#Elvira Sellerio
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Enzo Sellerio.25 febbraio 1924-22 febbraio 2012. Mostra Itinerante e Mostra alla GAM di Palermo
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#avvenimenti#cultura#editori Italiani#Elvira Sellerio#Enzo Sellerio#Fotografia#Italy#mostre fotografiche#Palermo#scrittori italiani#società
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A.Camilleri-RICCARDINO. Il conflitto del "Doppio" impera, ma non nella lettura di coppia, su Kindle
A.Camilleri-RICCARDINO. Il conflitto del “Doppio” impera, ma non nella lettura di coppia, su Kindle
Che genio sei Andrea! Un genio della gestione di Autori e Personaggi. Tu e Elvira Sellerio, tua complice nell’ offrire agli affezionati lettori pillole di piacere, ben dosate negli anni e ormai irrinunciabili. Avete prodotto sui lettori una dipendenza difficilmente curabile. Cosa succederà ora che il principio attivo non è più disponibile? Cosa succederà a noi vecchi drogati, dopo aver…
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Carinda, principessa della Persia donna cavaliere dell’Opera dei Pupi, La Madonna delle Milizie, esegesi della combattività delle donne siciliane, Dina e Clarinzia che sul campanile di Messina suonano ancora le campane per chiamare i messinesi alla difesa della città, Donna Franca Florio bellezza e ricchezza di un epoca, Elvira Giorgianni in Sellerio fondatrice della omonima casa editrice, Franca Viola che rifiutò di sposare il mafioso che l’aveva rapita contrariamente all’uso di quei tempi, Rita Atria collaboratrice di giustizia e suicida dopo la morte del giudice Borsellino, Rita Borsellino, moglie del giudice Borsellino, Felicia Impastato, madre di Peppino che fece arrestare gli assassini del figlio, Emanuela Loi agente di scorta del giudice borsellino e morta con lui.
Quella donna siciliana con i capelli ricci e scuri o biondi e lisci, educata e sguaiata, passionale, innamorata, chiusa in casa e sempre in strada, molle, abbandonata, pigra, inarrestabile e determinata, sicura, incerta ma pronta a cavarti gli occhi con le mani ed a cullarti tra le sue braccia di miele, affamata d’amore, golosa di sesso e tenerezze da riassumersi in un abbraccio, dentro un bacio; vogliosa di cullarti, farti sognate, farti volare nel cielo dei suoi occhi ma pronta a tagliarti le carni con la lama della gelosia e a stringerti di notte perché ha paura. Quella donna siciliana che non dimentica e che perdona, che restituisce una ad una tutte le offese che riceve e che è la tua casa, quella siciliana che si vestirà di nero se te ne vai ed ogni giorno ti penserà per amarti oltre la morte, quella donna che ti rincuora, ti sostiene anche se ha bisogno di te quanto tu di lei, pretende l’amore e il rispetto che da e che ti tradisce perché non sai amarla per quanto lei ti ama, non sai stringerla con la passione che lei ti mostra, non sai restituirle l’immenso amore che lei ti dona. Quella donna siciliana dagli occhi scuri a mandorla, o grandi e azzurri, dai fianchi grossi e dal culo tondo, dal seno enorme o appena pronunciato, che insegna il coraggio ai figli perché non devono portare le botte a casa, quei loro figli principi da servire fino alla morte, loro vita e loro paradiso. Quelle donne uccise, tradite ed amate, invocate, desiderate, studiate, osservate, adorate, che illuminano una strada e portano l’estate in una stanza, quelle donne che per amore attraversano il mondo, che per aver giustizia lo rivoltano, donne terribili assassine e timorate di Dio, tenere, coraggiose, audaci, insicure, vittime e carnefici ma con sempre meno peccati degli uomini, donne sorgenti di ogni gioia, forzieri di ogni amore, vascelli incantati dei sogni, donne che dentro il cuore hanno la lava ed il profumo dei gelsomini, la cui voce è il canto del mare, donne che non si piegano, ma che sanno adorarti, servirti e comandarti, donne madri della poesia, misura del giusto e fulcro della vita.
That Sicilian woman with curly dark hair or blond and straight hair, polite and coarse, passionate, in love, closed at home and always in the street, soft, abandoned, lazy, unstoppable and determined, confident, uncertain but ready to gouge out your eyes with her hands and cradle you in her honey arms, hungry for love, greedy for sex and tenderness to be summed up in an embrace, inside a kiss; eager to rock you, make you dream, make you fly in the sky of her eyes but ready to cut your flesh with the blade of jealousy and to hold you at night because she is scared. That Sicilian woman who does not forget and forgives, who returns one by one all the offenses she receives and which is your home, the Sicilian woman who will dress in black if you leave and every day she will think of you to love you beyond death, that woman who encourages you, supports you even if she needs you as much as you do for her, expects the love and respect she gives and who betrays you because you don’t know how to love her for how much she loves you, you don’t know how to hold her with the passion she loves you, you do not know how to return the immense love that she gives you. That Sicilian woman with dark almond-shaped eyes, or big and blue eyes, with big hips and a round ass, with huge or barely pronounced breasts, who teaches courage to her children because they do not have to go back at home crying, those children that are their princes to serve until death, their life and their paradise. Those women killed, betrayed and loved, invoked, desired, studied, observed, adored, who light up a road and bring summer into a room, those women who cross the world out of love, who turn it upside down for justice, terrible murderers and God-fearing, tender, courageous, daring, insecure, victims and executioners but with fewer sins than men, women sources of all joy, coffers of all love, enchanted vessels of dreams, women who have lava and perfume of jasmine in their heath, whose voice is the song of the sea, women who do not bend, but who know how to adore, serve and command you, women mothers of poetry, measure of the right and fulcrum of life.
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Leonardo Sciascia, 100 anni sotto il segno dei libri - Style
Per Sciascia, lo scrittore è colui «che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose».
[ ] Sarà definitivamente l’esperienza palermitana intrapresa con Enzo ed Elvira Sellerio a permettergli di coltivare la sua passione per l’editoria e realizzare così quell’ “utopia editoriale” tutt’oggi sinonimo di eleganza e raffinatezza. Un tentativo più che riuscito di smentire la convinzione diffusa che «stampare libri in Sicilia è come coltivare fichidindia a Milano».
[ ] Dev’essere stato sorprendente osservare Sciascia in casa editrice, intento a scrivere un risvolto di copertina: usava la sua grande stilografica – una Waterman con un enorme pennino d’oro – e vergava placidamente su un foglietto il suo commento. Lo faceva con una scrittura lentissima e spigolosa e una velocità di composizione, al contrario, inimmaginabile. Non rileggeva mai quello che aveva scritto. Dalla “felicità di far libri”, che Leonardo Sciascia ha perseguito e realizzato, è possibile trarre insegnamento, prendendo in prestito proprio le parole di uno dei suoi risvolti – quello di Cere perse di Gesualdo Bufalino – che ci invita a ricercare libri godibilissimi, «del godimento particolare che dà la letteratura quando l’intelligenza e lo spirito vi si intessono».
(estratto dall'articolo di Veronica Giuffré del 7 gennaio 2021 apparso su "Style Magazine", Corriere della Sera. Copyright RCS Mediagroup)
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diciotto maggio
Martin Munkacsi, Palermo, Sicily, 1927
Il magico quadrato
Poiché la vista stava variando ho svuotato le tasche e deposta la sacca ho scagliato elci e bastone all’imbocco dell’erto passo per lasciare lì il peso dicendo e non dicendo qui resta la stanchezza e volendo essere leggera m’inerpico alleggerita contando di lasciare alla prossima salita l’altro peso
in cima si arriva prima…
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#Augusto César Sandino#Bertrand Russell#Elena Guro#Elvira Sellerio#Ernst Wiechert#ʿUmar Khayyām#Gunnar Gunnarsson#Isacco Leib Peretz#Jolanda Insana#Mario Ramous#Martin Munkácsi#Rudolf Carnap#W.G. Sebald#Walter Gropius
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IL FIGLIO DI ANDREA
A me il figlio di Andrea ha sempre detto poco. Non lo conoscete? Intendevo dire il papà di Salvo Montalbano. So di dire qualcosa di molto impopolare, persino anche un po’ scomodo. Però ho cercato di amarlo; diciamo che ho cercato di amarlo un po’ per dovere: così popolare, così umano, così carismatico. Ma non mi sono mai appassionato davvero alla sua scrittura, perché me ne è sempre sfuggito il senso generale, il disegno complessivo, la sua “mitopiesi” se così si può dire. Quel disegno che non può essere certo né la Sicilia, né il mondo dell’insopportabile commissario Montalbano, metà uomo saggio e metà macchietta (soprattutto nella riscrittura televisiva). Perché non lo può essere? Perché mi sembra una Sicilia aneddotica, stereotipata, troppo saggia per essere vera. Non nego che su questo giudizio molto personale, possa pesare il fatto che Camilleri è diventato uno scrittore di successo in tempo relativamente recente, mentre è sempre stato un grande autore televisivo, ed io non amo molto la televisione. Invece è proprio il Camilleri televisivo che, paradossalmente, apprezzo di più, il Camilleri che sfida la Rai per portare in scena le commedie di Eduardo De Filippo, contro gran parte dei dirigenti della Rai, contro quasi tutti gli intellettuali italiani dell’epoca che consideravano la televisione come il demonio, un po’ come i “social” oggi. Invece l’operazione, oltre ad avere un grande successo, fu una operazione di estremo coraggio e di grande intelligenza. Così come ebbe l’intuito si far produrre alla Radiotelevisione italiana gli sceneggiati del Commissario Maigret tratti dai romanzi di George Simenon ed interpretati da Gino Cervi che da allora fu Maigret per gli italiani ma lo diventò d’ufficio anche per i francesi. Però Maigret è Maigret e Montalbano è Montalbano e la trasposizione televisiva degli innumerevoli romanzi ne ha certamente alterato pesantemente la possibile originalità, quella fatta solo di parole e tutta racchiusa nelle piccole pagine e dalle copertine blu di Elvira Sellerio. Ieri Camilleri, ha lasciato questa terra e anche la sua ultima apparizione televisiva nei panni del cieco Tiresia mi è sembrata forzata come un limoncello dopo un pasto pesante. Toccare il Mito non è mai facile, paragonarsi ad esso improponibile. Ma c’è anche qualcosa che di Andrea Camilleri mi mancherà, la sua capacità di schierarsi dalla parte dei deboli, degli ultimi, dei migranti, la consapevolezza di essere stato comunista quando era un pericolo esserlo (non che adesso si scherzi), la sua indiscutibile altezza intellettuale e morale in una società dove la figura dell’intellettuale sembra essersi ormai eclissata.. A pensarci bene le cose che di lui mi piacciono, sono decisamente di più di quelle che non mi piacciono, e forse tutti questi suoi volumi sullo scaffale vogliono dirmi qualcosa...
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16 ago 2020 17:50
STEFANO MALATESTA CI HA LASCIATO: AVEVA DA POCO COMPIUTO GLI 80 ANNI, SEGNATO DA UNA LUNGA BATTAGLIA CONTRO IL PARKINSON. IL RICORDO DI PAOLO MAURI: ''AVEVA SCOPERTO PRESTO D' ESSERE NATO PER FARE IL GIORNALISTA, MISURANDOSI CON LA CRONACA NERA E POI CON GLI SCENARI DELLA POLITICA INTERNAZIONALE. DIVERSI ANNI FA, TORNANDO DAL MALI, AVEVA ACCUSATO DEI PROBLEMI DI SALUTE. MI HANNO STREGATO, DICEVA TRA IL SERIO E IL FACETO…''
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Paolo Mauri per ''la Repubblica''
Stefano Malatesta ci ha lasciato: aveva da poco compiuto gli ottant' anni, segnato da una lunga battaglia contro il Parkinson. Mi aveva ancora telefonato qualche settimana fa per propormi di andare insieme a visitare la casa di Giovanni Pascoli. Poi tutti e due avevamo aggiunto che forse era meglio aspettare che la pandemia si affievolisse un po' di più.
Laureato in Scienze politiche, aveva scoperto presto d' essere nato per fare il giornalista, misurandosi con la cronaca nera e poi con gli scenari della politica internazionale: Panorama lo mandò a seguire il golpe di Pinochet in Cile. Quando approdò a Repubblica continuò per qualche tempo a fare l' inviato di Esteri (Iran e Iraq, tra le altre cose) passando poi al reportage culturale. «Sono il vendicatore! », annunciava ridendo quando entrava in redazione, alto e biondo, spesso con un foulard annodato al collo, e spiegava che lui, lavorando in modo piuttosto piacevole, vendicava, per così dire, i redattori costretti a un lungo orario d' ufficio.
Quando era ancora molto giovane fece un viaggio da Roma alla Sicilia in Lambretta, con una ragazza, se non ricordo male, svedese. Avevano pochi soldi e dunque dormivano in spiaggia. Fu lei ad insegnargli che bisognava, la sera, accendere un fuoco e poi coprire i carboni con la sabbia che diventava così un letto caldo, molto confortevole.
Malatesta aveva girato il mondo e lo aveva raccontato da grande inviato, ma ad un certo punto il centro dei suoi interessi divenne la Sicilia: un mondo pieno di storie e di personaggi. Era diventato molto amico di Camilleri, prima che, grazie a Montalbano, diventasse così popolare. Fu Stefano il primo a parlarmi di Gesualdo Bufalino che Sellerio stava per pubblicare. Era stato alle Eolie e aveva raccolto dalla viva voce dei pescatori mille storie poi raccolte in un libro, Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani . Fu, credo, il barone Borsellino a fargli comprare per poco un vecchio baglio in disarmo dalle parti di Sciacca e precisamente a Borgo Bonsignore, dove sfocia in mare il fiume Platani.
Divenne la sua casa per le vacanze, e, soprattutto, un osservatorio privilegiato. Lo affascinava la Sicilia dei Gattopardi e ne cercava i segreti, magari chiacchierando con Sciascia o con Elvira Sellerio. Scovò a Enna un collezionista di monete antiche che aveva accumulato in casa una serie infinita di "pezzi" rari. E lo attirava il folclore siciliano. Una volta trovò, non so dove, un proverbio che suonava più o meno: futtiri in piedi e camminari dint' a rina conducono l' uomo alla rovina . Interpellato, Camilleri gli disse: «Malatè, certi proverbi li sai soltanto tu!».
Col tempo e, complice la frequentazione del critico d' arte di Repubblica Giuliano Briganti, Stefano si era sempre più appassionato a quel mondo: tra l' altro si era anche messo a dipingere, con risultati niente male, testimoniati da diverse mostre. Faceva dunque volentieri le cronache d' arte, viaggiando non più per deserti o paesi in guerra, ma per gallerie e musei. E anche quel mondo era pieno di personaggi affascinanti.
Uno, per esempio, era il restauratore Pico Cellini, cui Malatesta dedicò più di un pezzo nel quale raccontava le prodezze dei falsari che Cellini, diceva, gli aveva a sua volta narrato con ricchezza di particolari. Da una famiglia romana di falsari era uscita una perfetta biga "antica" che a Londra fu esposta in pompa magna.
Cellini sapeva tutto dei materiali e una volta, in contrasto con Bianchi Bandinelli, dubitando di una stele di marmo che era stata in qualche modo "riscoperta", si era avvicinato durante l' inaugurazione della mostra e sfuggendo ai carabinieri in alta uniforme, aveva letteralmente leccato il marmo. Arrestato e quasi subito rilasciato, era poi stato invitato dal soprintendente Bianchi Bandinelli a casa sua perché spiegasse quel suo gesto inconsueto. E lui, che non aveva una laurea e nemmeno un diploma di scuola media, aveva disquisito davanti agli esperti degli acidi che i falsari usano per trattare il marmo.
Acidi che però hanno il vizio di risalire in superficie: ed ecco il perché della lingua: si trattava proprio di "assaggiare" quel marmo.
La stele, Bianchi Bandinelli si era alla fine convinto, fu accantonata. In realtà credo che quella storia, Stefano l' abbia saputa non da Cellini direttamente ma da altri testimoni, quando Cellini non c' era più, ma era troppo bella per lasciarla nella penna.
Roma, la città in cui era nato e cresciuto, era stata l' altra grande passione di Malatesta e in un libro aveva ricordato una Roma paradiso, non ancora preda del turismo di massa e dei B&B. In questo incrociava volentieri i ricordi con quelli dell' amico poeta Valentino Zeichen, che in qualche modo aveva adottato Roma e, per così dire, pattugliava i luoghi storici come una sorta di sentinella volontaria.
Neri Pozza ha oggi in catalogo diversi libri firmati da Malatesta.
Il titolo di uno di questi, Il cammello battriano , che era dedicato alla Via della Seta sulle orme di Marco Polo, è anche diventato l' insegna di una collana da lui diretta e sempre destinata ai libri di viaggi. E ancora ai viaggi era dedicato un festival da lui diretto. Ma è stato, Stefano, anche un grande esperto di battaglie soprattutto antiche e ne aveva scritto a lungo (c' è un libro che raccoglie quei pezzi, uscito nel 2017).
Diversi anni fa, tornando dal Mali, aveva accusato dei problemi di salute. Mi hanno stregato, diceva tra il serio e il faceto. Comunque fece i conti con un periodo di depressione e più in là pensò che il Parkinson avesse attinenza con quell' episodio. Ma non si è mai arreso alla malattia.
E ha combattuto col sorriso sulle labbra e sempre con un nuovo progetto in mente. Addio, caro Stefano.
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Carta
Imparare a leggere, penso di averlo fatto con Topolino un po' prima di andare a scuola. E non credo di essere stato un lettore particolarmente precoce, o almeno, ricordo pochissime letture importanti nei cinque anni delle elementari. In effetti, l'unico libro che ho fisso in mente è Il giro del mondo in ottanta giornidi Giulio Verne: solo che non era propriamente un libro, ma un audiolibro – cioè una audiocassetta – e per giunta in lingua inglese. Penso di averlo ascoltato talmente tanto che ancora oggi alcune frasi mi riecheggiano in testa. Comunque il fatto che già da piccolo il mio rapporto con la letteratura sia passato attraverso un supporto alternativo alla carta, e in una lingua straniera, indica come fossi destinato a cercare alternative al libro tradizionale. Forse anche per una sorta di ribellione alla famiglia che mi aveva circondato di libri di ogni genere, in ogni angolo della casa, in corridoio, in salotto, e ovviamente in camera da letto. Quasi come se i libri fossero stati la mia culla, e crescendo, ho sentito il bisogno di distanziarmene.
Ma non ho sentito il bisogno di distanziarmi dalle parole, nelle varie forme che le parole possono avere. Anzi proprio parole sono ancora oggi la mia vera casa, e continueranno a esserlo; ma come forse anticipato dal mio precoce innamoramento per quell'ascolto di Giulio Verne, il mio formato preferito è quello dell'audiolibro. E la “vera” dimensione della narrativa, per me, è quella del suo ascolto ad alta voce. Che se da un lato si configura come evoluzione tecnologica rispetto alla vecchia carta – comodamente gestibile dalle applicazioni per cellulare come Audible – dall'altro ne è esattamente l'opposto, è un ritorno alle origini della nostra civiltà. Ai cantastorie. A Omero.
Quando sono andato a vivere da solo, nel 2015, mi sono deciso a fare quel passo che per un intellettuale come me potrebbe sembrare strano se non inspiegabile: liberarmi di tutti i libri, o quasi. Mantenerne soltanto alcuni in bella evidenza, quelli davvero importanti che mi piace non solo poter prendere in mano in qualsiasi momento, ma anche semplicemente guardare per la bellezza del loro aspetto fisico. Oggetti d'arredamento. E tutto il resto via, in cantina, o a casa di mia madre, o regalato a chi lo vuole o persino buttato nella spazzatura in casi estremi.
In realtà non ho smesso di tenere per le mani i libri di carta, solo che li prendo in biblioteca, li tengo con me per un mese e poi li restituisco. Sono sempre stato molto preso dalla vertigine delle novità, dalla sensazione urgente di dover in qualche modo controllare l'infinita gamma dei mutamenti che attimo dopo attimo fanno girare il mondo. E questo vale anche per le novità editoriali: così quando vado in Sala Borsa e cerco qualcosa da prendere in prestito, avrei voglia di mettermi nello zaino tutto quello che è stato scritto in ordine di tempo a ritroso, dal più recente al più vecchio, come in un blog uscito dallo schermo per diventare la realtà quotidiana della mia vita.
Con il tempo ho iniziato a pensare delle tattiche per placare questa mia ossessione, nutrire la bestia nuovista che mi agita.
Per farlo, digito il nome di un editore nel catalogo di Sala Borsa, alla voce “ricerca libera”, poi visualizzo le uscite appunto in ordine cronologico inverso, dalla più nuova alla più vecchia.
Così posso trovare velocemente le ultime uscite di Adelphi, Quodlibet, Minimum Fax, Guanda, Bollati Boringhieri, La Nave di Teseo, Feltrinelli, Marsilio, Einaudi, Sellerio, Nottetempo, Raffaello Cortina, Carocci, NN, Sur, Il Saggiatore, Voland, Nutrimenti, Rubbettino, Neo, Beat, TEA, Chiarelettere. E alla fine mi importa ben poco se sono grandi o piccole, mainstream o indipendenti, l'importante è il risultato cioè che pubblichino libri che mi piacciano.
Ho anche aperto un microblog, che si chiama proprio Sala Borsa, ed è un promemoria dei libri trovati con queste ricerche. Ovviamente non faccio in tempo a leggere questi testi per intero: ho il piacere di prenderli in mano, capire di cosa si tratta, iniziare appena a tuffarmi sotto la loro misteriosa superficie per ammirare brevemente cosa c'è sotto. Ma certo non li leggo per intero.
Con gli audiolibri invece vado fino in fondo, ed è incredibile pensare che soltanto nel 2017 mi sono iscritto ad Audible e dunque ho iniziato a fruirli in modo sistematico: ora mi sembra che tutta la mia vita precedente sia stata una transizione, un'infinita attesa prima di scatenarmi nella conoscenza di grandi classici, nonché di tante altre cose più o meno divertenti o interessanti. In poco più di un anno da allora ho completato opere che avevo sempre avuto lì tra i doveri, i “prima o poi lo leggo”, ma non avrei mai avuto davvero il tempo o la voglia di farlo. Per esempio Dostoevskij (L'idiota,Delitto e castigo), I Miserabilidi Victor Hugo, Don Chisciottedi Cervantes, Moby Dickdi Melville, Il processodi Kafka, Harry Potter, tutto il ciclo deL'amica geniale,Frankensteindi Mary Shelley, La luna e i falòdi Pavese, Il rosso e il nerodi Stendhal, Il gattopardo,Orgoglio e pregiudiziodi Jane Austen, il Decamerondi Boccaccio, Lolitadi Nabokov, L'insostenibile leggerezza dell'esseredi Milan Kundera, Trans Europa Expressdi Paolo Rumiz, Millennium Poetry – Viaggio sentimentale nella poesia italianadi Valerio Magrelli, L'ultimo arrivatodi Marco Balzano, Le piccole virtùdi Natalia Ginzburg, Vergine Giuratadi Elvira Dones. E tanti di più ne rimangono da ascoltare.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo delle
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L'altra metà del libro: a Genova il festival per lettori veri
L’altra metà del libro: a Genova il festival per lettori veri
Genova si conferma capitale della lettura nei mesi finali dell’anno. Torna per la quarta edizione “L’altra metà del libro” (13-15 Novembre), il Festival promosso e organizzato da Genova Palazzo Ducale Fondazione per la cultura. La manifestazione si inserisce nell’ambito di Genovalegge (24ottobre-27 novembre) che per oltre un mese porta incontri, mostre, reading, musica e laboratori dedicati al…
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#Adriano Sofri#Andrea Camilleri#Atti osceni in luogo privato#commissario Montalbano#Elvira Sellerio#Feltrinelli#Genova#Genovalegge#Giorgio Falco#incontro#Italo Calvino#L&039;altra metà del libro#L&039;invenzione della madre#La sposa#Marco Missiroli#Marco Peano#Minimum Fax#Nicola Lagioia#Pasolini oggi#reading#Rocco Ronchi#Stefano Bartezzaghi
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MICHEL HOUELLEBECQ: “ANNIENTARE” (parte I)
Ci sono libri la cui lettura lascia indifferenti, altri la cui lettura suscita in noi interesse; ci sono libri che ci sconcertano, altri che ci divertono. Ma ci sono libri che ci lasciano sconvolti. “Annientare” di Michel Houellebecq edito in Italia da “La Nave di Teseo” di Elisabetta Sgarbi, (una delle poche donne editor di un certo rilievo con la compianta Elvira Sellerio e poche altre), appartiene sicuramente a quest’ultima categoria. In realtà, “Annientare” sembra contenere due storie (o forse anche due autori): la prima è la storia di Bruno Juge, ministro dell’economia francese, di un futuro prossimo venturo, in lizza per essere eletto presidente della repubblica e, parallelamente, la storia che vede Paul Raison ,suo consigliere, che viene chiamato ad indagare su un attacco informatico ai danni del candidato alle presidenziali, che si manifesta sotto forma di una sorta di “porn-revenge”. Nella prima storia entrano a pieno titolo le vite famigliari dei due uomini, entrambe vite segnate da matrimoni falliti, quello di Bruno come quello di Paul, sposato con Prudence. La prima storia dove si intrecciano i destini dei due uomini e che occupa buona parte delle pagine del poderoso volume, non è in realtà la più importante e ha tutti, o quasi tutti, i connotati di una storia di una cronaca di fantapolitica con qualche concessione all’intimismo famigliare, ma sempre narrata sui saldi binari della prevedibilità. L’altra storia, quella che come un fiume carsico emerge a tratti dalla fitta trama del libro, è una storia di sentimenti individuali, a cominciare dal dolore di Paul per la malattia del padre e che passa attraverso anche altri rapporti famigliari. Ma è soprattutto una storia di annientamento della vita, di morte e di sesso, ma anche di amore e in particolare del “riconoscimento” di un amore ritrovato, quello di Paul per la moglie Prudence e di un loro mondo segreto che aveva resistito a tutto: “ … Prudence come tutte le donne innamorate, trovava commovente il pensiero di quei pochi anni in cui Paul, pur essendo già quasi adulto, non l’aveva ancora conosciuta…” Ed è questa seconda storia a caratterizzare il romanzo che vive della indefinibile scrittura di Houllebecq. Una storia di sentimenti e di istinti, attraverso la sofferenza prima, quella del padre di Paul rimasto paralizzato a causa di un ictus e di attesa della morte dopo, quella verso cui va incontro Paul a causa di un cancro che lo divora. La scrittura di Houellebeq è coinvolgente e distaccata, intima e sociologica, dove basta poco per passare da una dolorosa vicenda famigliare: “Il volto ieraticamente irrigidito, gli occhi fissi su un punto imprecisato dello spazio, suo padre non apparteneva più del tutto all’umanità…”, come descrive il padre immobilizzato, senza rinunciare ad osservazioni che riguardano il contesto, anzi i contesti in cui ci troviamo a vivere: “…Affidare i genitori ad un istituto avrebbe costituito un disonore per la maggiorparte del maghrebini…”. (Continua)
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“Riccardino” è il più brutto tra i romanzi di Montalbano e il peggior modo per onorare la memoria di Camilleri. Ora vi spiego (filologicamente) perché
L’ultimo episodio di Montalbano, intitolato Riccardino, è forse il peggiore, soprattutto quanto alla trama, che lo stesso autore boccia quando dice come personaggio al suo commissario: “Mi stai facendo scrivere di Riccardino un romanzo di merda”. Gioca, è vero, ma non scherza. La sua struttura di metaromanzo è fondata su una missione impossibile che Camilleri si intesta come un rompicapo: fare finalmente incontrare il Montalbano televisivo con quello di carta dopo averli sempre tenuti separati. Se nel 2016, a distanza di undici anni, rimette perciò mano al romanzo non è certo nel proposito di renderlo in un’altra forma, giacché non ha che rimestato lo stesso linguaggio, ma probabilmente per correggere una contraddizione di fondo, rimasta però irrisolta perché irrisolvibile. Sulla forma è intervenuto perché non l’ha potuto fare sulla sostanza. Vediamo di che si tratta.
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Il libro che oggi leggiamo fu scritto e consegnato a Elvira Sellerio nel 2005. Il primo capitolo uscì in anteprima assoluta il 21 giugno 2005 sul mensile Stilos al quale Camilleri dichiarò che si trattava di un romanzo “futurissimo”, il primo peraltro con un titolo del tutto dissonante. Non era quindi ancora sua intenzione farlo uscire postumo, decisione presa solo successivamente, quando gli si chiarirà meglio lo sviluppo da un lato del rapporto tra il personaggio televisivo e quello letterario, da un altro dello stato di cedimento coscienziale della figura del personaggio e da un altro ancora del progressivo prevalere dell’elemento metafisico sulla diegesi analogica: risultato che si avrà in una prima elaborazione solo nel 2009 con La danza del gabbiano, il romanzo snodo nel quale Montalbano si chiede che tipo di storia deve raccontare a Camilleri, dice a Livia di non volere andare in vacanza nel Ragusano perché stanno girando un nuovo episodio televisivo, la soluzione del giallo si ha per un evento del tutto surreale e si ha l’affermarsi di quello che Camilleri chiamò “scarto della ragione”. Dall’epica della realtà Camilleri è passato all’epica dell’esistenza e, riprendendo il testo nel 2016, Camilleri vorrà in realtà definire il rapporto tra il suo Montalbano e quello di Zingaretti come anche quello personale con il personaggio, sicché si capisce che nel 2005 parla di “futurissimo” perché non ha chiaro il progetto. Come aveva detto di Montalbano, rimasto con un piede in aria fino a La voce del violino, non ha ancora egli stesso messo i piedi per terra.
Ma la grande scommessa legata alla possibilità che desse soluzione a quella che era davvero la sua ossessione è stata persa. Riccardino è un romanzo legato al tempo in cui è stato scritto (tanto che Camillieri decide nel 2016 di non mutare la trama), quando i due personaggi, televisivo e cartaceo, sono in conflitto e nella prospettiva di rimanerlo. Vedendo il forte prevalere del primo, la soccombenza del modello alla copia, nel 2016 Camilleri ha inteso probabilmente dichiarare la resa del suo personaggio e, verificando come la sua creatura fosse stata ormai fagocitata dal suo doppio televisivo (mai l’ho sentito arrabbiarsi di più quando gli veniva fatto notare che, dato il successo della serie tivù, i suoi romanzi erano sempre più delle sceneggiature), ha voluto rimetterci mano per trovare come avvicinare le due figure. Non ci è riuscito e, recuperando la propria intransigenza, si è limitato a intervenire sulla forma a motivo anche del fatto che nel tempo il suo linguaggio si è via via andato stemperando perdendo l’originario carico dialettale per assumere forme meno espressionistiche e più piane, giusto che nel 2016 la scrittura di Camilleri non è più quella del 2005. La decisione di lasciare il romanzo del 2005 uguale nella sostanza lo ha indotto a mantenere, come signum individuationis, anche l’inciso in cui come autore dice al commissario che sta per compiere ottant’anni, in realtà prossimi nell’estate nel 2005.
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Che Riccardino sia un romanzo del 2005, perché è entro quella stagione che va inserito e non nell’altra maturata dieci anni dopo, è dimostrato dal fatto che nel 2005 esce La luna di carta, il romanzo-officina di uno sperimentalismo più marcato fatto di giochi combinatori, grovigli psicologici, effetti mantici, trovate borgesiane, effetti surrealistici. Insieme con La vampa d’agosto, Le ali della sfinge e La pista di sabbia, forma la quadrilogia dell’autoinganno lungo una linea che alla concretezza anche dei titoli sostituisce l’astrazione e lo scavo interiore del personaggio. Montalbano entra in rapporto diretto con l’autore, scrive lettere a sé stesso, si abbandona a suggestioni oniriche, inaugurando così un percorso che da questo momento in poi andrà sempre più prendendo piede. Riccardino risponde pienamente a queste sollecitazioni, costituendone il culmine, e Camilleri ne dà atto quando nel romanzo postumo così dice come personaggio-autore parlando al commissario: “Tu accomenzasti già tempo fa con la storia delle dù fimmine e della morte del morto ammazzato con l’affare di fora. Lì hai fatto alcuni sbagli. Io non me ne sono accorto, ma qualche lettore sì e me l’ha segnalato”. Il riferimento è proprio a La luna di carta.
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Nel 2007, commentando il libro in Tutto Camilleri (Barbera) così scrivevo di un irriconoscibile Montalbano: “Quando i suoi uomini lo vanno informando della serie di decessi oscuri avvenuti a Vigàta non reagisce come il lettore, che ha immediata percezione del legame tra la morte «passionale» dell’informatore scientifico e quelle inspiegabili dei notabili. Camilleri relega Montalbano nell’innocenza dell’inavvertenza, ma per fare ciò lo rende dimidiato: al punto che se gli dicono che la vittima faceva l’«informatore» pensa davvero a un confidente, preda dunque di un ésprit de l’escalier che gli annebbia la ragione e lo porta a capire tutto in ritardo. Un Montalbano in contraggenio: si ostina a non riferire al magistrato, provoca il suicidio di una donna per strapparle la verità con fare inquisitorio, non intuisce il motivo delle quotidiane convocazioni in questura, dà del tu a una donna indagata e per poco non cede alla sua avvenenza, dimentica di essere un poliziotto davanti alla bellezza dell’altra, compie ripetute violazioni domiciliari con assoluta disinvoltura”.
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Riccardino è dunque un libro del 2005 e rivedendolo Camilleri ha provato ad aggiornarlo e renderlo conforme alle acquisizioni della sua ricerca in fatto anche di smagrimento della lingua, ma facendo ciò ha inteso ripudiarlo perché uscisse la sola versione corretta: sennonché la Sellerio, in una brutta operazione commerciale chiaramente speculativa e opportunistica, ha stampato un’edizione con la stesura definitiva e in concomitanza un’altra più costosa che comprende anche la prima e che rocambolescamente ha intitolato Riccardino. Seguito dalla prima stesura del 2005, relegando così a un paralipomeno di appendice la versione che costituisce l’Ur-text, in realtà divenuto a quel punto solo filologicamente interessante, e soprattutto scombinando le carte dell’autore, mettendo mano nei suoi cassetti e confondendo in maniera del tutto ingiustificata e inopinata il lettore.
Nella prefazione Antonio Sellerio riporta una dichiarazione di Camilleri (che non dice però dove e quando è stata resa, perché non figura nella Nota finale, dove l’autore spiega solo di aver conservato la trama e “sistemato” la lingua) che in parte è certamente rispondente al vero (“Ho sempre distrutto tutte le tracce che portavano ai romanzi compiuti”) e in parte appare del tutto improbabile, oltre che fortemente contraddittoria: “Invece mi pare che possa giovare far vedere materialmente al lettore l’evoluzione della mia scrittura”. Camilleri ha davvero detto una cosa simile?
In una dichiarazione all’Ansa Sellerio ha aggiunto che “Camilleri teneva a che i lettori fossero messi in grado di conoscere i cambiamenti nella sua scrittura”. Questo non risulta da nessuna parte, né c’è un solo dato di fatto che autorizzi a supporlo. Nella vasta opera dello scrittore scomparso il 17 luglio dell’anno scorso non si trova un solo titolo che sia uscito, anche a distanza di tempo, per sostituirne o solo aggiornare un altro. Nemmeno per Il re di Girgenti, che pure impegnò l’autore per oltre cinque anni spingendolo a redigere più stesure, fu ipotizzata la pubblicazione del testo scartato, quello sì del tutto diverso – persino nel contenuto – dalla versione pubblicata e certamente prova sofferta e significativa del lavoro fatto sulla lingua, ancorché secentesca. In verità Camilleri ha sempre concepito come definitivi i suoi testi, una volta consegnati all’editore: al punto da rendersi responsabile di errori usciti in volume benché ne fosse ben consapevole. La prova è nell’esperienza che ho personalmente fatto e che vale rendere oggi pubblica.
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Nel febbraio del 2010 Camilleri permise gratuitamente a Stilos di pubblicare, solo come libro omaggio allegato alla rivista, il suo racconto lungo “Lo stivale di Garibaldi”, che insieme con “Il palato assoluto”, altro racconto inedito uscito lo stesso anno su Stilos, è poi stato raccolto nel libro Sellerio del 2016 La cappella di famiglia. Quando lessi il dattiloscritto, come al solito scritto a caratteri molto grandi e con ampia spaziatura, trovai due errori gravi. Il primo, in occasione del viaggio per mare del prefetto Falconcini: “Biniditto omo, ma non c’era il treno?”. Il treno riappare più avanti quando scrive, rivolto direttamente al personaggio: “Possibbili che non accapisci che il distino ti sta dicenno: talè, Falconcini, sta attento che viniri ‘n Sicilia non è cosa, ti conveni ristari supra al postali, tornaritinni a Palermo e da lì pigliari il treno per il continenti?”. Avendo l’arrivo del prefetto una data precisa nel racconto (“Erano le deci del matino del tridici di austo del milli e ottocento e sissantadù”), l’errore consistette nell’anticipare di un anno la nascita della prima linea ferrata Palermo-Bagheria. L’altra svista era legata a un’altra data, laddove Falconcini veniva fatto sbarcare a Palermo “un anno appresso lo sbarco di Garibaldi”. Che però è del 1860. Feci notare i due infortuni a Camilleri che ovviamente mi autorizzò a modificarli accettando la mia soluzione: nel primo caso scrivendo “Biniditto omo, ma non c’erano mezzi più comodi?”, nel secondo “papore” al posto di “treno” e nel terzo “due anni appresso”. Il testo consegnato alla Sellerio e apparso nella raccolta di racconti del 2016 è quello originale e mantiene quindi i clamorosi strafalcioni, segno che la casa editrice palermitana, così pignola e fiscale nella revisione dei manoscritti, non sottopose ad alcun editing un dattiloscritto ritenuto sacro e infallibile. Quel che rileva è che, forse per dimenticanza, nemmeno Camilleri si preoccupò di apportare nell’originale le correzioni da lui stesso autorizzate. Riteneva definitivo il suo testo così come era uscito dalle sue mani.
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Se questo fece proprio nell’anno, il 2016, in cui Antonio Sellerio dichiara che lo scrittore riprese Riccardino, lo stesso anno in cui deve aver consegnato alla Sellerio “Lo stivale di Garibaldi” scorretto, viene fatto di credere che, se in uno lascia gli errori o addirittura se ne dimentica, nell’altro voglia sì apportare delle modifiche sostanziali, correggendo errori di altra natura, ma rinunci a farlo e, fermandosi alla superficie, preferisca mantenere un romanzo sbagliato, dalla trama farraginosa, che tuttavia considera unico e indivisibile: ma come consegnato non più nel 2005 bensì nel 2016 riveduto e corretto nella forma. Non c’è dubbio (per usare una sua espressione tipica) che nella Nota Camilleri avrebbe dichiarato la volontà di vedere pubblicate entrambe le stesure, anzi ci avrebbe anche ragionato sopra fornendo ogni spiegazione di una scelta del tutto nuova e inopinata. Non l’ha fatto, perché si sarebbe tradito. Chi conosce la sua vita e la sua opera, sa bene che non avrebbe mai portato i suoi lettori a mutarsi in glottologi e filologi e studiare – lui così nazionalpopolare – differenze linguistiche e sottigliezze semantiche proprio per smussare le quali ha voluto “sistemare” Riccardino. Pubblicando anche la versione scorretta in un secondo libro, si è commemorato Camilleri nel peggiore dei modi. Ma nel migliore guardando ai maggiori incassi.
Gianni Bonina
*In copertina: la fotografia di Andrea Camilleri è tratta da qui
L'articolo “Riccardino” è il più brutto tra i romanzi di Montalbano e il peggior modo per onorare la memoria di Camilleri. Ora vi spiego (filologicamente) perché proviene da Pangea.
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“Questo mostro misterioso che è il lettore…”. Gesualdo Bufalino, l’untore della letteratura italiana
A un certo punto quel libro che pare scritto sotto sotterfugio lunare, all’aureola di centinaia di candele – ragion per cui non può che essere ‘di culto’ – evolve in breviario estatico, in liturgia di ispirazioni argentate. “La morte: un esilio? un rimpatrio?”; “Com’è difficile, Dio”; “Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente”; “Il mio cuore, come non mi somiglia più. Di un altro, ora: una persona tragica in cui non so riconoscermi, che ha usurpato i miei ricordi, alla cui invasione piangendo dico di no”. Fu lava e pestilenza, quello stile, aggiogato in un senza tempo, con l’arcangelo che ti chiude le narici fino a farti esplodere in coriandolo la pupilla.
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Sbancò al Campiello quel libro, Diceria dell’untore, di manzoniana bellezza, il caos omaggiato in verbi, vincendo su una cinquina di esperti (Anna Banti, Tonino Guerra, Gian Piero Bona, Bino Sanminiatelli). Secondo l’agiografia di quell’esordiente a sessant’anni, riferita da Maria Corti nel tomo delle Opere Bompiani – d’altronde, una vita è faccenda di dicerie, fatture, fratture – Diceria s’abbozza nel 1950, termina nel 1971, viene pubblicata, dopo radiose reticenze, nel 1981. Secondo la diceria, quarant’anni fa Elvira Sellerio passa un libro fotografico, Comiso ieri, a Leonardo Sciascia: è meravigliata dall’introduzione, vergata con caravaggesco brio da Bufalino. Sciascia esplode: questo è uno scrittore speciale. Da lì comincia la lenta estorsione del romanzo e l’emersione del ‘personaggio’.
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Poi, nel 1988, con Le menzogne della notte, capitò lo Strega, e capitolò il mito. Faccio il predatore di falene: in effetti quella edizione del premio non poteva andare ad altri (lampeggiava la modestia: Carlo Bernari, Giorgio Montefoschi, Giuliana Berlinguer, Brunello Vandano; Bufalino vinse con 159 preferenze, il secondo, la Berlinguer, si fermò a 58).
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Un monolite nero, una maceria stellare: per me quel libro primo, di origine letteraria dispari, è bellissimo, con frasi a lambire la conversione. “Poiché la seduzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più”.
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Dopo l’esordio, si scoprì scrittore di oltraggiosa bravura, dal talento fecondissimo: a quel punto, pubblicò quasi un libro all’anno. Più che L’amaro miele, la raccolta di poesie – notare l’analogia con il “suo miele amaro”: Bufalino non fa che dettare, liquefatta in diversi generi, un’opera sola – è adorabile Il malpensante, raccolta di petroglifi aforistici che dicono della natura – tra lince e certezza – di sguardo di Bufalino. Segno questo: “Signore, abbi pietà dei suicidi, risparmia loro l’immortalità”. E anche questo: “Buco nero, che metafora giusta per chi volle essere stella e non è più che un rimasuglio di luce, incapace di sortire e di propagarsi, sigillata per sempre a consumarsi di sé!”.
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Tra le poesie, tramando questa, si chiama Svolta:
Venga l’autunno a dirci che siamo vivi, seduti sull’argine rosso a guardare l’acqua che se ne va. E tornino le pezze di turchino ai cancelli, i casti numi di gesso, le rose sdrucite, le vesti liete dei fidanzati, tutto rinnovi il tempo il suo mite apparecchio. Poiché, mentre l’aria rapisce nel suo sonno le foglie del sangue, e così piano mi tenta quest’esule sole la fronte, è bello qui fermarsi per dirti addio, mia giovinezza, mia giovinezza.
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A Taormina ho avuto il dono di dialogare, per quel tratto, con Cettina Caliò, poetessa. Tra i doni che mi ha fatto, in modo ingiustificato, un testo di trent’anni fa, connesso a una manifestazione, “Le maniere dello scrivere”, curata da Sergio Claudio Perroni. Il testo, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quis?, esito di un “wordshow-seminario”, è di Gesualdo Bufalino. Lo scrittore, con arguzia, ragiona sulle ragioni della sua scrittura e dialoga con il pubblico. Da lì ho tratto questi brani. (d.b.)
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La memoria. “Il tema della memoria è, come s’intende, legato strettamente alla morte. Noi ricordiamo per non morire, lo smemorato è un morto, non è più nessuno. D’altronde, la morte è, secondo la sentenza di Seneca, perpetua: ‘moriamo ogni giorno’, la morte non è un futuro che ci minaccia ma un presente che ad ogni attimo conquista una porzione più ampia di noi. Più questo presente si fa passato, più cresce la morte dentro di noi. La memoria è la debole medicina che si oppone alle soprechierie della morte, è una protesi che tenta di sostituire la vita”.
L’amore. “Nella mia opera l’amore è visto generalmente come una commedia d’inganni, non nel senso di una frode maligna, ma come cinema di larve, una specie di sogno ininterrotto e creativo che somiglia al sentimento dell’arte. Con la differenza che non riguarda gli eletti, i vocati ma l’universale, essendo capace di suscitare anche nel più rozzo una fantasia di simulacri e miraggi”.
La malattia. “Virginia Woolf diceva che la malattia è un tema raro nell’universo del romanzo. Non è vero e sarebbe facile provarlo. Anzi direi ch’è il tema centrale d’ogni narrare. Ora la malattia può essere uno strumento di conoscenza, una pratica mistica, una degradazione carnale, una vanità”.
Dio. “Il tema religioso è uno dei temi portanti del mio mondo espressivo. Più che di tema religioso converrebbe forse parlare di un rapporto agonistico con la parola Dio, e con l’eventuale presenza, se non con la certissima assenza”.
L’anomalo. “Mi considero uno scrittore anomalo, per cui il rapporto con la mia opera è un po’ diverso da quello genitore-figlio dello scrittore comune. Per un motivo molto semplice, che appartiene alla mia biografia: per il fatto che io, il mio primo romanzo, La diceria dell’untore, l’ho scritto intorno agli anni ’50, poi l’ho tenuto nel cassetto, l’ho pubblicato nel 1981. Quindi questa convivenza col mio ‘figliolo’ si è protratta per decenni. Non solo. Ma addirittura sarebbe durata fino alla mia morte, se non fossero intervenuti degli elementi puramente fortuiti. Perché io sono diventato scrittore pubblico, da scrittore privato, per una serie di circostanze quasi obbligate alle quali ho dovuto piegarmi”.
Fra parola e silenzio. “Per me non c’è mai una edizione definitiva, ne varietur, e io soffro questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione fra logorrea e omertà, questo negarmi e offrirmi insieme… Ebbene, le mie opere, prima di pubblicarle, le considero semplici prove, prime stesure, che mi vengono poi strappate dalle mani della vita, continuando a vivere come creature imperfette”.
Il pubblico. “Questo mostro misterioso che è il lettore, questo pubblico sterminato e senza volto per metà mi spaventava, per metà mi disgustava. Avevo la paura che stampando – per fortuna questa paura mi è passata, visto che ho stampato tanto – sarei stato come uno specchio che si spezza in mille pezzi e che in ognuno dei frammenti mi sarei riflesso moltiplicato e deformato. Ancora oggi ricevo delle lettere in cui un’ammirazione si sposa con una totale incomprensione. Per cui io non so che cosa scegliere: se essere lusingato, divertito o furibondo per l’equivoco enorme e la perdita d’identità. Evidentemente sotto gli occhi del mio corrispondente è capitato un frammento di specchio assolutamente infedele. E questo mi mortifica abbastanza”.
La tana. “La tana come rifugio significa innanzitutto il bisogno di esser soli, ma anche il bisogno di proteggersi dalle intemperie della vita, dalle intemperie della socialità, perché la socialità ha due aspetti. Un aspetto positivo, quando conforta la nostra angoscia di essere soli, uno negativo quando ci stringe in una maglia, in un intreccio di rapporti sociali che può essere ed è spessissimo conflittuale”.
L'articolo “Questo mostro misterioso che è il lettore…”. Gesualdo Bufalino, l’untore della letteratura italiana proviene da Pangea.
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