imprevedibilità, il suo verso verticale, l’affidarsi al paradosso e all’antinomia, la lingua oscillante tra quotidiano e metafora alta, la punteggiatura inventata (i trattini come device musicali, le maiuscole), lo sconfinare nell’arte visiva dei suoi versi», come scrive efficacemente la Centovalli, mostrandosi, oltre che appassionata biografa della Dickinson, anche raffinata esegeta della sua poesia. È vero: «il suo tempo e la società in cui viveva non potevano comprenderla» e dunque «lei accettò la sentenza, lei fu costretta a comprendere, e questa divenne la sua guerra con se stessa per la poesia e per l’immortalità». Ma è pur vero che lei stessa non voleva essere compresa, perché essere compresa avrebbe avuto un impatto negativo, distraente sulla sua opera, l’avrebbe costretta a diventare (anche) un dottor Jekyll. E anche perché aveva capito ciò che ogni grande scrittore intimamente sa: che si scrive, cioè, non per il presente ma per i posteri, che si scrive sempre declinando al futuro, che si scrive la propria «lettera al mondo», pur sapendo che il mondo non può rispondere, almeno non subito.
*
Questo è il motivo per cui Emily non sottopose le sue poesie ad Emerson, l’unico grande letterato che avrebbe potuto apprezzarle (e con cui aveva anche molte affinità) e che già aveva scoperto e incoraggiato Whitman, dopo aver letto Foglie d’erba. L’11 dicembre del 1857 Emerson tenne una conferenza ad Amherst e pranzò e pernottò nella casa di fronte a quella di Emily, ospite del fratello e della cognata. La poetessa, dunque, lo incontrò ed ebbe la possibilità di fargli leggere le sue poesie, ma non colse questa opportunità, preferendo il modesto Higginson. In questa scelta va compresa la decisione di Emily di restare nell’anonimato, dentro il quale continuerà a lavorare, imperterrita, lasciando alla sua morte la bellezza di 1800 poesie e 1046 lettere (altrettanto importanti delle poesie). Non fu, dunque, una vera rinuncia, ma al contrario, l’affermazione ostinata di una volontà ferrea: quella di vivere soltanto nella e della sua opera. «Non c’era nulla che mi persuadesse/ a sollevare per curiosità/ gli occhi dal mio lavoro»: qualsiasi scrittore consapevole di sé e della sua grandezza non può che condividere questa affermazione terribile, quasi disumana, che mette un po’ i brividi. Un’affermazione che apparenta chiunque la dica o la pensi a un Mr. Hyde che non può più tornare a essere dottor Jekyll. Per la Dickinson, come per Kafka e Proust, vivere vuol dire vivere nella scrittura, per la scrittura. Tutto il resto non conta, o meglio tutto il resto deve essere sacrificato sull’altare dell’arte.
*
«Non ci sono segreti da svelare» è questa la conclusione cui giunge la Centovalli alla fine del suo pellegrinaggio ad Amherst. L’unico segreto è che per Emily «la sua camera era come una wunderkammer, una stanza delle meraviglie» e «la visione l’unica forma possibile di vita e di poesia». Per chi ha deciso, infatti, di farsi «creatura della soglia», di vivere cioè tra due mondi, due tempi, due realtà, non resta che la propria «visione» cui dar forma in versi, per afferrare ciò che sempre sfugge, quella realtà sempre cangiante e screziata come un’ala di farfalla che si cerca di fissare con uno spillone. Aveva ragione Harold Bloom: siamo tutti ancora principianti davanti alla poesia di Emily Dickinson. Riusciremo mai a comprendere fino in fondo il genio di Amherst?  Forse no, ma il libro della Centovalli ci consente almeno di sentirci emotivamente vicini a questa silenziosa resistenza, a questo clandestino atto di fedeltà alla scrittura. In fondo Nella stanza di Emily, a mano a mano che lo si legge, diventa una sorta di specchio di noi stessi: l’autrice si confronta con il fantasma della Dickinson (con il suo double?), spingendo il lettore a fare, inevitabilmente, altrettanto. Forse è questo il modo migliore di approcciarci alla complessità dei versi della poetessa americana: tracciare una autobiografia nascosta dietro una biografia. Un modo per dire tutta la verità, ma in maniera obliqua.
Fabrizio Coscia
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pangeanews · 4 years ago
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“Ma lei, signor Higginson, sarà il mio Maestro?”. L’incontro che cambiò la vita di Emily Dickinson
La vide, si scrivevano da otto anni, era lei, naturalmente, con la grazia di una donnola, ad averlo preteso. Thomas Wentworth Higginson aveva 47 anni, i baffi ampi e la fronte onesta. Pastore unionista, si era fatto la guerra civile come colonnello del 1st Regiment South Carolina Volunteer Infantry, dal 1862 al ’64, in testa al primo corpo di guerra composto da afroamericani. Secondo i dettami di stato, i reggimenti ‘neri’ dovevano subire il comando dai ‘bianchi’. Higginson, testa fina, idee volitive, la pensava al contrario: “Noi ufficiali non siamo andati lì per insegnare, ma per apprendere. Quegli uomini scampati alla schiavitù avevano incontrato e superato più pericoli di quanti ne fossero capitati in tutta la loro vita ai miei giovani capitani bianchi”. Su quell’esperienza scrisse un libro, Army Life in a Black Regiment, uscito proprio nell’anno in cui Higginson, fiero rappresentante delle sorti progressive dell’uomo, impeccabile ottimista, sostava davanti al cancello di casa Dickinson, Amherst. Tentennò, come se quella stanza, di cui sapeva, fosse una giungla. Era il 16 agosto del 1870, 150 anni fa, si può supporre il verde, fragoroso, e gli alberi simili ad apostoli.
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Naturalmente, T.W. Higginson, degno pupillo della Harvard Divinity School, praticava la letteratura: senza patimenti, per carità, come una delle arti che nobilitano le virtù dell’uomo. Apprezzava i Trascendentalisti, la moglie, Mary Channing, sposata nel 1847, era la sorella del migliore amico di Thoreau, William Ellert Channing, per qualche anno vicino di casa di Nathaniel Hawthorne. Insomma, si conoscevano tutti. Anni dopo, Higginson avrebbe dedicato un saggio, pieno di giudizio, a Longfellow, il sommo poeta americano, il traduttore della Divina Commedia negli States. Dal 1859 dava sapienza di sé sulle colonne dell’“Atlantic Monthly”, dove, tre anni dopo, colmo di fervore americano, scrisse un lungo articolo, Letter to a Young Contributor, chiamando a sé “nuovi autori” consapevoli del “mistero [o ministero, ndr] della parola”. Voleva dedicarsi alla scoperta e all’educazione di talenti. Emily Dickinson, che aveva pubblicato sparute poesie – manomesse dai redattori e senza firma – sullo “Springfield Daily Republican”, si eccitò e gli scrisse, era il 15 aprile 1862, “Signor Higginson, è troppo impegnato per potermi dire se la mia Poesia è viva?”. La lettera custodiva una speranza ed era sigillata da un monito (“Lei non mi tradirà – è inutile che glielo chieda – perché l’Onore è pegno a sé di se stesso”). Fu l’inizio di un rapporto epistolare, che durò fino alla morte di Emily, nel maggio del 1886, entusiasmante.
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La Dickinson ha 31 anni e una spasmodica urgenza la spinge a spiegarsi, a dirsi. Higginson, figlio del proprio tempo, pur di vaste vedute – cultore dell’omeopatia, fu acceso sostenitore dei diritti per le donne, a partire da quello al voto e alla concreta presenza femminile in politica –, non poteva capire la Dickinson. Lei afferrò il primo che le era capitato per i capelli: incontrò uno che aveva voglia di ascoltarla, che la vedeva come lei voleva farsi vedere, una bestia strana, ipnotica, un po’ santa un po’ cobra. Dieci giorni dopo la prima lettera, il 25 aprile del 1862, si svela: “Mi sa dire lei come si fa a crescere – o è un qualcosa che non può essere trasmesso – come la Melodia – o la Stregoneria?… Non saprei pesarmi – da Sola. Le mie dimensioni mi paiono limitate”. Emily denuncia i suoi maestri (“I miei poeti sono – Keats – e i Browning. I miei prosatori – Ruskin – Sir Thomas Browne – e l’Apocalisse”), cala il calco della solitudine, “per parecchi anni il Vocabolario – è stato il mio unico compagno”. Higginson ammira la sua stravaganza, la straordinarietà di quella poesia che arriva cruda come una meteora, ardua come una pittura primordiale. La pensa impossibile. “Higginson commette uno dei più stravaganti errori della storia dell’editoria, classificando subito le poesie di Emily tra le ‘fortunatamente impubblicabili’”, lo rimprovera Marisa Bulgheroni (nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie Tutte le poesie della Dickinson). Altri sono più indulgenti: Higginson riconobbe il genio scontroso di Emily, dando nuova forza ai suoi versi, galvanizzandola al modo di chi, dal gorgo della clausura, riemerga con un interlocutore, un lettore a cui dedicarsi (così, ad esempio, Brenda Wineapple in White Heat. The Friendship of Emily Dickinson and Thomas W. Higginson, 2008). La poesia della Dickinson alterava le certezze di Higginson in un mondo armonico, le sue poesie sono il marchio di una sovversione dei sensi, dei tempi. Eppure, il 12 novembre del 1890 Higginson accetta di curare la primissima raccolta delle poesie della Dickinson, raccolte con profetica dedizione da Mabel Loomis Todd – sono solo 115, in un volume impeccabile; le poesie, rimaneggiate e corrette per facilitarne la comprensione, l’anno dopo giungono alla sesta edizione, è questo il primo imperfetto ma notevole evento che porta alla luce la tesoreria dei versi di Emily.
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Nelle lettere a Higginson, la Dickinson si firma, a volte, “La sua Allieva”, “Il suo Gnomo”; gli dedica frasi miracolose. “Sorrido quando lei suggerisce che aspetti a ‘pubblicare’ – dal momento che la cosa è così aliena dalla mia mente, come il Firmamento a una Pinna – Se la fama mi appartenesse, non riuscirei a sfuggirle – in caso contrario il giorno più lungo mi sorpasserebbe mentre ne vado a caccia – e l’approvazione del mio Cane mi abbandonerebbe – dunque – preferisco la mia Condizione Scalza”. La Dickinson vuole un maestro (“Ma lei, signor Higginson, sarà il mio Maestro?”), è lui davvero il devoto – ma come chiedere alla santità di esporsi?
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Sembra chiaro che un talento imperioso possa essere balbettato solo da chi gli è insufficiente, da chi non comprende, perché questa incomprensione è la sala da pranzo dove noi, decenni e secoli dopo, ci ritroviamo, in agio. A volte non occorre comprendere: è bene apparecchiare. Tutti intorno a Emily sembravano animali in paglia, rapaci, volpi, fagiani; si limitò a compatirne la staticità, lei.
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Lui la invita a Boston, il 10 giugno 1869 – lei declina, “io non oltrepasso mai i confini del giardino di mio padre”. Higginson, allora, l’anno dopo, si presenta ad Amherst. Dopo aver incontrato Emily, la notte di quell’uomo che ha avuto il privilegio di tastare l’invisibile prende forma di falò: non riesce a dormire. Scrive alla moglie. “Il passo come quello di un bimbo ed eccola, una donna minuta, bruttina, con due bande di capelli lisci e rossicci ai lati della faccia… una camicetta bianca di picchè, impeccabile, uno scialle di lana blu, traforato. Mi venne incontro con due gigli, come fanno i bambini, me li mise in mano e disse: ‘Questo è il mio biglietto da visita’, con una vocina tutta spaventata, infantile, ansimante”. Il fato ha prediletto quest’uomo per consegnarci il dagherrotipo scritto di Emily (Martha Ackmann racconta questo incontro in These Fevered Days: Ten Pivotal Moments in the Making of Emily Dickinson, che potete leggere qui). La Dickinson conosce il verbo dei fiori – le sue poesie, d’altronde, turbano per intensità d’odore, come ciò che è troppo maturo per mormorare la morte. “Cara amica, le mando un fiore del mio giardino – anche se morrà nel momento in cui arriverà a lei, lei saprà che viveva quando lasciò la mia mano – Amleto ha esitato per tutti noi”, scrive a Mary Elizabeth, sette anni dopo aver visto il marito, in estate.
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L’anno in cui Emily invia fiori a Mary, imbustati, quasi una premonizione, è il 1877, lei, la moglie di Higginson, muore. Vedovo e senza figli, il letterato si risposa due anni dopo con Mary Potter Thacher, che gli dà due eredi. Higginson, uomo d’azione, di ‘società’, è eletto tra i membri dell’American Antiquarian Society, è tra i fondatori della Society of American Friends of Russian Freedom, che ha lo scopo di aiutare i russi vessati dall’autoritarismo zarista (vi farà parte anche Mark Twain), nel 1905 lavora con Jack London e Upton Sinclair alla fondazione dell’Intercollegiate Socialist Society, passa ad altra vita – caso mai – nel 1911. La lapide è ampia, spaziosa, come la vita di colui di cui dice la morte, ai piedi sorgono fiori bianchi, sarebbero piaciuti a Emily: Higginson è sepolto a Cambridge, Massachussets, sotto il suo nome c’è scritto Colonel.  Naturalmente, in quel giorno del 1886 era lì, da Emily. Descrisse il suo funerale, perché il destino l’aveva reso il San Paolo di quella cosa santa: “La campagna era fulgida, la giornata perfetta… in ogni angolo della casa e del giardino regnava un’atmosfera singolare, strana e suggestiva – quasi una Casa Usher più nobile e pia… Sul volto di Emily Dickinson un prodigioso ritorno di giovinezza… Non un capello bianco, non una ruga, una pace assoluta sulla bella fronte… Ho recitato alcuni versi di Emily Brontë”. Era stata una spina, uno spigolo, nella sua vita, Emily, gli si era incisa come una frase verticale, in fronte. Poi, tutto tornò monotono, noto. (d.b.)
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