#Codice Penale stupro
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pier-carlo-universe · 11 days ago
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"Com’eri vestita?": la mostra contro gli stereotipi della violenza di genere
Al Liceo Amaldi di Novi Ligure dal 4 febbraio all’11 marzo 2025
Al Liceo Amaldi di Novi Ligure dal 4 febbraio all’11 marzo 2025 La violenza di genere assume molteplici forme ed è spesso perpetrata da persone vicine alla vittima. Tra queste, lo stupro, un atto brutale che, contrariamente ai pregiudizi, raramente vede come aggressore uno sconosciuto. Proprio per contrastare gli stereotipi e la colpevolizzazione delle vittime, arriva al Liceo “Edoardo Amaldi”…
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basically-im-a-clown · 1 year ago
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abbattoimuri · 1 year ago
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Legittima difesa: vietata alle donne abusate
La legittima difesa è normata dall’art. 52 del codice penale che trovate qui. La norma non concepisce che sia la donna a poter difendersi legittimamente in caso di violenza domestica o stupro. Le sentenze, nel caso in cui una vittima di abuso invischiata nel ciclo della violenza decida di difendersi, dimostrano che l’unica difesa possibile per la donna è quella di affidarsi allo Stato, ancor più…
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paoloferrario · 2 years ago
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I precedenti su stupro e consenso. La direttiva Ue punisce più dell'Italia, di Vitalba Azzolini, in Domani, 22 luglio 2023
letto in edizione cartacea cerca in https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/violenza-di-genere-il-consenso-nella-legge-e-nella-giurisprudenza-slf268ic Una proposta di direttiva Ue introduce un elemento innovativo rispetto alla normativa di diversi Stati membri in tema di violenza sessuale: una definizione di stupro basata sull’assenza di consenso. Il codice penale italiano qualifica…
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Marocco, indignazione per 2 anni di prigione a pedofili
(ANSA) – RABAT, 31 MAR – Shock e indignazione in Marocco dopo che il tribunale ha condannato a due anni di prigione tre pedofili stupratori, oltre a un’ammenda di 50mila dirham, pari a circa 5mila euro. Secondo l’articolo 486 del codice penale marocchino, la pena per lo stupro di un minore di 18 anni è la reclusione da 10 a 20 anni.    La vittima, 11 anni all’epoca dei fatti, dopo essere…
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corallorosso · 3 years ago
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Marcello Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Cioè: 7 anni per aver aiutato ed essersi fatto aiutare dalla mafia. Luca Traini, il nazista ex candidato della Lega che un bel giorno decise di uscire di casa e sparare a ogni persona con la pelle scura che incrociava, fu condannato a 12 anni di galera per strage. Marco Miclari, un senatore di Forza Italia, tre giorni fa è stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per aver chiesto e ottenuto voti dalla ndrina Alvaro di Sinopoli, una cosca ndranghetista. Il nostro codice penale punisce lo stupro con una reclusione tra i 6 e i 12 anni. Cioè: se un uomo decide di stuprare una ragazza, in media va in carcere per 6 o 7 anni. Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e due mesi di carcere, oltre che a restituire le centinaia di migliaia di euro di finanziamenti ricevuti da Riace da parte dell’UE e del governo. Per la giustizia italiana, Mimmo Lucano ha fatto qualcosa di molto peggiore rispetto a chi collaborava con la mafia, molto peggiore rispetto a chi stupra una ragazza, peggiore anche rispetto a chi esce in strada e inizia a sparare alla gente in base al colore della pelle: ha cercato di aiutare chi non aveva niente. Mimmo Lucano non ha intascato un solo euro da tutto quello che ha fatto. E adesso non ha neanche i soldi per pagare l’avvocato per l’appello. Ha commesso degli illeciti, sulla carta? Probabilmente, tecnicamente, sì, come ha detto anche lui. Ma tutto quello che ha fatto è stato solo per aiutare gli altri, i più deboli, quelli che non aiutava nessuno se non lui. Tanto che la sua Riace, un paesino abbandonato della Calabria, è diventata un esempio di integrazione per tutto il mondo. In un paese dove la politica vive e prospera sull’odio per il diverso, sull’egoismo, sull’intolleranza e sulla meschinità, lui viene condannato per aver cercato di dare una mano a chi era da solo di fronte a tutto questo. Di solito si dice “le sentenze si rispettano”. Ma no, questa sentenza io non la rispetto, perché è semplicemente assurda, vomitevole. È una sentenza politica. E se la legge prevede questo, la legge va cambiata immediatamente, perché è sbagliata. In un paese dove, in spregio a ogni senso del ridicolo, si propone come presidente della repubblica un vecchio puttaniere, pluricondannato, che si circondava di mafiosi, condanniamo a 13 anni di carcere un uomo buono che voleva solo aiutare gli ultimi tra gli ultimi. Io non la rispetto questa sentenza, al massimo la disprezzo. E disprezzo un paese che permette che tutto questo possa accadere davvero, come nel peggiore dei film distopici. C’è ancora l’appello, e se non basta si andrà in Cassazione. Se servirà un aiuto, anche economico, sono sicuro che saremo milioni a darglielo senza battere ciglio. Mimmo Lucano sarà riabilitato di fronte alla Storia. Di questo potete esserne sicuri. Emiliano Rubbi
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luposolitario00 · 2 years ago
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"Anche le DONNE che si vestono come me vengono stuprate e abusate. Quello che indossano le donne NON c'entra niente."
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Le cronache, le statistiche, le esperienze di persone vicine confermano che questo cartello contiene un principio indiscutibile: la colpa dello stupro non è MAI di chi lo subisce.
Eppure non passa giorno in cui non sentiamo qualcuno parlare di "decenza, pudore, ingenuità, furbizia, “leggerezza" riferito a comportamenti assunti da chi ha subito molestie o violenze sessuali.
Il tempo della giustizia di genere è arrivato.
Ci sono tanti modi per impegnarsi contro pregiudizi e stereotipi, ad esempio contribuendo a diffondere la cultura del consenso, sia a livello legislativo, sia attraverso azioni nelle scuole, sia promuovendo una comunicazione libera dagli stereotipi. Per questo, è stata lanciata una campagna
#iolochiedo.
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xennnnnnnn · 5 years ago
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dacché sarebbe un’esagerazione e pura illusione pretendere che taluni soggetti (con l’aggravante di essere personalità mediatiche) si informino e comprendano cosa si intende con consenso, come mai esso sia alla base della differenza tra rapporto sessuale e violenza, e perché, di conseguenza, far coincidere lo stupro con la mera penetrazione sia limitante nonché scorretto (coincidenza che è retaggio patriarcale, sperando che qualcuno si triggeri) in quanto non inclusiva di pratiche come lo stealthing, riporto qui L’ARTICOLO 609 BIS DEL CODICE PENALE ITALIANO — di modo da mantenerci sul ragionamento legalista e statista che piace così tanto a molti:
Chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.  
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:  
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;  
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. 
E ricordo che la narrazione dello stupro come aggressione da parte di ignoti guidati da istinti animaleschi in un vicolo buio non aiuta nessuno, indipendentemente dagli organi genitali. Anzi, vi dirò di più, è un narrazione colonialista e classista (per nominarne due), ma di questo ne parliamo un’altra volta, prima facciamo un ripasso di concetti come abuso e coercizione magari.
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paoloxl · 5 years ago
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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta
La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.
Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.
Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.
A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.
Il decreto Salvini- Uno
Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.
Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.
Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.
Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.
Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!
Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).
Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.
All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…
Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?
Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.
Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.
E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).
Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…
Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.
Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.
Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.
E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.
Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…
Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due
Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.
Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).
E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.
Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.
E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.
Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!
Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.
Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.
Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.
E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.
Il DL Minniti-Orlando
Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.
I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.
In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…
In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.
L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).
Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.
Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.
L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas
Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.
Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.
La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.
Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.
Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).
Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.
A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.
Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.
A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.
Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.
E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.
L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.
Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.
Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.
Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.
L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.
Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.
Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.
SI Cobas
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satiratea · 6 years ago
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NON LASCIATE CHE I BAMBINI VADANO A LORO
Federico Tulli, giornalista e redattore di “Left”, racconta di come la chiesa sia da sempre impegnata a coprire il fenomeno, numericamente mostruoso, delle violenze sessuali su minori commesse dai sacerdoti. Per la chiesa, e per il suo capo Jorge Mario Bergoglio, l’abuso di un bambino è un peccato di lussuria indotto dal diavolo. Non una violenza contro un essere umano. E della responsabilità individuale dei sacerdoti (e di quella collettiva della chiesa) non c’è traccia.
Carlotta – Sei stato il primo e unico giornalista ad aver condotto un’inchiesta completa sui casi italiani di pedofilia nella chiesa. Su quest’inchiesta è uscito il libro Chiesa e pedofilia. Il caso italiano(L’asino d’oro edizioni, 2014). Ora hai firmato un nuovo libro-inchiesta che racconta cosa succede agli uomini e alle donne di chiesa che il Vaticano considera “in difficoltà”, ossia pedofili, stalker, assassini. Cosa rivela il tuo ultimo lavoro?
Federico – Questo libro, scritto con Emanuela Provera, s’intitola Giustizia divina (Chiarelettere, 2018). Si tratta di un’inchiesta sul modo in cui la chiesa esercita l’azione penale nei confronti dei sacerdoti che compiono reati, ma in realtà si tratta anche di un’inchiesta su come lo stato italiano esercita l’azione penale nei confronti dei sacerdoti.
Siamo partiti da due domande: quanti sono i sacerdoti in carcere in questo momento in Italia e che tipo di reati hanno compiuto? Queste domande ce le siamo poste nel 2015 e l’inchiesta è durata praticamente quasi tre anni. Le domande le abbiamo rivolte al DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che è l’organo del ministero di giustizia che si occupa di monitorare, anche a livello statistico, la popolazione carceraria. Ma la cosa interessante è che il DAP non ci rispondeva, nonostante avesse l’obbligo di farlo.
Alla fine, dopo due mesi dalla nostra richiesta, la risposta è arrivata e diceva che il dipartimento non aveva quel tipo di informazione. Come se il DAP non conoscesse la professione che svolgevano i detenuti prima di entrare in prigione. Abbiamo insistito per un anno e mezzo, perché sapevamo che il dato c’era. A un certo punto abbiamo ricevuto l’autorizzazione a rivolgerci direttamente ai 190 istituti di pena da noi individuati in Italia, e in un anno e mezzo siamo riusciti a ottenere una risposta da 125 amministrazioni carcerarie. In 70 non ci hanno mai risposto sebbene fossero obbligati a fornirci questo dato, richiesto in osservanza della privacy. Avremmo potuto insistere con una diffida ma abbiamo preferito non andare oltre.
Cosa emergeva dai dati?
I dati che avevamo raccolto dicevano che in carcere in Italia, tra il 2016 e il 2017, c’erano cinque sacerdoti e solo uno era rinchiuso per pedofilia. Un solo sacerdote in carcere in Italia per pedofilia ci sembrava un numero assolutamente esiguo e non rispondente alla realtà. Da fonti certe, infatti, sapevamo che ce n’erano almeno otto ed era possibile che si trovassero negli istituti che avevano preferito non risponderci. Comunque abbiamo confrontato questo dato con un altro; sapevamo che negli ultimi quindici anni in Italia sono stati denunciati per pedofilia circa trecento sacerdoti, e di questi almeno centoquaranta sono stati condannati dalla magistratura civile in via definitiva per abusi su minori. La fonte di questo dato è la Rete L’Abuso. A questo punto la domanda che ci siamo fatti è stata: dove sono tutte queste persone condannate per abusi su minori, visto che non sono in carcere? Da questo interrogativo è partita la seconda parte dell’inchiesta.
Lo stimolo ci è venuto da un film di Pablo Larrain, Il club, che si svolge interamente in una casa molto isolata dove all’interno ci sono cinque sacerdoti, uno di questi è un pedofilo, uno ha collaborato con la dittatura di Pinochet, uno ha il vizio delle scommesse, uno è cleptomane e un altro è omosessuale. Questa struttura era utilizzata dalla chiesa cilena per far espiare le pene ai sacerdoti peccatori; questi rimanevano all’interno della struttura per un tempo non definito, lontano da occhi indiscreti, non denunciati alla magistratura civile.
Vedendo quel film ci siamo chiesti: ma non sarà che quel tipo di struttura si trova anche in Italia ed è lì che vengono sistemati i sacerdoti che non abbiamo trovato in carcere? In estrema sintesi, la risposta è sì.
Quindi cosa avete fatto? Vi siete messi alla ricerca delle strutture?
Sì, con Emanuela ci siamo messi alla ricerca per tutto il paese e abbiamo realizzato il reportage che costituisce la spina dorsale del nostro libro. Anche questa, come l’inchiesta nelle carceri, è un’indagine giornalistica inedita. Abbiamo trovato diciotto strutture, ma sappiamo che ce ne sono almeno venti o ventuno. Nelle sole città di Milano e Roma ce ne sono molte.
In questi luoghi, come nel film di Larrain, la chiesa italiana sistema quelli che il Vaticano chiama “sacerdoti in difficoltà”, è questa la dizione ufficiale.
Si tratta di case di cura, spirituale e psicologica, in cui vengono sistemati anche i sacerdoti che hanno compiuto abusi sessuali su minori. Per quanto riguarda la pedofilia, abbiamo scoperto che in queste strutture transitano tre tipologie di sacerdoti che hanno compiuto abusi: quelli per cui la magistratura italiana autorizza misure alternative al carcere; quelli che sono lì perché la giustizia ecclesiastica li ha condannati per abusi e utilizza queste strutture per assisterli e curarli dal punto di vista spirituale – perché per la chiesa l’abuso è un peccato, un delitto contro la morale, un’offesa a dio e non un crimine violentissimo contro persone inermi – e poi dal punto di vista psichiatrico – perché la chiesa ha colto che un adulto che violenta un bambino è affetto da una grave patologia mentale; e poi ci sono quei sacerdoti che hanno compiuto abusi ma non sono stati denunciati né alla magistratura ecclesiastica né a quella italiana, perché magari hanno confessato o chiesto aiuto a un altro parroco e per questo sono stati mandati in quelle strutture, il tutto in gran segreto.
Si tratta di veri e propri casi di insabbiamento, una pratica piuttosto diffusa in Italia; per questo una parte dell’inchiesta l’abbiamo dedicata alla ricostruzione di queste dinamiche nascoste.
La chiesa mantiene tutto segreto perché considera l’abuso di minore un’offesa a dio e non una violenza a un essere umano, quindi ritiene di giudicarlo secondo la giustizia divina e non secondo quella terrena. Per la chiesa, la giustizia terrena viene molto dopo. Nel caso italiano non viene mai. I vescovi italiani non hanno mai collaborato e al momento continuano a non collaborare.
Come si spiega, secondo te, l’altissima incidenza di casi di pedofilia nella chiesa, un’incidenza che sappiamo essere maggiore rispetto alla pedofilia nella società civile? È possibile che sia legata anche al modo in cui la chiesa cattolica concepisce i bambini e la violenza su di loro, ossia – come hai detto prima – un peccato commesso nei confronti di dio e non un atto violento contro degli esseri umani?
La pedofilia ovviamente è un tipo di violenza che esiste anche nella società civile e spesso avviene in ambito famigliare. Consiste nell’annullamento della realtà umana del bambino e si fonda sull’idea che il bambino abbia una sessualità.
I pedofili credono che l’abbraccio o l’effusione di un bambino sia un’espressione di desiderio o una richiesta di atto sessuale. Ma noi sappiamo bene che nel periodo prepubere, in cui gli organi genitali non sono ancora completamente formati, anche l’identità sessuale non è completamente formata; per questo motivo, fino a quando questo non avviene, l’adulto che si avvicina a un bambino in un certo modo, compie una violenza di carattere psicologico e fisico.
Nel primo libro Chiesa e pedofilia (L’asino d’oro edizioni, 2010) ho parlato delle conseguenze sulla vittima di abusi sessuali, e per farlo mi sono rivolto a degli psichiatri. Quello che mi ha colpito maggiormente è stata la spiegazione che ha dato uno di loro: ciò che subisce un bambino vittima di violenza sessuale è un omicidio psichico, perché il pedofilo attacca la possibilità di realizzare la propria identità sessuale durante la pubertà e gliela distrugge. E siccome l’identità sessuale è una delle caratteristiche dell’essere umano, quando una persona se la sente distrutta, può anche arrivare al suicidio. Quindi la pedofilia, oltre ad essere omicidio psichico, può diventare anche omicidio in tutti i sensi. È come se il bambino non esistesse La pedofilia di matrice ecclesiastica ha delle sue peculiarità. Per la chiesa, infatti, l’abuso è un peccato. È un delitto contro la morale, è un’offesa a dio, è la violazione del sesto comandamento “Non commettere atti impuri”. Per cui, in sostanza, la vera vittima in un caso di abuso di minore è dio, non la persona violentata; se la violenza avviene durante la confessione, come spesso succede, è il sacramento ad essere stato violato, non l’essere umano, non il bambino. Molte violenze avvengono durante la confessione proprio perché c’è il vincolo di segretezza e tutto quello che avviene durante la confessione è sottoposto al segreto pontificio, e anche le violenze, anche gli stupri, non possono essere rivelati se non al vescovo che poi parlerà col papa. Nelle leggi vaticane e nella mentalità della chiesa è come se il bambino non esistesse. Voi l’avete scritto in uno degli scorsi numeri di “A”, che in Italia la violenza sessuale contro la donna e contro un bambino è stata considerata un delitto contro la morale fino al 1996, e quella era chiaramente una legge che veniva dal codice Rocco, che era fascista e grondava di mentalità cattolica.
Questa mentalità la riscontriamo ancora nei tribunali, dove in caso di violenza sulla donna c’è sempre l’idea che sia la donna ad aver istigato in qualche modo la violenza dell’uomo che non ha potuto trattenersi, e questo succede anche con i bambini.
Questa cosa però viene detta troppo poco. In ambito clericale, nei casi di stupro di minori, c’è l’idea che sia il bambino ad aver istigato il sant’uomo; c’è l’idea che in quell’atto sia subentrata l’azione del diavolo, una cosa che ha detto anche Bergoglio durante il sinodo sulla pedofilia.
Questo famoso papa progressista è convinto, come lo era Paolo VI, che il diavolo sia una persona che agisce per distruggere la chiesa, e che la pedofilia sia uno dei modi in cui la chiesa viene attaccata.
In questo modo di ragionare scompare completamente la lesione subita dalla vittima. Ma soprattutto c’è la giustificazione di chi ha violentato, perché ha agito spinto dall’influenza del diavolo, da una forza esterna. Così si nega ogni responsabilità personale.
Una deresponsabilizzazione che ritroviamo in varie dichiarazioni di Bergoglio. Ad esempio, in seguito al summit sulla pedofilia, tenutosi in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019, il papa ha dichiarato che è giusto approfondire i casi di pedofilia, ma al contempo ha sottolineato che la pedofilia non appartiene soltanto alla chiesa. Per il momento in cui è stata fatta e per il contenuto, la dichiarazione è suonata come un tentativo della chiesa di non farsi carico di un fatto oggettivo, cioè che l’incidenza della pedofilia nella chiesa è maggiore rispetto alla pedofilia nella società civile.
È assolutamente così. Ad agosto scorso, Hans Zollner, psicologo membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori che esiste dal 2014, ha rilasciato un’intervista all’agenzia dei vescovi (SIR) in cui dichiarava che negli Stati Uniti, dal 1950 al 2002, tra il 4 e il 6% della popolazione ecclesiastica ha compiuto almeno un abuso su minori.
E si è rivolto poi alla chiesa italiana dicendo di non pensare che da noi la situazione sia diversa, quindi è bene correre ai ripari. Questo significa che nella santa sede, a certi livelli, si ha un’idea di quale sia la diffusione del fenomeno in Italia.
Il 4-6% è una percentuale mostruosa. Nel libro abbiamo fatto un confronto e siamo andati a contare le persone che sono in carcere per reati di natura sessuale contro minori; si tratta di circa 1200 persone; 1200 su una popolazione adulta di circa 47 milioni significa circa lo 0,025%. Dallo 0,025% della società civile al 4-6% della chiesa cattolica significa circa 200 volte in più, uno scarto gigantesco. Comunque in Italia non esistono dati ufficiali sulla diffusione del fenomeno della pedofilia, anche nella società civile, e quindi ci si chiede come si possa fare prevenzione se non si ha nemmeno la percezione corretta del fenomeno. E questo vale per la società laica e per quella ecclesiastica. Quello che ha dichiarato Zollner mi è sembrato d’importanza fondamentale.
Prima hai accennato alla questione del diavolo. Hai detto che con Bergoglio c’è stato un ritorno al passato, un ritorno all’antropomorfizzazione della figura del diavolo, che si incarna per rovinare la chiesa. Voi come avete affrontato la questione del ritorno del diavolo, un argomento che sembra essere utile alla chiesa per risolvere e spiegare tutta una serie di problemi?
Il capo dell’Associazione internazionale esorcisti, ad un certo punto, ha dichiarato che mai nessuno come papa Francesco ha nominato il diavolo nel corso del suo magistero. E in effetti, andando a rivedere i documenti ufficiali, già dalla prima settimana, Bergoglio ha cominciato a riportare, nel linguaggio comune delle sue omelie, allusioni continue all’esistenza del diavolo come persona. L’ha nominato decine e decine di volte. Quello che ci ha colpito, lo raccontiamo nel terzo capitolo del libro-inchiesta – e anche questa è un’indagine mai fatta prima da qualcuno e che abbiamo svolto sul “campo” a viso aperto, senza cioè nascondere la nostra identità e le nostre intenzioni – è che lui non l’ha fatto solo in quanto capo della chiesa cattolica; ad Assisi, davanti a una platea di cinquecento capi di stato e di presidenti del consiglio di tutto il mondo, ha parlato del diavolo come responsabile di guerre e carestie. In quell’occasione parlava nella veste di capo di stato, quindi anche da capo politico Bergoglio ha introdotto questo tipo di discorso. Questo è il modo in cui lui decifra certe questioni, che all’interno della chiesa sono molto critiche.
È stato sempre Bergoglio a riconoscere e dare un bollino di qualità all’Associazione internazionale degli esorcisti, e questo è un altro segnale molto interessante.
Nel 2014 l’ha riconosciuta come organo ufficiale all’interno della chiesa. Quest’associazione, a livello mondiale, si compone di circa 300-400 esorcisti, di cui 240 si trovano in Italia. In Spagna ce ne sono circa 12, in Lombardia circa 20. E in Lombardia c’è anche un numero verde per posseduti, con un call center che risponde dal lunedì al venerdì.
Per scrivere la terza parte della nostra inchiesta, dedicata appunto al diavolo, siamo andati a frequentare un master di esorcismo che si tiene a Roma ogni primavera. Nel frattempo, da quando è uscito il libro, il MIUR ha proposto agli insegnanti un corso di esorcismo dal costo di 400 euro, per individuare e distinguere eventuali ragazzini problematici dai ragazzini posseduti.
Qual è il senso, secondo te, di far frequentare un corso di esorcismo agli insegnanti?
La partecipazione degli insegnanti al corso di esorcismo fa il paio con un’altra cosa inquietante che riguarda i cosiddetti bambini iperattivi. Se un bambino è particolarmente vivace, adesso si tende ad inquadrarlo all’interno di una fantomatica sindrome di iperattività che può anche comportare una cura a livello farmacologico. Il corso di esorcismo vuole mettere l’insegnante in condizione di distinguere quando c’è un sintomo di disagio psichico e quando c’è la presenza del demonio. La chiesa infatti, molto abilmente, fa una distinzione. Non parla sempre di possessione demoniaca. Fino a un certo punto parla di disagio psichico, poi se la persona presenta determinate caratteristiche, allora parla di possessione demoniaca.
Le caratteristiche della possessione demoniaca secondo la chiesa sono proprio quelle dei film: il posseduto parla una lingua a lui sconosciuta, è in possesso di una forza sovrumana e riesce a fare cose, a livello fisico, che normalmente non potrebbe fare.
“I bambini abusati sono strumento del demonio”
Perché avete seguito il master di esorcismo?
Perché tra i docenti di quel corso ci sono magistrati, docenti universitari, avvocati, anche una poliziotta della squadra anti-sette sataniche. Siamo andati a quel corso proprio per capire come mai tra i docenti ci fossero magistrati, avvocati e poliziotti, e più di tutti ci hanno colpito due persone. Uno è un magistrato, che un paio di mesi fa è stato arrestato per corruzione, e che al corso ha esordito dicendo di sentirsi uno strumento della giustizia nelle mani di dio. La sua presenza al master, ha dichiarato, aveva lo scopo di aiutare i futuri esorcisti a evitare denunce da parte delle persone esorcizzate. Lo stesso faceva un’avvocatessa che aveva preparato una manleva per gli esorcisti da far firmare alla persona posseduta prima dell’esorcismo, praticamente per sollevare da qualunque responsabilità l’esorcista e i suoi aiutanti in caso di denunce per violenze e costrizioni fisiche.
Nella nostra inchiesta ci siamo occupati di esorcismo anche per un altro motivo, per l’idea e la mentalità della chiesa di ritenere il bambino abusato come strumento del demonio; quindi, se il sacerdote compie quello che per la chiesa è un atto sessuale e non una violenza, quella violenza viene considerata un peccato di lussuria determinato dall’azione del demonio attraverso il bambino.
Frequentando il master di esorcismo abbiamo anche scoperto che la stragrande maggioranza delle persone esorcizzate sono donne. Un dato scontato se si considera che tipo di società sia quella ecclesiastica.
La ripresa del diavolo serve chiaramente a sollevare i sacerdoti da ogni responsabilità. Inoltre, da quello che racconti – cioè dal fatto che siano le donne ad essere maggiormente vittime di esorcismi e dal fatto che, per la chiesa, i bambini necessitino di essere controllati perché è possibile che siano posseduti – si capisce come il diavolo venga utilizzato anche come mezzo di repressione e punizione.
Nel documentario Liberami c’è una scena in cui due genitori portano il figlio dall’esorcista perché a scuola fa casino, è troppo agitato e non è bravo. Il sacerdote mette la mano sulla testa del bambino, poi si gira di scatto verso la madre e dice: è colpa tua, non sei una donna di fede e in chiesa non ci vai. In un secondo il sacerdote ha distrutto al bambino l’immagine della madre e ha detto alla donna che il diavolo è dentro di lei. E questa è proprio l’idea che la chiesa ha della donna.
La stampa e lo stato sono complici
Alla luce di tutto questo, com’è possibile che Bergoglio riesca comunque a essere considerato un papa progressista?
La stampa italiana riporta in maniera assolutamente acritica quello che esce dai bollettini Vaticani.
Non c’è mai una verifica di quello che dice il papa. E così non si scoprirà mai che Bergoglio parla di “tolleranza zero” per i pedofili, ma in realtà ritiene che il sacerdote pedofilo abbia solo compiuto un peccato; che se il peccato è grave e non c’è possibilità di espiazione, allora quel sacerdote viene espulso dalla chiesa, ma siccome tutto avviene in gran segreto, la chiesa espelle dal proprio organismo una metastasi che viene immessa nella società civile senza che si sappia che quel signore lì è un pedofilo. La chiesa lo sa, ma non lo dice a nessuno. E quel signore lì, che ora non è più sacerdote, rimane comunque pedofilo anche dopo essere uscito dalla chiesa e ora si aggira per la società.
In questo c’è proprio la complicità dello stato, perché il Concordato tutela tutto questo, questa modalità di agire. L’articolo 4 del Concordato dice che l’autorità ecclesiastica non è tenuta a informare quella civile quando viene a sapere di eventuali reati compiuti da sacerdoti.
Quindi lo stato è complice della chiesa. Idem la stampa italiana, che si accontenta di sentir dire da Bergoglio “tolleranza zero” senza farsi domande e presentandolo come paladino della lotta contro la pedofilia. Ma per essere paladini, si deve anche fare qualcosa e Bergoglio non lo sta facendo.
Federico Tulli è redattore del settimanale “Left”. Già condirettore di “Cronache laiche”, collabora con “MicroMega”, per cui firma anche un blog, con “Critica liberale” e con “Globalist”. Con L’Asino d’oro edizioni ha pubblicato i libri: Chiesa e pedofilia (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015). Nel 2018 per Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera, ha pubblicato Giustizia divina.
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popolodipekino · 6 years ago
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(ri-)perle di bordin
bordin line del 4 gennaio 2014 Ancora a proposito del reato di “omicidio stradale”. Non è la prima volta che, appena passate le feste di fine anno, il legislatore si applica a modificare in senso afflittivo un articolo del codice penale sull’onde dell’indignazione della cosiddetta società civile. C’è un precedente, relativamente recente, che dovrebbe far riflettere. Il giorno di capodanno del 2009 venne denunciato a Roma da una ragazza uno stupro da parte di un coetaneo nel corso di una festa di massa organizzata dal comune. Il giovanotto, un fornaio, venne interrogato dal pm, che lo mandò agli arresti domiciliari. Il giorno dopo la vittima era su tutti i telegiornali e lamentava in lacrime che l’uomo che l’aveva stuprata se ne stava tranquillamente a casa sua grazie a un giudice. Accaddero alcune cose. Il pm fu linciato su tutti i giornali. Sfortuna volle che sul suo tavolo fosse arrivata la causa di alcuni romeni accusati fra l’altro di stupro, ma chiaramente innocenti. Per evitare altri guai li tenne lo stesso in galera con una scusa. Nel frattempo si mobilitarono Parlamento e governo, che con apposito decreto modificò la norma imponendo il carcere preventivo per il reato di stupro. Il fornaio fu condotto in galera. Quando, mesi dopo, ci fu il processo la pena fu lieve, anche perché la linea di difesa del giovane si rivelò non proprio infondata. Ma il decreto antistupro venne lo stesso convertito in legge, malgrado fosse evidente che, per una volta, il pm non aveva avuto tutti i torti. Morale della favola: viviamo tempi in cui c’è da temere l’introduzione per referendum della pena di morte. Altro che amnistia. Motivo in più per continuare a chiederla. Buon anno. da Sette anni di Bordin Line. Massimo Bordin sul Foglio
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psycousy · 6 years ago
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Diritto d’onore
Codice Penale, art. 587
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”
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In poche parole, con la scusante dell’essersi sentito offeso nel proprio onore e in quello della propria famiglia, l’uomo che uccideva una donna del proprio nucleo familiare (e/o il suo amante) poteva godere di uno sconto di pena in quanto l’omicidio veniva in parte giustificato dal fatto che l’uomo fosse stato disonorato. Il delitto d’onore era, in parte, ammesso dalla legge.
Il matrimonio riparatore era, invece, una soluzione adottata per salvaguardare l’onore delle persone coinvolte e delle loro famiglie. Con la sua istituzione, se un uomo commetteva uno stupro nei confronti di una ragazza celibe ed illibata, poteva evitare la pena detentiva e lavare l’onta che aveva causato alla famiglia della giovane, offrendosi di sposarla e di affrontare tutte le spese matrimoniali. La vittima non aveva molta libertà di scelta infatti veniva spinta dalla propria famiglia e dalla società ad accettare in quanto non più illibata e di conseguenza non più ritenuta “da sposare”.
Era l’onore, dunque, l’elemento principale da difendere in entrambi i casi, ma non quello della ragazza in questione, spesso unica vera vittima, bensì quello della famiglia. In queste situazioni dunque le soluzioni erano due: lavare l’onta con il sangue oppure fare sposare la “svergognata”.
La prima a fare la differenza e a dare il via all’iter legislativo che ha portato, quindici anni dopo , all’abrogazione delle leggi riguardanti il delitto d’onore ed il matrimonio riparatore è stata una ragazza siciliana che nel 1966 si è rifiutata di sposare l’uomo che l’aveva rapita e violentata. Franca Viola è stata la prima donna italiana a dire “no” al matrimonio riparatore, condannando alla pena detentiva il proprio stupratore.
Franca nasce ad Alcamo nel 1948 e a 15 anni, con il consenso della famiglia, si fidanza con Filippo Melodia. Quando il ragazzo viene arrestato per furto e per appartenenza ad una famiglia mafiosa il padre della giovane decide di rompere il fidanzamento e, nonostante le varie minacce
da parte dei Melodia, non cambia idea. Due anni dopo però, con l’aiuto di alcuni amici, Filippo rapisce Franca, la violenta e la tiene segregata per otto giorni. Grazie all’intervento della polizia, la ragazza viene liberata e l’uomo arrestato. Quest’ultimo però si sente tranquillo in quanto certo che i Viola vorranno far sposare la ragazza in quanto ormai disonorata. La giovane però, appoggiata dalla famiglia, si oppone fortemente al matrimonio riparatore: è il primo caso in Italia di una donna che sceglie di ribellarsi e che farà condannare il proprio aguzzino.
Franca non ha mai mollato durante il periodo del processo, nonostante venisse additata da tutti, persino dall’arciprete, come una futura zitella (in realtà Franca si è sposata pochi anni dopo), ed è anche grazie al suo coraggio e a quello della sua famiglia che l’Italia oggi è un paese un po’ più civile.
https://medium.com/la-mosca-bianca/5-settembre-1981-il-delitto-donore-e-il-matrimonio-riparatore-vengono-aboliti-7b76de5c4860
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Marcela Lagarde
https://www.unadonnalgiorno.it/marcela-lagarde/
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Marcela Lagarde, antropologa messicana, importante studiosa femminista, è considerata la teorica del femminicidio, termine coniato dalla criminologa Diana Russell, nel 1992.
Autrice di un gran numero di articoli e libri su studi di genere, detiene una cattedra all’Universidad Nacional Autónoma de México.
Il suo nome completo è María Marcela Lagarde y de los Ríos ed è nata a Città del Messico nel 1948.
Ha partecipato al movimento del Sessantotto ed è stata militante del Partito Comunista.
Come docente universitaria di sociologia e antropologia, non si è fermata alla mera divulgazione del termine, ma ha sviluppato un concetto nuovo e di più ampio respiro di femminicidio dopo i fatti di Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti dove, dal 1992, più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 stuprate, torturate, poi uccise e abbandonate ai margini del deserto, nel totale disinteresse delle istituzioni, con la complicità di politica, forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata. Indagini insabbiate dalla cultura machista dominante, riflessa anche in un sistema legislativo esplicitamente discriminatorio nei confronti delle donne, attraverso disposizioni contenute nel codice penale dello Stato di Chihuahua che attenuavano o escludevano la responsabilità per determinate forme di violenza commesse in danno delle donne (come, ad esempio, la non punibilità dello stupro commesso in danno della coniuge o compagna).
Con una grande presa di coscienza e unione femminile, Marcela Lagarde è stata eletta al Parlamento, nel 2003.
Come candidata indipendente nella lista del Partito della Rivoluzione Democratica, è stata deputata nel Congresso Federale messicano fino al 2006.
Si è impegnata personalmente per la creazione di appositi organismi istituzionali di indagine dislocati in tutti gli Stati e coordinati a livello federale.
Ha promosso la Commissione speciale per le indagini sui casi di uccisioni di donne a Ciudad Juarez, al Senato e la Commissione speciale sul femminicidio alla Camera,  stabilendo accordi di collaborazione con i Governi degli Stati federati, i tribunali, le commissioni indipendenti per i diritti umani, le università, le organizzazioni della società civile, per effettuare indagini in maniera trasparente sulla violenza femminicida e fornire informazioni attendibili alla cittadinanza.
Il sistema creato da Marcela Lagarde è divenuto emblema di un modello responsabile di approccio da parte del Parlamento al problema della violenza maschile sulle donne, che parte dalla volontà di conoscere l’entità e le caratteristiche della vittimizzazione e rilevare i motivi di fallimento del modello legislativo esistente, per una sua efficace e strutturale modificazione.
La Commissione ha rielaborato le informazioni reperite presso varie istituzioni, organizzazioni non governative, istituzioni di statistica, Corte Suprema, organizzazioni civili e media, verificando che l’85 per cento dei femminicidi messicani avveniva in casa per mano di parenti e riguardava donne di ogni sfera sociale.
Ogni Stato del Messico è stato mappato e la comparazione dei dati ha consentito di verificare che il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento.
Gli esiti delle indagini condotte sull’esempio del Messico in numerosi altri stati latinoamericani, hanno reso possibile ricostruire nelle sue reali dimensioni la natura strutturale della discriminazione e della violenza di genere e la conseguente responsabilità istituzionale per la mancata rimozione dei fattori culturali, sociali ed economici che la rendono possibile.
Questo ha consentito anche un approccio più consapevole dei legislatori alle riforme normative.
Marcela Lagarde è riuscita a far promuovere l’istituzione del crimine di femminicidio nel Codice Penale Federale e la Legge Generale di Accesso delle Donne a una Vita Libera dalla Violenza, entrata in vigore il 2 febbraio del 2007.
Dirigendo la Commissione Speciale sul Femminicidio nel Congresso ha ampliato il termine alla violenza istituzionale.
Ha dimostrato la negligenza e collusione delle autorità che negavano alle donne e alle loro famiglie l’accesso alla giustizia.
Il fenomeno si insinua nella disuguaglianza strutturale fra donne e uomini che, nella violenza di genere, riproducono un meccanismo di oppressione.
Contribuiscono al femminicidio il silenzio sociale, la disattenzione, l’idea che ci siano problemi più importanti, la vergogna, lo sminuire e tendere a derubricare i fatti come ordinari crimini.
Femminicidio è il termine specifico che definisce gli omicidi contro le donne per motivi legati al genere. Questi tipi di uccisione che colpiscono la donna perché donna non sono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma costituiscono l’ultimo atto di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale.
Le discriminazioni di genere, gli stereotipi radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza che culmina, spesso in femminicidio.
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mezzopieno-news · 6 years ago
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INDIA: I MARITI NON SARANNO PIÙ PROPRIETARI DELLE MOGLI
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In India il tradimento non è più un reato, una sentenza della corte Suprema ha depenalizzato l'adulterio.
L'organo al vertice del potere giudiziario indiano ha dichiarato incostituzionale una legge del codice penale coloniale che risaliva al 160 anni fa e che prevedeva un massimo di cinque anni di reclusione per un uomo che avesse avuto rapporti sessuali con una donna sposata, senza il permesso del marito di lei. La legge 497 recitava: “Chi ha rapporti sessuali con la moglie di un altro, senza il consenso o la connivenza di questi, verrà considerato un adulterio. Ciò non è equiparabile al reato di stupro”. L’articolo in questione era accompagnato da un comma, in materia di procedimenti giudiziari per reati contro il matrimonio, che permetteva al marito leso di sporgere denuncia contro la moglie mentre non permetteva che lo stesso diritto potesse essere rivendicato anche dalle donne tradite dal marito.
Durante la lettura del giudizio, il ministro della giustizia Dipak Misra ha affermato che “l’adulterio può essere motivato da questioni civili, incluso lo scioglimento del matrimonio, ma non può essere più considerato un reato. La legge ha discriminato le donne per anni, in piena violazione dell’articolo 21 della Costituzione indiana”.  In India, le donne accusate di adulterio sono tradizionalmente sottoposte a punizioni e umiliazioni eseguite spesso in pubblico.
Fonte: The Hindu - 27 settembre 2018
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qwe23459 · 3 years ago
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Guo ha imparato i mezzi dalla legge e non ha imparato a pagare
In futuro solo i giudici e le prigioni potranno istruire i trasgressori
Guo Wengui di hi di quasi un mese, quotate MeiMei contro questa cosa, e perché avide hi guadagno derivante dall’aumento di piccole formiche al bureau, lasciateci rassicurante avere sentimenti e non solo sentimenti che questo mondo così tante mentecatti GanYuan mandare i soldi, anche sentimenti Guo Wengui molto "essenza" imparato nella legislazione americana su come guadagnare come capitale LiYou istigherebbe pagano dimentica i soldi, Si guarda solo ai "vantaggi". Tuttavia, kok ha studiato solo la pelliccia, ignorando completamente le conseguenze del crimine commesso, e non si è reso conto dell’incompetenza dell’ira in diretta fino a quando le indagini non sono giunte a portata di mano. Secondo il regolamento, kok si sta avvicinando alla prossima ondata di rabbia impotente.
Il codice penale ha imparato più di una luna a metà, dai suoi esecutori di stupro, alle minacce di violenza contro gli uomini della giustizia per farli tacere, fino ai trambulli pronti a salire sul trambuglio mondiale. Fin dalle sue prime dichiarazioni, questa persona non ha commesso alcun reato di mancato rispetto e, per il solo interesse personale, kok ha violato non solo il diritto penale, ma anche il diritto commerciale, il diritto civile e così via. Ma lui non ha imparato giuridico le pene per reati connessi, a causa della sua "fortuita psicologica", sento vaste ShenTong altri può salvare la propria ed espellerla, SEC contro GTV dopo indagini private equity, Guo Wengui ha persino finché gli americani, non prendere in giro non punito illusione, comunque un atto senza precedenti approcci guadagna Guo Wengui formale, che possono essere utilizzate L’unico modo per farlo è commettere reati.
Il reato di cambio quotidiano di magnificenza è diventato la norma nel caso di guo cheng, solo in relazione alla questione del ritiro della chauma, che ha già messo in atto diversi strumenti illegali, non solo si è intrigato con la follia di toccare la legalità, ma ha anche costretto i suoi compagni di battaglia a diventare truffatori insieme a lui. La relazione dell’onorevole maij-weggen, a nome della commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori, alla commissione delle comunità europee (doc. Le parole "chi propone chi è uno pseudo-tipo ”, e così via, possono essere considerate un esempio lampante di frode finanziaria, quando krugman ha usato il concetto di moneta virtuale. A maggior ragione, kok ha continuato a suggerire alle piccole formiche che, se vogliono ritirarsi, devono sviluppare nuove persone e tirarle fuori. In risposta a questa teoria, kaugvinqui-prima ha dato una spiegazione della frase “ ”, che si può dire che si tratta di una somma di denaro che può essere molto ingente se si vogliono ritirare i candidati, e poi ha sgozzato il gioco del “ pasticcio del partito comunista ”, sostenendo che vi sono finte categorie che, attraverso il ritiro, ardono i fondi della lega nord per la maggior parte e fanno sì che i compagni di guerra non abbiano denaro da spendere. La commissione per l’agricoltura, la pesca e lo sviluppo rurale ha approvato all’unanimità la proposta di risoluzione presentata dalla commissione per i bilanci. Perché wim kok ha chiesto che le piccole formiche tirino il capo, per non parlare poi del concetto di "chi dopo paga, chi prima compra ”? Se le piccole formiche hanno il buon senso, dovrebbero conoscere il nome che corrisponde a questo concetto, che è un imbroglio del tipo pong. O di moneta e tutte le cifre attuali presentano notevoli differenze, non stabilisce in alcun modo che lo intende come normali transazioni, vende tutta sola Guo Wengui stessa, se quale piccola formica vuole vendere industriali versati, Guo Wengui sarebbe estrarre quest’uomo cerca attraverso la certificazione KYC dell’epoca, e poi operare "di imputazione discretamente aziende un cognome compagni, In realtà sono i servizi segreti del partito comunista che vogliono distruggere il futuro di tutti!" Poi si toglie al compagno tutto il denaro investito, e non se ne perde neanche uno. Temo che il comportamento di questi teppisti sia stato possibile solo a wim kok.
Per costruire gli edifici sopraelevati sono necessarie solide fondamenta su cui poggiare. Come può essere possibile che qualcosa di simile possa avere un futuro per le formiche kooungeri, che hanno sempre promesso loro un futuro e visto quanto lontano, ma con un reale che non ha il minimo senso della realtà? ErBaDao Guo Wengui leggere tutti guardare solo la metà, vedo solo delle frodi finanziarie modi guadagnarsi da vivere, senza vedere questi strumenti da poco prezzo, già grande confusione e le truffe trattrice Guo Wengui, che ha comportato dalla distanza, accovacciato lontano in prigione, che lo guardava meno libri in premio LiTou torna.
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corallorosso · 3 years ago
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“La cultura dei cosiddetti pariolini: la donna era uno strumento di piacere, vado, suono, rompo il violino e torno a casa, perché non dovrei mangiare tranquillamente coi miei?”. Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, avviene questa strage allucinante da film Horror. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, vengono sequestrate, violentate e seviziate da Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira. Donatella Colasanti sfugge alla morte miracolosamente, dopo aver subito le più atroci torture, simulando un finto decesso. Il delitto del Circeo, lo stupro brutale di due giovani proletarie da parte di tre fascisti dei Parioli, ha segnato un’epoca e ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso dello sdegno sociale e civile, imponendo la revisione del codice penale. La violenza sessuale non era, infatti, considerato ancora delitto contro la persona. (...)Una scelta in qualche misura masochistica, perché evidenzia i miei buchi di conoscenza e anche qualche errore di (sotto)valutazione che affiora oggi per la sopraggiunta disponibilità di materiali giudiziari e di archivio. Sono i rischi che si affrontano quando si ha l’ambizione di affrontare una materia immensa e quindi si decide di rinunciare agli approfondimenti da “studi monografici”. Io resto convinto che l’unico dovere deontologico, tanto per lo storico quanto per il cronista, è la ricerca della verità nella consapevolezza che nuove acquisizioni potranno sempre rimetterla in discussione. I mostri È andato crescendo negli anni il numero dei serial-killer e dei maniaci protagonisti di aberranti delitti a sfondo sessuale. Eppure, nell’immaginario collettivo, trent’anni dopo, i “mostri” per antonomasia restano gli autori del delitto del Circeo. Il 1° ottobre 1975 due ragazze di borgata, Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, sono brutalizzate e massacrate da tre pariolini e simpatizzanti di estrema destra, Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, nella villa di famiglia dei Guido. Dopo ore di sevizie inenarrabili, convinti che fossero morte, i tre le chiudono nel bagagliaio dell’auto dello stesso Guido. La Colasanti si è però finta morta e, richiamata l’attenzione dei passanti, li denuncia. Izzo e Guido vengono arrestati, Ghira no. In cerca di impunità Il processo, svolto in un clima di mobilitazione generale del movimento femminista, si conclude con la condanna all’ergastolo per i tre fascio-criminali. Anni dopo Izzo racconterà che il massacro era stato un incidente in una lunga catena di delitti. Solo nel ’95, dopo più di dieci anni di collaborazione, per farsi perdonare una “scappatella” penitenziaria si decide a ricostruire sette omicidi compiuti dalla banda, attribuendole un’inesistente finalità politica. Gli arrestati sono decisi a non pagarla: Guido conta sull’appoggio incondizionato di una famiglia ricca e potente. Tenta la via del risarcimento danni ma la Colasanti rifiuta sdegnata. Riesce comunque – simulando contrizione – a ottenere in appello le attenuanti generiche e la pena ridotta a trent’anni. Per il detenuto modello Guido, grazie ai soldi di papà (top manager della Bnl, affiliato alla P2, capace di corrompere guardie e funzionari pur di tirare fuori il figlio), evadere da San Gimignano è uno scherzo. La fuga è interrotta in Argentina ma c’è sempre modo di scappare per chi gode di potenti complicità, anche oltreoceano. I giudici che indagano sulla strage di Brescia vogliono sentirlo in carcere a Buenos Aires perché un pentito lo ha indicato come riscontro delle accuse contro Ferri. Guido evade prima della rogatoria internazionale ma dal fascicolo trasmesso a Brescia si scopre che un interrogatorio già fissato era stato rinviato su una finta richiesta dei giudici italiani. (...) Ugo Maria Tassinari (Stella Colombo)
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