#Convenzione sulla schiavitù
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raffaeleitlodeo · 10 months ago
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Molt* trovano la situazione paradossale. Ma il Sudafrica non può che accusare lo Stato (di Isr@ele) se vuole riferirsi alla "Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio" del 1948.
La quale infatti, oltre a qualificare il crimine di genocidio come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, chiama in causa non solo le responsabilità individuali, ma anche la responsabilità dello Stato (per la commissione del reato o per omessa prevenzione e punizione del crimine). Non poteva fare altrimenti il Sudafrica, insomma, se voleva richiamarsi alla "Convenzione" (e se voleva farlo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'ONU). Né si possono usare, nel dibattito attuale, altre parole che quelle della "Convenzione", se il quadro di riferimento del diritto internazionale è questo.
Cosa diversa dal capo di imputazione sono le accuse, da provare come in un qualsiasi dibattimento (in questo caso non un processo ma una disputa tra Stati). Lo Stato di Isr@ele può essere giudicato responsabile di "genocidio"?
I termini sono importanti, sempre. E ancor più nel diritto, dove sono - dovrebbero essere - chiari, precisi, monosemici. "Genocidio" non equivale a "crimini di guerra" né a "crimini contro l'umanità". Sembrano distinzioni di lana caprina, di fronte alla brutale escalation degli ultimi mesi, e alla morte di decine di migliaia di persone, ma sono distinzioni importanti, che è bene ricordare anche a chi fa informazione in questi giorni, e discutendo qui come altrove.
Della definizione di "genocidio" si è già detto. Fu, come noto, l'avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin a coniare il termine durante il processo di Norimberga per descrivere lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Il reato di genocidio venne poi formalmente creato proprio attraverso la “Convenzione sul genocidio del 1948” come crimine internazionale: molto specifico ed anche molto difficile da provare, poiché - secondo la giurisprudenza - richiederebbe la prova della cosiddetta "motivazione mentale".
I "crimini di guerra" sono invece gravi violazioni del diritto internazionale commesse contro civili e combattenti durante i conflitti armati (art. 8 dello Statuto di Roma del 1998, col quale si è istituita la Corte Penale Internazionale dell'Aia). Lo statuto li definisce come "gravi violazioni" delle Convenzioni di Ginevra del 1949, che coprono più di cinquanta scenari, tra cui uccisioni, torture, stupri e presa di ostaggi, nonché attacchi a missioni umanitarie. Il suddetto articolo 8 riguarda anche gli attacchi deliberati contro civili o "città, villaggi, abitazioni o edifici che sono indifesi e che non sono obiettivi militari" nonché "la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione" di un territorio occupato.
“Crimine contro l'umanità” è infine un concetto formulato per la prima volta l'8 agosto 1945, e codificato nell'articolo 7 dello stesso Statuto di Roma. Implica "un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile", inclusi "omicidio" e "sterminio", nonché "riduzione in schiavitù" e "deportazione o trasferimento forzato" della popolazione. I crimini contro l'umanità possono verificarsi in tempo di pace (qui sta la principale differenza con i crimini di guerra) e includono torture, stupri e discriminazioni, siano esse razziali, etniche, culturali, religiose o di genere.
Non so – anzi, mi chiedo – se il Sudafrica abbia fatto 'tecnicamente' bene a chiedere la condanna dello Stato di Isr@ele in base alla “Convenzione” del 1948 di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia (soggetta, suo malgrado, all'influenza del Consiglio di Sicurezza dell'ONU), o se invece non occorresse potenziare l'azione della Corte Penale Internazionale (il cui mandato è però fortemente ostacolato da molti, e di difficile attuazione), reiterando le accuse nei confronti dei rappresentanti di quello Stato per “crimini di guerra” o “crimini contro l’umanità”.
Mi chiedo se una causa contro Net@nyahu e i membri del suo governo non sarebbe forse più diretta e penalmente dimostrabile e chissà – last but not least - capace anche di ridare fiato a quell'opposizione interna israeliana che le stragi del 7 ottobre hanno ridotto alla rassegnazione e alla paura (di finire in galera, ad esempio, se manifestano contro il primo ministro). E mi chiedo se così, forse, non si potrebbero anche separare le responsabilità e le scelte di un governo dalla storia di un popolo (che si identifica in quello Stato), togliendo dal quadro i paragoni impropri (vedi: processo di Norimberga), l'antisemitismo, l'Olocausto, e tutte le loro drammatiche implicazioni.
Lo dico altrimenti: bisognerebbe finalmente sgomberare il campo sia dalla minimizzazione dell’antisemitismo e della Shoah – che non dovrebbero essere paragonati a niente, per la loro specificità storica e per la loro tragica unicità – sia dalle accuse di antisemitismo verso chi esprime dolore e rabbia per le sorti del popolo palestinese e muove critiche verso le politiche del governo di Isr@ele e le azioni del suo esercito.
Temo (ma spero di sbagliarmi) che il dibattito intorno al processo in corso alla Corte di Giustizia Internazionale rischi invece sia di rendere ancora più compatta la (auto)difesa di Net@nyahu, sia di alimentare l'antisemitismo (come dimostra, appunto, il largo uso di paragoni impropri).
Personalmente, ho sempre cercato di contrastare - coi miei interventi pubblici e i miei lavori, a partire da "Parole contro" (2004) - l'antisemitismo, svelandone gli aspetti più insidiosi nella 'cultura popolare' e nel senso comune, e di usare con la massima cautela e sensibilità le parole “Shoah” e “Olocausto”, e trovo offensivo e diffamante essere accusato di antisemitismo se mi esprimo per il "cessate il fuoco" o per il rispetto dei diritti umani in P@lestina e Isr@ele, avendo tra l'altro detto parole chiare e univoche - vedi un post di qualche tempo fa - di condanna alle atrocità di Ham@s del 7 ottobre.
E spero oggi che il dibattimento in corso all’Aia – indipendentemente dai suoi esiti niente affatto scontati in termini penali, e da certe approssimazioni mediatiche - possa finalmente smuovere la comunità internazionale e mettere al centro gli orrori, le ingiustizie, i diritti umani negati, e le vite spezzate nella Striscia di Gaz@, in Palestin@, e in Isr@ele. A questa mattanza - e a chi la alimenta: il terrorismo nichilista di Ham@s e dei suoi sostenitori e l'ultra ortodossia colonialista israeli@na - occorre rispondere con il diritto internazionale (anzi, con il diritto alla vita, una vita dignitosa, per tutte le persone coinvolte) e con un piano di pace, di lungo periodo, che deve trovare consenso e forza, oltre i timidi equilibrismi e i vergognosi silenzi-assensi (della UE, ad esempio).
Soprattutto, non credo si possa più assistere a ciò che sta avvenendo pensando che l’unica opzione sia quella di un conflitto che duri indefinitamente, e che continuerà a fare migliaia di morti, per la stragrande maggioranza civili. Né posso credere che chi vive prigioniero nella Striscia di Gaz@ - da generazioni, e non ha mai avuto alcuna possibilità di essere liber* cittadin* del mondo - non possa avere un destino diverso. O che chi vive in Isr@ele debba sentirsi continuamente minacciato da atti terroristici e in guerra permanente, così come chi vive in P@lestina debba avere il terrore che da un giorno all'altro arrivi qualcuno a espropriarti della tua terra, della tua casa, del tuo futuro.
Ecco: spero che, paradossalmente, il dibattimento in corso all’Aia - spingendo innanzitutto per un cessate il fuoco - possa far(ci) ricominciare a parlare di futuro. Un futuro per due popoli, e per il diritto ad esistere di entrambi.
Federico Faloppa, Facebook
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gregor-samsung · 2 years ago
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“ Il 25 settembre 1926, ‘Ankabuta detta Canna di bambù stava facendo legna nel deserto quando, senza preavviso, le iniziarono le doglie. In quel preciso momento, mentre lei dava alla luce la sua bambina e con un coltello arrugginito tagliava il cordone ombelicale che le univa, alcuni uomini riuniti a Ginevra firmavano la convenzione che aboliva la schiavitù e dichiarava reato la tratta di esseri umani. Quel giorno, ‘Ankabuta compiva quindici anni e di certo non sapeva niente di quel trattato, così come ignorava bellamente che esisteva una città chiamata Ginevra. ‘Ankabuta strappò in due il velo impolverato che le copriva la testa, avvolse la bambina in una delle metà, si risistemò l’altra sulle spalle e tornò ad ‘Awafi scalza e a capo scoperto. Quando arrivò a casa di Shaykh Sa‘id – che con quella nascita guadagnava una schiava in più – le altre donne l’aiutarono a entrare e a sdraiarsi su una stuoia. Una di loro strofinò un dattero sulle labbra della neonata. Poi gliela posarono accanto e ‘Ankabuta, vedendo quel corpicino grinzoso avvolto nel suo velo, scoppiò in lacrime. Era l’unico che non si era ancora strappato impigliandosi in qualche ramo. Non l’aveva tinto con l’indaco scuro per farlo diventare blu come l’altro che aveva e che ormai era tutto sbrindellato, però la trama teneva ancora bene e, a parte la polvere che scuriva il bianco, poteva passare per nuovo. Ed ecco, adesso era rovinato. Una settimana dopo, lo shaykh annunciò che la bambina appena nata si sarebbe chiamata Zarifa. Disse, però, che non avrebbe sacrificato nemmeno un animale per lei perché quell’anno, purtroppo, la raccolta dei datteri era andata male. Sedici anni dopo l’avrebbe venduta al mercante Sulayman, che avrebbe fatto di lei la sua schiava, poi la sua concubina e, infine, l’unica donna che fosse mai stata vicina al suo cuore. Lui, il mercante Sulayman, sarebbe stato l’unico uomo che Zarifa avrebbe amato e rispettato fino alla fine dei suoi giorni. In lui avrebbe visto per sempre la persona che l’aveva liberata dalle angherie dei figli di Shaykh Sa‘id, l’amante che le aveva insegnato i piaceri del corpo, l’uomo che le aveva insegnato il sottile gioco della crudeltà e della gelosia. Nonché il vecchio che era tornato da lei per morire tra le sue braccia. “
Jokha Alharthi, Corpi celesti, traduzione dall'arabo di Giacomo Longhi, Bompiani (collana Narratori Stranieri), 2022¹; pp. 147-148.
[Edizione originale: سيدات القمر (Sayyidat el-Qamar; Le signore della luna), editore Dār al-Ādāb, Beirut, Libano, 2010]
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a-tarassia · 3 years ago
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Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire (semi cit.)
Workers Don’t Want Their Old Jobs on the Old Terms - “labor shortages” is a good thing, not a problem. The pandemic may have given many Americans a chance to figure out what really matters to them — and the money they were being paid for unpleasant jobs, some now realize, just wasn’t enough
Stamattina mi sono imbattuta in una discussione sulla situazione lavorativa attuale, ovvero la mancanza di incontro tra la curva di domanda e quella dell’offerta di cui tanto si è lamentato soprattutto alla ripartenza estiva, non ci sono lavoratori è colpa del reddito di cittadinanza. Niente di più falso se si considera la percentuale di cittadini (nuclei familiari) che si affida al rdc, basterebbe solo cercare i dati e scoprire che di certo qualcuno a cui serve lavorare è rimasto, ma. È tutto più complicato di così, quindi mettiamo da parte i titoli clickbait del new journalism e approfondiamo il malessere, questa nuova forma di presa di coscienza della classe lavorativa del tipo “preferisco la povertà alla schiavitù”. Come sempre, visto anche l’inciso di cui sopra, tratto da un articolo pubblicato sul New York Times e scritto dall’economista Paul Krugman, dicevo, come sempre accade negli ultimi secoli, le prime avvisaglie di discrepanza culturale tra passato e presente (futuro) partono dagli Stati Uniti, possiamo stare qui ore, giorni, mesi, anni, a discutere sulla caratteristica dicotomica dell’America, ma quello che ne trarremmo sarebbe la solita vecchia cantilena: è troppo diversa, stratificata e grande per poterla rinchiudere in una categorizzazione, quindi deal with it. Negli USA, posto in cui non hanno mai dato uno stipendio effettivo ai camerieri,  la questione lavoro è tematica dominante di cui ormai si discute senza se e senza ma.
Da qualche mese anche in Italia siamo arrivati al punto in cui si grida alla mancanza di manodopera, ma come gli ultimi dati ufficiali hanno dimostrato ciò non è propriamente vero, anzi, secondo i dati dell’Inps in Italia da gennaio 2021 ci sono state 617mila assunzioni in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Però come ben sappiamo le statistiche sono effimere e cangianti, come delle olografie, cambiano in base al punto da cui le guardi e al risultato che vuoi ottenere, quindi giri la luce cambi angolazione un po’ e ti dicono quello che vuoi sentirti dire. Dove sta quindi la verità? Sempre dalla parte dei lavoratori, non ci si sbaglia.
Non dico che stiamo sopravvivendo su condizioni lavorative discusse e concordate nel 1930, ma quasi, di sicuro dal 1980 quasi nulla è cambiato a momenti nemmeno gli stipendi. You remember Scala Mobile? Innanzitutto io stessa che ho un CCNL e quindi dovrei essere tra le più tutelate mi  ritroverò un aumento indiscriminato dei prezzi e costo della vita sicuramente dal 2022, causati dalla Cina (vista soprattutto la situazione complessa di approvvigionamento, scarsità di materie prime e ritardi improponibili nelle spedizioni), sapete se non diversifichi le sedi di produzione internazionali, oggi tantissime in Asia, e ti fai mandare tutto dalla Cina, se la Cina aumenta il prezzo dei container, finchè non corri ai ripari (come?) possiamo discuterne in un altro luogo di questo), l’aumento te lo ciucci tutto e chi lo paga? Bravissimi. E secondo voi gli stipendi saranno adeguati? Bravissimi. Oltre che gli stipendi erano già inadeguati prima, figuriamoci tra un po’, vogliamo parlare di quanto invece sono aumentati gli stipendi dei CEO? Parliamone ancora dati alla mano:
41 million people lost their jobs in 2020 as the pandemic ravaged the U.S. economy, the most layoffs in at least two decades. But CEOs had a pretty good year. A great one, in fact, earning 351 times on average as much as the typical worker in their industry (qui)
Poco, solo 351 volte di più.
The weekend was won with no reduction in pay for workers and there was a gradual reduction in hours since then until about the 1980s. But since the 1980s working hours have not reduced at all, despite greater automation and new technology. We're overdue a reduction in working hours. (qui)
Toccando il punto, invece, delle ore lavorative (un articolo al link sopra), che nel migliore dei casi restano otto per cinque giorni a settimana, è chiaro che la regolamentazione rimasta invariata da oltre trent’anni deve essere rivista. Non solo servono meno ore per fare le stesse cose, ma si dovrebbe rivedere radicalmente i contratti così come sono stati concepiti dai sindacati quasi un secolo fa, lavorare part time, lavorare meno lavorare tutti, turnazioni, dare spazio alla digitalizzazione che straripa dall’armadio come farebbero tutte quelle tshirt nuove che hai comprato, mentre ti ostini ad utilizzare quella vecchia coi buchi perché sei affezionato e non ti va di cambiare che hai paura del nuovo. Digitalizzazione che porterebbe finalmente in campo molti giovani che sono specializzati nel settore ed eviterebbe perdite di tempo inutili e dannose per ogni individuo e spreco ingente di carta che io renderei legalmente perseguibile. È chiaro ed evidente che ridurre le ore lavorative e rimettere in mano agli individui il proprio tempo li rende persone più felici, you don’t say? La produzione resta invariata se non moltiplicata e hanno più tempo per spendere i soldi che portano a casa, per dirla in termini capitalistici:
Aumenti gli stipendi, aumenti il tempo libero, aumenti i guadagni, it’s not a difficult concept.
Riduzione di ore e regolamentazione del lavoro da remoto, che ad oggi esiste in varie forme in base a cosa fa più comodo all’azienda, ho sentito anche il concetto di mobile working, che tradotto è un altro modo per metterla nel culo al lavoratore. in Italia le aziende stanno ancora aspettando una risposta dallo Stato in termini di legislatura del lavoro agile, voi avete visto qualcosa? Io no e lavoro in un’azienda a cui piacerebbe, almeno in questo caso, fare un passo avanti. Il mondo della ristorazione, della logistica, dei servizi essenziali, necessita di controlli, strutturazione e tutele per i dipendenti, dovrebbe senza ombra di dubbio essere preso d’assalto dalla convenzione di ginevra, perché sfido io che un ragazzo nato negli anni ’90 oggi potrebbe prendere la decisione di chiudersi in catene per due spicci salvo che non sia davvero disperato o completamente pazzo. Qualcuno ha visto Sorry we missed you, di Ken Loach? È un consiglio. Poi dopo ci continueremo a lamentare che Amazon ci porta la presa schuko con un giorno di ritardo, ma almeno ci sentiremo in colpa. Dici non vogliono lavorare, ma meno male e grazie, salvate anche noi per favore ragazzi!
Dopo quasi due anni trascorsi chiusi in casa a fare a meno di tutto, forse finalmente qualcuno ha capito che magari si può fare a meno anche di lavorare a certe condizioni? Forse qualcuno ha capito che nella vita voleva fare altro, anche intrecciare cestini e venderli ai vicini o riprendersi mentre in doccia si lava il culo usando la spugna coi piedi e postarlo su onlyfans? Non trovo manodopera per il mio ristorante costruito abusivamente sulla spiaggia vista gabbiani e per cui pago 5€ all’anno al demanio, chiedo solo dieci ore al giorno sette giorni a settimana più straordinari nelle due centrali di agosto e pago profumatamente seicento euro al mese magari dovrebbe essere sostituito con assumo regolarmente con tutte le tutele del caso, malattie, ferie, stipendio adeguato e orario secondo contratto nazionale e partire da lì innanzitutto senza discriminazione di razza o sesso? Se avessimo regolamentato tutti gli stranieri che chiedono documenti legali dalla notte dei tempi forse anche il problema di “ci rubano il lavoro” sarebbe risolto con “meno male che da voi state alla canna del gas così almeno ho chi mi serve ai tavoli”, ma siamo un popolo di razzisti, questa sarebbe semplice utopia. È un discorso classista? Lo chiamerei più realista, sarebbe anche funzionale se si facesse di necessità virtù, ma anche le necessità in questo caso sono da prendere con le pinze. Sarebbe in ogni caso un improvement per tutti, ma troppo intelligente. È lampante come per determinate tipologie di lavoro necessitiamo di manodopera estera, non facciamo discorsi da finti buonisti, per quanto ci sia ancora l’italiano che fa il pizzaiolo, quella che fa la badante, l’oss, quello che impasta il cemento o guida la ruspa o raccoglie arance e pomodori è ovvio che saranno lavori per cui dovremmo sempre di più affidarci a chi arriva da fuori, questo per vari motivi che spero di non dovervi spiegare e quindi è anche arrivata l’ora che si smetta di fare finta che non sia così e mettere una mano anche sulla questione immigrazione in senso umano, civile, legale e burocratico. Again, più lavorano, più guadagnano, più tempo hanno, più spendono. Certo, la sostituzione razziale.
Anche il lavoro è un bene, un prodotto per cui c’è domanda e offerta e per cui deve esistere differenziazione, se si vuole occupare più gente possibile bisogna che ci siano più posti di lavoro possibili e non solo in termini quantitativi, ma anche e soprattutto qualitativi, le specializzazioni sono cambiate, le attitudini sono cambiate, le generazioni si evolvono e anche la realtà si sta chiaramente sdoppiando perché viviamo parallelamente nel mondo fisico e in quello virtuale e in entrambe serve la struttura digitale.
Siamo indietro, indietrissimo, in retromarcia.
Se l’istruzione fosse in linea coi tempi e pure preparasse professionalità adatte a gestire il mondo digitale il mercato del lavoro non sarebbe al passo, la stragrande maggioranza delle aziende ancora fa fatica ad abbandonare gli archivi fisici per essere banali, moltissime non hanno nemmeno ancora previsto lontanamente l’e-commerce nemmeno all’interno del gruppo stesso, digitalizzazione degli acquisti.
Stampiamo le fatture per portarle da un ufficio ad un altro, come possiamo pretendere di capire che serve un ufficio che gestisca i dati del sito quando il sito è ancora in manutenzione dal 2001 e sulla pagina facebook non c’è manco la foto sulla cover?
Le ragazzine vogliono fare le influencer, le youtuber, aprirsi un canale su twitch per far vedere le tette dipinte da unicorno rosa e noi invece di insegnare loro come gestire il mondo virtuale, fare dei corsi a scuola su diritti e doveri nell’era digitale e strutturare un pensiero anche per un domani lavorativo, che magari capiscono che esistono altri lavori nel campo anche più divertenti e remunerativi le incalziamo perché non vogliono fare le cassiere e poi le riempiamo di nozioni sul femminismo e il bodyshaming.
I ragazzi di oggi non studiano, beh convincimi che hanno torto.
Se la regolamentazione del mercato del lavoro si adeguasse e rivedesse la struttura dell'offerta per renderla attuale, in linea con le nuove necessità,  generazioni e in linea con le contingenze del momento, evidentemente diverse da anche solo cinque anni fa, allora potremmo parlare di un confronto tra domanda e offerta e dissertare sui numeri.
Se invece si continua a proporre situazioni lavorative tali e quali al 1950, senza considerare necessità ambientali, parità di genere, riduzione di orario di lavoro, smartworking, turnazioni, diversificazione dei compiti per le nuove specializzazioni soprattutto digitali, attitudini delle nuove generazioni e etica, soprattutto etica lavorativa, allora ogni discorso è aria fritta.
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carmenvicinanza · 3 years ago
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Susan Anthony
https://www.unadonnalgiorno.it/susan-anthony/
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Susan Brownell Anthony, suffragista, antischiavista, considerata la madre delle femministe, è colei che ha portato le donne al voto.
Purtroppo non ha vissuto abbastanza per vedere attuare l’emendamento alla Costituzione che porta il suo nome.
Scrittrice, attivista e pioniera dei diritti civili, ha svolto un ruolo cruciale nel movimento per l’emancipazione femminile nel XIX secolo, lottando strenuamente per assicurare il diritto di suffragio alle donne negli Stati Uniti.
Nacque a Adams, Massachusetts, il 15 febbraio 1820, in una numerosa famiglia quacchera, da genitori di mentalità progressista che puntarono molto sulla sua educazione. All’epoca, per le bambine si usavano programmi diversi, molto più scarsi rispetto a quelli dei maschi.
A causa della grave crisi finanziaria del 1837, la famiglia si ritrovò in grandi difficoltà economiche e Susan lasciò la casa per andare a insegnare e contribuire a pagare i debiti di suo padre. Fu anche Preside della sezione femminile di una scuola e in quell’ambito iniziò a lottare per salari equivalenti a quelli degli insegnanti maschi; gli uomini guadagnavano quattro volte più delle donne per le stesse mansioni.
Pur essendo una giovane donna insicura del suo aspetto fisico e delle sue capacità oratorie, l’impegno per la causa femminile le fece vincere egregiamente le paure e la sua resistenza iniziale a parlare in pubblico. Svolse un’intensa attività di propaganda e sensibilizzazione, diventando una delle più importanti leader del movimento delle donne, per 45 anni ha viaggiato senza sosta, tenendo dai 75 ai 100 discorsi all’anno.
Nell’agosto 1848, partecipò alla convenzione dei diritti delle donne e firmò la Dichiarazione dei Sentimenti della convenzione di Rochester.
Abbandonato l’insegnamento, a 29 anni divenne segretaria del gruppo Figlie della Temperanza, per combattere la correlazione tra alcol e violenza domestica, la sua prima importante ribalta pubblica.
Si allontanò dai Quaccheri, che considerava ipocriti e, col passare del tempo, sempre di più dalla religione in generale, attirandosi la condanna di vari gruppi cristiani per i suoi atteggiamenti irreligiosi.
Impegnata per la protezione degli animali, era vegetariana. Assunse anche un ruolo di spicco nel movimento anti-schiavista.
Nel 1851, con Elizabeth Cady Stanton, organizzò la prima società femminile statale per la temperanza negli Stati Uniti, dopo che lo stesso anno, le era stata rifiutata l’ammissione a una precedente convenzione perché era una donna. Insieme attraversarono gli Stati Uniti tenendo discorsi e tentando di persuadere il governo che uomini e donne dovevano essere trattati in modo uguale nella società.
Partecipò alla convenzione di Syracuse, nel 1852, dove  ottenne notorietà come potente sostenitrice pubblica dei diritti delle donne e voce attiva per il cambiamento.
Nel 1856, Susan B. Anthony tentò di unificare il movimento per i diritti delle persone afroamericane con quello per i diritti delle donne, unendosi alla Società antischiavista americana di William Lloyd Garrison.
Alla Nona Convenzione dei diritti delle donne, il 21 maggio 1859, chiese:
“Dove, in base alla nostra Dichiarazione d’indipendenza, l’uomo sassone trae il suo potere di privare tutte le donne e i negri dei loro inalienabili diritti?”.
Nel 1869 entrò in conflitto con il suo vecchio amico Frederick Douglass, per la posizione assunta dall’Associazione per gli uguali diritti che votò a favore del Quindicesimo Emendamento alla Costituzione, che concedeva il diritto di voto ai neri ma non alle donne. Da quel momento in poi si dedicò essenzialmente alla lotta a favore dei diritti delle donne.
È stata fondatrice del settimanale The Revolution, nato per promuovere il diritto al suffragio delle donne e degli afroamericani, che si occupava anche di temi sociali come il diritto a un salario equo, leggi più liberali per il divorzio e la posizione della Chiesa sulle questioni femminili.
Sempre con Elizabeth Cady Stanton, ha fondato l’Associazione Nazionale per il Suffragio delle Donne (National Women’s Suffrage Association), di cui è stata vicepresidente e poi presidente. Nonostante i suoi grandi sforzi, non riuscì mai a conquistare il favore delle donne del movimento operaio alla causa suffragista, vista come un interesse del ceto medio.
La sua scelta di perseguire alleanze con i suffragisti moderati e conservatori creò a lungo tensioni anche con la sua socia di sempre. Convinta che un approccio moderato nella causa per i diritti delle donne fosse più realistico e più proficuo, tese a  unire il movimento per il voto ogni volta che fu possibile, anche a costo di rinviare altri sforzi collegati ai diritti delle donne, quali la schiavitù religiosa e sociale, cosa che procurò l’allontanamento di Elizabeth Stanton.
Il 15 novembre del 1872 si recò alle urne per votare alle elezioni presidenziali. Per questo suo gesto venne condannata al pagamento di una multa di 100 dollari. Al giudice che la accusava di aver violato la legge rispose: “Sì, vostro onore, ma sono leggi fatte dagli uomini, interpretate da uomini e amministrate da uomini in favore degli uomini e contro le donne. Io non pagherò nemmeno un dollaro per la vostra ingiusta condanna”, e così fece.
Nel 1898, organizzò una raccolta fondi per promuovere l’accesso delle donne all’Università di Rochester, obiettivo che venne raggiunto nel 1900.
In collaborazione con altre femministe pubblicò La storia del suffragio femminile in quattro volumi.
È morta a Rochester il 13 marzo 1906.
Solo nel 1920, 14 anni dopo la sua scomparsa, un emendamento alla Costituzione statunitense, chiamato Anthony in suo onore, ha concesso il voto alle donne.
Nel 1921 le è stata eretta una statua al Campidoglio di Washington. La sua effigie venne riprodotta sulle monete statunitensi, chiamate il “dollaro di Susan B. Anthony“.
Le case in cui è nata e cresciuta sono diventate monumenti e musei.
Grazie alla sua incessante attività, vissuta come una missione talmente grande da travalicare altre importanti istanze, Susan B. Anthony è riuscita a portare le donne alle urne consegnando nelle loro mani un fondamentale diritto civile.
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pleaseanotherbook · 8 years ago
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Una sovrana diversa dal solito: come Kelsea trasforma la concezione della regina classica
Articolo contenuto nella rivista “The Quill” associata alla Born to Read Box
È facilmente intuibile perché solitamente i libri fantasy siano ambientati all’interno di corti prestigiose, con protagonisti reali, e con ambientazioni lussuose. È più semplice immaginare un ambiente riccamente decorato, in cui si può ottenere ciò che si vuole con lo schiocco di una mano, che navigare le acque poco sicure della povertà. Come riuscire a viaggiare e a procurarsi artefatti e amuleti preziosi in condizioni indigenti? Decisamente più incantevole scivolare tra i corridoi di un castello o di una residenza principesca. D’altronde vivere tra principi e regine colpisce l’immaginario classico da molto tempo.
Basti pensare alle favole. Quanto facilmente ci si identifica nell’umile Cenerentola che viene scelta dal Principe Azzurro come sposa? Quanto si fa il tifo per la povera Biancaneve bistrattata dalla Strega Cattiva per la sua bellezza? D’altronde anche la Sirenetta era una principessa. Con una coda, ma pur sempre una principessa. I fratelli Grimm e quel simpaticone di Andersen credevano che lanciare fastidiosi insegnamenti per bocca di illustri uomini e donne fosse incredibilmente più efficace. Non tutti potevano essere la Piccola Fiammiferaia e gli Oliver Twist della situazione lasciano l’amaro in bocca. L’empatia umana che pur scatta si frange contro la possibilità di scegliere una vita piena, corredata di possibilità economiche illimitate. Anche il Gatto con gli Stivali finisce per diventare un nobile gatto che caccia topi per diletto, con il terzo figlio del mugnaio che diventa padrone del castello. In fondo il mito è sempre quello, il riscatto sociale, il sogno americano ante-litteram, che si nutre della possibilità di sfidare qualsiasi convenzione sociale e di sfondare in un campo senza perdersi per strada.
Le regine hanno il fascino incantevole di vestiti lussuosi, di un immaginario che lascia presagire un coinvolgimento su più livelli. Il potere è qualcosa di oscuro, su cui tutti vogliono mettere le mani sopra. La predisposizione umana è quella di scivolare nella lusinga, nel pretendere di avere uno stuolo di compiacenti sudditi che accarezzano l’ego in una visione egoista di un lavoro senza grosse pressioni. Ma non è sempre così facile, gestire un regno non è semplice come chiamare tanti topini a cucire in quattro e quattr’otto un vestito per il ballo.
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La composizione variegata di una corte che si evolve, comprende sia i regnanti inconsapevoli, quelli che in un modo del tutto sconclusionato si ritrovano a gestire un potere più grande di loro e sia chi per diritto di nascita ha il potere di decidere la vita e la morte di chi popola il reame. Non è semplice convivere con il peso della corona e spesso si vorrebbe scappare dalle proprie responsabilità. Alla base c’è sempre la salvezza di un popolo, di uno stato, di una nazione, il fascino del ribelle che deve rovesciare il potere. E allora ecco che il re o la regina dimenticati da tutti escono alla ribalta, in un viaggio di formazione e di scoperta, un viaggio per ritrovare sé stessi e le proprie potenzialità. È quello che succede ad Aragorn, il Re che ritorna nel Signore degli Anelli, nella compulsione che si scatena verso la salvezza di tutta la Terra di Mezzo. E si che la sua spada incatena e schianta, ma è anche il modo per debellare la schiavitù di un anello che spezza la volontà e annichilisce il cuore. Magia e potere si intrecciano per la riscossa di un popolo destinato alla scomparsa. Ed è questo che affascina il lettore, quel pungolo a non arrendersi, a non mollare, a superare qualsiasi avversità che siano draghi o Nazgûl. E allora Eowyn diventa un simbolo. Reggente di Rohan, veste i panni di un uomo pur di partire per la guerra. La scena della battaglia di Minas Tirith è tanto epica quanto simbolica. Figlia di re e donna Eowyn, al grido di “I’m no man” (non sono un uomo) abbatte il malvagio Signore dei Nazgûl. Le regine non sono certo dolci creature che attendono gli uomini scesi in battaglia mentre filano la lana. Le regine sono valorose, forti, coraggiose, donne degne di tenere in pugno la situazione come un uomo, come un Re.
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D’altronde nei libri fantasy è sempre più normale scovare ragazze dal temperamento focoso e l’abilità di dominare la scena. Penso anche a Kestrel la protagonista di The Winner’s Trilogy di Marie Rutkoski, una ragazza scaltra, intelligente, una stratega, una che sa quello che vuole e cerca in tutti i modi di ottenerlo. Sa riconosce patterns e bugie, sa scorgere segreti e possibilità e non si arrende. Una pianista straordinaria, un animo gentile, che pure sa come sfruttare a suo vantaggio le occasioni in cui si deve mettere in gioco, è una ragazza che non teme il giudizio della gente. Anche quando incorre nello scherno della società bene della penisola degli Herrani. La seguiamo increduli e ogni volta sorprende con la sua forza di volontà. Non è perfetta, cede, cade, incespica, ma in un certo qual modo resta vicina a chi la legge.
Ma d’altronde la Regina non può stare da sola, non può avventurarsi sulla scena di un regno, salire al potere senza una metà al fianco, sembra quasi un sacrilegio, non avere uno scopo preciso, un controsenso. Le regine classiche dei libri fantasy, sembrano donzelle sperdute, che si atteggiano a grandi conoscitrici del mondo ma che si perdono nella inconsistenza di un mondo in rovina. Spesso si contraddicono o finiscono per perdersi. Ma devo dire che Kelsea la protagonista di The Queen of the Tearling di Erika Johansen è un personaggio insolito. Toglietevi dalla testa le fumose ragazze, le regine tutti lustri e meraviglia, bambole e orpelli. Kelsea è cresciuta in un ambiente austero, in un cottage in mezzo ad un bosco ed è stata educata a prendere il comando. Ogni forma di vanità è bandita, ogni debolezza debellata. Kelsea è una freccia che punta all’obiettivo, la salvezza del suo regno. Kelsea sa qual è il suo ruolo ma non sa come impugnarlo, non ha idea di cosa la aspetta e non sa se è la persona giusta per quel compito. I suoi dubbi la lasciano sempre sull’orlo del precipizio a destreggiarsi in una situazione che è più grande di lei ma che la riporta a prendere possesso della sua vita, data in pasto a consiglieri, guardie e preti. Kelsea non è bella, non è forte, non è compiacente, è presente a se stessa, compassionevole, generosa, leale, giusta. Una giustiziera, imperfetta e con sentimenti ambivalenti, ma mai in contraddizione con se stessa. Kelsea veste sempre di nero in un’uniforme che spezza la giostra di mirabolanti vestiti colorati, dai tessuti ricchi e dalla suggestione visiva fortissima. Kelsea indossa un’armatura e si allena a lottare con la spada, anche quando questa pesa il doppio di lei. 
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La Regina di Tearling ascolta i postulanti per ore, gira per la città, parte per missioni al limite della sicurezza, dando notevole filo da torcere alla sua guardia personale. L’indole di Kelsea, che se ci si pensa non ha nulla di speciale, se non la volontà di migliorare le cose, è quella di chi vuole cambiare la situazione, rovesciare lo status quo, sviscerare il suo tempo e volgerlo a proprio vantaggio. È una regina che non vuole essere compiacente, stufa delle ingiustizie sociali che dilagano nel suo regno. Cerca di tendere verso un disegno che sia di miglioramento vero. La sua visione la porta ad avere un’opinione ben precisa dell’educazione,  che si trasforma in una ossessione per la carta stampata, da cui deriva la voglia di impegnarsi per il recupero dei libri e della cultura, dell’elevazione della popolazione da un destino ingrato e terribile, perpetrato per anni, in sua assenza, mentre cresceva e diventava la regina di cui Tearling ha bisogno. Kelsea, la regina imperfetta, generosa e desiderosa di cambiare le cose, viene costretta dalle circostanze a prendere decisioni terribili. Kelsea non è l’eroina senza macchia e senza paura tipica degli young adult di nuovo stampo. Kelsea lotta con se stessa, con i propri dubbi esistenziali, con le forze che la tirano da una parte all’altra per risolvere problemi e situazioni che troppo spesso sembrano più grandi di lei. Il suo regno è in pericolo con l’esercito dei nemici alle porte eppure la speranza sembra non spegnersi completamente, eppure Kelsea si dibatte per salvare il suo popolo. E ancora lotta con le vestigia della sua adolescenza, quella mancata accettazione di se che la costringe a cambiare in maniera preponderante, ad affilare il suo carattere e a lasciar libera la sua rabbia. Incontrastata, cerca una soluzione ad un problema impossibile, bersagliata da più fronti. Kelsea allora non è semplicemente una regina, è un simbolo di rinascita, una lotta che furoreggia nel cuore di un regno e non dipende da niente se non da sé stessa. Lontana da un uomo, lontano da un buonismo eccessivo, lontana da facili espedienti, Kelsea combatte con le unghie e con i denti per essere una regina giusta, una regina meritevole, una donna che non si arrende di fronte alle prime difficoltà. D’altronde le regine soldato sono meravigliose, d’altronde il fascino di Kelsea sta proprio nel considerare le persone più importanti dei possedimenti, i gesti più fondamentali di mille parole. Regnare e sacrificarsi, in fondo è come dice Silente “la differenza fra l’essere trascinato nell’arena ad affrontare una battaglia mortale e scendere nell’arena a testa alta”. E una vera regina sa quando è il momento buono per lanciarsi nel mezzo della mischia.
She was Kelsea Glynn, a girl who'd grown up in the forest, who loved to study history and read fiction. But she was something else, something more than Kelsea, and so she remained there for a moment longer, watching over her country, straining to see the danger beyond the horizon.
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aneddoticamagazinestuff · 5 years ago
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Maternità surrogata ovvero vendita legale di esseri umani
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Maternità surrogata ovvero vendita legale di esseri umani
DW(ITALIA).Nel mondo di oggi tutto è comune e condiviso. Dai prodotti commerciali alle serie tv. E perfino le ideologie politiche o le religioni spesso vengono modificate per assomigliarsi sempre di più.
L’unico settore in cui, sorprendentemente, esistono ancora delle differenze tra un paese e l’altro sono i principi morali, quella che un tempo si chiamava “umanità” (e che ora non si sa più cosa sia esattamente). Principi che in teoria dovrebbero essere insiti nella natura di ogni persona indipendentemente dal paese d’origine, dal livello culturale e dalla fede religiosa. E per questo uguali. Invece, troppo spesso, mostrano enormi differenze da un paese all’altro.
Emblematico il caso della cosiddetta “maternità surrogata”. Se ne parla poco. In genere solo quando uno dei due genitori è un personaggio famoso e la coppia decide di “avere un figlio”. Non di concepirlo o di adottarlo: di comprarlo chiedendo ad una donna di portare avanti la gravidanza per nove mesi e, una volta partorito il proprio figlio, di cederne tutti i diritti. A volte gratuitamente (almeno sulla carta: davvero qualcuno può pensare che una donna possa crescere il proprio figlio nel proprio grembo per tutta la gravidanza per poi regalarlo ad altri?). Molto più spesso in cambio di un compenso in denaro.
Lascia a bocca aperta pensare che, ancora oggi, nel XXI secolo, da qualche parte nel mondo, esistono leggi che consentono ad una donna di “vendere” il proprio figlio appena nato. Invece, è proprio quello che avviene in molti paesi.  Anche in quelli cosiddetti “sviluppati”.
In Italia (così come in Francia, Germania, Spagna, Portogallo e Bulgaria) il cosiddetto “utero in affitto” è illegale in tutte le sue forme. In molti altri paesi all’interno dell’Unione Europea non è così (sempre di più l’ “unione” appare essere un mero accordo commerciale) . In Belgio, ad esempio, la gestazione per altri a titolo gratuito è legale (ad essere è vietata è quella a pagamento). Lo stesso in Danimarca. E poi in Grecia: qui la maternità surrogata gratuita è legale dal 2002, ma solo con l’autorizzazione di un tribunale (che deve verificare una serie di condizioni). Anche nei Paesi Bassi, in Ungheria e nel Regno Unito la maternità surrogata è legale.
É spaventoso pensare che una madre possa vendere la propria gravidanza e il proprio figlio. Invece, è proprio quello che accade in molti paesi. La lista dei paesi dove è ritenuto legittimo vendere il bambino appena uscito dal grembo della madre è sorprendentemente lunga. In Nepal, solo di recente sono state imposte delle limitazioni. In India, per molti anni una delle principali destinazioni per le coppie eterosessuali e omosessuali che vogliono ricorrere all’utero in affitto, solo nel 2015 sono entrate in vigore nuove leggi che limitano la maternità surrogata solo alle coppie di cittadini indiani. In Georgia la maternità surrogata, sia gratuita sia retribuita, è legale dal 1992. In Sudafrica la maternità surrogata è legale, sia retribuita che non retribuita. E così in Thailandia, ma con precise limitazioni a seconda della nazionalità dei genitori/compratori. In Ucraina è legale sia la gravidanza retribuita che quella non retribuita, ma possono ricorrervi solo coppie eterosessuali sposate. E così in Russia (dove possono beneficiarne anche single).
Negli USA (i paladini dei diritti umani, ma unico dei 196 paesi facenti parte delle Nazioni Unite a non aver mai ratificato la CRC, la Convenzione dei Diritti del Fanciullo) in molti stati l’utero in affitto è legale, a volte a pagamento (Arkansas, California, Florida, Illinois, Texas, Massachusetts, Vermont), in altre gratuitamente (New York, New Jersey, New Mexico, Nebraska, Virginia, Oregon, Washington).
Di tutto questo, però, non si parla mai. Non perché si voglia tutelare la privacy di venditrice e acquirenti. È vero che tutto avviene all’interno di cliniche dove la privacy vale più della vita umana, ma spesso sono gli stessi acquirenti a diffondere la notizia a cose fatte. Clienti spesso famosi come attori, politici e cantanti. Come Robbie Williams che insieme alla moglie ha annunciato l’arrivo del terzo figlio, una femmina dopo due maschi, nata con maternità surrogata. O come il tuffatore britannico Tom con il marito Dustin Lance Black. E poi Zoe Saldana, Sarah Jessica Parker, Elton John, Kim Kardashian, Nicole Kidman fino all’italianissimo Nichi Vendola.
Sia che siano i “clienti” a parlare o i proprietari di queste società le parole usate sono sempre molto dolci: “I clienti contattano la nostra agenzia e noi gli raccomandiamo i surrogati giusti in base alle loro preferenze. Gli inviamo diversi profili di surrogati”. Purtroppo non esistono dati ufficiali sul numero gravidanze surrogate, di  bambini “venduti”. Neanche nei civilissimi e “sviluppati” Stati Uniti d’America sono disponibili statistiche ufficiali. Alcuni sostengono che sono oltre duemila le gravidanze in affitto portate a termine ogni anno negli USA (Sai, Surrogate Alternative Inc, società fondata da una donna che è stata sua volta una madre surrogata). Un rapporto del Council for Responsible Genetics, riferisce a partire dal 2008 questi dati non sono  più disponibili. Perchè? Il vero motivo potrebbe essere legato alla questione etica ancora aperta. Si va dalla giustizia sociale ai diritti delle donne, dal benessere dei minori alla bioetica.
Al di là di tutto questo “volersi bene” e dibattere su teorie discutibili c’è una sola certezza: comunque la si presenti si tratta pur sempre di vendita di esseri umani. Un vero e proprio mercato con tanto di prezzario (anche questo non ufficiale, ovviamente) diverso da paese a paese: dai 90mila dollari del Canada e degli USA ai 50mila di Kenia e Australia fino a poco più di 20mila dollari per l’Ucraina (dati Growing Families). Secondo l’organizzazione internazionale non profit Families Through Surrogacy, un figlio avuto tramite madre surrogata arriverebbe a costare dai 100mila dollari negli Stati Uniti, 45mila dollari in Messico, poco di più (47.350) in India, Thailandia (52mila), Ucraina e Georgia (50mila circa).
Fa rabbrividire pensare che, ancora oggi, nel XXI secolo, in molti paesi possa essere considerato normale e addirittura “legale” vendere un essere umano. Non uno “schiavo” (pratica condannata e messa al bando ma, nella pratica, mai del tutto abolita: le stesse Nazioni Unite parlano di forme di “schiavitù moderna”). Un neonato paffuto e roseo, venduto un qualunque bene di lusso.
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paoloxl · 7 years ago
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Da oggi, una nuova missione dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex entra in azione, sostituendo Triton, attiva dal 2014. L’operazione è stata denominata Themis – in continuità con l’accostamento che l’Unione Europea continua a fare tra operazioni di controllo e divinità antiche – e ha l’obiettivo di “assistere l’Italia nelle attività di controllo delle frontiere”, come segnalato dalla stessa Frontex. Il superamento di Triton era stato sollecitato dal governo italiano, che ora accoglie il cambiamento con soddisfazione, parlando di “un esempio particolarmente significativo di effettiva solidarietà e cooperazione”, e sottolineando che la missione contribuirà a contrastare l’immigrazione irregolare, le attività criminali e i tentativi dei terroristi di raggiungere l’Europa.
Dunque anche con Themis – nonostante alcuni cambiamenti rispetto al passato e la rassicurazione espressa da Frontex rispetto al fatto che le operazioni di ricerca e soccorso continueranno a essere una componente fondamentale – l’impianto di base resta “il contrasto all’immigrazione irregolare”: una frase priva di senso senza un concreto ripensamento della normativa di ingresso. Vale la pena infatti ricordare che attualmente le persone che vogliono raggiungere l’Italia e l’Europa devono avere già un contratto di lavoro nel paese di arrivo, quindi in pratica essere chiamate dal datore, oppure, se fuggono dalla propria terra a causa di guerre, persecuzioni e violenze, devono presentare domanda di protezione internazionale una volta raggiunta l’Europa, quindi di fatto viaggiando in modo illegale – e rischioso. Se davvero la politica volesse contrastare l’immigrazione irregolare e salvare vite umane, evitando orrori indicibili alle persone, avrebbe dunque la possibilità di farlo intervenendo sul piano normativo.
Restando sul passaggio da Triton e Themis, cosa cambierà concretamente?
Nuove aree di pattugliamento Sono state istituite nuove aree di pattugliamento, in base al modificarsi dei flussi. Le aree sarano due, entrambe nel Mar Mediterraneo centrale: una ad est – per i flussi migratori da Turchia e Albania – e una ad ovest – per quelli che partono da Libia, Tunisia e Algeria. Sulla base di queste modifiche, i mezzi italiani arriveranno a 24 miglia dalle coste: una riduzione della zona operativa di competenza rispetto agli obblighi attuali.
L’operazione prevede un sistema di valutazione trimestrale, per consentire eventuali modifiche in caso di cambiamenti nei flussi migratori.
Porto sicuro Le persone soccorse in mare dovranno essere portate nel porto più vicino, dando così seguito alla legge del soccorso in mare sancita dalla Convenzione di Aburgo del 1979,  finora disattesa. Si dovrà far riferimento al Centro di coordinamento per i soccorsi in mare di competenza territoriale per capire dove far arrivare le imbarcazioni. Una notizia che sembra sgravare l’Italia da questo onere, sulla carta: nella pratica i centri di coordinamento di altri paesi europei si trovano lontano dai luoghi in cui generalmente avvengono le operazioni di soccorso, e nello specifico lontano dalle aree di pattugliamento. Solo Malta si trova nel raggio geografico di azione dei soccorsi. Quindi, nel concreto, sarà difficile che siano altri porti se non quelli italiani a farsi carico di gran parte degli sbarchi delle navi intercettate. E sorge anche il rischio che si verifichino rimpalli di responsabilità tra paesi: un elemento non secondario visti i tragici precedenti (si veda ad esempio “Braccio di ferro Italia-Malta, nave ong dichiara un’avaria ed entra nel porto di Pozzallo“, o “«Stiamo morendo, per favore»: le telefonate del naufragio dei bambini”). Basandosi sul concetto di ‘porto sicuro’, non sarà possibile effettuare gli sbarchi in Paesi terzi, come Tunisia, Marocco e Libia, vista la situazione del paese, le torture subite dai migranti che arrivano fino alla riduzione in schiavitù (si veda a tal proposito Migranti: “La Libia è un inferno senza fine“. L’appello di Oxfam: l’Italia revochi l’accordo).
Terrorismo e criminalità Attenzione rafforzata sulle azioni di intelligence e polizia, volte da una parte all’identificazione di possibili terroristi di ritorno da Siria e Iraq, e dall’altra a monitorare e contrastare tutti i traffici criminali, non solo quelli relativi alla tratta delle persone, ma anche alle sostenze stupefacenti.  
La missione prevede inoltre il mantenimento del personale Frontex negli hotspot e nelle zone di sbarco italiane, dove continueranno ad assistere le autorità nazionali nelle operazioni di identificazione e fotosegnalamento delle persone.
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manifestopossibile-blog · 7 years ago
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1 - La pace come identità e garanzia dei diritti fondamentali
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“Fa una grande differenza essere circondati da un clima di esaltazione “eroica” della guerra (come avvenuto sotto i regimi fascisti tra le due guerre mondiali in Europa) o da quel “ripudio” della guerra che la Costituzione della Repubblica italiana esprime e che le iniziative pacifiste cercano, da sempre, di incoraggiare e rendere vivo” Scriveva così Alexander Langer, definendo un approccio alla discussione e alla risoluzione di tutti i problemi fondato su quella che dobbiamo rivendicare come nostra identità. 
Un’identità che risulta dai principi fondamentali della nostra Costituzione, in particolare dagli articoli 10 e 11, che sanciscono la collocazione internazionale dell’Italia, la quale «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», e consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, anche a limitazioni della propria sovranità quando ciò sia necessario «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali «rivolte a tale scopo», coerentemente con l’affermazione del «ripudio» della guerra non solo come strumento di offesa ma anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. 
Nel Manifesto di Ventotene leggiamo come la costruzione di una federazione europea fosse finalizzata alla creazione di una pace mondiale. In particolare, nella seconda parte, è infatti scritto che «la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade […] ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale». 
La pace si collega – come dicevamo – alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana, senza nessuna distinzione di sesso, razza, religione o altra condizione, ivi compresa la nazionalità, seconodo quando affermato dalla Costituzione e dai trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, a partire dalla CEDU, per cui tutti gli Stati membri «riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della presente Convenzione». 
Si tratta, tra l’altro, del diritto alla vita, della proibizione della schiavitù, della libertà di pensiero, coscienza e religione e di quella di espressione, della protezione della vita privata e personale e – perché dalle eventuali violazioni chiunque possa sempre difendersi – del diritto a un giusto processo. 
Le guerre, le guerre civili e il proliferare in ampie parti del globo, e soprattutto in Africa, di regimi antidemocratici determinano per molti popoli persecuzioni, discriminazioni e mancato godimento di diritti fondamentali, che riguardano anche le condizioni di vita e di lavoro, naturalmente, con la conseguenza che la distinzione da alcuni proposta tra rifugiati e «migranti economici» spesso non esiste o è comunque molto difficile da determinare. 
Rispetto a queste situazioni certamente occorre una strategia che si componga di più azioni combinate e che si compia a livello internazionale e – per quanto riguarda l’Italia e gli altri Stati membri – a livello di Unione europea.
Tuttavia, non possiamo trascurare i principi fondamentali, che caratterizzano a tal punto il nostro ordinamento che non possono essere neppure oggetto di revisione costituzionale. L’identità alla quale si fa spesso riferimento per indicare odiose chiusure è questa: proteggere i diritti fondamentali di tutti, accogliendo gli stranieri ai quali ne sia impedito il godimento. 
La tutela e la promozione dei diritti fondamentali (anche di chi non è cittadino italiano) e la pace rappresentano per l’Italia repubblicana un tratto identitario, e per questo debbono essere posti al centro della politica (estera) italiana ed europea, come chiave attraverso la quale fronteggiare le questioni relative alla crisi dei rifugiati, alle relazioni con altri Stati (spesso non democratici), alle molte guerre in corso. 
La promozione della pace e la connessa tutela dei diritti dovrebbero essere patrimonio di tutte le forze politiche, a differenza di quanto è spesso avvenuto (soprattutto) negli ultimi anni, come quando si è sottoscritto l’ennesimo accordo con la Libia, quando sono stati disposti rimpatri verso il Sudan, quando sono stati mantenuti rapporti diplomatici ambigui con l’Egitto, quando si è continuato a vendere sistemi d’arma all’Arabia Saudita, mentre questa conduceva una campagna di bombardamenti indiscriminati contro lo Yemen e al di fuori di qualsiasi quadro multilaterale di intervento. 
Il nostro primo obiettivo, invece, deve essere la protezione dei civili attraverso corpi civili di pace e il blocco delle esportazioni di armi verso i Paesi in conflitto. Il nostro secondo obiettivo deve essere quello di riprendere gli sforzi diplomatici per la risoluzione dei conflitti, a partire dallo scenario siriano, sostenendo parallelamente i tentativi internazionali e indipendenti per aprire indagini e punire coloro che si sono resi responsabili di crimini di guerra. 
Disarmare la guerra, un fucile alla volta 
La nostra industria bellica alimenta conflitti nelle zone più calde del mondo, contribuendo alla devastazione di intere città, a crisi umanitarie gravissime, alla fuga delle persone. Il governo ha precise responsabilità dato che propaganda dappertutto il proprio impegno nel promuovere la vendita di armi “made in Italy”, nonostante la legge prescriva che le autorizzazioni all’export di armamenti debbano essere in linea con politica estera e non debbano essere indirizzate verso paesi in stato di conflitto armato o in cui siano confermati gravi violazioni dei diritti umani. 
Tra i principali Paesi destinatari troviamo anche Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Pakistan, Angola, Emirati Arabi Uniti. Anche la spesa militare italiana è in crescita: nel 2017 è stimata in 23,3 miliardi di euro e si evidenzia una forte crescita dei fondi direttamente destinati all’acquisto di nuove armi e sistemi d’arma: 5,6 miliardi di euro (+10% rispetto al 2016 e + 85% rispetto al 2006) che appaiono spropositati rispetto alle esigenze operative delle nostre Forze Armate e la cui gran parte proviene dal MISE. Oltre l’86% del suo budget per il sostegno della competitività e lo sviluppo delle imprese finisce in armi. 
È da scongiurare, inoltre, il rilancio della “politica del 2%” promossa in ambito NATO, secondo la quale i paesi aderenti dovrebbero spendere almeno il 2% del PIL nel settore della difesa (per noi circa 9 miliardi). Anche da questo punto di vista dobbiamo ripartire da Ventotene e dai primi Trattati comunitari, andando verso una difesa comune nell’ambito dell’Unione europea: per ottimizzare il sistema di difesa e di intelligence europeo e, contemporaneamente, conseguire economie di scala stimate tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno. 
Naturalmente ciò è strettamente connesso a una politica estera comune, che renderebbe molto più agevole fronteggiare tutte le questioni che abbiamo sin qui posto, tutto ciò riportandoci alla necessità di rilanciare una prospettiva federalista per l’Unione europea. Infine, è necessario investire sulla difesa civile e nonviolenta costituendo un Dipartimento della difesa civile (a partire dai Corpi civili di pace) come mezzo alternativo per affrontare i conflitti e ridurre le turbolenze nel mondo, in linea con la campagna «Un’altra difesa è possibile» per promuovere iniziative multilaterali di risoluzione pacifica dei conflitti. 
I cambiamenti climatici e l’effetto guerra 
Le politiche per la pace sono strettamente connesse a quelle ecologiche: i cambiamenti climatici mettono a rischio le nostre città (come vedremo in seguito) ma stanno già causando enormi problemi nelle aree più esposte del pianeta. 
Come ha scritto Martin Caparros «le carestie coinvolgono circa 50 milioni di persone», ma quelle che soffrono di «malnutrizione strutturale» sono «circa 2 miliardi, un terzo del totale».
 Eppure «l’agricoltura mondiale potrebbe nutrire senza problemi 12 miliardi di esseri umani, quasi il doppio della popolazione attuale». Secondo la Fao sono necessari 265 miliardi di dollari all’anno, aggiuntivi rispetto a quanto stanziato ora, da oggi al 2030, per sconfiggere la povertà estrema e la fame. Si tratta dello 0,31% del Pil mondiale eppure nessuno sembra intenzionato a intervenire. Sulla fame, l’Italia - in ragione della sua collocazione geografica e della sua cultura - si deve porre alla guida, a livello europeo e internazionale, di una grande missione politica per la qualità del cibo e per un programma “fame zero”. 
A questo proposito, la nostra agricoltura deve eccellere per qualità, tracciabilità del prodotto e rispetto delle condizioni di lavoro. «Made in Italy» deve essere un’etichetta che ha il significato del rispetto, in ogni accezione del termine. 
Oltre ai finanziamenti abbiamo bisogno di scelte coraggiose, come facilitare l’invio di rimesse, garantire l’accesso all’acqua e alle risorse alimentari, fermare l’espulsione dei contadini dalla propria terra a opera delle multinazionali, mentre la costruzione di dighe e la siccità stanno portando molte popolazioni alla fuga dalle proprie terre. È necessario, inoltre, contrastare la deriva speculativa assunta dalla finanziarizzazione delle materie prime alimentari e le politiche commerciali e fiscali dannose per i paesi piùdeboli. 
Sono priorità che già rientrano tra i nuovi diciassette Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs), che non a caso tengono assieme lo sviluppo sostenibile nelle sue tre dimensioni (ambientale, sociale ed economica) e lotta alla povertà. Obiettivi che possono essere raggiunti solo se finanziati adeguatamente, non solo rispettando l’impegno a destinare lo 0,7% del Reddito nazionale lordo alla cooperazione allo sviluppo, ma anche partendo dai responsabili: partendo dalla lotta all’elusione fiscale delle multinazionali.
Paradisi (fiscali) per pochi, inferno per molti 
I Paesi in via di sviluppo sono quelli che pagano il prezzo più alto per evasione ed elusione delle multinazionali. I governi europei dovrebbero effettuare valutazioni d’impatto delle proprie politiche fiscali su di essi, seguendo l’esempio dell’Olanda. 
Dovrebbero rivedere i trattati commerciali e fiscali che attuano distribuzioni del tutto ineguali di risorse e diritti fiscali. E infine, la Commissione ONU sulla tassazione andrebbe trasformata in un vero organismo intergovernativo che ridiscuta le regole fiscali globali mettendo i Paesi in via di sviluppo in condizione di parità, affinché gli strumenti di contrasto al fenomeno tengano in conto la loro voce, e siano più efficaci su scala globale. 
Per combattere paradisi fiscali e schemi elusivi delle multinazionali che sottraggono risorse fondamentali per i cittadini, aumentando le diseguaglianze, dobbiamo agire a tutti i livelli, a partire da quello globale e europeo. 
I recenti scandali fiscali, Luxleaks prima e Panama Papers poi, hanno dimostrato quanto sia facile spostare ingenti flussi di denaro da una parte all’altra del mondo, in giurisdizioni a fisco agevolato e coperti dalla segretezza. È ancora più assurdo che questo accada nell’Unione europea, dove gli scandali lussemburghesi hanno svelato che circa 340 aziende internazionali, tra cui molte italiane, hanno concluso accordi per eludere miliardi di euro con aliquote inferiori all’1%. 
Per non parlare del caso irlandese in cui si è vista un’aliquota dello 0,005%. Ventotto sistemi fiscali così diversi in UE hanno permesso alle multinazionali di spostare i profitti laddove più vantaggioso, e di erodere la base imponibile tramite strategie complesse, con artificiale contabilità infragruppo e trasferendo gli utili dai Paesi in cui conducono la loro attività economica verso territori a fiscalità agevolata o aree tax-free in cui hanno una presenza economica limitata e poche unità di personale. 
Il problema è globale, e vede i Paesi in via di sviluppo pagare il prezzo più alto. Il risultato? Miliardi di euro di mancato gettito fiscale. Le stime sono variabili, alcune parlano di 860 miliardi di euro di mancato incasso per evasione e di 150 miliardi di euro per elusione, nella sola Unione Europea: 1000 miliardi di euro. C’è chi stima che la stessa cifra di registri in uscita ogni anno dai Paesi in via di sviluppo come flussi finanziari illeciti. Si tratta di una massa ingente di risorse, che queste pratiche sottraggono ai servizi, distorcendo al contempo l’allocazione degli investimenti verso chi attua strategie fiscali più aggressive, anziché su basi economiche e produttive, e colpendo in particolare la piccola e media impresa. 
Bisogna porre fine alla sfrenata competizione fiscale, una corsa a ribasso che, per avvantaggiare pochi, fa male a tutti.  È quindi necessario stabilire un principio semplice: le tasse si pagano dove vengono generati i profitti. La trasparenza è uno strumento fondamentale: serve un pieno scambio automatico di informazioni tra autorità fiscali degli Stati membri, così come sulla piena trasparenza sui beneficiari finali di aziende e trust. Ma non basta: deve anche essere resa obbligatoria la rendicontazione pubblica Stato per Stato per tutte le multinazionali, che siano tenute a rendere pubblici i dati su quanti profitti fanno e quante tasse pagano in ogni giurisdizione in cui sono operative (e una serie di altri dati rilevanti). 
Questi vincoli di trasparenza già si applicano per norme europee al settore bancario. È fondamentale che si estenda l’obbligo di fornire questi dati anche sulle attività svolte fuori dall’UE, per non escludere i Paesi in via di Sviluppo. 
Dobbiamo inoltre definire uno schema di regole chiare che permetta alle imprese operanti in più Stati membri di calcolare la propria base imponibile su scala europea (base imponibile consolidata comune, CCCTB), per poi suddividere l’utile complessivo da tassare nei vari Paesi secondo criteri concordati e in base all’effettiva creazione di valore economico. E infine dobbiamo proteggere coloro che portano alla luce fatti di corruzione ed elusione fiscale: solo cinque Stati Membri su ventotto hanno una legislazione completa sulla protezione dei whistleblower. 
Una misura ponte è certamente la web tax, sul modello adottato dall'India. Si applica alle transazioni online per specifici servizi, come la vendita di prodotti advertising erogati da società senza stabile organizzazione nel nostro paese. La tassa a cui pensiamo è piatta, un prelievo di perequazione con un’aliquota non inferiore al 10% della transazione. 
Deve essere prevista un’adeguata franchigia al fine di tutelare i piccoli inserzionisti. Come in India, la tassa si applica con il metodo del reverse charge: la persona che effettua il pagamento per la pubblicità online deve dedurre dall’importo il prelievo di perequazione e versarlo direttamente al governo del paese in cui risiede entro i primi sette giorni del mese successivo. 
Devono essere previste sanzioni per i mancati versamenti mentre, nel caso in cui non sia nota la sede operativa del venditore, devono essere attivate speciali verifiche fiscali in via prioritaria. Soluzioni che invece prevedano aliquote più basse o diversi sistemi di deduzione e versamento del prelievo si rivelerebbero inefficaci. Attraverso queste misure possiamo recuperare risorse che vengono illegittimamente sottratte e che dovrebbero essere reinvestite in politiche di lotta alla povertà, alle diseguaglianze e all’emarginazione sociale, tanto quanto in investimenti in grado di riattivare un ciclo espansivo dell’economia, che abbia ricadute positive anche e soprattutto nelle aree del mondo più fragili. 
Dobbiamo tenere assieme pacifismo, ambientalismo e lotta alle disuguaglianze, per non lasciare indietro nessuno. 
E’ evidente come tutte le maggiori sfide che ci troviamo di fronte non siano risolvibili entro i ristretti confini nazionali, ma richiedano soluzioni comuni a un livello superiore e più adeguato. Vale per la sfida migratoria, che è europea e globale. Vale per la necessità di trovare una sola e forte voce dell’UE sullo scenario geopolitico internazionale, se non vogliamo condannarci all’irrilevanza. 
Vale per la sfida climatica, per cui solo a livello europeo ed internazionale si può fissare un quadro di regole comuni e sanzionabili che tutti siano tenuti a rispettare. 
E vale per la lotta contro i paradisi fiscali e l’elusione dei grandi gruppi multinazionali, per recuperare risorse fondamentali da investire nella lotta alle diseguaglianze, tra gli Stati ed entro gli Stati, e per gettare le basi di un futuro più sostenibile. 
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jamariyanews · 7 years ago
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Libia, il patto che "regala immunità ai contrabbandieri" a danno dei migranti
Quali sono i costi sociali ed umani del patto tra Roma e Tripoli? Chi sono gli attori in gioco? E, davvero, non esiste un’alternativa possibile all’esternalizzazione delle frontiere? Lo abbiamo chiesto a Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr) di Londra
08 settembre 2017 ROMA – L’ultima denuncia arriva dalla presidente internazionale dell'ong Medici Senza Frontiere (Msf) Joanne Liu. In una lettera aperta al presidende del Consiglio, Paolo Gentiloni, Liu parla chiaramente di“ipocrisia” e di “business criminale” dietro l’operazione italiana di frenare le partenze dalla Libia. Ma quali sono i costi sociali ed umani del patto tra Roma e Tripoli? Chi sono gli attori in gioco? E, davvero, non esiste un’alternativa possibile all’esternalizzazione delle frontiere? Lo abbiamo chiesto a Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr) di Londra ed esperto di Libia. Toaldo, partiamo dall’incontro di lunedì scorso, tra il ministro Marco Minniti e il generale Khalifa Haftar. Che cosa significa e quali conseguenze avrà?Innanzitutto è stupefacente che questa visita la faccia il ministro dell’Interno italiano, e non per esempio quello degli Esteri o della Difesa. Ovviamente questo creerà una domanda in Libia: con chi dobbiamo parlare? L’altra questione è che si sia scelto di incontrare un’ autorità non riconosciuta da tutti. Più in generale la visita di Minniti conferma che ci si sta muovendo in due direzioni: quella di mantenere buoni rapporti con l’Egitto e quella di portare avanti l’agenda immigrazione. Non è un caso che ci sia stato poco prima il ritorno dell’ambasciatore Cantini al Cairo, che il ministro Alfano abbia parlato in merito al caso Regeni e che nelle ultime settimane non si trovino più dichiarazioni di Haftar contro l’Italia, quando fino a un mese fa la minaccia era quella di sparare addosso alle navi. E’ chiaro che a Roma è prevalsa la linea Minniti, che sul fronte immigrazione ha l’obiettivo di frenare le partenze ed esternalizzare le frontiere. E l’incontro con Haftar serve ad assicurare che i flussi bloccati sulla costa ovest della Libia non partano dalla costa est. Il piano per bloccare le partenze verso il nostro paese che costi reali ha?Si parla di soldi italiani dati alle milizie libiche. Ma più in generale si vede uno scambio: il blocco delle partenze da un lato, l’immunità e le armi dall’altro. Nello specifico, l’immunità vuol dire potersi dedicare ad altri traffici. I grossi contrabbandieri si dedicano all’immigrazione irregolare come un’attività tra le altre. Tra queste c’è il contrabbando di benzina sussidiata, che costa 3 centesimi al litro in Libia, e viene rivenduta in Tunisia, a Malta e in Sicilia a costi molto più alti. C’è la speculazione sulla valuta: sostanzialmente i trafficanti ottengono euro dalla banca centrale con la scusa di importare beni dall’estero, ne importano una quantità ridotta, le fatture vengono gonfiate e le eccedenze di euro vengono scambiate al mercato nero. Un terzo settore più pericoloso è quello delle armi e della droga. Quando un capo milizia dichiara al Times di Londra di aver ricevuto “immunita’” dallo scambio con gli italiani, questo vuol dire che nessuno perseguirà questi traffici in cambio di un blocco delle partenze? Ma è pensabile che si riesca davvero a fermare il flusso dalla Libia, o si apriranno nuove rotte?In parte una piccola parte delle partenze si potrebbe spostare a est di Tripoli, ma qui non ci sono le infrastrutture e i grandi contrabbandieri che ci sono ad ovest. E’ più probabile che si crei un sistema secondo il quale i contrabbandieri trovano altre fonti di guadagno nei settori che abbiamo prima ricordato, e capiscano che la migliore garanzia per loro è bloccare i barconi. E’ la loro pistola puntata contro l’Italia. Inoltre, non va trascurato che i centri di detenzione sono essi stessi una fonte di guadagno per le milizie, indipendentemente dal fatto che poi i migranti vadano o no in Europa. Questo perché il migrante viene liberato solo dietro il pagamento di un riscatto. Quindi l’ aumento dei migranti nei centri di detenzione crea un bacino di schiavitù per i gruppi criminali che prima era meno stabile. Il ministro dell’Interno italiano continua a dire che “i diritti umani saranno rispettati”, ma è possibile in un contesto come la Libia?Sarei altrettanto credibile io se dicessi che sono felice tornare al lavoro dopo le ferie. Il sistema dei centri di detenzione in Libia è in mano a organizzazioni mafiose. E’ come dire che la mafia accetta di rispettare i diritti umani. Anche il fatto di dire che si faranno centri di accoglienza in Libia è una dichiarazione che serve solo a giustificare questi che nei fatti sono respingimenti e trattenimenti forzati. La Libia non ha ratificato la convenzione di Ginevra e all’interno dei centri sono stati documentati abusi. L’esternalizzazione delle frontiere viene presentata come l’unica via per mettere fine ai viaggi in mare verso il nostro paese. Ma esiste un’alternativa possibile al blocco dei migranti in Libia?Sì, era possibile una politica alternativa basata su due canali: il primo riguarda i richiedenti asilo ed è già stato messo a disposizione dall’Unhcr con l’utilizzo del programma di resettlement già portato avanti negli Usa, in Canada e in Australia. I rifugiati vengono selezionati sulla base di alcuni standard nei centri vicini al paese di origine per poter poi raggiungere altri paesi in maniera legale. Questo piano è stato presentato a Tunisi a luglio, e parla di 20 mila persone in tutta l’Ue, un numero sicuramente sostenibile. Il secondo canale riguarda i migranti cosiddetti economici e prevede uno scambio con i paese d’origine, basato sui rimpatri per gli irregolari in cambio di visti per i regolari. Con questo sistema, per esempio, l’Italia avrebbe avuto in totale meno migranti e avrebbe potuto dire non accettiamo più chi viene irregolarmente attraverso il Mediterraneo, perché ci sono canali legali. Oggi, invece, il sistema che condiziona tutta la nostra politica nel Mediterraneo verte solo sul fatto di tenere bloccate le coste libiche. (Eleonora Camilli)
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bookandlife · 8 years ago
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“Migranti minorenni, vulnerabili e senza voce”
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2017 [15 gennaio 2017] “Migranti minorenni, vulnerabili e senza voce” Cari fratelli e sorelle! «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37; cfr Mt 18,5; Lc 9,48; Gv 13,20). Con queste parole gli Evangelisti ricordano alla comunità cristiana un insegnamento di Gesù che è entusiasmante e, insieme, carico di impegno. Questo detto, infatti, traccia la via sicura che conduce fino a Dio, partendo dai più piccoli e passando attraverso il Salvatore, nella dinamica dell’accoglienza. Proprio l’accoglienza, dunque, è condizione necessaria perché si concretizzi questo itinerario: Dio si è fatto uno di noi, in Gesù si è fatto bambino e l’apertura a Dio nella fede, che alimenta la speranza, si declina nella vicinanza amorevole ai più piccoli e ai più deboli. Carità, fede e speranza sono tutte coinvolte nelle opere di misericordia, sia spirituali sia corporali, che abbiamo riscoperto durante il recente Giubileo Straordinario. Ma gli Evangelisti si soffermano anche sulla responsabilità di chi va contro la misericordia: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18,6; cfr Mc 9,42; Lc 17,2). Come non pensare a questo severo monito considerando lo sfruttamento esercitato da gente senza scrupoli a danno di tante bambine e tanti bambini avviati alla prostituzione o presi nel giro della pornografia, resi schiavi del lavoro minorile o arruolati come soldati, coinvolti in traffici di droga e altre forme di delinquenza, forzati alla fuga da conflitti e persecuzioni, col rischio di ritrovarsi soli e abbandonati? Per questo, in occasione dell’annuale Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, mi sta a cuore richiamare l’attenzione sulla realtà dei migranti minorenni, specialmente quelli soli, sollecitando tutti a prendersi cura dei fanciulli che sono tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando, per varie ragioni, sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari. Le migrazioni, oggi, non sono un fenomeno limitato ad alcune aree del pianeta, ma toccano tutti i continenti e vanno sempre più assumendo le dimensioni di una drammatica questione mondiale. Non si tratta solo di persone in cerca di un lavoro dignitoso o di migliori condizioni di vita, ma anche di uomini e donne, anziani e bambini che sono costretti ad abbandonare le loro case con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace e sicurezza. Sono in primo luogo i minori a pagare i costi gravosi dell’emigrazione, provocata quasi sempre dalla violenza, dalla miseria e dalle condizioni ambientali, fattori ai quali si associa anche la globalizzazione nei suoi aspetti negativi. La corsa sfrenata verso guadagni rapidi e facili comporta anche lo sviluppo di aberranti piaghe come il traffico di bambini, lo sfruttamento e l’abuso di minori e, in generale, la privazione dei diritti inerenti alla fanciullezza sanciti dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. L’età infantile, per la sua particolare delicatezza, ha delle esigenze uniche e irrinunciabili. Anzitutto il diritto ad un ambiente familiare sano e protetto dove poter crescere sotto la guida e l’esempio di un papà e di una mamma; poi, il diritto-dovere a ricevere un’educazione adeguata, principalmente nella famiglia e anche nella scuola, dove i fanciulli possano crescere come persone e protagonisti del futuro proprio e della rispettiva nazione. Di fatto, in molte zone del mondo, leggere, scrivere e fare i calcoli più elementari è ancora un privilegio per pochi. Tutti i minori, poi, hanno diritto a giocare e a fare attività ricreative, hanno diritto insomma ad essere bambini. Tra i migranti, invece, i fanciulli costituiscono il gruppo più vulnerabile perché, mentre si affacciano alla vita, sono invisibili e senza voce: la precarietà li priva di documenti, nascondendoli agli occhi del mondo; l’assenza di adulti che li accompagnano impedisce che la loro voce si alzi e si faccia sentire. In tal modo, i minori migranti finiscono facilmente nei livelli più bassi del degrado umano, dove illegalità e violenza bruciano in una fiammata il futuro di troppi innocenti, mentre la rete dell’abuso dei minori è dura da spezzare. Come rispondere a tale realtà? Prima di tutto rendendosi consapevoli che il fenomeno migratorio non è avulso dalla storia della salvezza, anzi, ne fa parte. Ad esso è connesso un comandamento di Dio: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20); «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,19). Tale fenomeno costituisce un segno dei tempi, un segno che parla dell’opera provvidenziale di Dio nella storia e nella comunità umana in vista della comunione universale. Pur senza misconoscere le problematiche e, spesso, i drammi e le tragedie delle migrazioni, come pure le difficoltà connesse all’accoglienza dignitosa di queste persone, la Chiesa incoraggia a riconoscere il disegno di Dio anche in questo fenomeno, con la certezza che nessuno è straniero nella comunità cristiana, che abbraccia «ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9). Ognuno è prezioso, le persone sono più importanti delle cose e il valore di ogni istituzione si misura sul modo in cui tratta la vita e la dignità dell’essere umano, soprattutto in condizioni di vulnerabilità, come nel caso dei minori migranti. Inoltre occorre puntare sulla protezione, sull’integrazione e su soluzioni durature. Anzitutto, si tratta di adottare ogni possibile misura per garantire ai minori migranti protezione e difesa, perché «questi ragazzi e ragazze finiscono spesso in strada abbandonati a sé stessi e preda di sfruttatori senza scrupoli che, più di qualche volta, li trasformano in oggetto di violenza fisica, morale e sessuale» (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2008). Del resto, la linea di demarcazione tra migrazione e traffico può farsi a volte molto sottile. Molti sono i fattori che contribuiscono a creare uno stato di vulnerabilità nei migranti, specie se minori: l’indigenza e la carenza di mezzi di sopravvivenza – cui si aggiungono aspettative irreali indotte dai media –; il basso livello di alfabetizzazione; l’ignoranza delle leggi, della cultura e spesso della lingua dei Paesi ospitanti. Tutto ciò li rende dipendenti fisicamente e psicologicamente. Ma la spinta più potente allo sfruttamento e all’abuso dei bambini viene dalla domanda. Se non si trova il modo di intervenire con maggiore rigore ed efficacia nei confronti degli approfittatori, non potranno essere fermate le molteplici forme di schiavitù di cui sono vittime i minori. È necessario, pertanto, che gli immigrati, proprio per il bene dei loro bambini, collaborino sempre più strettamente con le comunità che li accolgono. Con tanta gratitudine guardiamo agli organismi e alle istituzioni, ecclesiali e civili, che con grande impegno offrono tempo e risorse per proteggere i minori da svariate forme di abuso. E’ importante che si attuino collaborazioni sempre più efficaci ed incisive, basate non solo sullo scambio di informazioni, ma anche sull’intensificazione di reti capaci di assicurare interventi tempestivi e capillari. Senza sottovalutare che la forza straordinaria delle comunità ecclesiali si rivela soprattutto quando vi è unità di preghiera e comunione nella fraternità. In secondo luogo, bisogna lavorare per l’integrazione dei bambini e dei ragazzi migranti. Essi dipendono in tutto dalla comunità degli adulti e, molto spesso, la scarsità di risorse finanziarie diventa impedimento all’adozione di adeguate politiche di accoglienza, di assistenza e di inclusione. Di conseguenza, invece di favorire l’inserimento sociale dei minori migranti, o programmi di rimpatrio sicuro e assistito, si cerca solo di impedire il loro ingresso, favorendo così il ricorso a reti illegali; oppure essi vengono rimandati nel Paese d’origine senza assicurarsi che ciò corrisponda al loro effettivo “interesse superiore”. La condizione dei migranti minorenni è ancora più grave quando si trovano in stato di irregolarità o quando vengono assoldati dalla criminalità organizzata. Allora essi sono spesso destinati a centri di detenzione. Non è raro, infatti, che vengano arrestati e, poiché non hanno denaro per pagare la cauzione o il viaggio di ritorno, possono rimanere per lunghi periodi reclusi, esposti ad abusi e violenze di vario genere. In tali casi, il diritto degli Stati a gestire i flussi migratori e a salvaguardare il bene comune nazionale deve coniugarsi con il dovere di risolvere e di regolarizzare la posizione dei migranti minorenni, nel pieno rispetto della loro dignità e cercando di andare incontro alle loro esigenze, quando sono soli, ma anche a quelle dei loro genitori, per il bene dell’intero nucleo familiare. Resta poi fondamentale l’adozione di adeguate procedure nazionali e di piani di cooperazione concordati tra i Paesi d’origine e quelli d’accoglienza, in vista dell’eliminazione delle cause dell’emigrazione forzata dei minori. In terzo luogo, rivolgo a tutti un accorato appello affinché si cerchino e si adottino soluzioni durature. Poiché si tratta di un fenomeno complesso, la questione dei migranti minorenni va affrontata alla radice. Guerre, violazioni dei diritti umani, corruzione, povertà, squilibri e disastri ambientali fanno parte delle cause del problema. I bambini sono i primi a soffrirne, subendo a volte torture e violenze corporali, che si accompagnano a quelle morali e psichiche, lasciando in essi dei segni quasi sempre indelebili. È assolutamente necessario, pertanto, affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni. Questo esige, come primo passo, l’impegno dell’intera Comunità internazionale ad estinguere i conflitti e le violenze che costringono le persone alla fuga. Inoltre, si impone una visione lungimirante, capace di prevedere programmi adeguati per le aree colpite da più gravi ingiustizie e instabilità, affinché a tutti sia garantito l’accesso allo sviluppo autentico, che promuova il bene di bambini e bambine, speranze dell’umanità. Infine, desidero rivolgere una parola a voi, che camminate a fianco di bambini e ragazzi sulle vie dell’emigrazione: essi hanno bisogno del vostro prezioso aiuto, e anche la Chiesa ha bisogno di voi e vi sostiene nel generoso servizio che prestate. Non stancatevi di vivere con coraggio la buona testimonianza del Vangelo, che vi chiama a riconoscere e accogliere il Signore Gesù presente nei più piccoli e vulnerabili. Affido tutti i minori migranti, le loro famiglie, le loro comunità, e voi che state loro vicino, alla protezione della Santa Famiglia di Nazareth, affinché vegli su ciascuno e li accompagni nel cammino; e alla mia preghiera unisco la Benedizione Apostolica. Dal Vaticano, 8 settembre 2016, Festa della Natività della B. Vergine Maria. FRANCESCO
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aneddoticamagazinestuff · 5 years ago
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Maternità surrogata ovvero vendita legale di esseri umani
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Maternità surrogata ovvero vendita legale di esseri umani
DW(ITALIA).Nel mondo di oggi tutto è comune e condiviso. Dai prodotti commerciali alle serie tv. E perfino le ideologie politiche o le religioni spesso vengono modificate per assomigliarsi sempre di più.
L’unico settore in cui, sorprendentemente, esistono ancora delle differenze tra un paese e l’altro sono i principi morali, quella che un tempo si chiamava “umanità” (e che ora non si sa più cosa sia esattamente). Principi che in teoria dovrebbero essere insiti nella natura di ogni persona indipendentemente dal paese d’origine, dal livello culturale e dalla fede religiosa. E per questo uguali. Invece, troppo spesso, mostrano enormi differenze da un paese all’altro.
Emblematico il caso della cosiddetta “maternità surrogata”. Se ne parla poco. In genere solo quando uno dei due genitori è un personaggio famoso e la coppia decide di “avere un figlio”. Non di concepirlo o di adottarlo: di comprarlo chiedendo ad una donna di portare avanti la gravidanza per nove mesi e, una volta partorito il proprio figlio, di cederne tutti i diritti. A volte gratuitamente (almeno sulla carta: davvero qualcuno può pensare che una donna possa crescere il proprio figlio nel proprio grembo per tutta la gravidanza per poi regalarlo ad altri?). Molto più spesso in cambio di un compenso in denaro.
Lascia a bocca aperta pensare che, ancora oggi, nel XXI secolo, da qualche parte nel mondo, esistono leggi che consentono ad una donna di “vendere” il proprio figlio appena nato. Invece, è proprio quello che avviene in molti paesi.  Anche in quelli cosiddetti “sviluppati”.
In Italia (così come in Francia, Germania, Spagna, Portogallo e Bulgaria) il cosiddetto “utero in affitto” è illegale in tutte le sue forme. In molti altri paesi all’interno dell’Unione Europea non è così (sempre di più l’ “unione” appare essere un mero accordo commerciale) . In Belgio, ad esempio, la gestazione per altri a titolo gratuito è legale (ad essere è vietata è quella a pagamento). Lo stesso in Danimarca. E poi in Grecia: qui la maternità surrogata gratuita è legale dal 2002, ma solo con l’autorizzazione di un tribunale (che deve verificare una serie di condizioni). Anche nei Paesi Bassi, in Ungheria e nel Regno Unito la maternità surrogata è legale.
É spaventoso pensare che una madre possa vendere la propria gravidanza e il proprio figlio. Invece, è proprio quello che accade in molti paesi. La lista dei paesi dove è ritenuto legittimo vendere il bambino appena uscito dal grembo della madre è sorprendentemente lunga. In Nepal, solo di recente sono state imposte delle limitazioni. In India, per molti anni una delle principali destinazioni per le coppie eterosessuali e omosessuali che vogliono ricorrere all’utero in affitto, solo nel 2015 sono entrate in vigore nuove leggi che limitano la maternità surrogata solo alle coppie di cittadini indiani. In Georgia la maternità surrogata, sia gratuita sia retribuita, è legale dal 1992. In Sudafrica la maternità surrogata è legale, sia retribuita che non retribuita. E così in Thailandia, ma con precise limitazioni a seconda della nazionalità dei genitori/compratori. In Ucraina è legale sia la gravidanza retribuita che quella non retribuita, ma possono ricorrervi solo coppie eterosessuali sposate. E così in Russia (dove possono beneficiarne anche single).
Negli USA (i paladini dei diritti umani, ma unico dei 196 paesi facenti parte delle Nazioni Unite a non aver mai ratificato la CRC, la Convenzione dei Diritti del Fanciullo) in molti stati l’utero in affitto è legale, a volte a pagamento (Arkansas, California, Florida, Illinois, Texas, Massachusetts, Vermont), in altre gratuitamente (New York, New Jersey, New Mexico, Nebraska, Virginia, Oregon, Washington).
Di tutto questo, però, non si parla mai. Non perché si voglia tutelare la privacy di venditrice e acquirenti. È vero che tutto avviene all’interno di cliniche dove la privacy vale più della vita umana, ma spesso sono gli stessi acquirenti a diffondere la notizia a cose fatte. Clienti spesso famosi come attori, politici e cantanti. Come Robbie Williams che insieme alla moglie ha annunciato l’arrivo del terzo figlio, una femmina dopo due maschi, nata con maternità surrogata. O come il tuffatore britannico Tom con il marito Dustin Lance Black. E poi Zoe Saldana, Sarah Jessica Parker, Elton John, Kim Kardashian, Nicole Kidman fino all’italianissimo Nichi Vendola.
Sia che siano i “clienti” a parlare o i proprietari di queste società le parole usate sono sempre molto dolci: “I clienti contattano la nostra agenzia e noi gli raccomandiamo i surrogati giusti in base alle loro preferenze. Gli inviamo diversi profili di surrogati”. Purtroppo non esistono dati ufficiali sul numero gravidanze surrogate, di  bambini “venduti”. Neanche nei civilissimi e “sviluppati” Stati Uniti d’America sono disponibili statistiche ufficiali. Alcuni sostengono che sono oltre duemila le gravidanze in affitto portate a termine ogni anno negli USA (Sai, Surrogate Alternative Inc, società fondata da una donna che è stata sua volta una madre surrogata). Un rapporto del Council for Responsible Genetics, riferisce a partire dal 2008 questi dati non sono  più disponibili. Perchè? Il vero motivo potrebbe essere legato alla questione etica ancora aperta. Si va dalla giustizia sociale ai diritti delle donne, dal benessere dei minori alla bioetica.
Al di là di tutto questo “volersi bene” e dibattere su teorie discutibili c’è una sola certezza: comunque la si presenti si tratta pur sempre di vendita di esseri umani. Un vero e proprio mercato con tanto di prezzario (anche questo non ufficiale, ovviamente) diverso da paese a paese: dai 90mila dollari del Canada e degli USA ai 50mila di Kenia e Australia fino a poco più di 20mila dollari per l’Ucraina (dati Growing Families). Secondo l’organizzazione internazionale non profit Families Through Surrogacy, un figlio avuto tramite madre surrogata arriverebbe a costare dai 100mila dollari negli Stati Uniti, 45mila dollari in Messico, poco di più (47.350) in India, Thailandia (52mila), Ucraina e Georgia (50mila circa).
Fa rabbrividire pensare che, ancora oggi, nel XXI secolo, in molti paesi possa essere considerato normale e addirittura “legale” vendere un essere umano. Non uno “schiavo” (pratica condannata e messa al bando ma, nella pratica, mai del tutto abolita: le stesse Nazioni Unite parlano di forme di “schiavitù moderna”). Un neonato paffuto e roseo, venduto un qualunque bene di lusso.
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paoloxl · 7 years ago
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Noi uomini e donne, attivisti, associazioni che operano nell’ambito del sociale e dei diritti umani, VI ACCUSIAMO A seguito di quanto avvenuto nelle ultime settimane sulle decisioni prese rispetto ai flussi migratori ed agli accordi sanciti con il “Governo libico” non ufficiale di Fayez al Sarraj, il Governo Italiano ha sancito ufficialmente e giuridicamente la propria posizione riguardo esseri umani in fuga ed in transito per ed attraverso l’Italia e l’Europa. NOI VI ACCUSIAMO dei seguenti reati: Mancato Soccorso, Maltrattamenti, Trattamenti disumani e degradanti, Tortura, Omicidio, Sterminio e Crimini contro l’Umanità. Gravissime le dichiarazioni e gli atti del Ministero dell’Interno, dei suoi referenti e del nostro Governo. “Il Far West è finito” è una frase della quale dovremmo vergognarci, oggi ed in futuro, vergognarci di fronte al genocidio e ai crimini contro l’umanità che stiamo chirurgicamente e strategicamente preparando. Il Piano Minniti di sgombero delle associazioni umanitarie si è quasi concluso. Abbiamo consegnato alla Guardia Costiera libica da noi ulteriormente addestrata e rifornita anche e non solo di mezzi navali, il controllo armato delle coste e del tratto di Mar Mediterraneo e la relativa giurisdizione sulle barche, i pescherecci, i gommoni ed i barconi sui quali viaggiano i migranti in fuga, ignari che la loro sarà solo una partenza fasulla, che verrà pagata a caro prezzo e che non li porterà in Europa ma li rimanderà in Libia. Il giro della morte. Sarà la Guardia Costiera ad autorizzare le navi ad entrare nella nuova zona di SAR, Guardia Costiera vera o millantata pronta a sparare non sui trafficanti collusi ma sulle navi delle associazioni umanitarie indipendenti. Il Governo Italiano è ovviamente a conoscenza del fatto che la Libia è un paese NON FIRMATARIO della Convenzione di Ginevra e che da anni ha istituito veri e propri lager dove la violenza, le torture, gli stupri sono all’ordine del giorno; dove i trafficanti di esseri umani praticano indisturbati sotto gli occhi dei Governi europei il businness del commercio umano, potendo contare sul silenzio di un’Europa complice delle violazioni e terrorizzata dai flussi migratori. Un’Europa che sta rinnegando totalmente i principi sui quali è stata fondata. L’EUROPA NELL’APPLICAZIONE DEL TRATTATO BILATERALE CON LA LIBIA STA VIOLANDO DE FACTO LA CONVENZIONE DI GINEVRA che prevede con l’Art. 33: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la su avita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.” Il divieto di respingimento è applicabile ad ogni forma di trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione, estradizione, trasferimento informale e non ammissione alla frontiera. E’ possibile derogare a tale principio solo nel caso in cui, sulla base di seri motivi un rifugiato venga considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede o una minaccia per la collettività. Tale principio costituisce parte integrante del diritto internazionale dei diritti umani ed è un principio di diritto internazionale consuetudinario. Chi ha visitato i lager libici (presto riproposti anche in altri paesi africani) ha assistito con i propri occhi alla riduzione in schiavitù e alla perpetrata violenza fisica e psicologica di uomini e donne. Il Governo Italiano è complice di questi reati. Il permettere e consentire l’accesso di organizzazioni internazionali come l’UNHCR o l’OIM, che da anni denunciano questi centri, non cambia in nessun modo la sua posizione criminale. IL GOVERNO ITALIANO NON E’ RIUSCITO A “IMPORRE” ALL’EUROPA LA RELOCATION DECISA E MAI ATTUATA, OVVERO LA SUDDIVISIONE PER I SINGOLI PAESI MEMBRI DI QUOTE DI MIGRANTI, E HA DOVUTO CAMBIARE STRATEGIA. Il neo Ministro Minniti, non appena insediatosi, è volato in Libia, in Egitto, a concludere accordi bilaterali dove siamo più forti commercialmente, dove vengono sversati da anni milioni di euro (strana coincidenza l’ex sottosegretario agli esteri di fresca nomina come vicepresidente dell’ENI), dove le vite umane, comprese quelle dei nostri giovani ricercatori come Giulio Regeni, non contano assolutamente nulla. Minniti ha chiuso accordi in tempi record, con Governi collusi dove i diritti umani non sono neanche un “compromesso”. SEMPLICEMENTE, NON SONO. IL GOVERNO ITALIANO VUOLE ELIMINARE LE ONG CHE PRESTANO SOCCORSO IN MARE E DI FATTO AUTORIZZARE LA GUARDIA COSTIERA LIBICA – CHE VA RICORDATO PRENDE SOLDI SIA DALL’ITALIA CHE DALL’EUROPA E DAI TRAFFICANTI DI ESSERI UMANI – ALLA GESTIONE DEL DESTINO DI ESSERI UMANI. E’ palese quanto il nostro Governo attraverso il Ministro dell’Interno abbia concordato con la Libia di Al Sarraj di “SGOMBERARE” il Mar Mediterraneo da organizzazioni umanitarie, in pratica un DASPO per le ONG (lo rinomineremo un DAONG ?). Questa decisione è equiparabile ad una espulsione e respingimento di massa, violando così intenzionalmente l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti e l’articolo 4 che mette al bando le espulsioni collettive, per la quale l’Italia è stata già condannata. Riporta in un’intervista l’ammiraglio Credentino che ha guidato per due anni la Missione Eunavfor Med che “ogni giorno circa 20, 22 mercantili vanno e vengono dalla Libia, e decine circolano nell’area”. E’ evidente che le merci possono regolarmente disporre di CANALI COMMERCIALI mentre i CANALI UMANITARI vengono criminalmente omessi da anni. CHIEDIAMO INOLTRE AL GOVERNO ITALIANO DI SAPERE se anche ai MERCANTILI COMMERCIALI è stato sottoposto un Codice di Condotta, oppure se anche queste imbarcazioni faranno parte del FAR WEST cui fa riferimento il nostro Ministro dell’Interno, e saranno quindi libere di intraprendere traffici di merci e perché no, di dedicare stive da vendere a caro prezzo alle reti internazionali e alle mafie di trafficanti di esseri umani. Il Codice di Condotta è stata solo una strategia per avviare quel processo di criminalizzazione delle ONG e della società civile che da sempre si contraddistingue per la sua neutralità, imparzialità ed indipendenza. Ed aggiungiamo per la loro solidarietà per gli esseri umani che in mare rischiano la propria vita. Le ONG hanno DOVUTO cominciare ad operare in mare dopo la chiusura di MARE NOSTRUM e le morti continue ed ininterrotte di vittime innocenti. All’imposizione del Codice di Condotta o meglio di alcune richieste inaccettabili sotto il profilo umanitario alcune ONG hanno espresso la loro perplessità e con coerenza e rigore, MSF in primis si è detta disponibile a collaborare ma a non trasgredire un proprio Codice di condotta Etico non scritto ma esercitato quotidianamente ed universalmente, denunciando che quanto sta accadendo provocherà ancora più morti e violazioni dei diritti umani in Libia. Per questo MSF non ha firmato il Codice di Condotta. NOI STIAMO CON MSF. NOI VI ACCUSIAMO. ACCUSIAMO chi deliberatamente criminalizza ed accusa ed inquisisce quei cittadini che agendo secondo i trattati Internazionali ed i valori universalmente riconosciuti assiste ed aiuta esseri umani in situazione di vulnerabilità e necessità. Accusiamo quei politici e quelle istituzioni che indagano uomini e donne accusati delCRIMINE DI SOLIDARIETA’ addebitandogli il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Eppure nel Testo Unico sull’Immigrazione all’articolo 12.2 si trova la dicitura “non costituiscono reato le attività di soccorso ed assistenza umanitaria se prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”. Da anni gli attivisti presenti sul territorio italiano, da sempre impegnati nella difesa dei diritti umani si sono visti ostacolare, impedire di poter svolgere e praticare la solidarietà per chi, abbandonato dalle leggi e dalle istituzioni, cerca riparo e rifugio. La criminalizzazione è passata e passa dai fogli di via, dalle incriminazioni per favoreggiamento all’immigrazione clandestina, a partire dal caso di OSPITI IN ARRIVO per arrivare agli attivisti di Ventimiglia fino alla recente inchiesta su DON MUSSIE ZERAI, colpevole di aver segnalato alla Guardia Costiera italiani i SOS ricevuti dai migranti a rischio di naufragio e morte. MIGLIAIA DI MORTI SONO STATE EVITATE GRAZIE ALL’ AZIONE UMANITARIA DI ATTIVISTI, ORGANIZZAZIONI ED ASSOCIAZIONI, REALIZZATE INSIEME ALLA GUARDIA COSTIERA ITALIANA. NOI STIAMO CON GLI ATTIVISTI. NOI SIAMO GLI ATTIVISTI. NOI ACCUSIAMO quei Governi, compreso il Governo Italiano, che ancora utilizzano la detenzione amministrativa e la privazione della libertà personale, dispositivo che su base razziale prevede il trattenimento di uomini e donne “irregolari” all’interno dei centri di detenzione, i CIE e nuovi CPR. Le disposizioni del Ministro dell’Interno già a gennaio 2017 hanno cominciato a prevedere ALIQUOTE ASSEGNATE per le Questure e Prefetture per rimpatri indiscriminati di cittadini nigeriani. La riproposizione di un moderno apartheid, voluta ed eseguita da un Governo di Sinistra. Il Decreto Minniti Orlando divenuto legge ha de facto sancito che gli stranieri non hanno giurisdizione in Italia, o meglio, ce l’hanno, ma di serie B. LA LEGGE NON E’ EGUALE PER TUTTI IN ITALIA. Una recentissima sentenza ha condannato il Ministero dell’Interno a risarcire il Comune di Bari per il danno di immagine provocato dai trattamenti disumani e degradanti avvenuti all’interno del CIE di Bari. Quel centro, così come gli altri sono strutture dove non esiste il diritto, dove viene negata la dignità umana e dove le denunce per morti di stato sono insabbiate nelle Procure. Il Sistema HOTSPOT si è dimostrato inefficace, non garantisce il diritto di asilo né le misure di accoglienza e consente respingimenti collettivi arbitrari ed illegali. Ed è appunto un sistema inaccessibile alla società civile, dove ripetute sono state le denunce di violazioni avanzate da ONG e associazioni. NOI VI ACCUSIAMO – ACCUSIAMO CHI GOVERNA E GESTISCE I FONDI DESTINATI A COMBATTERE LA POVERTA’ E CHE SARANNO IN AFRICA UTILIZZATI PER CONTROLLARE I MIGRANTI attraverso forniture militare e forniture di macchinari di controllo delle frontiere, formazione delle forze di polizia, gestione di centri per migranti e sistemi per la raccolta di dati biometrici delle persone, una vera e propria schedatura di massa. 600 milioni di euro del cosiddetto TRUST FUND che andranno ai Governi “compact” (in particolare Nigeria, Mali, Etiopia, Mali, Senegal) per operazioni di controllo e sicurezza decisi a Malta, da dove si spara sulle navi dei migranti già da anni, oppure non facendo sbarcare nei propri porti le carrette del mare, violando ogni tipo di legge e convenzione internazionale. Il Trust Fund: un’operazione di “distrazione di masse” economiche che anziché essere utilizzate per la cooperazione e il miglioramento delle condizioni di vita di paesi da dove si fugge per carestie o per regimi non democratici, serviranno esclusivamente a rafforzare le misure di trattenimento nei paesi di origine e di transito. Galere a cielo aperto, così come fatto con la Turchia di Erdogan, con il quale si è trattato con 6 miliardi di euro il sigillare il confine con l’Europa. A pagarne il prezzo concordato da Bruxelles quasi 60mila uomini e donne e bambini da marzo 2016 “ingabbiati” in Grecia da marzo 2016. Circa 100.000 euro a testa, il valore della vita umana, di un “migrante in meno” presente sul suolo europeo. Il Consiglio d’Europa ha chiesto delucidazioni e chiarimenti all’Italia sulla pratica di respingimento di migranti in arrivo nei porti di Ancona, Bari, Brindisi e Venezia ai porti della Grecia, mettendo in discussione la garanzia dell’accesso alle procedure internazionali, ai servizi offerti dalle ONG, e tuttala gestione del sistema. NOI INOLTRE ACCUSIAMO E CONDANNIAMO QUELLE COMPAGNIE DI TRASPORTI E VETTORI che si fanno utilizzare per il respingimento di cittadini stranieri dall’Italia e dall’Europa. Le compagnie aeree, ad esempio, che accettano sui loro veicoli di trasbordare migranti in paesi di transito e/o di origine senza aver avuto la garanzia e/o necessaria documentazione dello status del migrante, sono COLPEVOLI di un respingimento ILLEGITTIMO e in aperta VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI UNIVERSALMENTE RICONOSCIUTI. Queste, un tempo le chiamammo DEPORTAZIONI. Ne fummo testimoni e complici, poi osservatori inorriditi, ora le riproponiamo senza battere ciglio. NOI ATTIVISTI STIAMO CON I MIGRANTI, CON LE ONG perché le DISCRIMINAZIONI che stanno producendo gli Stati Membri produrranno il collasso dell’Europa da un punto di vista politico, morale, etico, economico, sociale, culturale. Perché quanto sta avvenendo viola diritti umani inalienabili, tutti i principi etici e morali, la dignità dell’essere umano che ne è vittima, così come degrada chi la esercita e chi se ne rende responsabile, sia esso un decisore oppure un mero esecutore materiale. NOI VI ACCUSIAMO E le accuse che stiamo avanzando sono terribili, fondate, e indegne di stati civili e democratici. Campagna LasciateCIEntrare
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