#Chi non legge questo libro è un imbecille
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QUIZ DI MUSIL Se esistono diversi tipi di intelligenza, allora esistono anche diversi tipi di stupidità? La risposta è ovviamente positiva. Anzi, i tipi di stupidità sono molto più numerosi dei tipi di intelligenza. Il problema è determinare, nelle circostanze concrete, quale prevalga sull'altra. Baldesar Castiglione l'aveva capito benissimo. Infatti nel Cortegiano prosegue notando che proprio per questo motivo alcuni, i quali in un primo tempo erano stati considerati grandi esperti e ingegni acutissimi, si rivelano poi dei cretini e dei perfetti imbecilli. Facciamo un esempio. Sei esperto di un argomento e stai parlando con qualcuno che sa qualcosa di un'altra materia. Quello che dirà, tu non lo capirai, a causa della tua incompetenza, e dunque penserai che il tuo interlocutore sia stupido o pazzo. Lui, stai pure tranquillo, in base ai tuoi discorsi, se solo sai qualcosa che egli ignora, penserà lo stesso di te. E per di più si convincerà che sei tu l'ignorante e lo stolto, visto che non hai capito niente di quel che ti ha spiegato con tanta chiarezza.
La modernità ha creduto di superare il paradosso nella maniera più brillante. Ha pensato che fosse sufficiente riconoscere una competenza specifica sulle singole branche dell'esperienza, della tecnica e del sapere, per poi affidare la soluzione dei vari problemi agli esperti. Purtroppo l'invenzione degli esperti non ha segnato la fine della stupidità. Ha solo tenuto a battesimo il Cretino Specializzato. Il concetto verr�� ripreso in diverse occasioni, per esempio da Ennio Flaiano, nel suo Frasario essenziale per passare inosservati società (variazione sul tema flaubertiano del Dizionario dei luoghi comuni). «Oggi il cretino è specializzato». Come abbiamo già imparato, inoltre, al peggio non c'è limite. Lo conferma Edgar Morin. «La super-specializzazione produce super-imbecilli». Lo ribadisce Leonardo Sciascia: «Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile: ma ce ne sono». (Nero su nero)
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Oliviero Ponte Di Pino, Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, 1999¹; pp. 122-123.
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Scrivere come vivere
Per anni ho scritto solo per me stesso, per dare vita ad un'anima che non riuscivo a concepire di avere dentro di me. Tutte le mie azioni, il mio essere intero , si opponevano ad essa, con così tanto ardire che a volte erano in grado di metterla a tacere. Altre volte invece, spuntava fuori e allora, mi nascondevo in casa e dovevo scrivere, scrivere fino a che l'anima che aveva preso possesso di me, non si considerava soddisfatta. In un momento successivo ho cominciato a pubblicare quanto scrivevo ed il mio desiderio, non è più stato quello di nascondere ma è nata in me la voglia di condividere...
Quello che avete appena letto è lo spirito che ha mosso la mia passione ed il mio interesse per la scrittura. Dapprima un composto e silente battere i tasti e solo dopo, una spinta alla pubblicazione. Non ho mai scritto con la voglia di vendere le mie opere ma con quella di dare libertà alla mia mente. Mi si può contestare il fatto che io oggi venda quanto scrivo ma vi assicuro che questo, non è mai stato e non sarà mai il mio obiettivo primario. Tale premessa è necessaria poiché nell'articolo che state leggendo, parlerò di difficoltà economiche e di tutti quegli ostacoli che si incontrano nella strada che porta uno "scrittore per sé", a diventare un "produttore di storie" per gli altri. Cominciamo con il dire che tutti coloro che scrivono un libro con la finalità unica di vendere quanto mettono su carta, non sono a mio parere veri scrittori ma uomini e donne che tentano una via come tante per mettersi in mostra. Girando sul web, noto infatti che tutto ciò che hanno tra le mani è l'unica opera da loro prodotta, parlano e vogliono parlare solo ed unicamente della stessa, messaggi, post e commenti puntano in tutto e per tutto ad un pubblicità forzata del prodotto. Tradotto in termini semplici, non condividono altro che il contenuto interno all'opera in maniera limitata fermandosi il più delle volte alla sola copertina, sulla filosofia che tutto ciò che scrivono deve costituire un guadagno altrimenti è solo una perdita di tempo. Concezione che ben si sposa con il nostro ordinamento sociale votato al solo incasso. Da qui quindi spam, sconti e promozioni, richiesta di prove d'acquisto (pratica a mio avviso ancora più deprecabile in quanto altro non dimostra che la sola voglia di avere soldi e nessun amore per l'arte). Non solo, tali personalità, altro non fanno se non parlare di se stesse, utilizzare l'immagine come mezzo di vendita in una macchina che tende unicamente ad "ingannare" il lettore. In questo quadro quindi ben si colloca l'editoria a pagamento, opero una breve spiegazione per chi non conoscesse l'argomento. Recentemente, si è assisto ad un fenomeno a mio avviso ironicamente "strabiliante", del quale sono stato diretto testimone. Tutti noi, siamo convinti che i clienti degli editori, siano i lettori e che essi vogliano fornire quindi opere di qualità. Ebbene, da non troppo poco tempo questo non è più vero, questo spirito è morto nel seguente messaggio (ovviamente astratto, sintesi dei molti messaggi da me trovati): Vuoi pubblicare il tuo libro? Cerchi un editore? Inviaci il tuo manoscritto, ...... è la scelta giusta per te! Dove ai puntini sostituiamo il nome dell'editore. Che cosa accade quando mandiamo il nostro scritto? E' molto semplice, l'editore ci offre un contratto in cui noi, paghiamo per pubblicare la nostra opera, le cifre? Sono variabili, da pochi euro fino a somme ragguardevoli, il servizio che otteniamo? Un contratto nel quale l'editore si impegna a pubblicare, l'autore a comprarsi da solo un totale di copie del libro inoltre, all'autore viene corrisposto un pagamento alla vendita delle copie che varia dal 7 al 10% (quando va bene) del prezzo di copertina. A volte il pagamento avviene solo alla vendita di un numero stabilito di copie, per esempio almeno trecento. Altre volte invece, si promette la restituzione della somma investita per l'acquisto delle copie al raggiungimento di un totale di vendite. Il contratto promette interviste, pubblicità di ogni genere che in tutta onestà non fanno fede neanche lontanamente ad un vero e proprio meccanismo pubblicitario anzi, il più delle volte, sono costretto a dirlo, rappresentano un teatrino imbecille dove l'autore viene raggirato, intervistato per poi finire in una qualunque pagina internet o in un canale sconosciuto della Tv senza avere indietro la visibilità che ha pagato per avere. Altre volte, assurdo nell'assurdo, all'autore viene chiesto un pagamento per permettergli di partecipare a fiere e mostre dove dovrebbe promuovere il suo libro. Pagare per vendere, pagare per pubblicare, pagare per convertire in e-book, pagare per pubblicizzare, pagare sempre! Questo è il motto.
Quindi come notate, il cliente è l'autore, non il lettore. Questi editori, altro non fanno che prendere soldi per pubblicare opere che nemmeno valutano, opere che a volte a malapena leggono e di cui, a meno che non sia fornita direttamente dall'autore, creano una "copertina di laboratorio" con risultati spesso aberranti anche al solo guardarla. Il cliente diventa quindi l'autore che resta inconsapevole per lungo tempo sui risultati delle sue vendite, costretto a farsi pubblicità da solo senza sapere mai se la sua opera è realmente valida o meno. Costretto a vendersi da solo il libro, nonostante ci sia qualcuno che comunque guadagna del suo lavoro. Tutto fin qui potrebbe essere corretto in quanto, forzare la pubblicazione di qualcosa, dovrebbe quantomeno richiedere, a detta di molti, un qualche tipo di punizione. Ora però mettetevi nei panni di qualcuno che ha scritto uno o più libri, li ha fermi nel computer e vorrebbe farsi conoscere, cosa fare? Nessuno saprà mai se le nostre opere sono buone o meno e perché? E' semplice, per farle conoscere devi pubblicarle ma nessuno vuole pubblicare un autore sconosciuto. Se ti affidi all'editoria a pagamento, cadi in una trappola dalla quale non esci facilmente, se invii il tuo manoscritto, raramente sarà anche solo considerato, se lo stampi da solo, sei destinato a fallire, soprattutto oggi dove dovresti entrare in concorrenza con grandi case editrici, nomi altisonanti, insomma una concorrenza con la quale non puoi confrontarti con i tuoi mezzi. La strada a questo punto appare una sola ed è sempre stata la stessa: far giudicare a chi legge, non a chi vende, neanche a chi scrive ma solo ed unicamente ai lettori. Abbiamo oggi i social, uniti a piattaforme che ci permettono di pubblicare i nostri testi autonomamente e non solo, come dicono in molti, in versione e-book ma anche cartacea, dando libero sfogo all'arte di creare immagini e parole. I materiali, la qualità interna, non hanno nulla da invidiare ad una grande casa editrice, unica difficoltà? Far conoscere gli scritti, un autore deve in questo quadro trasformarsi, rappresentare una fonte continua di idee e di contenuti non a pagamento, non finalizzati a vendere ma con il solo scopo di intrattenere, di diffondere e far riflettere e anche di divertire i lettori. Da questo, a mio avviso occorre giudicare gli scritti, non da un prodotto a "scatola chiusa" ma da quanto un autore è in grado di scrivere quotidianamente, da quanto vi piacciono o meno le sue parole. Non lasciatevi guidare quindi da qualcuno ma giudicate voi stessi, se siete davanti ad una persona che vuole scrivere e che ama farlo, lo farò sempre, avrà sempre, ogni giorno parole ed idee da condividere, giudicate da questo, non dall'immagine, dalla semplice pubblicità, oggi abbiamo l'opportunità di valutare minuto per minuto, usiamola. In conclusione, voglio dire che vivere di sola scrittura è molto difficile, le percentuali di guadagno sono basse e saltuarie, anche se le piattaforme online offrono guadagni maggiori all'autore esse, restano sempre un grande dubbio. La vita di uno scrittore è quindi sempre legata alla generosità di chi legge, alla volontà di dargli credito e al suo impegno quotidiano per non deludere le aspettative.
A presto,
-Daniele Scopigno-
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Opinione: Il Libro di Talbott, di Chuck Palahniuk
A distanza di quattro anni dal suo ultimo romanzo, l'autore di Fight Club torna con un'opera spiazzante, ingegnosa, politicamente scorretta, in cui fa esattamente quello che gli riesce meglio: mettere alla berlina le assurdità della società contemporanea e smascherare le teorie complottiste che giacciono latenti nella psiche degli americani. Il passaparola scatta solo tra persone fidate. "Il Giorno dell'Aggiustamento sta arrivando." La gente fa circolare un misterioso libro nero-blu, una sorta di pamphlet profetico, memorizzandone le direttive rivoluzionarie. Messaggi radiofonici e televisivi, cartelloni pubblicitari e il web ripetono ossessivamente gli slogan di Talbott Reynolds: si avvicina il giorno della resa dei conti per la classe dirigente e le élite culturali. Una fantomatica Lista su internet – I Meno Amati d'America – identifica i bersagli. Il popolo non sarà più sacrificato alla nazione, il surplus di giovani maschi non verrà mandato al macello nell'ennesima guerra in Medio Oriente, ma a cadere saranno le teste di politici e giornalisti, professori e notabili – anzi, per la precisione, le loro orecchie. Sinistre. Con la Dichiarazione di Interdipendenza, gli ex Stati Uniti vengono ridefiniti secondo criteri razziali, e la popolazione ridistribuita in base al colore della pelle e alle preferenze sessuali. Il simile con il simile, nei tre nuovi stati-nazione di Caucasia, Blacktopia e Gaysia. Non che tutto fili liscio in questa America post apocalittica, intendiamoci…
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Adoro Palahniuk e appena ho notato questa traduzione italiana con una data di pubblicazione vicinissima, mi sono elettrizzata! Ero felicissima di poter leggere altro di questo autore incredibilmente folle. Devo un enorme ringraziamento alla Mondadori che mi ha permesso di leggerlo in anteprima. Avevo già preordinato il cartaceo ad inizio gennaio, ma ho provato a chiedere ugualmente e mi hanno mandato il digitale, così da riuscire anche a parlarvene per la sua pubblicazione. Ovvero oggi! Ormai mi manca solo il libro fisico (e spero arrivi presto), perché è riuscito a coinvolgermi nell'ennesima incredibile storia che devo avere assolutamente sulla mensola insieme agli altri volumi. A differenza di tanti altri suoi romanzi questo ha parecchie voci protagoniste che danno una versione corale della storia. Inizialmente la rende un po' difficile, perché stacca continuamente fra situazioni diverse e ci vuole un po' per capire chi stia parlando, dove e quando, e (conoscendo l'autore) se saranno presenti per tutto il romanzo o solo in alcune scene. Eppure devono esserci tanti protagonisti per la vastità della storia che coinvolge molte varietà di razza, sesso e preferenze sessuali. Ognuna che deve essere rappresentata attraverso qualcuno o più d'uno, dandoci l'opportunità di valutare ciò che succede, mano a mano che la storia procede. Un romanzo dalle tinte attuali, che riesce a fare breccia per la sua incredibile follia che ha aspetti fin troppo realistici, che potrebbero diventare attuabili come niente. Una tematica che tratta spesso nelle sue opere, portando e forzando la mano immaginando scenari così assurdi da sembrare irreali, eppure allo stesso tempo così possibili e facilmente realizzabili da mettere paura (e chiedersi come mai l'essere umano sia così imbecille dal rischiare l'autodistruzione per un appagamento personale). Si parla del Giorno Dell'Aggiustamento. Qualcosa che passa di bocca in bocca, sussurrato e che viene tramandato quasi di nascosto; chi ci crede vive questo lato nell'oscurità, passando parola, reclutando solo persone fidate, e preparandosi a dare il meglio di se durante quella giornata, mentre il resto del mondo ride su questa ipotetica data che darà inizio ad un cambiamento della società per come la conosciamo. Non si parla di una lista, ma si parla de La Lista. L'unica ed importante, nella quale i nomi più votati corrono un rischio davvero forte di essere uccisi quando scatterà l'ora. Presa come un gioco da troppi, alcuni tirano sospiri di sollievo quando il loro nome scompare, mentre per altri resta una buffonata ideata da chi deve trovare uno sfogo verso i politici, la stampa, gli insegnanti o chiunque abbia del potere. Si svolge tutto in America. È delirante, folle, inquietante. Eppure più andiamo avanti nella storia e più tutto questo assume dei toni sempre più assurdi, ma reali. Scappando persino di mano persino a chi lo ha creato. Palahniuk riesce a creare l'ennesima realtà in cui i peggiori istinti umani hanno il sopravvento e tutto il resto viene devastato da questa ondata di maschilismo, razzismo, omofobia,...e idiozia profonda, mescolata alla rabbia covata da chi non è stato in grado di creare niente della sua vita e trova in tutto ciò una scappatoia. L'autore riesce anche a dare un senso all'insoddisfazione creata da questa fascia maschile giovane che si prepara ad affrontare l'Aggiustamento, regalando la scusante che sarebbero stati comunque mandati a morire nell'ennesima guerra inutile ed inventata solo per far fuori la maggior parte di quella fetta della popolazione del paese. Cinico e provocatorio, presenta tutto questo come inevitabile e regalando questa scappatoia a cui si aggregano più che volentieri per poter sopravvivere e ricreare da capo il sistema americano, questa volta a modo loro. Anzi, secondo le regole di Talbott che hanno abbracciato totalmente. Offre parecchi spunti di riflessione, perché parla molti argomenti dall'aria interessante mescolati a frasi fatte, semplicistiche, che accalappiano la folla in modo incredibilmente facile (suona familiare? Lo viviamo già, infatti mette paura anche a tantissime persone nel quotidiano). Espone spiegazioni a fatti più complessi e banalità, il tutto che fa quasi esplodere il cervello di chi legge perché si tenta di trovare una logica, se c'è, in tutto questo; oppure di smontare il solito complotto creato dal nulla su cui ci si ricama sopra. Un gioco di specchi in cui risulta davvero difficile credere che così tanti abbiano abboccato così facilmente, quando basterebbe una lettura meno "invasata" per comprendere che si viene presi in giro e c'è qualcosa che non quadra molto. Resta sempre incredibile, alla fine del romanzo, quando il cerchio si chiude e si scopre come è stato creato il tutto, come basti davvero pochissimo per dare vita a qualcosa che spesso non si può più fermare, una sorta di effetto domino che spinta la prima casellina, non si riuscirà ad arrestare. Queste parti sono frammentate durante la lettura, ma solo verso (appunto) la fine si riuscirà a comprendere realmente come sia nato, abbia avuto una spinta e poi l'ingranaggio abbia continuato a girare. Una piccolezza che mi ha fatto ridere: Palahniuk cita se stesso e il suo primo romanzo Fight Club un paio di volte. Non vi dirò se in adorazione o smontandosi, ma lo trovo quasi geniale. Non citerà solo se stesso, ma tanti altri personaggi famosi. Dovrete solo leggere per scoprire chi, come e perché. Non arrivo alle 5 stelle piene perché alcuni passaggi verso la fine non li ho compresi, e vorrei confrontarmi con qualcuno che lo leggerà (io ci spero davvero) così da paragonare le idee e capire cosa abbia voluto dire l'autore: se l'ennesima presa in giro e provocazione, oppure altro. Mi è piaciuto davvero tanto, nonostante ho notato l'opinione (di chi lo ha già letto all'estero) che lascia una media del tre stelle. Sono di parte, adoro lo stile, gli argomenti, il coraggio di Palahniuk nel buttarsi e raccontarci qualcosa totalmente fuori dalle righe in modo impensabile ma coerente con la natura umana. Se vi piace, fateci un pensiero serio perché, per me, è davvero bello! from Blogger http://bit.ly/2SfsLMq via IFTTT
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Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento
“Attenzione, sozzi professionisti fascisti dopo il delitto Matteotti e antifascisti dopo la morte di Mussolini, […] turpi spie del governo fascista (e di tutti i governi), vecchi sporcaccioni cornuti fino al midollo della vostra fronte sfrontata, attenzione, c’è sempre qualcosa (anzi c’è sempre tutto!) che il vostro cervello privo di immaginazione, con la vostra fantasia da elefanti, col vostro cuore ateo, con la vostra cultura inesistente e con quella vostra erudizione, che persino il genio di Manzoni non sarebbe riuscito a percepire, attenzione… c’è sempre qualcosa, per tutti, e anche per voi ci sarà… prima e dopo la morte! […] Voi […] non andrete né in Paradiso né in Purgatorio… qui, in questa terra brucerete, come si brucia all’inferno e poi, dopo, come avete fatto nella vita, non saprete nulla, non soffrirete, avrete un solo ricordo: quello di far schifo ai vivi.”
Parole di fuoco di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento, le cui pagine si possono forse riassumere in un distico – “Vorrei tu mi armassi la mano / per incendiare il piano padano” – che sembra saltare fuori direttamente da una ruvida salmodia dei C.C.C.P., il gruppo punk di Giovanni Lindo Ferretti – e curiosamente, rarità per il poeta, il tu cui si rivolge è il Signore – e salta invece fuori da un colpo di macchina da scrivere, o di penna impugnata, con la mano sinistra, come un revolver – due oggetti d’acciaio, due cose solide, per dirla con Fuoco fatuo – in una stanza modenese, anno 1958, di grazia, o disgrazia, che è quella che sente Delfini, e la frizione sulla carta deve aver prodotto non faville ma fiamme, quel giorno…
Niente padre, infanzia agiata, bisnonna naturale Marietta Pio di Savoia – “che abita vicino a Crevalcore, ma dentro i confini del ducato di Modena”, specificava –, figura snella ed elegante, calvizie precoce – come questo terzetto da amare: Oswald Spengler, Pierre Drieu La Rochelle, Henry Miller –, umore malinconico, indolente e rivoltoso (“tifiamo / tifiamo rivolta / nell’era democratica / simmetriche luci gialle e luoghi di concentrazione / nell’era democratica / strade lucide di pioggia splende il sole” – cantava Ferretti), non è andato a scuola e non ha letto i classici, spirito agonico e quasi agonistico, che infatti si voleva atleta ma prevalse il dandy baudelairiano, “funereo” – scrive Marcello Fais che ha curato il volume delle poesie complete per Einaudi –, il passo dondolante del nullafacente o, per meglio dire, di chi non sapeva davvero cosa fare e visse – parole queste dello stesso Delfini sugli anni trascorsi tra la sua Emilia e Firenze –, con “la paura di non arrivare in tempo a vivere, di non sposarmi, di non avere figli, di non vivere una vita dignitosa”; e per la scrittura.
“Al di qua di ogni letteratura” era la scrittura di Delfini, poesia centellinata ma debordante, esito del sentire saturnino delle antenne più dritte sulla sventura che si chiama Italia e che la sciagurata Italia abbia avuto assieme forse a Giuseppe Berto e Pasolini.
La sventura di Modena, di Parma, di Bologna, di Ferrara, “(la quale – ove la storia d’Italia fosse andata diversamente con minor nume rodi avventurieri stranieri e più amore, competenza e lealtà per le cose proprie – potrebbe essere oggi la capitale d’Italia)”.
La disgrazia di tutta la penisola, “Italia, mia patria assassinata”, scrive Delfini, che per la sua terra sognava, come alternativa più ovvia alla più romantica Ferrara, Reggio Emilia capitale, perché città in cui fu inventato il tricolore della Repubblica Cisaplina.
“Sarai d’Italia capitale / perdere Roma sarà poco male”, recita infatti un altro distico letale, nella poesia di È morta la reazione; Roma capitale di una società sempre più inumana, “l’inumanesimo italiano”, come lo definisce il poeta in rottura col disumano:
“Ma ciò che io combatto e col quale intendo rompere ogni rapporto è il disumano. Intendo per inumano ciò che è contrario all’uomo, che non essendo più imano è tuttavia incluso nell’umano. Insomma l’inumano è un uomo che finisce, o può finire, all’inferno. Il disumano è in vece ciò che è fuori dall’umano […]. In poche parole: è il diavolo. Il disumano può circolare fra noi, per via della nuova moda italiana dell’inumanesimo. Il disumano può circolare, ripeto, travestito da essere umano; può circolare, però soprattutto, nell’aria, nelle parole, negli oggetti, nel disegno degli architetti, nei frutti degli speculatori inumani […]; quando le donne che incontriamo non sono più né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde […]; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti.”
E stando a Delfini il disumano è il diavolo che tenta di vincere, e che in Italia ci riesce almeno dal 1935:
“Tornava fuori, nel 1935, il carattere sozzo, strozzinesco e delinquenziale di gran parte di quegli italiani cittadini che, falsi innamorati della vita, e consci della loro povertà senza America, intendono comechessia farsi la vita e l’avvenire col bagno, l’automobile, le troie e i gioielli. Questo gusto da sciacalli, più che da lupi da tigri e da leoni, gli italiani ce l’hanno nelle ossa fin dai momenti migliori della grandezza di Roma, affinato con le invasioni dei barbari, diventato costituzionale con la servitù allo straniero, portato al delirio fanatico degli alti ideali col fascismo, e caduto in un puzzo graveolento da rendere irrespirabile lo stesso dolce clima dell’Italia, proprio ora, nel momento in cui i migliori, i pochi italiani, attendono con ansia l’inizio (soltanto l’inizio) di una resurrezione del senso morale e artistico della Patria”.
Delfini amava e odiava l’Italia, la detestava in modo viscerale perché avrebbe voluto poterla amare, cosa impossibile a simili condizioni, lui, scettico alla Cavalcanti, alla Pound, prossimo a Cervantes e Rimbaud, a Unamuno e Campana, e che in sé voleva “Napoleone, Bach Manzoni, Leopardi, Cavalcanti, Machiavelli, Goldoni…”, per possedere davvero una visione totale. Ma che si sentiva sfiduciato, disorientato di fronte alla realtà, seppur solidamente agguerrito, membro con Zavattini e Guareschi, di una mai vista brigata del risveglio padano, lui, un po’ comunista, conservatore e reazionario, certo non in senso latino, mussoliniano, né progressista né rivoluzionario, di sicuro ribelle disimpegnato che fece del disimpegno il suo vero impegno.
Le sue uniche vere lotte civili, a parte un tentativo di candidarsi nelle liste di Unità popolare, solo in funzione antagonista alla legge maggioritaria che per lui evocava ciò di cui non ne voleva più sapere – ossia il fascismo –, furono infatti la fondazione tra Viareggio e Bologna, tra il 1927 e il 1929, di un paio di periodici indipendenti, come recita il sottotitolo de Il Liberale, immediatamente soppressi dai fascisti, ma soprattutto la battaglia, tutta sua, donchisciottesca e di campanile, per la Certosa di Nonantola…
Non ha letto i classici, Delfini. È come spesso gli capita a Viareggio, lui che sempre bazzicò il quartiere Marco Polo, il Forte dei Marmi, il Fiumetto, la Versilia ancora dei letterati… Passeggia con un amico, che gli racconta che la Certosa resa famosa dal romanzo di Stendhal, che non ha mai letto, non è a Parma, bensì a Modena… Non ha letto i classici, Delfini. S’incuriosisce, ma, annoiato, si ferma a pagina trenta del libro di Stendhal, e che desidera è solo di dimostrare che la certosa era quella di Nontantola…
Da qui l’ultima opera, uscita nel 1963, poco prima della morte, Modena 1831, la città della Chartreuse.
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Baudelaire padano, Delfini è il più grande lirico dopo Campana, è poeta senza l’ombra di un epigono, campanilista figlio di una depressione ambientale – ovvero la pianura –, di una terra di gente pragmatica e sognatrice, ruvida e molle, indolente, contadina e insieme aristocratica, calma ma anche subito pronta alle ebbrezze, ad allentare i freni inibitori, come nel suo stesso cantare, secco, carico, teso, a volte dolce, a volte delatorio, spesso prossimo a un turpiloquio in cui il manierismo si fa stile “céliniano”…
Una poesia lirica, con spunti stilnovisti, romantici e crepuscolari, dadaisti, certo, ma di un “dada” che è tutto assolutamente emiliano, e che non poteva che esser “Mamama”, e “Mamama non polemizza: provoca. Mamama non ingiunge: disguida”, e che non può che produrre sillogismi pazzi qu anto lucidi, tipo: “Che cos’è la patria? La patria è un villaggio. Che cos’è un villaggio? Un agglomerato di imbecilli. Che cos’è un imbecille? Un uomo che può vivere nel villaggio e non può leggere Mamama”… Voilà!
Una poesia spesso sghemba e sgrammaticata, non da accademia ma da bettola, fatta per offendere, per perturbare, per distruggere ma anche per amare, l’amore rivolto a una donna sognata più spesso che a una reale, o alla patria (in Avvertimento, avverte di essere “lo straniero”), lui che si sente ormai apolide (un po’ come Papini, come Gadda, come Montale), ma sanguigno di un sangue che sente le proprie radici anche nelle flânerie incessanti, non solo nelle città ma tra le città emiliane, versiliane, e Firenze, e Roma.
Una poesia di passeggiatore; quale era da ragazzo incantato dal francese; una lingua in cui gli capita di scrivere versi (“On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Emilie” – “Je suis un poète flâneur et débauché / je tiens mon poing en air”); e di dandy indolente (“È bene scrivere sempre / così si dice, / ma è tanto bello dormire”); e di girovago ozioso (“Quando verrà quel giorno / tanto desiderato / nella mia vita oziosa”); e a volte sonnolento, “disteso sul letto a immaginare speranze” e “talmente fissato in una tragica svagatezza”; come nella pesante delusione che fu Firenze; fuggiasco nel silenzio; esule della solitudine. E che in prosa ha sognato: “potessi partire, ma partire come non è mai partito nessuno, andarsene senza un addio, senza un ricordo”. E che in poesia ha ribadito: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’oblio / altri fiumi, altri cieli, altri monti, / non diranno che cosa ero io”.
Ovvie le fughe rimbaudiane. Ovvia una scappata a Parigi. Da cui a Modena finge d’importare il surrealismo, Modena in cui vive la sua bohème (“Mi ero lasciato trascinare in minimi e ingenui bagordi da una compagnia di giovinastri rumorosi e goderecci, coi quali correvo letteralmente le strade, le piazze e i teatri” – “mi permettevo di creare satire ai costumi del tempo, figurate e verbali, di una tale comicità, improvvisate sulla pubblica via in qualunque ora del giorno e della notte”), in cui è “snervato da una vita ignobile e eccitato dai vini e liquori”, facendo “esperienze di vita, sofferte e godute di mia sola iniziativa”, esperienze originali e complicate, le quali lo distinguono dai suoi “compagni di trastulli notturni che definisce con sprezzo fats de café…
Era il 1933 circa. E Delfini non gridava solamente gli ovvi “Viva la figa!” e “Viva le tagliatelle!” ma anche “Abbasso il Duce!”. Erano i tempi di Ritorno in città, autoedizione di successo, ma anche di progetti di amori e pure di matrimoni. Ma nulla di fatto.
Da lì in poi, il poeta inizia ad assumere l’aria di un Petrarca allucinato che non riesce, o meglio non può trovare, in quella Italia che lo ripugna e che si rispecchia nelle donne, una Laura o una sposa (“le spose che sognai son morte”), la donna, la femmina che sia una musa, (“con la storia dei miei amori sapevo di non avere un avvenire di amante come si rispetti (era fallito in me l’amante mio originale, un tipo che stava tra Leopardi e D’Annunzio)”), vittima degli orrori di un paese ormai semprepiù allucinante.
Erano i tempi della sua Modena, di idee di libri, di abbozzi di racconti e di versi, dei quali scriverà poi: “A ripensarci dico che se avessi allora tenuto un journal non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l’estro di creare, quei veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli. Nei momenti di riposo di quella vita veramente intensa e attenta scrivevo delle frasi sui biglietti del tram e del cinema, sulle scatole dei fiammiferi e delle sigarette: li conservavo.” Per lo scrittore sono anni di fermentazione…
E anni di spettri della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, rivolta e inerzia, voluntas e noluntas, e fuga…
Un tema che davvero merita lunga una serie di citazioni: “Povero ragazzo / pieno di fantasie / verso la scuola arida e perduta // E tra la nebbia / ombra indecisa / guardavo avanti // chissà fin dove / chissà fin dove guardavo mai // Malinconia /di una ribellione / che vuol durare ancora // E ritornavo a casa / gonfio di niente // Poi mi affacciavo / a riguardare / dalla finestra del solaio / giù nel cortile buio / l’invisibile andare della gente / il muto ricordo del mare / me naufragante nel pantano” (Lo spettro dell’infanzia); “Potessi un giorno / camminare da solo / ma solo solo / non come vado adesso / solo / ma solo solo / senza me stesso” (Non ho volontà); “Voglio andar via / anima mia / Solo per il mondo / ch’è piccolo e senza fine / m’illuderò di perdermi / E sarò sempre solo / La gente non fa compagna” (Itinerario – I); “Ma un giorno me ne andrò / limpido e solenne / per la mia strada muta” (Itinerario – II); “Voglio scappare / come una sera d’estate / quando pensavo di andare” (Esasperante!); “Chissà che cosa avrei fatto / chissà quanti amori / chissà quanti denari” (idem); “Penso ancora di andare andare / non so dove non so come non so quando / penso di partire morire e partire” (idem); “Non venite con me / ché sono solo / E andar coi solitari / è come andar di notte / per le strade senza luce” (Avvertimento).
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La voglia di scappare corrisponde in Delfini a quella sprezzante di distruggere, uccidere, appiccare il fuoco.
Una voglia di fuga, da parte del futuro poeta, che corrisponde alla realtà della sua vita quotidiana, fatta di spleen, e di una bohème un poco stantia in quella che descrive come “un’immensa pianura / CITTÀ invecchiate / donne abbandonate / amori consumati / nel tedio e nell’attesa / FANALI e lunghe strade / cortei – fanfare / olimpici richiami / il mare il mare / […] / la città – la torre / le campane / le bimbe della messa / i vicoli bui / un solitario / la lampada sul tavolo / penso a cose strane / (forse alle puttane)”.
Una realtà che gli starà sempre stretta, sotto il fascismo come nel dopoguerra in un paese nel quale sotto i colpi di presidenti, segretari, ministri, giudici, già si sta disfando l’antico mondo della provincia… “Il tribunale democristiano del demonio / mi ha rotto il focolare antico / Sia maledetto colui ch’è magistrato / sia maledetto il mio più grande amico”.
Delfini si proclama “giudice supremo / di questa vasta vita / senza freno e senza vita” e la poesia è la sua arma individuale: “Sian maledetti tutti gli avvocati / figliati dal lucertole e lombrichi / Sian maledetti i vuoti vasi cervellotici / dei lustri ministri servitori / di lontane terre e avidi ladri / delle nostre terre e portatori / di mestizia disperazione e follia”.
Sa sintetizzare in poesie di quattro versi, senza titolo, e in fulminanti distici, tutta la sua visione anarcoide: “Né laico, né prete / intendo votare”; e: “Sporca la scheda, / lasciala bianca”. Scrive d’altronde nel primo verso di Sega gli alberi, titolo che rieccheggia senza saperlo la Deuxième élégie XXX di Charles Péguy: “L’eterno inferno è il governo”.
Il disgusto verso i politici e l’Italia lo riversa anche sulle donne, che ne sono lo specchio sensuale: “È la gran moda democristiana: / restare vergine e far la puttana”. Un disgusto che nei versi de Le ragazze del mondo borghese diventa puro desiderio d’insozzarle: “avrete la merda sulle gonne: / non al presente, ma nel ricordo”… “La figlia del miliardario / regina delle ladre / quando si fa chiavare / lo fa nel letto di suo padre / Ha l’inferno nel cuore / ma il cuore no n ce l’ha / resta che ha l’inferno / altro di umano non ha”. E il suo proclama politico è tutto baudelairiano: “Monarchico anafilattico, / allergico repubblicano, / idiosincratico socialdemocratico. / Rimasto son solo, / ho preso lo scolo: / Non voterò!” L’ironia dadaista si fa sempre più acida e feroce.
“Invasione, fallimenti / bombeatomiche, tormenti / fame, preti, seghemezze / tutte queste son pagliuzze. // Peste, rogne, inondazioni, / influenze, insurrezioni / spie, fascisti, partigiani, / delinquenti, e battipani // Tutto meglio all’ingiunzione / del coacervo liberale / che ti manda l’ufficiale / a pigliar la tua magione.” L’oggetto dei suoi assalti poetici sono mercanti, finanzieri e banchieri (“Sacerdoti del pareggio / con la banca dello strozzo”), democristiani, borghesi, modernisti e progressisti, procuratori e questori, governatori e dottori, ingegneri e cocchieri, fascisti, liberali, deficienti, comunisti, radicali, cornuti e finocchi, viriloidi e lesbiche, spie e delinquenti, ministri (“[…] ministri Saltinbocca e Mozzarella / e ‘l loro degno presidente Tarantella”) e avvocati (“Caro avvocato sadico e ristretto / dal sudicio sguardo da strozzino / hai una figlia che non ho mai visto / […] / stai attento: tua figlia verrà uccisa” – “Caro avvocato guarda bene / la moglie tua verrà insultata / da quattro sante prostitute / e davanti a te saran sapute / di tutte le ordure di gioventù” – “a Bologna, a Modena, a Milano / e c’è l’illustre castrato / generale avvocato di culano / che quando parla tiene in mano / un finto cazzo levigato”). E sogna una qualche rivolta né fascista né antifascista, né comunista né anticomunista, né filosovietica né filoamericana (Delfini scrisse tra l’altro un Manifesto per un partito conservatore e comunista, che sarebbe dovuto nascere nelle capitali degli stati d’Italia, contro l’unità mitizzata dal Risorgimento piemontese, le riforme agrarie e i grandi affaristi del capitalismo, e fondato sulla proprietà terriera, negli interessi di contadini e operai, ai tempi ancora cari alla sinistra). E sogna ironiche punizioni, castigando in versi gli appartenenti ai partiti di quella che oggi è chiamata prima repubblica (rispettivamente i democristiani con olio di ricino se di sinistra, con vino democristiano se di destra, con acqua del Meridione se di centro, e i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici con la Coca-Cola, i liberali col Cynar, i radiali e i repubblicani con la Corona, non intesa come birra bensì come monarchia, e i monarchici con l’edera dello stesso P.R.I.).
L’amarezza e disincanto che prova rispetto alla patria non vale soltanto per le donne ma anche per gli amici:
“Molto più bello, più intelligente, più ricco e più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione. Né geloso, né ambizioso, […] mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto […]: una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta.
Mentre scrivo continua questa brutta storia. La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; tal’altra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono. Poiché il basso verso il quale scivolo, non è che un elevatissimo altipiano: mentre alle loro spalle, di sulle vette dalle quali par che mirino altezzosi, coi loro sguardi annoiati e incomprensibili, li attende il baratro)”.
E l’amarezza e il disincanto che prova per donne e amici è uguale a quello verso gli intellettuali in Versilia: “Dopo una giornata con gli scrittori, non mi riusciva nemmeno di leggere. Passavo momenti in cui desideravo veramente uccidere. Pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io. Avevo una naturale simpatia per uno solo di loro” – “Parlare di quegli svariati e uniformi gruppi mondani che dovetti conoscere e frequentare mio malgrado, mi fa avere ancora oggi un senso di smarrimento della mia personalità, come se avessi vissuto e continuassi a vivere in una perenne vergogna morale”.
Nel 1935 si è trasferito a Firenze proprio per poter frequentare il mondo degli intellettuali, ma ne è deluso.
Vive “l’agonia dello spirito” e ha voglia tornare a casa, rendendosi però conto di non poterlo più fare, come confesserà poi nella splendida introduzione a Il ricordo della basca.
Si sente “un borghese sulla via della delusione” che ammette l’inanità (“non sapevo veramente che cosa fare”), legge Stendhal, “una disgrazia”, e, appena può, fugge a Bologna.
A Firenze non riesce davvero a vivere (“la sprecata vita letteraria dell’inverno fiorentino”), per cui torna continuamente a Parma e a Modena, che ritrova solo allora, ora che se n’è andato via, e così, attraverso quella distanza, la città diventa quasi irreale… E spesso a Bologna, dove si reca per seguire le orme di Stendhal, ripercorre, perdendosi, le strade di Campana (“mi perdevo […] negli itinerari di Dino Campana”), girando fino alle due, fine alle tre del mattino per poi tornare a Firenze col primo treno…
*
“Come salivo su quel treno che proviene da Verona, va a Bologna passando per dolci sinuosi paesi come Camposanto, San Giovanni in Persiceto e Crevalcore […], come salivo su quel treno andavo ripensando di un giorno lontano, di un ottobre solare, di un giorno semplice, senza visioni particolari, senza tenebre, chiaro e disadorno, pieno del rieccheggiamento di echi famigliari che ogni strada e ogni piazza che avevo attraversa, mi rimandavano avvolgendomi in un mantello morbido e sottile combinato di un tessuto fatto di aria, di luce, e profumato delle vaghezze autunnali, dei prati e dell’uva matura, filtrate attraverso le porte della città, dei vicoli, delle piazzette rinchiuse. Ricordo di raggi di luce di un oro tenue e leggero che andava a consolidarsisui muri del Palazzo Ducale, sulla chiesa di San Bartolomeo, sullo sfondo del Corso Reale. Era un giorno lontano…”
Nasce così il suo capolavoro, Il ricordo della Basca, volume di novelle in prosa decisamente poetica, baudelairiana, che “fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia”, Lischi di Pisa.
Opera che ripercorrerà, verso la metà degli anni ’50, quando, a Roma, scriverà l’introduzione, traccia di un lavorio che culmina nel gioco di specchi tra questa piccola autobiografia e le poesie della fase che segue il 1958.
La scrittura di Delfini si fa allora tentativo di ricostruire, dai ricordi, le connessioni di avvenimenti non solo personali ma anche nazionali, con un senso apocalittico di fine del mondo, e infatti nel febbraio 1959 annota di voler tentare “l’anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere”, tra memorie, rimorsi, visioni, fine di speranze e brame d’assassinio, identificando e minacciando i colpevoli, come Pasolini, prima di Pasolini, più di Pasolini.
La sua malattia è stata quella di partire, per Firenze prima e per Roma poi, perché l’Emilia la lasciava malvolentieri, e i suoi ritorni “dalla stazione Termini alla stazione di Modena, erano sempre stati accompagnati da una grande euforia, da una pienezza di propositi e da una sconfinata gioia di vivere”, e la ragione è presto svelata: “Fra parentesi dichiaro il mio odio per tutti coloro che per Roma o da Roma hanno voluto, contro di me e contro molti altri italiani, gettare il seme dell’avvilimento sul mio – sul nostro – sentimento orgoglioso di non essere nati a Roma, di non vivere a Roma, e sulla mia – nostra – impressione che a Roma, e soltanto a Roma, si trovi quella data forma di vita che gli avvilitori di questo secolo chiamano provincia e provincialismo.”
La capitale lo farà ammalare del pregiudizio o complesso del provincialismo che ammorba gli intellettuali:
“Certo che se non avessi conosciuto degli intellettuali, e li avessi frequentati ancor meno di quanto li avessi frequentati fin allora, non sarei partito per Roma. Perché partire per Roma significava sottomettermi a una specie di complesso di inferiorità, che gli intellettuali mi avevano rivelato, e col quale non seppi giocare disinvoltamente a pallino. Era il loro complesso di inferiorità, e, par delicatesse, finsi di esserne anch’io infettato. […] Il complesso di inferiorità si chiamava (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali […] ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia.”
A Roma il poeta padano troverà infatti solo intellettuali che definisce con sprezzo, in francese, assommants, ossia che tendono a umiliarlo (“come se fossi un vecchio socialista, che delinquenti squadristi si fossero portati in giro dileggiando”), ad annullarlo (“Non ero più nessuno. Ero stato raccolto, spremuto per quel che valevo materialmente, e gettato via”), e a renderlo quindi inerte, lui che, senza studi e laurea, era partito come se dialogare con Cardarelli e Bacchelli in terra padana valesse meno che farlo a Firenze oppure col D’Annunzio, di cui ricordava una grottesca adorazione nella sua Modena: “Camerati, non dimentichiamo Gabriele d’Annunzio. Per il Condottiero eja! eja! Eja!”, e “Alalà!”, gli rispondeva oscenamente il coro dei fascisti.
La sua Modena non poteva dunque esser quella del fascismo, bensì una città medievale e baudelairiana, sfumata nella nebbia e ricolma di strane figure: romantiche se in accordo con tale identità; grottesche quanto figlie del regime italico…
Modena di modiste e marchesi, di puttane e puttanieri, di mariti che scompaiono nel nulla, mogli e amanti, signore impiumate e sculettanti, vecchi maestri soli e con la paura della morte, e Felice e suo fratello uscito di prigione, condannato a tre anni per truffa, i quali, in due, soddisfano la stessa donna, fino alla rovina, senza dimenticare – e come si potrebbe mai farlo? – “l’indimenticabile dandy” – la nitida proiezione di Delfini – che frequenta pittori, scrittori, giornalisti e famiglie bene, giocatore d’azzardo, spendaccione e dongiovanni che si proclama “scrittore e contrabbandiere, ricco e fortunato, brillante e famoso […] per farvi crepare di rabbia, gente impacciata cattiva pettegola paurosa e senza stile”, per prendere le distanze dalla gente – “gente […] moscia, gnaulante e ottusa” – “gente senza poesia” – “siete della merda” – gente di Modena, tra la quale c’è tuttavia anche la deliziosa apparizione della “diciottenne saltellante ed allegra Gina che coi suoi occhi neri, capelli bruni, le anche entusiaste, le gambe lunghe e tornite, già si era resa famosa in città pur preservando la sua purezza di fanciulla. Sotto il Portico del Collegio, durante i rumorosi e affollati andarivieni del mezzogiorno domenicale, era un fiorire di elogi detti grassamente in dialetto all’indirizzo della bella Gina, la quale, nella sua inavvertita solitudine passava più volte sotto quei frizzi e sotto quegli sguardi, lieta e confusa, col cuore imaginosamente pieno di un luminoso e rombante avvenire che le si presentava caoticamente con giovanile sicurezza. […] Già qualcuno l’aveva fermata, la domenica, nella stretta via di San Michele, mentre ella volgeva verso casa. Il più svelto di tutti, il Marchesino B., l’aveva palpata ben bene mentre lei ridendo cercava di liberarsi per salire presto in casa ancor timorosa che il fratello non la redarguisse”, e poi ancora, in campagna, la romanticissima ballata di un fidanzato, Teodoro, partito a cavallo da un paesino della zona incolta della pianura per andare dalla sua amata, che vive in una villa a cento chilometri e che vuol sposare per avere una famiglia, più che l’amore, dopo avere avuto tante ragazze da cui veniva infine sempre disgustato; perché i due: “Avevano in comune, e ne gioivano tacitamente, quell’educazione che non insegna e che non fu insegnata, dote somma che lascia talvolta all’uomo la libertà di sentirsi vicino a Dio”; e ora sogna: “Andremo a letto, e dormiremo, ché ne abbiamo bisogno, poiché sono trentacinque anni che non dormo, e lei trent’anni. E ogni volta che ci addormenteremo, diremo che non ci sveglieremo più per l’eternità. E quando ci saranno i bambini, anche i bambini diranno così con noi. […] Quello che facciamo noi è la cosa più antica e più rara della terra: l’amore. C’è una società che ha reso questa parola ridicola. E noi ne siamo felici, perché il nostro amore è ridicolo, noto antico, sorpassato, ma unico perché solamente te ed io lo conosciamo…”; e lei uguale;
*
E poi c’è la basca che dà il titolo a una novella e alla raccolta, testo che qui resta implicito e se ne riempiono i margini, perché non può esser riassunto o accennato, ma letto.
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A Modena, ricorda lo scrittore, gli facevano i complimenti nel 1935, quando non aveva pubblicato un bel niente, non una critica non un premio non un ministro ammazzato.
E poi, anni dopo, uscito Il ricordo della basca, silenzio, indifferenza, disprezzo, a dispetto del suo amore per la città (“Duomo torre e casa mia / voglio con te andar via”, scrive in un altro distico, della poesia Non c’è niente da fare), delle sue evocazioni del passato nel presente (“Tempo in cui le mura della città erano ancora intatte, e poche case sparse picchiettavano la solitudine della pianura”), come in un sogno, “confusa nella nebbia della pianura”, come nel sonno che spesso avvolge la campagna circostante, “il sonno dei campi sotto il sole”, il cui il ricordo della basca, figlia di una terra regionalista, si fa insomma ricordo di “quella parte della pianura, chiamata la Bassa, la cui vegetazione rigogliosa, coi campi simmetricamente divisi da lunghi filari di alti alberi vitati, e di tanto in tanto cosparsi da pioppe cipressine, dà l’idea di un’enorme infinita città signorile, mai apparsa e mai distrutta”, terra di stradine, alberi, campanili, e di malinconie.
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Lo s’immagini e ricordi a guardare fuori attraverso i vetri di un caffè, senza poter vedere il colonnato dei portici medievali, velato dalla nebbia, a pensare alla morte… Perché per i poeti: “L’unica via possibile è la morte”. Perché veramente: “Viva la f…!” / grida il popolo emiliano. / Sfonda una diga. // La morte è un piano / di ricostruzione / per la reazione”. Perché è il miglior ricordo, ora che sono passati centodieci anni dalla nascita del poeta, ottanta dalla prima edizione de Il ricordo della basca, e sessanta da questo verso, vergato a Modena: “non è il disastro che conta, / è l’assente sospiro che monta”. Perché: “Non c’è cosa più bella al mondo, non c’è ora più felice, come quella di incontrare una persona che ti ha fatto piangere al solo vederla, e che ti dice ogni cosa, come se ti conoscesse dall’infanzia, spontaneamente, senza misure e senza paure.” E chi vuol provarci tenti pure, con tanti auguri, di trovare prose e versi più potenti di quelle del poeta che voleva incendiare, senza misure né paure, la Bassa, e l’Italia.
Il suo ricordo della basca, e in parte della Bassa, è l’antidoto a uno più diffuso, “quello di far schifo ai vivi”.
Marco Settimini
L'articolo Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento proviene da Pangea.
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24 giu 2020 12:30
DAGOSPIA, COME E PERCHÉ – INTERVISTA: ‘’IL SITO È UN “PENSIERO DEBOLE” PERCHÉ DISDEGNA QUALSIASI COMANDAMENTO IDEOLOGICO - PER QUALE MOTIVO LA GENTE DOVREBBE SCAPICOLLARSI ALL’EDICOLA E SBORSARE DUE EURO PER COMPRARE UN GIORNALE CHE GLI DICE, NERO SU BIANCO, CHE È UN COGLIONE POLITICAMENTE DIPLOMATO SE NON LEGGE LE PIPPE DI CAROFIGLIO, UNA TESTA DI CAZZO SE MANDI A QUEL PAESE IL MEE-TO DI ASIA ARGENTO, UN DECEREBRATO SENZA SPERANZA SE TROVA FABIO FAZIO UTILE PER CAMBIARE CANALE?’’
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Sebastiano Caputo - https://www.lintellettualedissidente.it/confessioni/roberto-dagostino/
Tutte le strade di Roma portano sul Lungotevere. E di notte, in una città che si tinge di giallo ocra (e guai se il comune sostituisce quei lampioni antiquati con le luci a led, manco fossimo a Time Square) le palme fosforescenti della casa museo di Roberto D’Agostino ormai sono diventate parte integrante del paesaggio urbano.
Un nuovo, e unico, esemplare di pianta, patrimonio dell’urbe, puttana e santa. Quello non è soltanto un terrazzo di un edificio qualsiasi, bensì trasposizione cinematografica del barad-dûr di Tolkien, una sorta di torre nemmeno troppo oscura, di controllo, di comando, di spionaggio e contro-spionaggio. Lì nasce Dagospia, quella è la sua inespugnabile fortezza. Ormai da 20 anni.
dago con la redazione (giorgio rutelli francesco persili federica macagnone riccardo panzetta alessandro berrettoni)
Un caravanserraglio collocato sulla riva sinistra del fiume dove si incrociano persone, circolano informazioni, si parla del più e del meno, e ogni tanto, nemmeno troppo raramente, escono fuori grandi retroscena.
Dagospia non è una preghiera laica del mattino, ma un manuale romanzato di guerriglia per chi vuole imparare a muovere i passi tra i luoghi della mondanità (anche se “non ce so’ più le feste de ‘na volta” come disse al Bestiario il mitico Luciano Bacco) e i palazzi del potere, quelli veri.
Molti, per anni, hanno considerato i contenuti pubblicati su un sito apparentemente trash (ma non kitsch bensì camp) “stupidi pettegolezzi”, ignari della filosofia profonda di questo girone dantesco di articoli e racconti fotografici in cui esistono tantissimi e psichedelici livelli di lettura che molte volte si sovrappongono fino a svelare storie di letto, di potere, o tutte e due insieme. In barba a qualsiasi “classifica di segretezza”.
Su Dagospia, niente è segreto, segretissimo, riservatissimo, riservato. E se Filippo Ceccarelli ci ha scritto un libro, raccontando la storia d’Italia attraverso il sesso, nella sua dimensione pubblica e privata, da Mussolini a Vallettopoli bis, Roberto D’Agostino invece ci ha fatto un sito internet, con milioni di visitatori al giorno, e la capacità incredibile di coniare neologismi e nomignoli per tutti i suoi protagonisti, dai più ai meno noti.
È un arte tutta italiana, ormai dimenticata dai super mega direttori, quella di riuscire a inventare parole, definizioni, espressioni, e che oggi, morti Gianni Brera e Tommaso Labranca, eredi dei Longanesi, dei Maccari e dei Papini, non si vede quasi più.
Chi è, chi non è, chi si crede di essere Roberto D’Agostino. Definirlo ribelle o incarnazione dello spirito decadente del nostro tempo è profondamente sbagliato, “Rda” non è altro che un artista che oltre ad essersi inventato un genere giornalistico-letterario, è riuscito a fabbricare uno star system italiano composto da intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, e a dissacrarlo a suo piacimento.
“Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato in questa filosofia della Silicon Valley”, ci confessa al telefono. Dagospia infatti è un social network –“de noantri”, nella sua accezione positiva e italianissima – della mondanità in cui invece di raccogliere dati, raccoglie i segreti, svelati per narcisismo, vanità o protagonismo dai suoi stessi protagonisti, “morti di fama” li chiama, anche a costo di farsi tenere sotto ricatto per sempre.
Del resto era l’Italia quel Paese dove non potrà mai esserci nessuna rivoluzione perché gira e rigira ci si conosce tutti. Chissà allora se in quel “tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale” (Massimiliano Parente) non si nascondano cellule dormienti. Solo i ferventi professanti della “taqiyya” potranno salvarci. Se non sarà quello stesso tempio di “mezzi divi” e starlette a dissimulare loro.
Sono passati vent’anni, non pochi. Quando hai capito di aver fatto il botto?
Il botto con Dagospia non si può fare perché non è in formato analogico. Nel digitale non abbassiamo quasi mai la saracinesca, è un flusso continuo. I click sono tanti, ma la verità è che il mondo di carta è un mondo lontano e contrario al nostro. Dagospia è un “pensiero debole”, una tavola da surf che cavalca le onde in tempo reale della realtà.
Non diciamo al lettore come deve vivere, pensare, votare. Col mondo digitale, quello che era considerato il popolo bue, una volta che ha preso in mano il mouse è diventato un popolo toro.
E quindi tu non hai mai pensato a un supporto cartaceo in questi 20 anni?
In vent’anni non ho mai scritto un editoriale, perché è proprio il contrario della filosofia del web. Che ha origine dall’hippismo californiano, teorizzato da Stewart Brand, padre spirituale della controcultura degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), che teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene.
Il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. A Brand si deve anche la geniale espressione ‘’personal computer’’: “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”.
Il segreto del successo della rivoluzione del Web è l’interattività: mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include. Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori ma protagonisti.
Con i social, il narcisismo ognuno di noi ha trovato la maniera di dire quello che gli frullava nella testa. Ovviamente, le polemiche quali sono state? Fake news, leoni da tastiera, volgarità a gogò… ma siamo 7 miliardi e 700 milioni di abitanti, di cui 3 milioni e mezzo sono connessi. Ora, su questi numeri, è ovvio che devi prevedere una quantità di idioti, di cretini, di maleducati. Del resto, l’essere umano non è mai stato perfetto…
Quando Umberto Eco disse che Internet dà la facoltà a qualsiasi imbecille di dire la sua stronzata, io gli risposi: “Scusi, esimio professore, quando Lei è in aula al DAMS di Bologna, i suoi studenti hanno tutti la stessa capacità? Hanno tutti la stessa qualità? Hanno tutti la stessa educazione e cultura?”.
È chiaro che gran parte di queste polemiche sono un gigantesco rosicamento con versamento di bile che ha avuto il mondo analogico della carta stampata. Prima, imperanti le ideologie, ogni mattina l’editoriale dava la linea al popolo-bue, alle 20 poi toccava al telegiornale condizionare il consenso dei cittadini.
Poi, con Internet, nulla è stato come prima: nessuno sta più alle 8 di sera ad aspettare il bollettino di Saxa Rubra, nessuno sta più ad aspettare che la mattina si apra un’edicola per avere notizie. Oggi hai in tasca un computer chiamato smartphone. E tutto questo ha spazzato il loro potere.
È quella famosa battaglia, duello, sfida, tra popolo “armato” di connessione ed élite appesa alla biblioteca. E costantemente dobbiamo leggere articoli di tipini col ditino alzato che sentenziano che siamo trash e cafoni, ignoranti e teste di cazzo se ci sollazziamo con Maria De Filippi anziché con Corrado Augias.
E nessuno di tali sapientoni si chiede per quale motivo la gente dovrebbe scapicollarsi all’edicola e sborsare due euro per comprare un giornale che gli dice, nero su bianco, che è un coglione politicamente diplomato se non legge Carofiglio, una testa di cazzo se mandi a quel paese il Mee-to di Asia Argento, un decerebrato senza speranza se trovi Fabio Fazio utile per cambiare canale.
Con il sito, dato che non sto scrivendo i dieci comandamenti, considerando la verità solo un punto di vista, tra un dagoreport e un cafonal, scodello una selezione di notizie che credo che valga la pena di leggere presa dai giornali.
Poi sarà il lettore a farsi un’idea di dove siamo finiti e a farsi il proprio editoriale. Io non voglio dare nessuna indicazione, io sto qui a prospettare quello che è lo spirito del tempo. Il principio culturale che ho sempre avuto nel mio lavoro è questo: ognuno vede quello che sa.
Dato che, come dicevano i pizzicaroli e i baristi, “il cliente ha sempre ragione”, ho fatto anche una mossa anti Dagospia: ho tolto il sommario, lasciando l’occhiello e ampliando il titolo. Perché, sparando oltre 100 pezzi ogni giorno, molti lettori non hanno il tempo per poter leggere tutti gli articoli. In modo tale che leggendo solamente i titoloni, possa farsi un’idea di ciò che sta succedendo intorno a lui.
Dagospia è un unicum del giornalismo mondiale anche perché è profondamente italiano. Però volevo sapere se vent’anni fa, quando ti è venuta l’idea, ti sei ispirato ad un progetto preesistente.
Avevo un amico che mi ha introdotto in questo mondo, che aveva vissuto come me gli anni del Flower Power, del Peace & Love, delle canne e degli acidi. Perché siamo arrivati alla rivoluzione digitale grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della California degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica.
E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il Palazzo, la rivoluzione, il sole dell’avvenire, etc. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente.
E fra Zen e Budda, il freak aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi con quattro pezzi di metallo un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso Facebook segue i vecchi dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”.
La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava sconvolgendo l’Europa.
Il Sistema americano era ben felice che le comunità freak e hippie, anziché gettare molotov e ammazzare la gente per strada, si trastullassero inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Amazon dove va non fa prigionieri, Spotify ha conquistato l’industria musicale.
Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Gates, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia e retorica contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un mondo parallelo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo. E dopo venti anni Jobs presenterà il primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco).
Quello che Jobs e compagni avevano capito è questo: se tu vuoi cambiare la testa di una persona non riuscirai mai a farlo con le parole. Se tu vuoi cambiare una persona gli devi dare in mano uno strumento, un utensile, un oggetto. L’essere umano nel corso della sua millenaria vita non è cambiato per una ideologia, per una religione, per un partito, per il comunismo, per il liberalismo, per il femminismo. L’uomo nel corso del tempo è cambiato perché un giorno ha scoperto il fuoco, il coltello, la ruota, il fucile, il treno a vapore, la lampadina, la pillola anticoncezionale, il telefonino, etc.. Sono gli oggetti che cambiano il mondo, non le ideologie.
Si è molto americana come cosa, tutta l’ideologia della prassi, della realtà…
Ma la stessa cosa che successe quando arrivò il Rinascimento. Che noi italiani lo identifichiamo con i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio. Invece il grande passaggio dal Medioevo al Rinascimento è soprattutto merito dell’invenzione dei caratteri mobili di stampa ad opera di un tipografo tedesco di nome Gutenberg. Strumento che permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti.
Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno.
Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo.
Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
Vista questa consapevolezza della rivoluzione digitale in cui siamo, ti manca lavorare in TV?
La TV l’ho fatta per tantissimi anni, in Rai. Ho cominciato nel ’76 mettendo le musiche per “Odeon”, poi ho partecipato alla scrittura del varietà di Rai1 ‘’Sotto le Stelle’’, poi “Mister Fantasy” come autore, però in video ci sono andato solamente con Arbore a ‘’Quelli della notte’’, nel 1985, ma sempre come partecipante.
Poi due anni di ‘’Domenica in’’ con Boncompagni. Non ho mai avuto nessuna intenzione di fare un programma televisivo, perché implica un lavoro collettivo: non è che vai lì e quello che fai tu è quello che poi alla fine la gente vede, ed è un aspetto che non mi è mai piaciuto.
Quindi ho sempre preferito il ruolo di ospite. A un certo punto hanno detto: «Ah è facile stare sul divano a fare il criticone». E allora ho realizzato un programma solo per soddisfazione personale, per far vedere cosa può essere la televisione contemporanea.
Ed ecco 30 puntate di ‘’Dago in the Sky’’. La TV di oggi è radiofonica, si chiacchiera da un talk all’altro; io posso seguire la Gruber o Vespa anche lavorando, non c’è quasi mai bisogno di alzare gli occhi. La televisione è immagine in movimento e oggi la fanno Netflix, Amazon Prime…
Dagospia chiaramente ha uno dei punti di forza nel fare leva sull’ego delle persone. Tu ti aspettavi un’élite italiana, cultural-mondana e intellettuale, così vanitosa come l’hai scoperta in questi vent’anni di Dagospia?
Hanno ripubblicato da poco un formidabile libro degli anni Ottanta, si intitola ‘’La cultura del narcisismo’’ ed è stato scritto dal sociologo Christopher Lasch. Se lo riprendi in mano già si intravede, a partire da quel decennio, il protagonismo della gente, insieme all’idea che la politica sarebbe poi diventata solo una questione di leadership.
Lo abbiamo visto con Silvio Berlusconi. Prima c’era il partito, poi il segretario, alla fine è emerso il leader. Oggi la politica è dei leader, o emerge il leader oppure il partito non esiste. Quindi la cultura del narcisismo nasce in quegli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo reaganiano, del godimento di breve durata. Stasera è l’ultima sera.
Il narcisismo e l’effervescenza culturale degli anni Ottanta nel mondo è stata raccontato in maniera mirabile, mentre in Italia a causa della presenza di politici come Craxi e De Michelis, è stato schiantati dalla sinistra come gli “anni peggiori”. Ma, al di là di Chiasso, Ottanta vuol dire postmoderno nell’architettura, transavanguardia nell’arte, il successo letterario de “Il nome della rosa”, il trionfo del made in Italy nella moda, etc.
Gli anni Ottanta sono anche quelli della caduta del muro di Berlino. E la cosa fantastica è che nel 1989 mentre si sbriciola la Cortina di Ferro, un grande informatico britannico come Tim Berners Lee, a Ginevra, inventa la Rete, il web, la e-mail. Un passaggio di consegne fra due epoche E la Rete non ha ideologia. Internet è amato e desiderato in tutto il mondo, non c’è un Paese che detesti internet, anche i regimi più autoritari ne hanno bisogno.
Con Dagospia ti sei fatto più amici o più nemici in questi anni?
Abbiamo tanti conoscenti, ma pochi amici. Saranno, quando va bene, tre o quattro che senti tutti i giorni, a cui confidi i tuoi problemi, i tuoi disagi, mentre gli altri, i conoscenti, li incontri, ci parli, ci bevi un drink, e basta. L’amicizia è tutta un’altra cosa. Il fatto che poi tanti mi abbiano querelato, o insultato, fa parte delle regole del gioco.
Lo Star System italiano che avete raccontato in questi anni su Dagospia esiste oppure ve lo siete inventato?
E’ da un pezzo che lo Star System è senza star, sostituite ormai dal narcisismo social che ha prodotto le micro-celebrità. Poi con questa maledetta quarantena è emerso che la celebrità, la popolarità, ha senso solo nelle momenti di benessere collettivo. Quando i tempi sono bui i post e i video su Instagram dei cosiddetti famosi fanno cagare.
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Recensione: Torikago Syndrome 1 & 2
E rieccomi qui a fare la voce fuori dal coro. Questa cosa sinceramente la ODIO profondamente. Nonostante ami avere una mia opinione personale e gongoli anche interiormente (ed esteriormente con un bella danza di Snoopy) a sapere di essere in grado di non uniformarmi per forza alla massa come una capra ed elogiare qualcosa solo perché bella, interessante, fighissima, new age, petalosa per il 99% del mondo mi... irrita, perchè puntualmente mi ritrovo circondata da persone che mi rinfacciano "Ma come? L'opera è meravigliosa, sei tu che non l'hai capita" ed è proprio questo che di sicuro succederà con Torikago Syndrome, un manga di due volumi arrivato anche in Italia grazie alla santa J-Pop che a quanto pare è stato apprezzato dal mondo intero ma... non da me. Quando ho scoperto questo manga sono rimasta molto colpita, la copertina ha catturato subito la mia vista spiccando tra l'elenco infinito di consigli di lettura/acquisto di santo Amazon, la trama mi aveva fatto non poco gola tanto che ero pronta a sfoderare la mia sacra postepay e ordinare il tutto, fortunatamente la mia povertà post shopping impulsivo è riuscita a obbligarmi a leggerlo in inglese (benedette scan) e soprattutto impedirmi di buttare letteralmente i miei soldi dalla finestra (o meglio dalla carta) evitandomi così una delusione totale ma... vediamo insieme il perchè. Come detto tutto era perfetto, la trama sembrava interessante, chi non amerebbe un pizzico di shonen ai, mistery, psicologico, drama?! Tutti dovrebbero amare questo mix se solo fosse presente in questo libro! Tralasciando infatti la copertina stupenda e i disegni realizzati ad arte e con uno stile che mi ha quasi (e sottolineo il quasi) fatto apprezzare l'opera ... tutto il resto e un bel NO! Nonostante la trama tutto si perde inesorabilmente diventando un minestrone WTF! Troviamo il nostro eroe Tsugumi, un ragazzetto che ha perso i suoi genitori e per anni è stato costretto a vivere in orfanotrofio. Il povero piccolo è sempre stato vittima di bullismo dovuto soprattutto ai suoi occhi rossi (poco inquietanti) fortunatamente non è mai stato solo in quanto una figura caritatevole ha sempre vegliato su di lui, come un angelo custode, un uomo soprannominato Papà Gambalunga (ispirazione/omaggio al famoso romanzo omonimo di Jean Webster) che ha sempre aiutato il giovane senza però fare scoprire il proprio nome e identità, il baldo giovine pensa bene di seguire il consiglio dell'amato "padre adottivo" e andare nella scuola di un amico di quest'ultimo per poter continuare gli studi. Perfetto no? E infatti no perché tra tutte le scuole finisce nella peggiore o meglio... nella migliore in base ai punti di vista. Questa scuola infatti agli occhi di un essere umano dotato anche di un solo neurone è PERFETTA, avete presente le fantastiche ore di autogestione in cui potevate fare bordello e nessun professore era autorizzato a prendervi a mazzate? In cui i prof vi guardavano con odio mentre spadroneggiavate bruciando (o quasi) i banchi e spacciando merendine? Moltiplicate quella sensazione di onnipotenza per 100, in quanto in questa scuola c'è autogestione SEMPRE, gli studenti non hanno regole, potrebbero vestirsi da clown e nessuno direbbe nulla, potrebbero girare nudi e nessuno direbbe nulla, i professori sono al pari di sassi e sono gli unici ad avere regole o almeno una regola soltanto, non entrare nei dormitori! PARADISO no? E infatti no perché gli esseri umani hanno il bisogno istintivo di rovinarsi la vita, prendete un gregge di umani, metteteli in un prato gigante, senza costrizioni, con al suo interno solo un piccolo recinto chiuso un metro per un metro e cosa faranno mai gli umani? Rimarranno nel prato magico godendosi le passeggiate? Si sdraieranno sul grande prato verde? Ma ovviamente no, troppo mainstream! Gli esseri umani si ammasseranno nel recinto, ignorando completamente il prato e la libertà! E infatti gli studenti di questa scuola hanno il QI – 100, a quanto pare annoiati dalla possibilità di vivere in pace e armonia con il cosmo non dovendo neanche obbedire ai genitori padroni hanno pensato bene di sottostare alle regole di un mini Hitler, nel mondo perfetto di Torikago Syndrome un tizio arriva e dice "Io sono il re e ora vi darò delle regole che voi dovrete rispettare per vincere un gioco e guadagnare una libertà che già avete" i geni, invece di bullizzarlo brutalmente disegnandogli degli imbarazzanti baffetti neri sul labbro pensano bene di giocare ed è da lì che la scuola senza regole diventa la scuola con le regole. Tsugumi scoprirà infatti che c'è un Pinco Pallo che si fa chiamare re e decide chi vive o chi muore ehm... magari...sarebbe stato molto hunger game/battle royal/epico... decide semplicemente di dare compiti wft agli studenti, come quello di bruciare i compiti in classe... dando loro un punteggio così da salire in classifica e forse vincere una libertà molto.... boh...PERCHÈ?? Why? Quale criceto drogato poteva pensare anche solo una cosa del genere? Ok dai, l'idea in se può andare, non siamo nella vita reale e ci sta, ma come viene sviluppata la questione non ha senso, ok, nel secondo volume entriamo più nel vivo capendo come è nata, perché ecc ma rimane comunque senza senso perché cioè che non manca è ironicamente la libertà in questo manga chiunque è in grado di scappare da questa "società" non succede nulla, chiunque può dire "No" il motivo per cui tutti partecipano è perché è un po' una moda (vero fidget spinner del demonio?) o come il protagonista semplicemente non si hanno i soldi o il cervello per comprare due lenti a contatto colorate per nascondere degli occhi inquietanti invece di usare gli occhiali (super vietati dal re malvagio!!) avrei voluto vedere magari un motivo più profondo per partecipare, magari il cattivo poteva essere il super malvagio preside che impedisce agli studenti di comunicare con il mondo esterno invece ste geni possono anche inviare lettere a casa e ricevere lettere... quindi... possono dire "Fanculo questa scuola io vado a fare lo spazzino" e andarsene... viene così meno tutto il dramma che si dovrebbe per me vivere in un manga pseudo distopico, in un mondo oscuro in cui bisogna sottomettersi a regole folli... se tu mi togli il dramma, il dolore, l'immedesimazione nel tormento di questi ragazzi e di questo gioco mi rimane il nulla. Questo manga doveva giocare molto sulla psicologia, tratteggiarmi i caratteri dei ragazzi, mostrarmi il perché il gioco per loro è così importante, possiamo in parte comprendere un pochetto la motivazione banalissima e scontatissima del protagonista di avere la sua libertà senza gabbie e bla bla bla ma gli altri? Amici cari cosa vi spinge a non dare fuoco al "Re"? Non amo particolarmente la violenza ma quando ci vuole... io rido e ironizzo ma se in un manga in cui dovrei almeno riflettere sul concetto di libertà e prigionia, su come gli esseri umani riescano a rinchiudersi in prigioni mentali ogni giorno senza motivo e non c'è niente, è preoccupante, per riflettere almeno ci deve essere un input ci deve essere qualcosa che mi spinge a pensare "Dai protagonista, devi vincere" anche nel momento in cui Pinco Pallo con gli occhi rossi dice "Dimmi come faccio a diventare il nuovo re?!" mi veniva solo da ridere pensando "Imbecille, invece di detronizzare il Joffrey tarocco di GOT dimostra agli studenti che puoi vivere senza seguire le sue regole, così loro vedranno che sei già libero e ti seguiranno!! Fai il novello Gesù! Cosa gli dai corda?!" Non ho parole. Manca di struttura non solo nella storia ma anche nella struttura generale dei volumi, ci sono due volumi e sviluppati malissimo, il primo di fatto è il nulla, la presentazione fuffa che ci dice poco o niente e cerca di farci provare emozioni facendo litigare il protagonista e il suo nuovo amichetto che.... forse è l'unico con un minimo di contenuto... ma neanche... litigio che avviene in modo frettoloso, amicizia che nasce e muore di colpo e senza un che, tanto per cambiare e basta! Si strizza l'occhio allo shonen ai? Ma dove?! Si potrebbe fangirleggiare su Tsugumi e Licht ma se i due non hanno caratterizzazione e quel poco e fuffa, tanto vale shippare il mouse e la tastiera del pc, hanno lo stesso calore, almeno potevano metterci un bacetto! Lo hanno messo/censurato/fatto immaginare anche in Yuri!!! On Ice che neanche ha il tag shonen ai... si vede che il tag lo hanno voluto mettere a forza per strizzare l'occhio alle fujoshi che spero se la siano presa vista la fregatura colossale! Quindi il primo volume è zero e il secondo, è tutto quello che non è il primo, rendendosi conto che ormai il tempo stringeva hanno buttato tutto dentro senza lasciare fiato (e non in modo positivo, quella mancanza di fiato da suspence/ammirazione/è la cosa più epica che abbia mai letto), i capitoli importanti sono i due capitoli finali... e il capitolo finale e il più rapido possibile, correndo peggio della sottoscritta durante il 3X2 sui videogame! Si poteva fare di più, magari 3 volumi, uno di introduzione, il secondo di analisi e il terzo di conclusione con sviluppo adeguato dei personaggi e della loro psicologia, magari amicizia e non "Ma si aiutiamoci e diventa il mio BFF" "Ok <3" e tre pagine dopo "Buu sei cattivo, amico di Licht non ti voglio più, sei passato di livello mentre io sono rimasto un noob" "T___________T amichetto è tutta colpa mia" e dramma trash e piagnucolii per niente coinvolgenti e solo divertenti per la malvagia creatura che c'è in me. Insomma, mi rendo conto di aver sclerato e detto forse tutto e niente ma mi rompe le scatole spoilerare troppo perché forse cercare almeno di dare un senso al no sense è l'unica motivazione per leggere questo manga, ho visto molte recensione positive, persone che elogiano l'inquietudine e il senso di claustrofobia che provoca l'essere rinchiusi alla mercé del Joffrey dei poveri ma io tutto questo senso non l'ho percepito... e sono quella che è impazzita leggendo Bunker Diary!! E che è impazzita ancora di più smettendo di leggere Battle Royal perché viene ucciso un gatto... sono una persona che si agita facilmente e se questo manga non mi ha dato nulla un motivo c'è. Non dico che bisognava trasformarlo in un fight club o qualcosa di troppo violento ma si poteva giocare sulla violenza più psicologica, quella che ci distrugge e ci rende prigionieri, noi esseri umani siamo gli unici essere viventi che sono riusciti a rovinarsi la vita da soli in mille modi diversi e non solo costruendo armi mortali che ci stermineranno in un decimo di secondo, riusciamo a dare il peggio di noi fissandoci su cose stupide e rinchiudendoci nel famoso recinto un metro per un metro nel grande prato verde della vita, si poteva giocare su questo, mostrare la stupidità e follia di seguire certi "giochi" si poteva inserire temi più gravi mostrare la società corrotta e senza regole, mostrare come in una società non ci sia posto per l'uguaglianza totale ma che ci sarà sempre qualcuno che si metterà sopra per dominare e corrompere gli animi, creare e portare il caos, si poteva giocare molto con questa cosa, fare più punti di vista, 3-4 volumi, mostrare la fragilità dei ragazzi e le loro forze che potevano liberarli ma che non hanno mai usato perché ciechi e in gabbia... tante ma tante cose, nonostante le parole positive che ho sentito per me è un grande no. Se ne avrò l'occasione sicuramente lo rileggerò in italiano per chiudere il cerchio e poter mettere un masso sopra quest'opera, di sicuro non andrò di mia spontanea volontà a comprare i volumi come avrei sicuramente fatto. Sono contentissima di averlo letto in inglese senza spendere perché di certo la mia recensione sarebbe stata in quel caso molto meno "divertente" e molto più hulkeggiante con tanto di falò ai due volumi (altro che il banale falò ai compiti in classe come avviene nel libro!!) In definitiva non mi sento affatto di consigliarlo, per chi cerca la suspence non c'è, lo shonen ai... meno che mai, il mistero... ma anche no e la psicologia... oh oh oh, seriamente, passate oltre che c'è sicuramente di meglio! Dono 3 stelline al secondo capitolo, rispetto alle due del primo solo perché almeno il secondo cerca di dare un senso alla storia per il resto, rimane un grande no!
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Monologo televisivo di Daniele Luttazzi
Buonasera. Come va? Molto gentili. Grazie. Mi sento come Berlusconi davanti all'assemblea di Confindustria. Benvenuti a Satyricon, un boomerang per la sinistra. Io sono DL e sono un fuorilegge.
Nel caso qualcuno di voi sia stato in Alaska nelle ultime due settimane: non credo che potrò più lavorare a Mediaset. Cos'è successo? Molto semplice. Un mese fa mi becco una malattia venerea che un altro po' mi porta via una gamba. Bisogna fare accertamenti. Porto il mio barattolino ancora caldo di sperma in laboratorio. Praticamente fumante. Le pareti opache di condensa. Mi piace essere lirico sullo sperma. Il medico lo prende e fa: "Eeeh, quanto! E' uscito Penthouse di marzo?!". Secondo lui mi sono beccato un bacillo con un rapporto sessuale, io penso: "Niente di più facile. Mi piace fare sesso. E'una cosa che ho preso da mio nonno, un tipo molto focoso. Quando faceva l'amore, come preservativo adoperava un chihuahua. Insomma, mi piace fare sesso. Anche a pagamento". Guardate
(a questo punto parte un filmato ndr).
E mentre sono nell'ambulatorio che aspetto di fare le analisi mi cade l'occhio su un libro. Un libro su Berlusconi. In libera vendita. Lo sfoglio. Interessante. Invito l'autore a parlarne a Satyricon. E' scoppiato un casino! Non so se l'avete saputo. La Guerra del Golfo non ha avuto questa copertura! Due giorni fa il medico mi dà il risultato degli esami. "Luttazzi, lei ha lo scolo. Ma non si preoccupi". "Oh, non mi preoccupo affatto. Dopo le polemiche di queste settimane, lo scolo mi sembra un sollievo". Il libro poneva una domanda: Cavaliere, dove ha preso i soldi. Bastava che Berlusconi dicesse la verità: "Li ho trovati in un sacchetto delle patatine". Inoltre si sa che Berlusconi tiene sempre acconto i bollini del supermercato: uno dopo l'altro, alla fine dell'anno vinci dei servizi di piatti che puoi regalare a Gianni Letta. E'così che si fanno le fortune in Italia. E invece no. Berlusconi se l'è presa, Mediaset farà causa. Chiederà 50 miliardi di danni. A parte che non capisco cosa c'entri Mediaset con Berlusconi,la Rai comunque è tranquilla. Prenderà i 50 miliardi e glieli verserà nella holding 1, da cui passeranno alla holding 2, poi alla holding 3 e così via fino alla 22 per poi tornare al punto di partenza, cioè alla Rai. Quindi sono tranquilli.
Ho imparato una cosa: certe domande non si fanno. Possiamo riassumere la carriera di Silvio Berlusconi con una sola parola: fortuna. E'stato fortunato. A sei anni era un contadino. A sette era un operaio. A otto anni era già miliardario. Come? Vendendo merendine ai suoi compagni di classe. Era illegale, ma il Parlamento gli fece una legge apposta. Poi cantante sulle navi da crociera, poi imprenditore edile, poi magnate televisivo, poi presidente del Consiglio, e come se non bastasse dopo più di 50 anni il suo volto è ancora intatto. Questo è un miracolo! Nella foga del momento Berlusconi ha anche attaccato la Corte Costituzionale. Poi ha fatto marcia indietro. "No, volevo dire che non ho mai visto cassette porno di Moana Pozzi". Cosa? "Non ho mai visto cassette porno!". Oh. E magari non s'è neanche mai masturbato, giusto? Per carità, non lo faccia. Masturbarsi è pericoloso. Potrebbe diventare come Gasparri. "Io sono il migliore del mondo!". Penso al povero Piersilvio, da piccolo, con un padre così. Dev'essere stato un inferno. "Quanti anni hai figliuolo?" "5, papà". "Io alla tua età ne avevo sei". Un inferno. Montanelli, Santoro e io siamo stati definiti ingrati, perché in passato abbiamo lavorato per Berlusconi. Ma bisogna capirlo: a Berlusconi riesce difficile pensare che la gente che lui ha pagato non l'ha comprata. Fini ha sbraitato: "Faremo piazza pulita". Poi s'è corretto. Non loro. I loro filippini faranno piazza pulita."Perché dovrei fare io piazza pulita? Insomma. Io sono il padrone, tu sei il cameriere, ok?". Sì, poi lo so io per chi voto.
Grandi polemiche su cosa è la satira. Chiariamo una volta per tutte: satira è quando prendi in giro chi è più ricco di te. Parodia è quando prendi in giro chi è più intelligente di te. Avanspettacolo è quando fai entrambe le cose calandoti le brache. Per cui la mia è satira, dato che come sapete Berlusconi è la 18^ nazione più ricca della Terra. E invece la solita accusa contro di me: Luttazzi non fa ridere. E'15 anni che me lo dicono. E hanno ragione. Non faccio ridere. E' per questo che la gente guarda Satyricon. Per non ridere. E'per questo che la gente paga il biglietto per venirmi a sentire a teatro. Per non ridere. "Stasera non ho voglia di ridere. Andiamo da Luttazzi". Mi dispiace, faccio molto ridere. Specie quando dormo. Mi hanno denunciato per vilipendio alla Nazione. Oh, scusate. Non sapevo ne avessimo una. Casini ha detto: "L'Italia non le somiglia affatto, signor Luttazzi". Lo so. L'Italia assomiglia a lei, Casini. E'questo il problema. Ooops, devo stare attento. Dire che l'Italia assomiglia a Casini forse è un altro vilipendio. Altri si sono lamentati per una battutina sul Papa. "Ehi, non ci piace quello che hai detto. Siamo cattolici". E allora perdonatemi. Hanno messo una taglia sulla mia testa. Così adesso giro con le guardie del corpo. Cercano di difendermi dai miei parenti. Vespa mi ha invitato a Porta a Porta ma io non ho mai ricevuto l'invito e così non sono andato. Non rifiuterei mai di partecipare a un programma di Vespa. Una volta mi sono rifiutato: mi ha nevicato in salotto per 5 giorni. La macumba. Secondo il Polo, dopo la puntata di Satyricon il gradimento di Berlusconi è aumentato di 4 punti. E'per questo che vogliono chiudermi. Non vogliono stravincere.
Un imbecille di Sassari si è pulito il sedere con un pezzo di carta e me l'ha spedito. Il pezzo di carta, non il sedere. Un foglio di carta sporco di merda con su scritto: lecca qui, bastardo. Idiota. La prossima volta prima di cagare controlla cosa mangi. Aveva un sapore pessimo.
Insomma un putiferio di cui ha parlato tutt'Europa. Solo un'altra volta mi era capitata una reazione simile, quando presi in giro un politico per i suoi baffi e questi mi prese a schiaffi. Livia Turco non ha il senso dell'umorismo. E mentre in Italia succedeva il pandemonio, cosa faceva Francesco Rutelli, il candidato dell'Ulivo, l'uomo di cui una volta il presidente Pertini disse: "Chi è?". Si riposava giocando a golf. Rutelli gioca a golf. L'ho visto giocare. Con un drive ha colpito un fringuello, un gabbiano, un bracco, una mucca e un massone di passaggio. Ehi, finalmente la soluzione per i Balcani. Mandate in Kosovo Rutelli con una mazza numero tre e tante palline. Altro che la Folgore. C'è chi dice che Rutelli ha poca personalità. Non è vero. Non ne ha per niente. Rutelli ha consigliato a Berlusconi di venire a Satyricon. Lui però non viene. Ma bisogna capirlo. In un talk show come questo Rutelli ha tutto da perdere. La gente potrebbe davvero scoprire come è. Comunque Rutelli non è senza speranza. Se hanno ricavato penicillina dalla muffa, qualcosa da lui ricaveranno.
Altre notizie. Emergenza rifiuti in Campania. Sembra ci sia di mezzo la camorra perché i rifiuti vengono uccisi e poi gettati da auto in corsa. Quindi non è che la criminalità è in calo. E'che i cadaveri sono coperti dalla spazzatura. Molti di questi rifiuti in realtà vengono da fuori. La maggior parte sembra siano frammenti della Mir. Che come sapete è stata fatta disintegrare al rientro nell'atmosfera. Una curiosità: l'ultimo esperimento scientifico fatto sulla Mir: verificare se gli scarafaggi possono accoppiarsi in assenza di gravità. Utile, perché un giorno sulla luna potrebbero aprire un McDonald's.
Manifestazione a Napoli contro la globalizzazione. I tafferugli sono stati così violenti che la polizia ha dovuto respingere i manifestanti spruzzandogli addosso il nuovo profumo di Fabio Capello.
Medio Oriente. La pace si sta avvicinando. I toni sono più distesi. Ieri Sharon ha scherzato con i giornalisti. Entrato in un bar e fingendo di essere spazientito ha detto: "Ehi, chi devo bombardare per avere un drink da questi parti?". Questo mi ricorda una cosa che mi disse Arafat un giorno mentre facevamo parapendio. Mi disse: "Credo che Israele dovrebbe attaccare la Repubblica di S. Marino. Non se l'aspetterebbero mai".
E'stata la festa del papà. Ovvero, come la chiamano a Novi Ligure, il giorno del topicida. Gli inquirenti hanno chiesto a Erika di dire la verità. Erika ha risposto: " Ehi, non sono ancora così disperata!". Sembra che Erika facesse uso di droga. Cavolo, questo potrebbe rovinarle la reputazione. Erika ha detto che parlerà solo in presenza del suo avvocato. D'ora in poi inoltre ucciderà familiari solo in presenza del suo avvocato. E'che i ragazzi di oggi sono cambiati. Ieri ho sentito un adolescente che diceva alla sua ragazza: "Stasera andiamo al cinema allo 8 e mezza o devi prima accoltellare i tuoi genitori?". Driin. "Salve signora. C'è Roberta?". "No. L'hai uccisa ieri a coltellate". "Ah, già. Mi scusi".
Processo per la strage di Piazza Fontana. A piazza Fontana dopo tanti anni nulla è cambiato. E' tutto come allora.Infatti Pietro Valpreda non c'è.
Approvata dal Senato la legge sulla cremazione. Sarà possibile disperdere le ceneri all'aperto. E'una buona idea. Quando morirò voglio essere cremato, e voglio che le mie ceneri siano sparse sul corpo di Manuela Arcuri. Sul letto di morte prenderò in giro i miei parenti. Dirò: "Questo sono le mie ultime parole. No, queste sono le mie ultime parole. No, no. Queste sono le mie ultime parole.
Funerali della contessa Vacca Agusta. Ci sono novità. Trovata una particella di scoglio nella ventiquattrore di Scattone.
Chiuderà l'Accademia del Circo Cesenatico. Una cosa triste. Mi dispiace perché ho sempre avuto la passione per il circo. E' un mondo magico. Ricordo quando anni fa intervistai Pollicini, il nano più piccolo del mondo. Busso. Mi apre un gigante. "Salve, sono DL e vorrei intervistare Pollicini, il nano più piccolo del mondo". "Sono io. Entri". Sta scherzando. Pollicini è un nano. "Sì, ma oggi è il mio giorno libero". E quando morì il grande Cochinelle, uno dei clown più famosi del mondo, andai al suo funerale. I suoi amici clown arrivarono tutti nella stessa auto.
A proposito di circo: sabato scorso un leone è scappato da un circo a Milano. Per fortuna è stato subito bloccato da una pantegana dei Navigli.
Una cosa che mi chiedo: quando scappa un leone da un circo in Africa, e poi lo prendono, come fanno a sapere che hanno preso quello giusto?
Musica. Scoperte in Grecia su una stele di marmo le note di una melodia di 23 secoli fa. La melodia è difficile da decifrare, ma le parole sono di Mogol.
In Borneo un gruppo di antropologi ha trovato invece una tribù primitiva che pratica il sesso con gli animali. Sesso con gli animali! Ehi, andiamoci subito prima che ci sia la fila!
A New York da Fao Schwartz è in vendita il bambolotto di Marylin Manson. Gli metti le pile, lo accendi, si stupra la Barbie di tua sorella.Non voglio sapere dove devi mettergliele, le pile.
Infine è scattata l'ora legale. Abbiamo portato le lancette un'ora avanti. Tutti tranne Berlusconi, che le ha riportate agli anni '50.
Con l'ora legale avete perso un'ora di sonno. Che potrete recuperare guardando questa puntata. Ehi, abbiamo uno show strepitoso per voi stasera. Inoltre non è testato su animali. Sono con noi Eva Giovannini, Renata Pisu, Stefania Rocca, Gianmaria Testa e Marco Travaglio. No, no, stavo scherzando. Travaglio non c'è. Ma sembra che presenterà il prossimo Sanremo.
(Satyricon, 28 marzo 2001)
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“ «La democrazia è fondata sulla sopportazione degli sciocchi. Nei regimi totalitari, gli sciocchi tacciono (lavorare e tacere) e i migliori dicono sciocchezze: gli sciocchi col loro ordinato silenzio o i loro urli ordinati somigliano alle bestie, e i migliori coi loro discorsi di propaganda somigliano agli sciocchi (fino al punto di esserlo). Nelle democrazie gli sciocchi dicono sciocchezze con aria grave, ma ai migliori capita di dire cose eccellenti, e spesso senz'alcuna gravità». (Vitaliano Brancati, I fascisti invecchiano, ora in Opere, p. 1117) A questo punto, Brancati può emettere la sua sentenza. «So che, nelle democrazie, molti sciocchi parlano con sussiego, ma mi risparmio la fatica di scoprire una verità che sembra crudele, ma è infantile: che la libertà non rende tutti gli uomini intelligenti e buoni. I soli stupidi che non sopporto sono quelli che con le spie e i tribunali speciali mi obbligano ad ammirarli e a imitarli. In una parola, non sopporto gli stupidi dei regimi totalitari; gli stupidi dei regimi liberali, non solo li tollero, ma li considero amabili; a quelli che mi lasciano la libertà di non essere stupido lascio molto volentieri la libertà di esserlo. Il mondo è fatto di confusione e di incertezza... Il resto è l'attivismo, e l'attivismo presto o tardi conduce all'omicidio». (Diario romano, pp. 115-116) La caduta del fascismo riempì dunque Brancati di gioia, lasciando però intatta una vena d'ironia disillusa e malinconica. «Il fanatismo è una paralisi parziale del cervello. Questa epidemia ha toccato il suo culmine nel '39: fanatici di Mussolini, di Hitler, di Stalin, di Franco, ecc. Adesso sta per terminare. Bisogna che la massa si trovi in tutta fretta un'altra forma di stupidità», (Diario romano, p. 363) “
Oliviero Ponte Di Pino, Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, 1999¹; pp. 199-200.
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“ Il moderno metodo scientifico prevede, in base a una concezione meccanicistica della realtà, che i fenomeni, per esseri compresi, vadano ridotti ai loro componenti elementari. La catena causale va scomposta nelle sue unità minime, e dunque in problemi di facile soluzione. È quello che si definisce riduzionismo che ha permesso alla scienza e alla tecnica progressi formidabili, e che ha riempito il pianeta di cretini specializzati, quelli che risolvono (forse) un problema - ma solo per crearne uno più grande, e più difficile da gestire. Insomma, l'attenzione al particolare impedisce al Cretino (soprattutto se Specializzato) di vedere il Tutto nel quale esso è inserito. Purtroppo per salvarsi dall'imbecillità non basta essere «pensatori olistici», cioè in grado di abbracciare e comprendere il Tutto. Vitaliano Brancati delinea con precisione la figura dell'«idiota olistico», lo sciocco che guarda il tutto ma non vede i particolari, l'ottuso che non distingue i dettagli e la loro acuminata bellezza: «Gli sciocchi si annoiano perché mancano di una qualità estremamente fine: il discernimento. L'uomo intelligente scopre mille sfumature nello stesso oggetto, intuisce la diversità profonda di due fatti apparentemente simili. Lo sciocco non distingue, non discerne. Il potere, di cui è orgoglioso, è quello di trovare simili le cose più diverse». (Diario romano, p. 142) “
Oliviero Ponte Di Pino, Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, 1999¹; pp. 125-126.
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“ Bonhoeffer teneva ben distinti gli stupidi dagli evangelici «poveri di spirito». Poco prima di finire sulla forca a opera dei boia di Hitler, ragionava così: «La stupidità è un nemico del bene più pericoloso che la malvagità. Contro il male si può protestare, si può smascherarlo, se necessario ci si può opporre con la forza ... Ma contro la stupidità siamo disarmati ... Lo stupido, a differenza del malvagio, è completamente in pace con se stesso; anzi, diventa perfino pericoloso nella misura in cui, appena provocato, passa all'attacco». (Sotto l’ulivo, p. 25) Il teologo tedesco riteneva che la stupidità che lo circondava avesse cause sociali e storiche ben precise: «È una forma particolare dell'effetto provocato sugli uomini dalle condizioni storiche, un fenomeno psicologico che riflette determinate situazioni esterne ... Ogni forte manifestazione di potenza esteriore, sia di carattere politico che di carattere religioso, investe di stupidità una gran parte degli uomini. Sì, sembra proprio che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell'uno ha bisogno della stupidità degli altri. Il processo attraverso cui avviene non è quello di una improvvisa atrofizzazione o sparizione di determinate doti dell'uomo - nel caso specifico, di carattere intellettuale - ma di una privazione dell'indipendenza interiore dell'uomo, sopraffatto dall'impressione che su di lui esercita la manifestazione della potenza. Il fatto che lo stupido spesso sia testardo, non deve farci dimenticare che egli non è autonomo. Lo si nota veramente quando si discute con lui: non si ha affatto a che fare con lui, quale egli è, come individuo, ma con le frasi fatte, le formule, ecc. che lo dominano... Divenuto in tal modo uno strumento privo di volontà, lo stupido è capace di commettere qualsiasi male e (li non riconoscerlo come tale». (Dieci anni dopo, p. 63) Il ritratto dello stupido funzionale al potere verrà ripreso anche da Adorno. «Come nell'ambito più ristretto, gli uomini istupidiscono dove comincia il loro interesse, e rivolgono poi il sentimento contro ciò che non vogliono comprendere proprio perché potrebbero comprenderlo fin troppo bene, così la stupidità planetaria che impedisce al mondo contemporaneo di scorgere l'assurdità del proprio ordinamento, è anch'essa il prodotto dell'interesse non sublimato, non abolito dei dominanti. (...) A ciò corrisponde la stupidità e l'ottusità del singolo: l'incapacità di negare consapevolmente la potenza del pregiudizio e della routine. Questa incapacità coincide regolarmente con l'insufficienza morale, con la mancanza di autonomia e responsabilità». (Minima moralia, p. 193) Di qui al razzismo (e alle sue atroci conseguenze) il passo è brevissimo. «Quando l'odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità viene convinta molto in fretta, i motivi vengono da soli». (Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte) In casi del genere, c'è qualche possibilità di difesa? Può essere d'aiuto una dose massiccia di senso dell'umorismo (anche perché questo libro sta diventando orribilmente serio, e rischia di sembrare intelligente). «Meno intelligente è il bianco, più gli sembra che sia stupido il negro». (André Gide) O ancora: «'È meglio essere stupidi o calvi?'. 'Calvi, si nota meno'». (Ti prego di notare che questa battuta era valida sia ai tempi di Mussolini sia ai tempi di Kruscev.) “
Oliviero Ponte Di Pino, Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, 1999¹; pp. 197-199.
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