#17 febbraio 1940
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italianiinguerra · 1 year ago
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Medaglie d'Oro della 2ª Guerra Mondiale - 1° aviere ANTONIO TREVIGNI - Cielo del Mediterraneo, 17 agosto 1940
Nome e CognomeAntonio TrevigniLuogo e data di nascitaTripoli, 18 febbraio 1917Forza ArmataRegia AeronauticaSpecialitàBombardamento TerrestreSquadra o stormo15º Stormo Bombardamento TerrestreReparto53ª SquadrigliaUnità47º GruppoGrado1º AviereAnni di servizio1936 -1940Guerre e campagneSeconda Guerra Mondiale (Africa settentrionale)Seconda Guerra Mondiale (battaglia dei convogli)Luogo e data del…
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saltatempox · 5 years ago
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11 Gennaio 1999 💔 te ne sei andato.
"Non mi sono mai sentito così attaccato alla vita come nei momenti in cui ho avuto paura di morire: l'importante è riuscire a ricordarselo."
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acquavergine · 3 years ago
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Conosciuto anche come Sala Pirandello porta il nome di uno dei più importanti teatri romani distrutto nel 1889 che era conosciuto anche come Teatro Apollo-Tordinona, Tordinona-Apollo o solamente Apollo.
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after the construction of the Carceri Nove in via Giulia, the building had been abandoned by the destined and entrusted in emphyteusis to a brotherhood of friars, who made it into an inn, which failed in 1663 due to the lack of security in the area... The hall, about 16x22 meters, was "U" shaped in the tradition of the Italian theater, made up of six tiers of boxes. and was accessible both from land and from the river. The inauguration took place in the spring of 1670 with a show by Tiberio Fiorilli, who was entrusted with the entire theater season. In 1675 the theater was closed for the Jubilee celebrations, and remained in disuse for sixteen years. Reopened in 1690 and completely renovated in the interior, with the construction of the horseshoe hall demolished in 1697 by order of Innocent XII, a pontiff opposed to theatrical art. Only the intervention of Pope Clement XII allowed the reconstruction of the building, at the entire expense of the Papal State: the new plan was almost circular, with a reduced number of boxes (four, compared to the previous six) and the inauguration took place on 12 January 1733. The programming, which had undergone a qualitative decline over time, did not affect the frequency of spectators, who attended the Tordinona until the closure, for restorations, of 1762. The reopening took place in 1764, and in 1768 new works modified the overall appearance of the room. On January 29, 1781, however, a fire burned down the entire structure, which was built entirely of wood. the new theater, renamed the Apollo Theater, was ready in 1795, but changing owner several times, by the prince Francesco Publicola Santacroce to Prince Giovanni Torlonia, who renovated the building again in 1820. The theater rehabilitated its name, becoming a first-class theater: in 1870 the royal box was added to it, in honor of the king of Italy Vittorio Emanuele II of Savoy. Despite the success, the works for the construction of the banks of the Tiber, whose continuous floods undermined the safety of the city and its inhabitants, necessitated the demolition, in 1888, of the entire theater, which overlooked the river. Only in 1925 was a commemorative stele built, with an epigraph by Fausto Salvatori, where the theater once stood:
"IL TEATRO APOLLO
le pietre della antica torre orsina
a fasti e glorie d'arte musicale
apri' le dorate scene
e dove foscheggio' Torre di Nona
libera si diffuse la pura melodia italica
del Trovatore il 19 gennaio del 1853
di Un Ballo in Mascheria il 17 febbraio del 1859.
qui dove sul teatro demolito
passa la luova strada romana
il genio di Giuseppe Verdi
affida l'eterna melodia canora
all'aria, al sole, al cuore umano
THE APOLLO THEATER
the stones of the ancient Orsina tower
to the pomp and splendor of musical art
opened the golden scenes
and where the Torre di Nona faded
the pure Italic melody spread freely
del Trovatore on January 19, 1853
by Un Ballo in Mascheria on February 17, 1859.
here where on the demolished theater
the new Roman road passes
the genius of Giuseppe Verdi
entrusts the eternal singing melody
to the air, to the sun, to the human heart"
After the destruction of the building, l'Istituto Autonomo Case Popolari took charge of the reconstruction of the same in the immediate vicinity of the old location of the Tordinona theater, promising to perpetuate its name and fame: in the early thirties of the twentieth century the Tordinona theater reopened the flying in via degli Acquasparta, in the back of the building in Calza Bini intended for the headquarters of l'Istituto Autonomo Case Popolari. The attendance of the theater by the Sicilian playwright Luigi Pirandello, however, earned him the change of name from Teatro Tordinona to Teatro Pirandello from the end of the 1940s until 1968, when the old name was restored.
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personal-reporter · 3 years ago
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Mario Lodi, maestro per tutti
Mario Lodi, maestro per tutti
Il maestro che decise di cercare di aiutare i più piccoli a trovare la loro strada… Mario Lodi nacque il 17 febbraio 1922 a Piadena (Cremona) e si diplomò maestro all’Istituto Magistrale il 10 giugno 1940. (more…)
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carmenvicinanza · 3 years ago
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Teresa Mattei
https://www.unadonnalgiorno.it/teresa-mattei/
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Teresa Mattei, partigiana, politica e pedagogista. È stata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente.Una donna determinata, sempre in conflitto con le istituzioni, si è spesa per dare senso a politiche che valorizzassero la soggettività della vita quotidiana.Espulsa dal partito, perché non ha mai piegato la testa e condiviso pratiche che non condivideva, ha lottato per tutta la sua vita per la salvaguardia della pace, della costituzione e in tutela dei diritti dell’infanzia.Nata a Genova, il 1° febbraio 1921, sua madre era una glottologa e suo padre un avvocato antifascista attivo nei gruppi di Giustizia e Libertà. Nel 1932 la famiglia si trasferì a Bagno a Ripoli, dove il genitore divenne un importante dirigente toscano del Partito d’Azione. Aveva 17 anni, nel 1938, quando venne espulsa dal liceo classico e radiata da tutti gli istituti del Regno perché protestò pubblicamente contro le leggi razziali. Terminò gli studi da privatista e si laureò in Filosofia.In occasione della dichiarazione di guerra, nel 1940, ha organizzato la prima manifestazione in Italia contro il conflitto. Divenne comunista e partigiana, il suo nome di battaglia era
Chicchi
.Comandante di Compagnia, ha fondato i Gruppi di difesa della donna di Firenze. A Perugia venne catturata dai tedeschi, seviziata e violentata.Partecipò alla programmazione dell’omicidio di Giovanni Gentile, il filosofo, suo ex docente, che aveva dato un volto presentabile al regime fascista.Nel 1946, a venticinque anni, fu la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, dove assunse l’incarico di segretaria dell’ufficio di presidenza.L’articolo 3 della Costituzione, sul tema fondamentale dell’uguaglianza, porta anche la sua firma.Divenne scomoda al suo stesso partito per essersi rifiutata di adeguare la propria vita di donna agli ordini di un PCI moralista e bigotto. Nel 1947 era rimasta incinta dalla relazione con un uomo sposato e Togliatti aveva deciso che doveva abortire, non fu la sola donna a cui impose quella scelta, fu così che decise che avrebbe rappresentato le ragazze madri in Parlamento. Nello stesso anno ha fondato, insieme a Maria Federici, l’Ente per la Tutela morale del Fanciullo.La maledetta anarchica (così la chiamava Togliatti), non accettò passivamente l’imposizione del voto a favore dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione e si rifiutò di candidarsi nel 1948.Quando le divenne impossibile mantenere la fiducia nel comunismo sovietico, aveva personalmente denunciato le degenerazioni di Stalin e la linea di Togliatti, venne espulsa dal partito.Fuori dalla scena istituzionale, ha proseguito la sua lotta in favore dei diritti delle donne e dei minori.Dissentendo dal modo d’agire dei partiti politici italiani, si è impegnata nel lavoro della comunicazione da aprire a chi non aveva diritto di parola, a cominciare dai bambini.Negli anni sessanta ha fondato e diretto la Cooperativa di Monte Olimpino che promuoveva il cinema realizzato dai bambini come nuova forma di comunicazione, producendo dei film che vennero presentati alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1968.
Nel 1986 ha fondato la Lega per il diritto dei bambini alla comunicazione, con la parola d’ordine Chiedo ascolto e promosso importanti campagne in favore dell’infanzia per fondare una cultura di pace.
Nel 1994 ha lanciato, col figlio Rocco Muzio, il progetto Radio Bambina, palinsesto su emittenti regionali toscane andato avanti fino al 2000.
Nel 1996 ha lanciato la raccolta di firme L’obbedienza non è più una virtù, per chiedere un nuovo processo al criminale nazista Erich Priebke, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine e della morte di decine di patrioti della Resistenza, al cui processo fu testimone, come sorella di Gianfranco Mattei, orribilmente torturato che si uccise in carcere per non tradire i compagni.
Nel 2001 è stata a Genova contro il G8, dove ha partecipato attivamente ai dibattiti schierandosi contro le violazioni della Costituzione di cui furono protagonisti il governo italiano e i suoi rappresentanti. Negli anni successivi è stata al fianco delle vittime di quelle giornate, per ristabilire i diritti e la giustizia.
Nel 2004, ha partecipato al pellegrinaggio ai campi di sterminio in Germania, pronunciando un discorso davanti a più di 200.000 ragazzi di tutta Europa a Mauthausen.
Si è battuta per il referendum contro le modifiche alla Costituzione nel 2006.
Ha continuato fino alla fine della sua vita a portare avanti i propri ideali di giustizia sociale.
È morta il 12 marzo 2013 a Usigliano, aveva 92 anni, era l’ultima donna vivente dell’Assemblea Costituente.
Ha vissuto con intensità la sua vita libera, dalla politica istituzionale all’attenzione per i problemi dell’infanzia, nel convincimento che già ai piccoli si debba insegnare come «cercare insieme le vie giuste e capire gli altri».Dirigente nazionale dell’Unione Donne Italiane, fu insieme a Teresa Noce e a Rita Montagnana l’inventrice dell’uso della mimosa per l’otto marzo.
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italianiinguerra · 4 years ago
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I bollettini di guerra del 17 febbraio 1941-42-43
I bollettini di guerra del 17 febbraio 1941-42-43
Il Bollettino del Quartier Generale delle Forze armate venne diramato in Italia a partire dall’ 11 giugno 1940, giorno in cui venne emesso il n° 1, fino al tragico 8 settembre 1943, per un totale di 1.201 comunicati. Esso, come venne indicato nelle disposizioni ufficiali, a partire dal 15 giugno 1940, sarà diramato alle ore 13 e conterrà tutto quanto concernente lo svolgimento delle operazioni…
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decima-flottiglia-mas · 8 years ago
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. Xª FLOTTIGLIA MAS 29 settembre del 1943 il Battaglione, chiamato "Valanga", come la gloriosa 9° Compagnia del cap. Morelli, che già aveva indossato il cappello con la piuma essendo un reparto alpino a tutti gli effetti, era inquadrato su comando di battaglione e tre compagnie. Successivamente venne aggregata una 4° compagnia, chiamata "Sereneissima", proveniente dal Battaglione N.P. e quindi reparto di Marina. Nell'aprile del 1944 entrò a far parte della Decima MAS assumendo il nome di "Luca Tarigo", una unità della classe "esploratori" affondata nel Mediterraneo nel 1941, come tradizione per i reparti della X MAS e cambiando il copricapo dal cappello alpino al basco con il giro di bitta della Marina. Queste varianti durarono però pochissimo e, probabilmente, non furono mai adottate dalla maggioranza dei Guastatori. Un'episodio accelerò infatti l'abolizione di queste varianti: una compagnia al comando del Cap. Satta venne inviata ad espugnare il rifugio alpino "Gastaldi", situato a 3200 metri d'altezza sul ghiacciao della Ciamarella in Piemonte, nel quale erano asseragliati 200 partigiani. Sebbene questi fossero molti di più dei Guastatori, meglio armati ed in una posizione più favorevole, i Guastatori alpini ebbero velocemente la meglio. Borghese si volle complimentare con Morelli e, giunto al reparto, lo trovò schierato senza alcun copricapo. Meravigliato chiese conto a Morelli di questo fatto e, il Comandante del Valanga, falsamente sorpreso (aveva organizzato tutto), disse ai Guastatori di andarsi a mettere il cappello. Tutti tornarono con il cappello alpino! Borghese capì ed in perfetto dialetto romano disse: "Va bè, Morelli ho capito, fai come ti pare!" E così il Valanga rimase Valanga e portò il cappello alpino! Solo la compagnia "Serenissima" continuò ad indossare il basco che già portava. Durante il periodo della R.S.I. il reparto operò dal fronte occidentale a quello orientale, soprattutto contro le infiltrazioni degli slavi del IX e X Corpus titino. E' anche grazie al "Valanga" che a Selva di Tarnova vennero salvati i 150 Bersaglieri del "Fulmine" sopravvissuti a tre giorni di combattimenti. Questi accerchiati da oltre 2500 slavi, furono liberati dai Guastatori che riuscirono ad avere la meglio sebbene in netta inferiorità numerica. Verso la fine del 1944 il "Valanga" raggiunse Jesolo dove si acquartierò nella colonia estiva "Dux", in riva al mare. Venne subito iniziato l'addestramento nella vicina Asiago al termine del quale fu conseguito il brevetto di specialità da tutti gli effettivi. A Jesolo i guastatori provvidero al minamento della spiaggai ed ebbero la responsabilità della difesa costiera. Alla fine di luglio il comando della divisione "Decima" decise di scardinare lo schieramento partigiano nelle Alte Valli piemontesi e il battaglione fu trasferito ad Ivrea da dove iniziò la marcia di avvicinamento che portò, tra le altre azioni, alla presa del rifugio Gastaldi. Nella prima decade di ottobre il battaglione lasciò il Piemonte e si trasferì a Vittorio Veneto, accantonandosi nelle scuole "Francesco Crispi". Quando in dicembre la divisione iniziò le operazioni contro il IX Corpus jugoslavo, al battaglione "Valanga" venne assegnato il compito di fermare il nemico nel settore settentrionale dello schieramento. Dopo un violento scontro a fuoco il battaglione, guidato dal Cap. Morelli, occupò stabilmente Tramonti di Sotto dove vennero rinvenute ingenti quantità di materiali, importanti documenti e catturati numerosi prigionieri, tra cui un maggiore britannico in uniforme. Sulla base dei documenti rinvenuti si decise di annientare il comando partigiano situato in una baita di Palcoda e il compito venne affidato a un plotone mitraglieri della 3° compagnia e a venti uomini della 2° compagnia "Uragano", della quale facevano parte i sergenti Grillo e Janiello. L'attacco si concluse con la cattura di circa cinquanta partigiani che vennero interrogati singolarmente il giorno dopo per giungere alle precise responsabilità dei singoli sulle efferate uccisioni avvenute nella zona. I colpevoli, in numero di dieci, vennero fucilati sul posto mentre gli altri furono avviati al comando della "Decima". Debellato il comando del X Corpus e liberata la val Meduna il battaglione "Valanga" rientrò a Vittorio Veneto per celebrare il Natale del 1944 ma il 26 dicembre vennero uccisi due guastatori in un agguato teso in città da alcuni guerriglieri della banda "Castelli". Dopo l'assassinio dei due guastatori, il battaglione riprese le azioni contro la banda "Castelli" nell'intento di catturarne il capo. Durante una di queste azioni cadde eroicamente il Sergente Maggiore Renato Grillo, il proprietario del distintivo. Il sottufficiale, indossato sull'uniforme un impermeabile inglese di quelli in uso presso le bande, si era introdotto da solo in una casa dove aveva luogo una riunione di partigiani, intimando loro la resa. Ma una raffica, sparatagli alle spalle lo uccise prima che tutta la pattuglia potesse intervenire. In questa occasione il suo amico e commilitone Janiello deve aver recuperato il distintivo che poi ha donato a Paolo Caccia Dominioni dopo la fine della guerra. Dopo la battaglia della Selva di Tarnova, le due compagnie rimaste a vittorio Veneto riuscirono a debellare la banda "Castelli", catturandone il capo. Il Castelli, che risultò responsabile anche del tragico agguato del 26 dicembre, venne fucilato. Nella prima decade di marzo il "Valanga si trasferì a Bassano del Grappa; in aprile riprese l'addestramento sulle falde del Monte Grappa. Il giorno 26 aprile rientrò dal campo ed al suo passaggio per le vie di Bassano la popolazione si radunò applaudendo i guastatori. Il giorno dopo giunse al battaglione l'ordine di abbandonare Bassano e raggiungere Thiene. Alle 19 il "Valanga" si mosse verso Thiene ma restò bloccato a Marostica perchè le colonne germaniche in ripiegamento occupavano la strada. Il 28 aprile il CLN di Marostica iniziò le trattative con il Capiano Morelli e venne convenuto che il battaglione avrebbe raggiunto nuovamente Bassano per sciogliersi: gli uomini sarebbero stati muniti di un lasciapassare e messi in libertà. Il 30 aprile il battaglione "Valanga" venne dichiarato disciolto. Agli ufficiali vennero lasciate le armi e a tutti i guastatori venne distribuito il brevetto in bronzo della specialità. La 2° compagnia che non si era ancora arresa raggiunse Trento, con un convoglio di Brigate Nere e, dopo accordi presi con il Vescovado si presentò ai carabinieri che, ricevute le armi, lasciarono liberi gli uomini. Era il 2 maggio 1945. A Morelli, che era stato decorato con due argenti al V.M. uno preso nel giugno 1940, in Francia (fu una delle prime decorazioni conferite) ed uno il 17 gennaio 1943 a Rossosch, furono revocate entrambe le medaglie insieme al grado, perché condannato, grazie ad una falsa testimonianza, per il periodo quando aveva comandato il Valanga. Non potendolo giudicare per un fucilazione di partigiani, eseguita secondo le regole del Diritto Penale Militare, si inventarono che aveva fatto la borsa nera! Benché ci fosse statal'amnistia, si rifiutò, sempre, di richiederla. Ma ebbe la sua rivincita. Senza aiuti, dimenticato dall'Esercito, degradato a geniere (soldato semplice), divenne uno dei più famosi direttori di produzione del cinema. Tra l'altro fu il direttore di produzione del film "La dolce vita". ( Notizie storiche tratte dal volume "Gli Ultimi in Grigioverde" di Giorgio Pisanò, dall'articolo di Sergio Coccia pubblicato sul numero 22 della Rivista "Uniformi & Armi" del febbraio 1991, dagli articoli pubblicati sui numeri 85 e 106 della stessa rivista e sul numero 16 del mensile "Militaria" del dicembre 1994 )
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aneddoticamagazinestuff · 9 years ago
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Carlo Fecia di Cossato
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Carlo Fecia di Cossato
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Carlo Fecia di Cossato
  A differenza di quanto si cerca comunemente di farci credere (il riduzionismo è la via maestra verso l’egalitarismo verso il basso…), l’Italia non è stata e non è popolata esclusivamente da omuncoli e quaquaraquà, ma ha conosciuto, nel corso della sua storia, figure limpidissime e nobilissime, animate da un’etica profonda, del tutto immuni da qualunque tentazione di consociativismo, captatio benevolentiae verso i padroni di turno, inclinazione a cambiare continuamente bandiera.
       Da questo punto di vista, la storia di Carlo Fecia di Cossato è esemplare, perché egli fu al centro di scelte personali e politiche difficili, ma dalle quali riuscì sempre ad uscire nel migliore dei modi, salvaguardando il suo onore, cioè una componente etica alla quale molti dei suoi compatrioti non furono mai troppo sensibili e un valore di cui oggi i più ignorano assolutamente il significato.
       Nato a Roma il 25 settembre 1908, da antica famiglia nobiliare piemontese dalla ricca tradizione militare, dopo aver completato gli studi superiori presso il Real Collegio di Moncalieri, entrò all’Accademia Navale di Livorno, dove uscì nel 1928 con il grado di guardiamarina.
       Il suo primo decennio di servizio fu particolarmente denso di eventi e, tra le altre cose, lo vide partecipare alla campagna d’Etiopia (1935-36) e alla Guerra Civile spagnola (1936-1939).
       Nel 1939 frequentò la Scuola Sommergibili di Pola e l’anno successivo venne promosso al grado di Capitano di Corvetta e nominato comandante di sommergibile.
      Il 10 giugno 1940, al momento dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, Fecia di Cossato era al comando del sommergibile “Ciro Menotti“, che compì numerose missioni nelle acque del Mediterraneo. Nell’autunno di quello stesso anno, venne trasferito alla base Betasom di Bordeaux, dalla quale operavano i sommergibili italiani chiamati a contrastare il traffico alleato nell’oceano Atlantico. Il successivo 5 aprile 1941 assunse il comando del sommergibile “Enrico Tazzoli” e qualche giorno dopo ebbe inizio la sua brillante attività operativa, che lo portò a essere insignito di importanti decorazioni tanto da parte della Marina italiana (fino ad arrivare alla medaglia d’oro al valor militare) quanto di quella tedesca, Nel corso della sua azione come comandante del “Tazzoli“, Fecia di Cossato realizzò 17 affondamenti, mentre un 18° affondamento, relativo a un incrociatore britannico, è rimasto controverso. In totale, egli riuscì ad affondare naviglio nemico per quasi 90.000 tonnellate, dimostrandosi uno dei più validi comandanti sommergibilisti italiani. Personalità singolare, appassionato di letteratura erotica, carattere incline al beau geste, si racconta che – dopo aver affondato un mercantile panamense al largo delle coste americane – salì in torretta brandendo un Tricolore e invitando i naufraghi a raccontare che i sommergibili italiani ci venivano eccome ad affondare navi al largo delle loro coste, a differenza di quanto sostenuto dalla propaganda USA. Nel febbraio 1943, Fecia di Cossato lasciò il comando del “Tazzoli” per assumere quello della III Squadriglia Torpediniere, con il grado di capitano di fregata. Qualche mese dopo, la notizia che il “Tazzoli” era affondato in circostanze poco chiare, portando con sé tutto l’equipaggio, lo turbò profondamente. Una delle componenti essenziali del suo stile di comando, infatti, era un rapporto molto stretto e cameratesco con i suoi subordinati, i quali erano soliti dimostrare un attaccamento molto forte a un comandante così sensibile alle loro esigenze. L’8 settembre 1943, Fecia di Cossato era in navigazione da La Spezia verso Bastia, in Corsica, al comando della corvetta “Aliseo”. Fu in quel porto che apprese la notizia dell’armistizio. Il giorno successivo, mentre la sua nave veniva attaccata da ingenti forze tedesche, egli si mantenne fedele al re e reagì vigorosamente agli attacchi germanici, Successivamente, sempre al comando della sua unità egli raggiunse Malta, dove fu profondamente turbato delle condizioni umilianti in cui era stata ridotta dagli Alleati la squadra navale italiana. Fu in quei difficili mesi che Fecia di Cossato maturò il convincimento di essere stato l’involontario protagonista di una resa ignominiosa, alla quale egli si era piegato solo in ossequio a un ordine del sovrano e del suo giuramento al re. Nel giugno 1944, il nuovo governo italiano, presieduto da Ivanoe Bonomi, si insediò in carica rifiutando di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele III. Questa fu la lacerazione decisiva, che indusse Fecia di Cossato a ritenersi sciolto da ogni giuramento precedente e in particolare dall’obbligo di obbedire agli ordini emanati da un governo che non aveva giurato fedeltà al sovrano. Tale decisione provocò ovviamente la reazione del Comando Supremo della Marina, che lo sollevò dal comando dell'”Aliseo” e lo fece mettere agli arresti. Questa scelta provocò però grave disagio tra gli equipaggi di stanza nella base di Taranto, che incominciarono a tumultuare e a chiedere l’immediata liberazione di Fecia di Cossato e il suo reintegro in comando. Onde evitare che la situazione degenerasse, i comandanti della Marina disposero l’immediata liberazione di Fecia di Cossato, ma lo inviarono in licenza per tre mesi. Fu in questo periodo che egli maturò il suo dramma: aveva obbedito all’ordine del re di consegnare l’unità al suo comando a quello che, fino al giorno prima, era stato il nemico e, attaccato da unità tedesche, aveva reagito con estrema vigoria, a differenza di molti altri che si erano limitati a scappare, nei giorni dell’8 e 9 settembre. Ai suoi occhi, tuttavia, il cambiamento repentino di campo voluto da Vittorio Emanuele III era un gesto assolutamente inaccettabile, che ripugnava alla sua coscienza di soldato. Al tempo stesso, l’avere ubbidito fedelmente agli ordini del re non aveva impedito che entrasse in carica un governo che pareva decisamente ostile all’istituto monarchico, che per Fecia di Cossato era una fede. Dopo aver tentato invano di ottenere un colloquio privato con il principe Umberto, al quale intendeva evidentemente spiegare la sua posizione, non potendo rientrare al Nord, nell’Italia divisa in due dal conflitto, si trasferì da Taranto a Napoli, ospite di un amico. Su questo trasferimento è stata imbastita, nel corso degli anni, una patetica manovra, intesa a sporcare la nobile figura di un grande combattente. Fin dal 1939, infatti, Carlo Fecia di Cossato intratteneva una relazione con una nobildonna napoletana. Relazione non ignota, in certi ambienti, ma che egli aveva sempre cercato di mantenere sotto traccia e priva di serie implicazioni, in quanto la signora era moglie di un collega di Marina. Dopo che, il 27 agosto 1944, egli decise di suicidarsi, sparandosi un colpo di pistola alla tempia, si è cercato di far diventare questa relazione senza possibili sbocchi la “causa vera” del suo suicidio, in modo da ridurre – con tipico stile italico – un gesto nobilissimo a una banale storia d’alcova. Non è così e, per comprenderlo, è sufficiente la lettera-testamento che egli scrisse alla madre; una lettera bellissima, che parla al cuore di tutti coloro che, all’interno del medesimo, conservano un minimo di lealtà e dignità:“Mamma carissima,
quando riceverai questa mia lettera saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile.
Non pensare che io abbia commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuro.
Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci é stata presentata come un ordine del re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace.
Tu conosci cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato.
Da questa constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso.
Da mesi, mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo nella mia vita.
Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro.
Spero, mamma, che mi capirai e che anche nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato.
Tu credi in Dio, ma se c ‘è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora.
Per questo, mamma, credo che ci rivedremo un giorno.
Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato.
In questo momento mi sento vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.
Carlo”        Chi scrive ritiene che la vicenda di Carlo Fecia di Cossato sia paradigmatica di un dramma italiano tuttora irrisolto, quello dell’8 settembre 1943. Essa dimostra che anche gli uomini che, per fedeltà dinastica al re, fecero la scelta del “cambio di campo in corsa”, non tardarono a comprendere lo straordinario inganno di cui erano stati oggetto e il pozzo senza fondo in cui tale inganno aveva gettato non solo essi, ma la stessa monarchia, che di quell’inganno era la principale responsabile. Di fronte a tale constatazione (che peraltro fecero solo alcuni), la maggioranza del popolo italiano si preoccupò come sempre di acconciarsi ai nuovi padroni, incurante di qualsiasi esigenza di dignità e onore. Parole vuote, per i più, facilmente sostituibili con prebende e carriera, o semplice sopravvivenza. Carlo Fecia di Cossato, per contro, capì giustamente che il dramma di un’intera Nazione era anche un suo dramma personale e fece la scelta migliore: si suicidò ed evitò così il disonore. La Nazione (ma possiamo davvero definirla così?) scelse invece di non suicidarsi e di vivacchiare alla meno peggio come ha fatto per secoli. Non direi però che sia riuscita ad evitare il disonore, o l’indegnità più totale.
PIERO VISANI
http://derteufel50.blogspot.de/
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janiedean · 8 years ago
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a) I giapponesi americani non erano prigionieri di guerra, ma cittadini sottoposti solamente all'autorità degli USA. Gli italoamericani non sono stati internati. Continui a dire puttanate. Gli italiani si, ma cittadini del paese nemico sono SEMPRE internati in casi simili. Tutt'altro che illegale. b) si, la repubblica sociale rispettava le leggi internazionali, dato che non uccidevano o torturavano i prigionieri alleati. I partigiani, che non erano protetti da alcuna legge, si.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Internamento_degli_italiani_negli_Stati_Uniti
L’Internamento degli italiani negli Stati Uniti si svolse nel corso della Seconda guerra mondiale, in particolare tra il 1941 e il 1944, e riguardò parte degli italo-americani, considerati come possibile nemico da parte del governo degli Stati Uniti dopo la dichiarazione di guerra del Regno d'Italia l'11 dicembre 1941.
A differenza degli americani di origine giapponese che sono stati internati durante la guerra, gli italo-americani perseguitati non hanno mai ricevuto risarcimenti.[1] Nel 2010, la legislatura della California ha approvato una risoluzione chiedendo scusa per i maltrattamenti subiti dai residenti di origini italiane.[2]
Allo scoppio della seconda guerra mondiale gli imprenditori italiani che temporaneamente vivevano negli Stati Uniti, al pari dei diplomatici della stessa nazionalità o degli studenti che studiavano negli Stati Uniti, divennero “stranieri ostili” dal momento in cui l'Italia dichiarò guerra. In alcuni casi, tali residenti temporanei furono espulsi (come nel caso dei diplomatici) o fu data loro la possibilità di lasciare il paese quando la guerra venne dichiarata. Alcuni furono internati, così come i marinai dei mercantili catturati nei porti degli Stati Uniti quando le loro navi vennero poste sotto sequestro allo scoppio della guerra in Europa nel 1939.
Per membri della comunità italiana negli Stati Uniti il problema fu più arduo del previsto, dato che, definita in termini di origine nazionale, tale comunità era la più grande degli Stati Uniti, essendo aumentata costantemente grazie ai flussi di immigrati provenienti dall'Italia tra il 1880 e il 1930. Nel 1940 vi erano negli Stati Uniti milioni di cittadini d'origine italiana con la cittadinanza americana. C'erano anche un gran numero di italiani considerati “stranieri ostili”, più di 600.000, che secondo la maggior parte delle fonti erano immigrati nei decenni precedenti e non erano ancora diventati cittadini naturalizzati.
Le leggi in materia di “stranieri ostili” non facevano distinzioni di natura ideologica, trattando in modo analogo gli imprenditori italiani iscritti al partito fascista che vivevano per un breve periodo negli Stati Uniti e che rimasero lì bloccati allo scoppio della guerra, gli antifascisti rifugiati provenienti dall'Italia arrivati pochi anni prima con l'intenzione di diventare cittadini americani ma che non avevano ancora concluso il processo di naturalizzazione, e quelli che emigrati in Italia alla fine del XIX secolo e cresciuto in famiglie di italiani con la cittadinanza, ma che non erano ancora naturalizzati: essi furono tutti ugualmente considerati nemici.
Nei mesi immediatamente successivi al 7 dicembre 1941, data dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, centinaia di italiani vennero arrestati. L'11 dicembre la Germania nazista e l’Italia fascista dichiararono guerra agli Stati Uniti. Gli Stati Uniti ricambiarono, entrando così nella seconda guerra mondiale. Nel giugno 1942, gli stranieri italiani arrestati dall’FBI.[11] raggiunsero il totale di 1.521. Circa 250 individui furono internati per un massimo di due anni nei campi militari in Montana, Oklahoma, Tennessee e Texas.
A fine dicembre 1941, gli stranieri ritenuti ostili, in tutti gli Stati Uniti, Porto Rico e le Isole Vergini Americane, furono tenuti a restituire le cineprese portatili, gli apparecchi radiofonici ad onde corte, le riceventi e i trasmettitori radio entro le ore 23:00 del seguente lunedì.[12]
Nel gennaio 1942, tutti gli stranieri appartenenti alle nazionalità ostili furono tenuti a registrarsi presso gli uffici postali del luogo di residenza. Come stranieri nemici dovevano essere prese loro le impronte digitali, andavano fotografati, e dovevano portare con sé dei documenti che li indicavano come “enemy alien” in ogni momento. Il procuratore generale Francis Biddle garantì che alcuni degli stranieri nemici non sarebbero stati discriminati se si fossero dimostrati fedeli, e citando le cifre del Dipartimento di Giustizia indicò in 1.100.000 gli stranieri nemici degli Stati Uniti, dic ui 92.000 giapponesi, 315.000 tedeschi, e 695.000 italiani. In tutto, 2.972 furono gli arrestati e detenuti, per lo più giapponesi e tedeschi; gli italiani arrestati invece furono solo 231.[13]
In data 11 gennaio, il New York Times riferì che il giorno precedente “i rappresentanti di 200.000 sindacalisti italoamericani hanno lanciato un appello al presidente Roosevelt per rimuovere lo stigma intollerabile di essere marchiati come “stranieri ostili” da parte di cittadini italiani e tedeschi che hanno formalmente dichiarato le loro intenzioni di diventare cittadini americani e di rinunciare ai vecchi documenti prima dell'entrata dell'America in guerra”.[14]
Poche settimane dopo, lo stesso giornale riferì che “Migliaia di nemici stranieri che vivono in aree adiacenti ai cantieri navali, porti, centrali elettriche e fabbriche di difesa cercano oggi una nuova casa, di come il procuratore generale aggiunto Biddle ha esteso prima alla California e poi all'intera West Coast le misure contro i cittadini giapponesi, italiani e tedeschi.[15]
Il 1º febbraio, il Dipartimento di Giustizia avvertì tutti gli stranieri di nazionalità nemica dai quattordici anni in su che dovevano registrarsi in settimana se avevano vissuto negli stati di Washington, Oregon, California, Arizona, Montana, Utah e Idaho. La pena era l'internamento per tutta la durata della guerra o altre misure più severe.[16]
Più tardi, nel mese di febbraio, i membri dell'Italoamerican Labour Council, fondato da Luigi Antonini, si incontrano a New York ed espressero “opposizione a qualsiasi legge per gli stranieri che non differenzi tra coloro che sono sovversivi e coloro che sono fedeli all'America”.[17]
Nel mese di marzo fu istituita la War Relocation Autority (vedi sopra). Anche in questo caso, il trasferimento dei cittadini e non avvenne allo stesso modo, sotto tale autorità fu giuridicamente molto diverso dall'arresto e dalla detenzione di cittadini stranieri ai sensi della legge sui nemici. Entro il 23 settembre 1942, il Dipartimento di Giustizia affermò che “… Dal momento dell'attacco giapponese a Pearl Harbor fino al 1º settembre, 6800 stranieri ostili sono stati fermati negli Stati Uniti, e la metà di loro sono stati rilasciati sulla parola”.[18]
Nel mese di ottobre, i 600.000 italiani non naturalizzati che vivevano negli Stati Uniti furono liberati dallo stigma di essere stranieri ostili. Il piano fu approvato dal presidente Roosevelt e molte restrizioni furono revocate: i membri della comunità italiana potrevano ora viaggiare liberamente, tenere le cineprese e le proprie armi da fuoco, e non erano più tenuti a portare con sé ovunque vadano le carte d'identità.[19]
La resa dell'Italia l'8 settembre 1943 portò alla liberazione della maggior parte degli internati italiani americani entro la fine dell'anno. Alcuni erano stati rilasciati da mesi sulla parola dopo un “esonero” stabilito da un consiglio di seconda audizione sulla base di appelli avanzati dalle loro famiglie, tuttavia la maggior parte degli uomini avevano già passato due anni come prigionieri, passando da un campo all'altro ogni tre o quattro mesi.[11]
Il 7 novembre 2000, il Congresso accertò la violazione da parte del governo in tempo di guerra dell'American Civil Liberties Act nei confronti degli italiani (Pub.L. 106-451 , 114 Stat. 1947). Questa legge, in parte, indicò al procuratore generale di condurre un esame approfondito del trattamento riservato dal Governo degli Stati Uniti agli italoamericani durante la seconda guerra mondiale e di presentare le conclusioni in merito entro un anno. Il Procuratore Generale presentò tale relazione, una rassegna delle restrizioni sulle persone di origine italiana durante la seconda guerra mondiale, al Congresso degli Stati Uniti il 7 novembre 2001. La Commissione Giustizia della Camera rilasciò la relazione al pubblico il 27 novembre 2001.[20] La relazione, relativa al periodo che va dal 1º settembre 1939 al 31 dicembre 1945, descrisse in che modo il governo degli Stati Uniti si impegnò ad applicare restrizioni in tempo di guerra contro gli italoamericani ed esaminò in dettaglio tali restrizioni. Inoltre, il report conteneva 11 liste, la maggior parte delle quali comprendevano i nomi delle categorie più coinvolte nelle limitazioni del tempo di guerra.[21] Gli elenchi comprendevano:
i nomi delle 74 persone di origine italiana prese in custodia nella retata iniziale dopo l'attacco a Pearl Harbor e prima della dichiarazione di guerra degli Stati Uniti contro l'Italia,
i nomi di 1.881 altre persone di origine italiana che sono state prese in custodia,
i nomi e le posizioni di 418 persone di origine italiana che sono state internate,
i nomi delle 47 persone di origine italiana a cui è stato ordinato di passare in aree designate nell'ambito del Programma individuale o d'esclusione, e di altre 12 che sono apparse dinnanzi alla commissione d'esclusione individuale, senza che un provvedimento di espulsione sia stato emesso,
i nomi delle 56 persone di origine italiana non destinatarie di provvedimenti di esclusione individuali che sono state condannate a spostarsi temporaneamente da aree designate,
i nomi di 442 persone di origine italiana arrestate per violazione del coprifuoco, contrabbando, o altre violazioni,
un elenco di 33 porti in cui sono state limitate le attività dei pescatori di origini italiane,
i nomi dei 315 pescatori di origini italiane a cui è stato impedito di pescare in zone vietate,
i nomi di 2 persone di origini italiane le cui imbarcazioni sono state confiscate,
una lista di 12 lavoratori delle ferrovie di origini italiane a cui è stato impedito di lavorare in zone vietate, di cui solo 4 sono nominati esplicitamente
una lista di 6 restrizioni in tempo di guerra sulle persone di origini italiane legate all’Ordine Esecutivo 9066.
chi dice puttanate? :’DDDDDDD
poi i cittadini del paese nemico sono SEMPRE internati?
…….. buonanotte.
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https://it.wikipedia.org/wiki/X%C2%AA_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana)
La Xª[1]Flottiglia MAS (dal 1º maggio 1944, con l'unificazione di vari battaglioni, rinominata in Xª Divisione MAS[2]anche se è meglio nota semplicemente solo e soltanto come Xª MAS) è stato un corpo militare indipendente, ufficialmente parte della Marina Nazionale Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana, attivo dal 1943 al 1945. La Xª Flottiglia MAS al nord, al comando del capitano di fregata Junio Valerio Borghese in seguito all’armistizio di Cassibile strinse accordi di alleanza con il capitano di vascello Berninghaus della Marina da guerra germanica.
Durante i due anni che seguirono operò in coordinazione coi reparti tedeschi, sia per contrastare l'avanzata alleata dopo lo sbarco di Anzio e sulla Linea Gotica e nel Polesine, sia in operazioni contro la resistenza italiana, attività durante la quale l'unità impiegò metodi di repressione violenti e terroristici e si macchiò di crimini di guerra[3], e infine nel tentativo di difendere i confini nordorientali dalla controffensiva iugoslava, cercando anche di affermare l'italianità di quelle regioni di fronte alle politiche annessionistiche dell'occupante tedesco[4][5][6] sostenuto da elementi collaborazionisti serbi, croati e sloveni[7]. Peraltro questi tentativi velleitari non ottennero risultati ed i reparti inviati in Friuli furono presto fatti trasferire oltre il Piave, a Thiene, dal Gauleiter Rainer, deciso a mantenere il controllo totale della regione[8].
c’è bisogno che ti c/p anche il resto? :’DDDDDDDDDDD
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musicvilla · 5 years ago
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Nato negli Stati Uniti il 17 febbraio 1940, Gene Pitney è stato musicista, cantante e compositore di buone qualità, ed ha avuto una lunga carriera (più di quaranta album), anche se il suo più... via Rockol Music News
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anmicastellabate · 7 years ago
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Sommergibile Malachite classe 600 – serie PERLA
Impostato il 31 agosto 1935 nei Cantieri del Muggiano di La Spezia varato il 15 luglio 1936 consegnato il 6 novembre 1936 Il 10 giugno 940 e’ dislocato a Taranto (47° sq.IV gruppo)
CARATTERISTICHE
Anno di costruzione: 1936 Cantiere: Odero Terni Orlando – La Spezia (Italia) Nazionalità: italiana Dislocamento in superficie/immersione: 695t/855t Lunghezza: 60,18 metri Larghezza: 6,45 metri Immersione: 4,70 metri Propulsione in superficie: 2 motori diesel (Tosi) Propulsione in immersione: 2 motori elettrici (Marelli) Cavalli superficie: 1.400 Cavalli immersione: 800 Eliche: 2 Velocità in superficie: 14 nodi Velocità in immersione: 7,5 nodi Armamento in superficie: 1-100/47 2-13,2 Armamento in immersione: 6 tubi lanciasiluri da 533mm Autonomia in emersione: 5200 miglia a 8 nodi Autonomia in immersione: 74 miglia a 4 nodi
LE OPERAZIONI EFFETTUATE
Effettua 36 uscite operative: 22 missioni offensive e/o esplorative in Mediterraneo, 1 missione trasporto mezzi d’assalto, 13 uscite per esercitazione o trasferimento, percorse miglia 29085.
Dal 20 al 27/6/1940 – Agguato a N. di Maiorca. Al rientro da questa missione entra in arsenale per turno di lavori. Durante la sosta avviene lo scambio di consegne fra il C.C. D’Elia che assume il comando del “Giuliani” e il T.V. Enzo Zanni.
Agguato a NE di Derna. Il 15/12, durante la navigazione per portarsi in zona, subisce l’attacco di un aereo che riesce a neutralizzare con le armi di bordo. La notte sul 27/1/1941 – Ricerca idroponica nello stretto di Messina.
Dal 15 al 22/3/1941 Agguato nel canale di Cerigotto. La notte sul 19 avvista un incrociatore scortato da CCtt. Alle ore 01.19, lancia due siluri che non colpiscono. Non puo’ proseguire nell’azione perche’ sottoposto a violenta caccia a.s. deve disimpegnarsi in immersione.
Dal 10 al 18/4/1941 Agguato a N del golfo di Sollum. La sera del 14, alle ore 23.37, avvista un grosso convoglio che non puo’ attaccare per la pronta reazione a.s. della scorta che gli impedisce di portarsi a distanza di lancio.
Dal 3 al 14/7/41 Agguato a N di Ras Azzaz. Alle ore 20.00 del 3 avvista un grosso incrociatore contro il quale lancia subito un siluro. Udito lo scoppio dell’arma, si disimpegna in immersione.
Dal 25/9 al 5/10/1941 – Agguato al largo di Ras Aamer. Dal 20 al 27/1/1942 – Agguato al largo di Ras Aamer. Dall’11 al 23/2/1942 – Agguato lungo le coste della Cirenaica. Dall’8 al 21/4/1942 – Agguato lungo le coste della Cirenaica. Dall’1 al 9/6/1942 – Pattuglia a NW di Algeri. Dal 15 al 18/6/1942 – Agguato a NW di Algeri. Dal 22 al 24/6/1942 – Agguato a N di Capo Blanc
PROGETTO “R.S. MALACHITE”
Mentre dal 16 al 17/7/1942 – Pattuglia lungo le coste tunisine. Rientra in anticipo per avaria e va in arsenale per le riparazioni e un turno di riposo all’equipaggio. Durante la sosta e in attesa della missione successiva avviene lo scambio di consegna fra il T.V. Zanni e il T.V. Alpinolo Cinti. Dal 20 al 26/11/1942 – Agguato lungo le coste algerine. Il 24, durante un’incursione nella rada di Philippeville, alle ore 04.11, lancia due siluri contro tre piroscafi che procedono scortati. Rientra a Cagliari dove rimane dislocato temporaneamente. Dal 16 al 24/12/1942 – Pattuglia fra La Galite e Cap de Fer. Dal 4 al 5/1/1943 – Agguato nelle acque di La Galite.
Poi dal 21 al 22/1/1943 – Pattuglia fra Capo Carbon e Bougaroni. Il 22 alle ore 04.55 avvista un convoglio diretto verso Bona. Alle ore 05.18 lancia una salva di quattro siluri. Costretto a disimpegnarsi dalla pronta e violenta reazione della scorta, mentre si immerge avverte distintamente due esplosioni.
Il 6 febbraio effettuato lo sbarco degli uomini a 9 mg da Capo Matifu, attende invano fino alle 06.30 del 7 il loro rientro. Dirige quindi per il ritorno alla sua base di Cagliari. E’ già’ in vista della Costa italiana quando viene silurato.
AFFONDAMENTO
Il 9 febbraio 1943 alle ore 11.00 circa al largo di Capo Spartivento, silurato dal Sommergibile olandese “Dolfijn”. Evita con una rapida manovra tre siluri, il quarto lo colpisce al centro sulla sinistra provocandone l’affondamento in un minuto. Sopravvivono: il comandante , 3 ufficiali, 9 sottufficiali, sottocapi e comuni.
Affondano col battello:
Ufficiali di macchina: S.T.V. (GN) Giovanni Rubino; 34 sottufficiali, sottocapi e comuni:
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C° 2a cl. Francesco Di Corato
C° 3a cl. Giuseppe Serini
2°c. Corrado Cadaleta
2°c. Giuseppe Cesarini
2°c. Mario Fossati
2°c. Giuseppe Rossi
Sgt. Ruggero Casola
Sgt. Aldo Cesca
Sgt. Ettore Etro
Sc. Ernesto Ariani
Sc. Sesto Andreolini
Sc. Dino Buglioli
sc. Bruno Carotenuto
Sc. Vittorio Colombo
Sc. Mario Giberto
Sc. Nello Giovanetti
Sc. Angelo Lamonea
[/ezcol_1half] [ezcol_1half_end]
Sc. Esilio Lazzari
Sc. Mario Loi
Sc. Renato Negrin
Sc. Ermelindo Orlando
Sc. Carmine Passaro
Sc. Pasquale Picca
Sc Ottavio Sciarpella
Com. Dante Baldassarre
Com. Ermanno Bani
Com. Otello Casadei
Com. Alterio Cozzolino
Com. Elios Durazzi
Com. Sebastiano Faoro
Com. Raffaele Franzoni
Com. Vincenzo Piscopo
Com. Mario Piuri
Com. Bruno Raviola.
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Identico alla serie Sirena, della quale altro non e’ che una ripetizione, avevano lo scafo tipo Bernardis con doppi fondi centrali molto resistenti e controcarene esterne, con una profondità di collaudo di 80 metri. Ebbero motori più potenti, una maggiore dotazione maggiore di combustibile ed un nuovo impianto di condizionamento. Esteriormente mostravano solo la falsatorre un po’ più grande nella parte superiore ed un radiogoniometro manovrabile dall’interno dello scafo.
La serie era costituita da: Perla, Gemma, Berillo, Diaspro, Turchese, Corallo, Ambra, Onice, Iride e Malachite.
Solo il Diaspro, Turchese e Onice sopravvissero alla guerra.
Nel corso del mese di Gennaio 1943, al sommergibile Malachite (al suo attivo 22 missioni esplorative offensive, 14 di trasferimento, percorse 29085 miglia) agli ordini del T.V. Alpinolo CINTI, fu affidata una missione in Algeria. A bordo una squadra di incursori del battaglione San Marco agli ordini del Sottotenente Bartolini, con obiettivo la distruzione di un ponte ferroviario a El Kjeur. Una volta sbarcato il commando nelle vicinanze della costa Algerina, il Regio Smg Malachite rimase in silenzio totale in attesa del segnale convenuto per il recupero degli uomini.
L’equipaggio intese chiaramente la violenta esplosione, e dopo pochi minuti fu avvistato il segnale. Mentre si avvicinava al luogo convenuto, sulla spiaggia si scateno una battaglia con una serie di spari ed esplosioni. Rimasto in attesa ben oltre il tempo stabilito, con il pericolo imminente di essere scoperto dalle forze navali ed aeree nemiche, il T.V. Alpinolo CINTI ordinò l’immediata partenza. Fu intercettato per ben due volte sulla via del ritorno, ma il suo Comandante si svincolo’ e riuscì a scappare.
L’affondamento
Il 9 febbraio del 1943 nei pressi della costa sud della Sardegna, risali in superficie iniziando i preparativi per l’arrivo in porto. A 3 miglia a sud di Capo Spartivento, il sottomarino olandese Dolfjn, non si sa come, era in agguato in quelle acque e quando scorse dal periscopio due imbarcazioni che erano più o meno a due miglia da lui, capì subito che uno era un sommergibile che rientrava da una missione e decise di attaccarlo. Lanciò 4 siluri dai tubi di lancio di prora ad intervalli di 5, 8 secondi l’uno dall’altro.Due siluri furono abilmente evitati dal Com.te CINTI ma il terzo siluro esplose sul fianco del Malachite dopo circa due minuti. Il “gigante” iniziò ad affondare di poppa e qualche minuto dopo, prima di sparire negli abissi marini, si alzò verticalmente con la prua e la torretta fuori dall’acqua, qualche istante e scomparì sott’acqua. Subito giunsero sul luogo alcune imbarcazioni per soccorrere i 13 naufraghi, tra di essi il comandante CINTI. Perirono 35 membri dell’equipaggio in quelle gelide acque. Nessuno vide ne si accorse del Dolfjn che silenziosamente si allontanò dalla zona.
Tra i marinai imbarcati sul Malachite anche il nostro cittadino Carmine Passaro
Il Sottocapo Carmine Passaro
Articoli di giornale
TESTIMONIANZE
IL SOMMERGIBILE MALACHITE (BOLLETTINO DI GUERRA 914) – RACCONTATO DALL’EX SOTTOCAPO PASQUALE PELILLO .
La notte del 23 Novembre 1942, notte così pulita e fosforescente che sembrava fatta apposta per mettere in maggiore rilievo il sommergibile in emersione, nonostante la luna. Il Comandante Cinti, ci portò tanto vicino all’imboccatura della Baia di Philippeville, dove si vedevano chiaramente le onde frangersi contro le banchine del porto, le case della città biancheggiare come fossero di gesso, gli alberi del lungomare agitati dal vento, Philipeville senza un lume alle finestre senza una lampada per le vie, in uno scuramento di guerra perfetto.
A questo punto il Comandante Cinti sotto quel plenilunio che illuminava a giorno il mare, vide una motosilurante nemica avventarsi alla distanza di tre o quattro miglia, verso il sommergibile e ordinò immediatamente la rapida immersione. Fu soltanto più tardi, quando gli idrofoni, esplorando bene bene il mare diedero la certezza della zona libera, che effettuammo l’emersione e senza indugio il Comandante ci spinse sotto la costa; adesso la nuvolaggine, mettendo ogni tanto uno schermo allo sfacciato chiarore della luna aiutava il nostro compito. Quando però il riflettore della luna si riaccendeva, tutto tornava improvvisamente terso ed allucinante.
Ci allontanammo dalla Baia di Philipeville, non c’erano navi nemiche ma non era detto che non ce ne fossero nei dintorni, infatti fu proprio ad una decina di miglia dalla costa al largo di Capo de Fer, in una zona dove il nemico doveva sentirsi abbastanza sicuro che avvistammo una formazione composta da quattro piroscafi e tre cacciatorpediniere di scorta. Il Comandante Cinti capì subito che una delle quattro navi era una petroliera. Il sommergibile aveva la luna alle spalle e appariva sullo sfondo del cielo, tanto che la petroliera ci avvistò e cominciò a spararci contro con il cannone. Il Comandante Cinti ordinò subito il lancio di due siluri verso il piroscafo di testa e sentimmo un fortissimo scoppio con accompagnamento di vampe di fuoco.
Ormai il piroscafo era perduto, si arrestò di colpo come fecero le altre navi che gli si affollarono intorno, proprio come si fa con un infortunato sulla pubblica via. I cacciatorpediniere in circostanze simili non possono usare le bombe di profondità come è comprensibile in caso di naufraghi in mare. Mentre tutto questo accadeva altri due siluri erano partiti contro la petroliera che illuminata dai razzi dei cacciatorpediniere continuava a spararci cannonate sino a quando non è esplosa inabissandosi. Era arrivato il momento di effettuare l’immersione e per tutto il giorno seguente restammo fermi sul fondo ad ascoltare il gran “passeggiare” di navi sopra la torretta, un ansimare di turbine, un avvicinarsi ed allontanarsi di motori. Ci allontanammo dalla zona e con l’ultima emersione navigammo diretti alla nostra base di Cagliari.
Pasquale Pelillo
TESTIMONIANZE
L’ULTIMA MISSIONE DEL “SMG MALACHITE”, RACCONTATA DALL’ALLORA “SOTTOCAPO PASQUALE PELILLO ”
Imbarcato sul sommergibile Malachite in qualità di S.C.MN, fui assegnato al motore di sinistra mentre a quello di destra c’era il mio collega Mario Loi. Entrambi avevamo già partecipato a diverse missioni sul Malachite, tranne per l’ultima in quanto il Comandante Alpinolo CINTI, dovendo imbarcare una squadra più numerosa di Incursori con l’obiettivo di distruggere un ponte ferroviario a EI Kjeru in Algeria, ordinò al S.C.RT Pappalardo ed al sottoscritto di rimanere a terra. Il smg.Malachite con a bordo il commando dei guastatori partì e navigando si avvicinò alla costa Algerina dove sbarcò il commando e rimase in assoluto silenzio in attesa del segnale convenuto per il recupero degli incursori, come era già accaduto altre volte nei pressi dell’isola La Galite. Dopo una forte esplosione e violenta battaglia con una serie di spari ed scoppi sulla spiaggia, scaduto il tempo e con il pericolo di essere scoperti dalle forze navali nemiche, il Comandante Alpinolo Cinti ordinò la partenza immediata.
Il giorno 9 Febbraio alle ore 11,00 nei pressi della costa sud della Sardegna, il smg. Malachite navigava in superfice e si preparava per il rientro in porto. Nei paraggi c’era in agguato, a quota periscopica, il smg. Olandese Dolfin che lanciò 4 siluri. Il Comandante CINTI, con abile manovra, riuscì a schivarne 3 mentre il quarto esplose sul fianco del Malachite che iniziò ad affondare di poppa. Dei 48 marinai dell’equipaggio, 13 si salvarono tra cui il Comandante e furono recuperati da imbarcazioni che giunsero subito sul luogo.
lo e Pappalardo, con ansia, li aspettammo e quando giunsero li abbracciai tutti. lo cercavo il mio amico fraterno S.C, Mario Loi, ma lui non era tra loro. A me motorista sarebbe accaduta la sua stessa fine.
Abbracciai il mio Comandante e quella era la prima volta! Era un ufficiale severo e molto serio, infatti quando quasi tutti soffrivamo il maledetto mal di mare lui rimaneva impassibile, solo al mio abbraccio colsi nel suo sguardo quello che nascondeva nell’animo.
Pasquale Pelillo
TESTIMONIANZE
SMG MALACHITE: “GLI ULTIMI ISTANTI”. TRATTO DAL RESOCONTO DEL COMANDANTE DEL “SMG DOLFIN” DI NAZIONALITÀ OLANDESE.
Eravamo in agguato presso la costa Sarda e più precisamente nei pressi del capo Spartivento, ci trovavamo in immersione perché vi erano alcuni motopescherecci intenti alla pesca, quando dagli idrofoni sentimmo il suono di tre eliche, ma poiché erano visibili dal periscopio solo due imbarcazioni, deducemmo che la terza doveva trattarsi di un sommergibile in immersione ed aspettammo. Alle ore 10,48 il sommergibile Italiano emerse a sole due miglia dalla nostra posizione ma era ancora troppo distante e inoltre manteneva una rotta non ottimale per il lancio, quando alle 10,57 cambiò direzione e puntò ignaro del suo destino verso di noi. Dopo solo due minuti e precisamente alle 10,59 diedi ordine di lanciare tutti e quattro i siluri di prua alla distanza di circa 5 /8 secondi uno dall’altro a ventaglio, per avere più possibilità di successo. Dei quattro siluri probabilmente il terzo dopo due minuti di corsa colpì il nemico a poppavia della torretta; a nulla valsero le manovre del sommergibile avversario per evitare i nostri siluri. Dal periscopio vidi tutta la scena, il sommergibile Italiano iniziò ad affondare di poppa e quando questa fu quasi tutta sommersa si impennò con la prua e la torretta tutta fuori dall’acqua ed un istante dopo scomparve portando con se quasi tutto l’equipaggio. A questo punto diedi ordine di allontanarci dalla zona in quanto vidi delle imbarcazioni avvicinarsi per dare soccorso ai superstiti, nessuno si accorse della nostra presenza.
(Lt. Cdr H.M.L.F.E. Van Oostrom Soede)
Video Explorer Team
Link sito spedizione
I marinai di Castellabate: Il Sommergibile Malachite Carmine Passaro Sommergibile Malachite classe 600 - serie PERLA Impostato il 31 agosto 1935 nei Cantieri del Muggiano di La Spezia varato il 15 luglio 1936 consegnato il 6 novembre 1936 Il 10 giugno 940 e' dislocato a Taranto (47° sq.IV gruppo)
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tmnotizie · 7 years ago
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ANCONA – Si svolgerà il 25 gennaio prossimo la cerimonia per l’inaugurazione delle sette nuove istallazioni dell’artista tedesco Gunter Demnig, realizzate ad Ancona per ricordare altrettante vittime della barbarie nazifascista. Le pietre d’inciampo, monumento diffuso alla memoria, ricorderanno:Dante Coen morto a Buchenwald nel 1945 – Via Astagno; Guido Lowenthal morto ad Auschwitz nel 1944 – Via Astagno ; Eugenia Carcassoni morta ad Auschwitz data incerta – Via Astagno ; Elsa Zamorani, morto ad Auschwitz nel 1944 Villa Gusso – via Santa Margherita; Achille Guglielmi, morto durante l’arresto nel 1943 Villa Gusso – via Santa Margherita; Gino Guglielmi,  morto ad Auschwitz nel 1944 Villa Gusso – via Santa Margherita; Gino Tommasi,  morto a Mauthausen nel 1945    Via Isonzo.
Prima tappa dell’inaugurazione sarà via Astagno (Sinagoga), dalle 9,45,  poi via Isonzo e infine via Santa Margherita (Villa Gusso).  Terminerà verso le 12,30
Le sette pietre realizzate quest’anno si aggiungono alle due già posizionate lo scorso anno e saranno definitivamente svelate il 25 gennaio, alla presenza delle autorità cittadine e di una rappresentanza delle scuole. Le installazioni di Demnig (Pietre di inciampo, Stolpersteine in lingua madre) sono sanpietrini di piccola dimensione ricoperte di ottone con un’incisione che ricorda nome, data di nascita e di morte della vittima, in molti casi anche il luogo della deportazione. Questi monumenti diffusi della memoria hanno reso celebre Demnig nel mondo e mantengono viva la memoria dell’olocausto e della barbarie di quella terribile fase storica. In venticinque anni sono state circa 63mila le pietre di inciampo collocate in almeno 21 Paesi.
Lo scorso anno, ne furono collocate tre nelle Marche, due nella città di Ancona, alla memoria di Giacomo e Sergio Russi (in via Saffi) e di Ferruccio Ascoli (Corso Amendola), ed una a Ostra Vetere, alla memoria di Gaddo Morpurgo. Il progetto “Pietre di inciampo” è nato all’interno del Tavolo sulla Memoria, costituito dall’Assemblea legislativa delle Marche e promosso con l’Istituto di Storia delle Marche, la Comunità ebraica, l’Anpi, la Rete universitaria per il Giorno della Memoria, l’Ufficio scolastico regionale, Anci, Anmig, Comune di Ancona.
“La pietra d’inciampo -spiega  l’assessore alla Cultura, Paolo Marasca–  non è solo un intervento sulla memoria individuale e collettiva. Essa ci ricorda che è anzitutto la nostra vita a proseguire per inciampi, ad aver bisogno di tutta la veglia che possiamo dedicarle, a dover contare su segni capaci di dirci da dove veniamo e quindi chi siamo, cosa possiamo fare, in quali abissi possiamo cadere. Installare una pietra d’inciampo è un gesto di costruzione del futuro.”
Guido Lowenthal ed Eugenia Carcassoni
La famiglia Lowenthal viveva  nell’arteria principale del vecchio ghetto, in via Astagno, non lontano dalla sinagoga ottocentesca, l’unica superstite dopo la distruzione dell’antico tempio di rito italiano, decisa dal fascismo per fare posto al nuovo corso Stamira. Su di loro le leggi razziali si erano abbattute con particolare veemenza. Non solo il capofamiglia Guido, «bancarellaro» aveva subito, come altri quaranta ambulanti, il ritiro della licenza per la sua attività, ma assieme al primogenito Ivo aveva vissuto l’odissea dell’internamento: Isola del Gran Sasso, Gioia del Colle, infine Urbisaglia.
A determinare il provvedimento erano state alcune iscrizioni sovversive trovate «sulla facciata posteriore del Palazzo Littorio». Le «laboriose indagini» avevano portato il questore Giannangelo Lippolis a proporre al superiore Ministero «l’internamento di quattro ebrei ritenuti più capaci di commettere tali manifestazioni di protesta»: Giorgio e Adrio Coen e appunto Ivo e Guido Lowenthal.
Nessuna prova dunque, come il verbale stesso non trascurò di nascondere, esaltando anzi la discrezionalità del provvedimento come prova di severità antiebraica. L’accusa intercettava forse la diffidenza verso quel ceto di venditori ambulanti ebrei, «notoriamente scanzonati e immunizzati verso la propaganda dal fisico contatto con la strada e col popolo», tra i quali si cercò aprioristicamente di individuare il responsabile. Nella biografia di Ivo e Guido Lowenthal figuravano inoltre comportamenti non in linea col dettato fascista.
Una nota della prefettura aveva rilevato che il 17 maggio 1940, a Fabriano, «l’ebreo Lowenthal Ivo» uscendo dalla panetteria accanto al liceo aveva pronunziato «frasi provocatorie esaltanti sua appartenenza razza ebraica provocando intervento squadrista colà di passaggio che lo percuoteva senza conseguenza alcuna». Come testimoniano diversi episodi della «giustizia antiebraica fascista» il pestaggio subito da un ebreo diventavano motivo di turbamento dell’ordine pubblico di cui lo stesso ebreo veniva spesso ritenuto responsabile, per cui in quell’occasione il fermo era toccato al solo Ivo.
Mentre Giorgio e Adrio Coen, dopo una breve fase di internamento furono liberati per motivi di salute, nessuna clemenza venne riservata a Guido e Ivo Lowenthal. Rimasero prigionieri fino al 25 luglio del 1943 quando gli ebrei italiani del campo vennero dimessi. La presenza del comando tedesco ad Ancona aveva spinto Guido Lowenthal a trasferirsi per prudenza ad Appignano con i figli e la moglie. La  popolazione li aveva bene accolti conferendo forse loro una sensazione di sicurezza tale da celebrare il matrimonio di Ivo.
Ma il 19 febbraio 1944, giorno del matrimonio, una macchina della polizia al servizio del governo di Salò si arresta davanti alla casa degli sposi dove fervono i preparativi. Guido viene nascosto in una casa vicino, mentre Ivo ha la prontezza di scavalcare la finestra e fuggire tra i campi. Alla retata non può sfuggire Eugenia Carcassoni, semiparalizzata, impossibilitata a muoversi. Udendo gli urli disperati della donna spinta a forza sotto la neve, tra le altre donne del paese che le si stringono intorno, Guido Lowenthal esce dal nascondiglio nel quale si è rifugiato e si offre di prenderne il posto. Per la polizia fascista egli diventa solo un altro ebreo da arrestare. Guido ed Eugenia vengono trasferiti a Pollenza. Un carrettiere della zona li avrebbe visti lasciare anche quel paese sopra due grossi camion «carichi di carne umana». Dopo una breve permanenza nelle carceri di Macerata sono trasferiti al campo di Fossoli. Partono verso Auschwitz il 5 aprile con il convoglio numero 9. Al momento dell’arrivo, il 10 aprile, Eugenia Carcassoni è già spirata, incapace di resistere alle atroci condizioni del viaggio date le critiche situazioni di salute. L’anziano Guido viene immediatamente assegnato alle camere a gas.
Dante Coen
Titolare di una ditta per il commercio di articoli coloniali alla quale è spinto a cambiare nome e ragione sociale in seguito ai «Provvediemnti sulla razza», di fronte alla crisi degli affari dovuta anche all’entrata in guerra si trasferisce a Milano. Arrestato alle sette del mattino del 26 luglio, a piedi scalzi portato nel carcere di San Vittore, dai soldati SS  che erano di stanza in corso Buenos Aires Hotel Puccini, lasciando la moglie senza possibilità di sostentamento con cinque figli, di cui il maggiore di 9 anni. Aveva desiderato ardentemente una figlia femmina ma è riuscito a goderne per soli 33 giorni.Deportato ad Auschwiz il 2 agosto 1944 sarebbe morto a Buchenwald il 4 aprile 1945.
Achille Guglielmi, Gino Guglielmi (figlio), Elsa Zamorani (moglie)
Laureatosi  in medicina e chirurgia a Bologna nel 1903, si è specializzato in Ostetricia e Ginecologia a Milano. Nei primi anni Venti apre una casa di cura (Villa Bianca) ad Ancona, con il prof. A. Caucci. Benemerito della CRI per le opere sociali anche a favore delle donne povere e dei bambini, crea la prima colonia elioterapica di Ancona, che sorge su un terreno di sua proprietà. Presidente dell’Ordine dei medici di Ancona dal 1931, viene cacciato dall’Ordine al varo delle leggi razziali del ’38.
Nel giugno del ’40 il Prefetto di Ancona, Tamburini, lo segnala così al Ministero dell’Interno: “Ebreo, svolge propaganda disfattista.” Gli attribuisce “temperamento portato forse per natura alla maldicenza e alla critica” e precisa che non ha ottenuto la discriminazione per “mancanza dei requisiti richiesti.”
Guglielmi viene internato inizialmente a Camerino, poi a Montefalco (PG) dove resta fino a dicembre ’41 quando è trasferito a Fano (PU). Qui prende alloggio presso l’albergo Savoia Lido. Subisce pressioni affinché si sistemi in un’abitazione diversa dall’albergo, ma non riesce a trovare un alloggio con cucina. Non gode del sussidio statale, essendo facoltoso. Riceve frequenti visite dal figlio Gino e dalla moglie Elsa.
Pochi giorni dopo essere giunto a Fano, chiede di poter tenere una corrispondenza epistolare di argomento medico con la dottoressa ebrea polacca Kornberg Estela, che era rimasta a Montefalco come internata per tutto il 1941. Lei a sua volta domanda di poter scrivere sia a lui che a sua moglie Elsa ad Ancona. Il permesso pare accordato.
Per ragioni di salute Guglielmi è dichiarato dal medico provinciale non idoneo al regime di internamento. Interpellato in proposito, il Prefetto di Ancona esprime il suo nulla osta a un eventuale proscioglimento, ma con divieto a prendere residenza e a tornare ad Ancona senza preventiva autorizzazione.
In una lettera del giugno ’42 lo stesso prefetto informa il Ministero dell’Interno che l’internato ha venduto una villa di grande valore (oltre un milione di lire) a favore di un collega, il quale ne farà una casa di cura.
Il 24 luglio ’42 Guglielmi ottiene la revoca dell’internamento per Atto di clemenza del duce. Egli chiede di poter prendere domicilio a Fano. Di qui il primo di agosto avanza richiesta di potersi recare a Chianciano per cure termali.
Sentiamo ancora parlare di lui il 29 dicembre ’43 quando in base all’ordine di polizia di Buffarini Guidi del 30 novembre ’43, gli vengono requisiti i beni ubicati a Fano, che passeranno all’IRAB (Istituti Riuniti Assistenza Beneficienza).
Achille Gugliemi a questa data è già morto. Il decesso è avvenuto 25 giorni prima, il 29 dicembre a Castiglione de’ Pepoli. Il momento è drammatico. La sua morte per probabile infarto è legata all’imminenza dell’arresto che coinvolgerà la moglie Elsa Zamorani e il loro figlio Gino, entrambi catturati nello stesso luogo ai primi di gennaio ’44, incarcerati, deportati e uccisi ad Auschwitz.
 Gino Tommasi
Ancona 19 settembre 1895 – Mauthausen (Austria) 5 maggio 1945. Ingegnere. Nome di battaglia Annibale. Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria. Ufficiale subalterno della Territoriale nella Prima guerra mondiale, si laureò in Ingegneria a Bologna nel 1920, ma tornò ad Ancona per esercitare la professione. Aderì prima a gruppi socialisti, poi al partito comunista nel 1942. In qualità di Tenente dell’artiglieria, nel 1943 fu incaricato dalla Concentrazione antifascista di organizzare la difesa della città. Il suo tentativo di prendere contatti con le autorità militari locali non ebbe esito positivo e i tedeschi entrarono ad Ancona il 13 settembre 1943. Molti dei soldati che si trovavano nelle caserme e che non erano scappati, furono deportati.
Contemporaneamente a questi eventi, Tommasi assunse il controllo del Corriere Adriatico, riuscendo a farne pubblicare 5 numeri prima dell’occupazione tedesca. Successivamente si impegnò a fondo nell’organizzazione della lotta partigiana costituendo, nell’ottobre del ’43, nella Vallesina e lungo la costa adriatica una formazione detta «Guardia nazionale». Da essa nacque, a dicembre, la Brigata d’assalto “Ancona” (organizzata in bande e in GAP) che, nel gennaio 1944, divenne la 5a Brigata Garibaldi “Ancona”. A Tommasi fu anche affidato il compito, da parte del Cln regionale, di coordinare la lotta armata anche nelle altre province marchigiane.
Nella notte dell’8 febbraio 1944, mentre rientrava da una riunione clandestina nel pesarese, l’auto su cui viaggiava Tommasi fu coinvolta in un incidente. Egli decise di fermarsi a dormire nella sua abitazione a Borghetto di Ancona dove, a causa di una soffiata, venne sorpreso dai fascisti. Lo portarono nel carcere di Macerata, poi a Forlì, dove lo torturarono per estorcergli informazioni sull’organizzazione clandestina da lui diretta. Infine i fascisti si liberarono di Tommasi consegnandolo ai tedeschi, i quali lo deportarono a Mauthausen, dove morì il 5 maggio 1945, giorno della liberazione del campo.
Per le sue qualità umane, le sue capacità organizzative e il suo prestigio, alla sua memoria fu conferita, nel dopoguerra, la Medaglia d’oro al Valor militare. Motivo della ricompensa: «Tenente colonnello di artiglieria di complemento, fu tra i primi a partecipare alla lotta partigiana con instancabile attività e sprezzo del pericolo. Organizzò e comandò la Brigata garibaldina marchigiana. La sua forte personalità divenne il centro di attrazione per tutti coloro che sceglievano la via del dovere. Catturato dal nemico che vedeva in lui il simbolo della resistenza partigiana e sottoposto alle più atroci torture, serbava fieramente il silenzio, riuscendo altresì ad avvertire i compagni dell’incombente pericolo. Tra i deportati in Germania manteneva alto con l’esempio il nome d’Italia, finché la sua eroica vita fu troncata dagli inauditi stenti del campo di Mauthausen». Nel 1951 il Consiglio comunale di Ancona ha intitolato una via a suo nome.
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pangeanews · 5 years ago
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L’oltraggio d’una minima stella rugginosa. Le traiettorie poetiche di Bartolo Cattafi
Bartolo Cattafi venne alla luce da facoltosi possidenti terrieri a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nell’anno di grazia 1922, lo stesso che vide la prima pubblicazione del poemetto The waste land di Thomas Stearns Eliot, testo esemplare per le rotte del pensiero poetico contemporaneo. La sua fu una famiglia culturalmente e attivamente impegnata nel campo sociale. Il padre, Bartolo­meo, medico molto noto e apprezzato per le sue doti umane e professio­nali, non ebbe la gioia di vederlo nascere perché morì quattro mesi pri­ma. L’educazione di Bartolo fu incombenza solo della madre, Matilde Ortoleva, donna di severi e rigorosi costumi, religiosissima e con una pesante personalità, che però non poté colmare il vuoto prodotto dall’assenza di una figura paterna protettiva e rassi­curante.  In questo florido centro tirrenico, grazie allo zio Enrico Barresi, uomo di vasti interessi culturali, frequenta sin da giovane la casa del futurista siciliano Guglielmo Jannelli, incontrando nomi quali Giacomo Balla, Vann’Antò (al secolo Giovanni Antonio Di Giacomo), Fortunato Depero e soprattutto Nino Pino Ballotta.
Dal 1940 Cattafi frequentò la facoltà di Giurisprudenza della vicinissima Messi­na, seguendo saltuariamente le lezioni, senza entusiasmo e con scarsa convin­zione. Unica passione la lettura: Melville, Conrad, Faulkner, Caldwell, Saroyan, Hemingway e gli altri scrittori compresi in Americana di Vittorini, la cui pri­ma edizione risale al 1942; tra gli italiani: Zavattini, Vittorini, Pavese, Savarese, Malaparte, Bontempelli, Pirandello. Ben presto la sua preferenza andò verso i poeti: Machado, Jiménez, Lorça, Eliot, Hopkins, Auden su tutti, poi i nostri Govoni, Quasimo­do, Ungaretti, Montale.
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L’esperienza militare del 1943, l’anno più cruciale della sua vita, lo riportò bruscamente alla realtà. Chiamato alle armi l’8 febbraio, raggiunse Bologna, dove fu aggregato al 3° Reggimento fanteria carristi, e da qui avviato al 17° Battaglione d’istruzione a Forlì, per frequentare il corso di addestramento per allievi ufficiali. Le marce estenuanti, l’equipaggiamento inadatto, il vitto carente, l’impreparazione e l’ottusità degli apparati militari, l’ubbidienza mor­tificante a ordini insensati gli causano (sono parole sue) un «crollo fisico e nervoso», di cui si hanno tracce marcate in vari componimenti di A dicembre Badoglio, sezione compresa poi ne L’aria secca del fuoco.
Frutto di questo primo «compitare in versi un ingenuo inventario del mon­do» è un folto materiale, che il nostro organizza in due raccolte, corredandole di due brevi note introduttive, l’una datata 28 aprile 1944, l’altra 16 ottobre 1946 (entrambe inedite). Siamo d’altronde negli anni della guerra, della resistenza al nazifascismo, dello sbarco alleato in Sicilia: periodo segnato da un soffocante aleggiare di morte che si intravede anche in molte di queste primissime poesie, permeate tuttavia da un abbacinante colorismo, in cui si rispecchia la fervida smania sensoriale di un animo ancora profondamente pagano, immerso nell’ovattata fisicità di un paesaggio dalla solarità allucinante, ovvero coercitiva perché illusoria. “Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Tutt’intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire… Me ne andavo nella colorita campagna, nutrendomi di sapori, aromi, immagini: la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola” (Bartolo Cattafi in Poesia italiana contemporanea 1909-1959, a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda 1964; ristampato in Roma, Newton 1994)..
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Nel­l’immediato dopoguerra, Cattafi medita di trasferirsi a Milano, alternando però lunghe permanenze con periodici ritorni in Sicilia e, più tardi, con frequenti viaggi all’estero, finché, a partire dal 1956 e fino alla prima metà del 1967, vi dimora stabilmente trasferendovi anche la resi­denza. Stringerà qui amicizia con Sergio Solmi che gli fa poi conoscere Vittorio Sereni – diventerà presto suo fraterno amico –, il quale lo introduce negli ambienti letterari e artistici della città. In tal modo, Cattafi entra in contatto anche con Carlo Bo, Vanni Scheiwiller (suo futuro editore) Enrico Emanuelli, Giansiro Ferrata, Luciano Erba, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giovanni Giudici, Piero Chiara. Le pubblicazioni si faranno così assai cospicue ed incisive, sia su rivista che in antologie, tra cui appunto la più rinomata è certamente Quarta generazione (proprio a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, 1954).
Nel 1948 vince il «Concorso Nazionale “Pagine Nuove” per la poesia», con Corrado Govoni presidente della giuria, al quale egli era stato presentato dal concittadino poeta Nino Pino Ballotta, forse il suo primo lettore. La stessa rivista organizzatrice del premio, nel numero di maggio del 1949, gli pubblica sette componimenti che entreranno tutti – tranne Eolie, mai più ristampato – nel volumetto Nel centro della mano che, accolto da Sereni nelle Edizioni della Meridiana nel 1951, segna il «battesimo» poetico di Cattafi.
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Nel 1952 ha inizio la grande stagione dei viaggi: Francia, Inghilterra, Irlanda, Scan­dinavia, Spagna, Africa. Poiché ogni vicenda pas­sa «sulla sua pelle e dentro il suo sangue», è naturale che il nomadismo di Cat­tafi si traduca in poesia, in presa diretta o a distanza di anni, a cominciare da Partenza da Greenwich del 1955. Dai viaggi trae anche materiale per articoli e corrispondenze che manda a vari quotidiani e periodici, tra cui «L’Ora» di Palermo, la rivista «Pirelli», «L’I­talia illustrata», «L’Indicatore librario». Vagheggia di fare l’inviato speciale, anche per assicurarsi un tenore di vita dignitoso non bastandogli le modeste rendite dei suoi terreni. Di questa frammentaria e disorganica attività giornalistica mi piace ricorda­re il reportage Lo Stretto di Messina e le Eolie, corredato dalle fotografie di Alfredo Camisa e stampato, in bella veste tipografica, a cura dell’ACI nel 1961.
Contemporaneamente, tenta l’avventura pubblicitaria. Viene assunto in prova dalla Motta, ma si dimette dopo appena due mesi, e dalla Pirelli nella “Direzione propaganda”, in qualità di «compilatore di testi di prestigio». An­noiato e deluso, abbandona anche questo lavoro.
Nel 1958 esce il primo libro mondadoriano, Le mosche del meriggio, rias­suntivo della produzione 1945-1955, col quale vince il «Premio Cittadella».
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Due anni dopo, la perdita dolorosissima della madre (la ricorderà in una toccante poesia dell’Osso, Un 30 agosto), una tormentata e deprimente storia amorosa e l’aggravarsi della sua situazione finanziaria, seriamente compro­messa dall’incapacità di svolgere una stabile attività lavorativa, lo gettano in uno stato di profonda prostrazione fisica e psichica che, puntualmente, si ri­specchia ne L’osso, l’anima, edito sempre da Mondadori nel 1964. Questa raccolta, l’unica che può fregiarsi di una seconda edizione, vince il «Premio Chianciano» e segna la definitiva consacrazione poetica. Sarà poi la vendita all’Enel del fondo di contrada Archi, nel comune di S. Filippo del Mela (Messina), conclusa nel 1966 dopo lunghe e complesse trattative, a garantirgli la tranquillità economica, consentendogli di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
Dalla fine di dicembre del 1962, Cattafi non aveva infatti scritto un verso e non ne scriverà fino al 21 marzo del 1971: un lungo periodo di astinenza poetica, durante il quale dirotta altrove le sue energie creative. Disegna, dipinge – alcuni quadri sono bellissimi –, si dedica alla fotografia.
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Il 26 giugno 1967 sposa, col solo rito civile a Callander, in Scozia, Ada De Alessandri, milanese, di ventidue anni più giova­ne di lui, che aveva conosciuto a Milano e ritrovato in Inghilterra durante un viaggio organizzato. Qualche giorno dopo ritorna in Sicilia, ristruttura una vecchia casa colonica di sua proprietà nella campagna di Mollerino (vicino Barcellona n.d.r.) e qui stabilisce il domicilio, conservando la residenza a Milano, dove però ormai si recherà per brevi periodi, quasi solo per curare la pubblicazione dei suoi libri o per ragioni di salute.
Nel marzo 1971, come si accennava, finisce il silenzio poetico. “Alle quattro del mattino di un giorno del marzo 1971, come morso dalla tarantola, dovetti alzarmi dal letto e cercare carta e penna. Da quel momento si aprirono le cateratte: dopo sette anni di silenzio, durante i quali non ero riuscito a mettere insieme due versi, scrissi in dieci mesi circa quattrocento poesie” (Enzo Fabiani, In Sicilia a caccia di sirene. «Gente», 22 luglio 1972).
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Da quel giorno e fino alla morte, se si eccettuano gli anni 1974-’75, durante i quali si limita a rimaneggiare e a ordinare in volume le poesie concepite nel biennio precedente, l’urgenza espressiva di Cattafi non avrà so­sta o interruzione. Per dare un’idea di questa esplosione creativa, si pensi che, tra il marzo ’71 e il gennaio ’72, compone le 362 poesie de L’aria secca del fuoco, con cui vince i premi «Vann’ Antò» e «Sebèto». Esse, attraverso varie redazioni non sempre datate o databili, formeranno, per citare solo i vo­lumi riassuntivi, La discesa al trono (1975), Marzo e le sue idi (1977), Segni e parte di Codadigallo, (questi ultimi due pubblicati postumi).
La stagione dell’ultimo Cattafi è non solo caratterizzata da uno straordina­rio fervore creativo, ma anche ricca di avvenimenti che si riflettono sulla poe­sia. Il 10 agosto 1975, dopo otto anni di matrimonio, nasce l’unica figlia, la «dolcissima» Elisabetta Maria (destinataria di quattro delle 18 dediche).
*
Da tempo però Cattafi accusava vari disturbi fisici, lo sa bene chi gli è stato vicino, ma la scoperta dell’insanabile ferita avviene solo il 20 aprile 1978, quando una visita radiologica rivela un «punto oscuro nella pleura del polmone sinistro», come si leg­ge nel Diario. Le analisi seguenti confermano la funesta diagnosi: «È dunque cancro», annota il poeta il 9 maggio dello stesso anno. E tuttavia non si può negare che la malattia e il presentimento della morte accelerano spesso le spinte se­grete, da sempre però operanti, e favoriscono la disponibilità dello spirito ad accogliere in sé il senso del divino e a lasciarsi invadere da esso.
Cattafi spende le ultime, residue energie lavorando alla revisione delle «poesie segniche», alla definizione di Codadigallo e alla stesura di nuovi componi­menti. Aveva appena avuto il tempo di firmare le copie del servizio-stampa de L’allodola ottobrina e di salutare gli amici in un ristorante milane­se, quasi presagisse non più rinviabile l’appuntamento con la morte. Una data, questa del 13 marzo (1979), che sembra preannunciata, come per una sorta di inquie­tante premonizione, nella poesia del lontano 1972, elevata a dignità di titolo del volume Marzo e le sue idi: «Di tutto diffido / del pugnale di bruto / della tenera carne di cesare / dello stesso destino / che passi presto il tempo / venga­no alfine marzo e le sue idi».
*
Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa.
Se una vena barocca esiste in queste liriche così cesellate è di certo quella dell’analogismo ardito, dalla visionarietà quasi orfica e, al contempo, razionalissima, strutturata grazie alla giustapposizione di elementi disparati che creano abissali scarti, fulminei lampi di pensiero, estrose immagini plasmanti lucidi concetti. In molti passaggi si riscontra, oltretutto, una marcata inclinazione dell’io a defilarsi, il che comporta un investire l’oggetto della carica di “referente”, lasciandogli svolgere quel ruolo di “attante” solitamente interpretato dall’io lirico. Le ‘cose’vengono così innalzate ad emblemi di uno status esistenziale o intellettivo, come accade nel “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot (uno fra i modelli di Cattafi ma, ancor prima, di Montale). Anzi il soggetto, a volte, sembra talmente ben nascosto da permettere un inusuale ribaltamento di prospettiva: lo ha intuito bene Silvio Ramat, secondo il quale si dovrebbe parlare piuttosto di un «correlativo soggettivo».
La spinta analogica dei versi è talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni.
*
Passiamo adesso ad analizzare alcuni testi.
Nel cerchio
Qui nel cerchio già chiuso nel monotono giro delle cose nella stanza sprangata eppure invasa da una luce lontana di crepuscolo può darsi nasca un’acqua ed una nebbia il mare sconosciuto e il lido dove per prima devi imprimere il tuo piede calando dalla nave consueta, transfuga che il rombo frastorna in corsa nella mente, lungo le belle curve di conchiglia. Sarà prossimo il centro: là s’appunta il nero occhio, la nostra perla di pece sempre in fiamme, serrata tra le ciglia, che per un attimo, in un battito ribelle intacca il puro ovale dello zero.
(da Le mosche del meriggio, Mondadori 1958)
In questa lirica un senso di soffocamento, di abitudinario ritualismo corrode la percezione della realtà circostante, occlusione che tarpa le ali ai voli della mente, succuba così della propria limitatezza. È forse la vana ricerca della verità, dell’indefinibile palpito dell’universo a tarlare l’immaginario del poeta che pur vorrebbe ribellarsi al perenne fallimento di ogni sforzo cognitivo. Siamo in completa consonanza con quel limite fisico che, metaforizzato, simboleggia l’insuperabile ostacolo alla piena comprensione: ricordiamoci per un attimo della ‘siepe’ leopardiana o dell’infinita ‘scala a chiocciola’ nell’antica torre di My house di Yeats. Tutto questo induce a pensare che il vero motore della poesia di Bartolo Cattafi sia da ricercare nell’ansia gnoseologica, sebbene – in fin dei conti – essa venga sistematicamente messa sotto scacco.
*
Brughiera
[…] La stagione è finita; ancora vivono il dente infisso nel centro della mano, ciò che la spina lentissima ci scrisse. Una lampada gracile, l’allodola rientra incerta, s’addentra sull’immoto colore di brughiera.
La poesia di Cattafi si popola spesso, fin dal suo primo incedere, di immagini ancipiti che contemplano insieme il caldo abbraccio di un esasperato vitalismo e il rovello spasmodico della morte, in un quadro che risente delle precoci frequentazioni col simbolismo messinese di matrice futurista (in particolare Giuseppe Jannelli e Nino Pino Ballotta), sicuramente sperimentato dal poeta negli anni universitari trascorsi all’ombra del Faro.
*
Mio amore non credere
Mio amore non credere che oggi il pianeta percorra un’altra orbita, è lo stesso viaggio tra le vecchie stazioni scolorite, vi è sempre un passero sfrullante nelle aiuole un pensiero tenace nella mente. Il tempo gira sul quadrante, giunge un segno di nebbia sopra il pino il mondo pende dalla parte del freddo. Qui le briciole a terra, la brace del camino, le ali, le mani basse e intente.
L’universo interiore di Cattafi risulta sempre orientato alla continua corrosione mentale: il poeta spesso si aggrappa al dialogo, quasi sotto forma epistolare, con qualcuno a cui ‘confessare’ le proprie afflizioni, i patimenti di un eterno sottofondo di dolore che sembra incrinare finanche la struttura intellettiva.
La martellante ossessione dei pensieri è resa con un’analogia tra le più vivide e funzionali dell’intera poesia cattafiana: il movimento convulso, a scatti, imprevedibile, instancabile del passero che mima, in un’immagine di rara precisione descrittiva, l’estrema saturazione – quasi ai limiti del compulsivo – della vessata interiorità del poeta. Egli accenna ad ulteriori motivi universali: l’inesorabilità dello scorrere del tempo («il tempo gira sul quadrante»), la precarietà della condizione generale – forse con la mente ancora alla difficile ricostruzione post-bellica («il mondo pende dalla parte del freddo. /Qui le briciole a terra, […] le mani basse e intente»). Il quadro negativo è rafforzato, a mio avviso, dalle efficaci forzature allitterativo-paronomastiche, con funzione di allarme, di sensibilizzatori della coscienza personale e collettiva.
*
Arcipelaghi
Maggio, di primo mattino la mente gira su se stessa come un bel prisma un bel cristallo un poco stordito dalla luce. Dal soffitto si stacca neroiridato ilare il festone delle mosche, posa su grandi carte azzurre riparte e lascia ronzando isole minime, arcipelaghi forse d’Africa e d’Asia. Intanto in cielo sempre più si svolge la mesta bandiera della luce. Prima di sera l’unghia scrosta l’isole le immagini superflue. Le carte ridiventano deserte.
(da Qualcosa di preciso, Scheiwiller 1961)
Qui si assiste a una progressiva quanto discussa inversione di rotta, che trascorre da un colorismo ponderoso ad un lucore attenuato, quasi plumbeo; da una natura dirompente, sebbene già estenuata, ad un’asettica impronta meccanicistica; da un accennato intreccio ad una raziocinante epigrammaticità.
Attraverso pochi ma significativi aggiustamenti di traiettoria i versi diventano esemplari di una nuova ‘maniera’ del poetare più astratta, quasi assiomatica. Al tocco leggero, appena accennato, subentrano nuove forme aggettivali e sostantivali che tendono ad una maggior precisione, direi geometrica, ad evidenziare un rinnovato, lucido sforzo del raziocinio: Cattafi vorrebbe “scrostare le immagini superflue” cercando, col suo analogismo pregnante, una soluzione più incisiva rispetto al descrittivismo pittorico. Le sue liriche si appropriano così un’asciuttezza tonale adesso poco incline al narrare, immettendosi piuttosto sulla difficile strada della chiarezza sentenziosa («Le carte ridiventano deserte»). Si direbbe che il poeta abbandoni, quasi a malincuore – tant’è che lo riprenderà qualche anno dopo nelle liriche de Lo Stretto –, il proprio volto mediterraneo («[…] lascia/ ronzando isole minime, arcipelaghi»), dando risalto al lato ‘lombardo’, al retaggio ‘illuministico’ come nuova forma mentis («Intanto in cielo sempre più si svolge/ la mesta bandiera della luce»), che lo rende pienamente intrinseco allo spirito della cosiddetta “Quarta Generazione”.
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Qualcosa di preciso
Con un forte profilo, secco, bello, scattante, qualcosa di preciso fatto d’acciaio o d’altro che abbia fredde luci. E là, sul filo della macchina, l’oltraggio d’una minima stella rugginosa che più corrode e corrompe più s’oscura. Un punto da chiarire, sangue d’uomo, briciola vile oppure grumo perenne, blocco di coraggio.
Non resta adesso che giocarsi l’ultima chance prima di soccombere, di cedere il passo definitivamente, ma stavolta con diversi mezzi, servendosi di risorse più adeguate, di “qualcosa” che abbia una sconcertante evidenza, enumerabile con la “precisione” che sgorga dalla certezza di un esito risolutivo.
L’evidente trasmutazione si avverte anche nel forte cambiamento linguistico: dismessi i panni impressionistici, Cattafi si veste di un profondo rigore nomenclatorio, di matrice scientifica, davvero molto raro in poesia. C’è inoltre una netta modifica del tempo verbale, coniugato ora quasi esclusivamente al perfetto che descrive un’azione già conclusa (le sue occorrenze sono numerose lungo tutta la raccolta: andammo, indossammo, vedemmo, pensammo, uscimmo, camminammo, potemmo, navigammo, portammo, chiedemmo, fummo, etc.; tantissime dunque per un libro di sole 19 poesie). Se tutto ciò rappresenti una definitiva rinuncia, che peraltro pone l’accento sulla comune sorte umana (il poeta usa esclusivamente la prima persona plurale), od un ennesimo tentativo di superamento di una soglia di dolore esistenziale ormai giunta a livelli acutissimi, non è dato saperlo.
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L’osso
Avanti, sputa l’osso: pulito, lucente, levigato, senza frange di polpa, l’immagine del vero, ammettendo che in questo unico osso avulso dal contesto allignino chiariti, concentrati quesiti fin troppo capitali. Credo che tu non possa farcela: saresti cenere nella fossa, anima da qualche parte.
(da L’osso, l’anima, Mondadori 1964)
Sondare dentro il “vero”, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia intendere che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.
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Cancro
Il sei luglio alle cinque del mattino il tram a vapore partito da Messina emise dall’imbuto fumo faville e un lungo fischio, appena nato girai la testa verso quel primo saluto della vita. Appartengo a una razza bisognosa di auguri mi dolgo di non potere stringermi la destra con la destra baciarmi le guance quando una volta l’anno mi scorre accanto zampettando all’alba l’acquatico figlio della luna che porta la mia sorte sigillata nel pentagono della sua corazza.
(da L’aria secca del fuoco, Mondadori 1971)
La natura risulta sempre strumento o corsia preferenziale a esprimere la similitudine. Spesso trapela in Cattafi un forte senso di costrizione, di soffocamento che egli tenta di esorcizzare per mezzo di figurazioni oracolari simili ad allucinazioni (Cancro). L’andamento sospeso e misterico sfocia in sentenze spiazzanti e, talvolta, apparentemente indecifrabili.
Questa linea orfica lo accomuna a tanti illustri predecessori – penso a Yeats, a Campana e, non ultimo, a Lucio Piccolo – sospingendo il dettato in una direzione ermetica, infine addirittura “segnica”. E, paradossalmente, sembra che tanto più la poesia si faccia oscura, quanto più la sensazione è quella di una maggiore chiarezza sintetica dei messaggi. La parola aumenta di densità e consistenza, in modo tale da lasciar risplendere, in poche pennellate, una forte carica ‘universale’.
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L’allodola ottobrina
S’alzò in volo e cantò invece l’allodola ottobrina prima che giungesse concentrato il piombo dodici undici dieci.
(da L’allodola ottobrina, Mondadori 1979)
Il poeta affida ancora una volta ad un animale simbolico, adesso l’allodola, tutto un carico di impulsi attinenti ad uno stato di estrema resistenza, di sfacciato titanismo che oltrepassa il radicato dolore dell’anima. Chissà che in Cattafi non agisse una qualche reminiscenza ungarettiana di Agonia? (Morire come le allodole assetate/sul miraggio// […] Ma non vivere di lamento/ come un cardellino accecato).
È fondamentale continuare, imperterriti, a creare “pienezze di senso”, anche laddove ci si sente accerchiati da mali di sconcertante varietà: opporsi cantando (ecco il perché del corsivo per l’avverbio) anche se il mondo si dissolve. “In uno scrittore quale è Cattafi (post-montaliano e post-ermetico, sperimentatore per indole, senza dover chiedere lumi alle neoavanguardie coi loro codificati e spesso scontati azzardi), l’oggetto è sempre al centro, ha il compito di fisicizzare cioè di render concreta l’intenzione di un io storicamente perplesso quanto alla propria parte, dubbioso per forza del suo governo sulla fluidità del vivente. […] L’allodola è dunque anche il grande, persuasivo testo della persona che ha fiducia nell’oggetto, catturato di continuo e di continuo lasciato rifluire; oggetto amato infine anche nelle specie del male, del disgusto, della sventura. C’è un graduale incremento, pagina dopo pagina, degli aspetti ingrati, degli eventi penosi, eppure tutto segnala una medesima “teofania”… (Silvio Ramat, Bartolo Cattafi oltre la “quarta generazione”: il terzo tempo della poesia cattafiana, in AA.VV., Atti del Premio Nazionale di Poesia «Bartolo Cattafi» VII e VIII edizione – Barcellona P.G., 1996, 1999. Marina di Patti-Messina, Pungitopo 2000, pp. 46-49).
Tutto ciò non elimina l’azione ineluttabile della morte, che azzera qualsiasi tentativo di rivolta, distrugge ogni spasimo di volo (distinzione dalla massa?), spezza le fragili trame umane fatte di fatica, di un confuso annaspare per la difesa di una sterile sopravvivenza.
Ed è un annullamento totale, se è vero (come è vero) che il poeta si propone di cancellare addirittura la propria ombra, ultima proiezione residua del suo status di creatura terrena, che lo costringe ancora ad un’esistenza involuta.
*
Creazione
In quel muro in quel foglio nell’area bianca che la tua mano cerca il mignolo bagnato nell’inchiostro sopra strisciato con fiducia azzurro corso d’acqua rapinoso vena arteria in cui scorre a occhi chiusi il mondo.
(da Segni, Scheiwiller 1986)
Si potrebbe dire che ogni enunciazione segnica produce linearità, ovvero consta di un’estensione nel tempo (oralità) o nello spazio (scrittura). Tutto ciò implica un’inevitabile distinzione tra una parola tratta dall’infinito ‘sottobosco’ dei segni in potenza e le effettive attuazioni in un discorso a sé stante: «Ségnala/ dalle un connotato/ spazio circondato d’altro spazio/ stràppalo come foglia/ all’immane foresta del non-segnato» (si legge in un’altra poesia: Pagina bianca). Da qui l’assoluta necessità della scrittura, vista come azione prometeica di conquista del barlume minimo di conoscenza possibile, sebbene ciò comporti un discernimento solo relativo dell’infinita molteplicità del reale.
*
Nidiata
Coloniali parole gregarie filiformi da te lasciate in un luogo in un discorso nidiata ora straniera ritornante rimorso fosforo stridente nel sonno della sera.
Le parole – sostanziazioni del pensiero astratto (ricordiamo l’altra dicotomia saussuriana tra langue e parole) – hanno la capacità di rivelarsi ossessivo portato di una razionalità ormai destabilizzata: il poeta tenta di decrittare una realtà che gli si ribella, quasi fosse animata da palpiti cospirativi che disgregano una consistenza intellettiva faticosamente acquisita.
Perduta la vis demiurgica, l’io si trova svuotato di ogni orizzonte gnomico, dunque esistenziale; gli stessi oggetti dissipano la propria “funzione connotativa” di simboli: è un quadro dal barocchismo assai accentuato, un horror vacui che travolge anche la percezione più elementare. Insomma un’estrema negazione del mondo, sia esso identificabile con le cose (la vita) o col vano tentativo di arrestare il loro inarrestabile trascorrere (la scrittura):
I segni e il senso
I segni e il senso dei segni su soggetti scalpitanti… O apatiche scritture membra ammansite materie inerti ammucchiate in fondo all’anno scritte luminose di novembre.
Diego Conticello
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italianiinguerra · 6 years ago
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Il 17 luglio veniva ucciso in combattimento nei cieli di Sicilia, uno dei maggiori assi della Luftwaffe nella seconda guerra mondiale, Wolf-Udo Ettel. Quel giorno quando venne abbattuto da un cannone contraereo Bofors da 40 mm nei pressi di Lentini, Wolf a soli soli 22 anni aveva all’attivo ben 124 abbattimenti complessivi.
Il protagonista del nostro post, nacque il 26 febbraio 1921 ad Amburgo, nella Repubblica di Weimar, figlio di un rappresentante della produzione di aerei Junkers e a causa del lavoro del padre trascorre l’infanzia fra Teheran e la Colombia. Dopo il divorzio dei genitori e il ritorno in Germania nel 1934, lui e i suoi due fratelli più piccoli frequentarono le scuole Napola (Nationalpolitische Erziehungsanstalt) collegio secondario fondato dal Nazismo per allevare una nuova generazione per la leadership politica, militare e amministrativa della nuova Germania.
Il 1° settembre 1939 le armate naziste invadono la Polonia dando inizio al più spaventoso conflitto della storia dell’umanità. Il 15 novembre dello stesso anno, Ettel si offrì volontario per il servizio militare nella Luftwaffe e dopo aver frequentato vari corsi di formazione, fra cui la Jagdfliegerschule (scuola di addestramento dei piloti di caccia) con sede a Parigi, in Francia. Nel settembre 1941 fu assegnato ad un Ergànzungs-Jagdgruppe (gruppo di caccia supplementare), un’unità di addestramento per piloti di caccia con sede in Danimarca.
Il 10 aprile 1942, il Leutnant Ettel viene assegnato a 4. Staffel (squadrone) di Jagdgeschwader 3 “Udet” del II. Gruppe (2 ° gruppo) basato a San Pietro Clarenza , in Sicilia, con il compito di partecipare insieme alle unità della Regia Aeronautica all’assedio di Malta dove tuttavia rimane per un brevissimo lasso di tempo prima di essere trasferito sul fronte orientale in un campo di aviazione a Chuguyev.
Il 24 giugno il II. Gruppe si trasferì a Shchigry, un campo d’aviazione circa 50 chilometri ad est di Kursk e quello stesso giorno Ettel ottenne le sue prime due vittorie abbattendo due aerei sovietici, per la precisione di trattava di due velicoli d’attacco terrestre Ilyushin Il-2 “Shturmovik”.
Lui stesso è stato abbattuto a circa 15 km (9,3 mi) a nord di Voronezh il 10 luglio mentre stava distruggendo un bombardiere Douglas Boston a bordo di un Soviet, il suo settimo reclamo in totale. Salpò dal suo danneggiato Messerschmitt Bf 109 F-4 “White 1” dietro le linee sovietiche, attraversò il fiume Don e tornò nella sua unità quattro giorni dopo.
Il 24 luglio 1942 ricevette la Croce di ferro di 2ª classe e la Croce di ferro di 1ª classe il 2 agosto. Il 9 di agosto, Ettel  ottiene la sua ventesima vittoria aerea, la trentesima il 7 ottobre, e il 23 ottobre viene insignito del Front Flying Clasp in oro, la decorazione assegnata ai piloti della Luftwaffe dopo 60 missioni di guerra. In seguito alla perdita tedesca nella Battaglia di Stalingrado , il 4. Staffel viene trasferito sulla testa di ponte di Kuban.
Durante gli intensi mesi di operazioni, Ettel dichiarò 28 aerei sovietici abbattuti a marzo e altri 36 ad aprile, inclusi 5 abbattuti nello stesso giorno, l’11 aprile. Il 28 aprile 1943, Ettel ottenne la sua centesima vittoria aerea, era il 38esimo pilota della Luftwaffe a raggiungere il prestigioso traguardo. L’11 maggio, Ettel rivendica la sua 120esima vittoria, l’ultima sul fronte orientale, ma viene abbattuta dalla contraerea sovietica.
Ettel è costretto ad un atterraggio di fortuna con il suo Bf 109 G-4 nella terra di nessuno ma riesce a riguadagnare le proprie line nonostante la caccia serrata da parte di pattuglie sovietiche e più tardi a guidare una pattuglia della Werhmacht per distruggere importanti attrezzature rimaste a bordo del suo aereo.
Il 1° giugno a Berlino, Wolf viene insignito della Croce del Cavaliere della Croce di ferro (Ritterkreuz des Eisernen Kreuzes) dal generale der Jagdflieger Adolf Galland. Promosso a Oberleutnant (primo luogotenente), Ettel viene nominato Staffelkapitän (comandnate di squadrone) di una nuova unità l’8. Staffel di Jagdgeschwader con sede a Tanagra, in Grecia, equipaggiato con i Messerschmitt Bf 109 delle serie G-4 e G-6.
A giugno, il Gruppo prende possesso e familiarizza con i nuovi aerei e a fine mese l’unità viene trasferita ad Argos nel Peloponneso, con il compito di pattugliare il Mar Egeo. Il 10 giugno 1943 due armate alleate sbarcano sulle coste siciliane e il gruppo caccia di Wolf viene trasferito a Brindisi nell’Italia meridionale il 14 luglio 1943, partecipando ai primi combattimenti a sostegno delle forze di terra tedesche a sud-est di Catania già il 15 luglio.
Nei corso dei combattimenti a nord dell’Etna, nella grande battaglia per il controllo del ponte di Primosole che vide rifulgere il valore del X arditi, Ettel ottenne la sua prima vittoria aerea nel Teatro Mediterraneo, abbattendo un caccia Supermarine Spitfire della RAF. Il giorno successivo, rivendicato un altro Spitfire abbattuto e due bombardieri Liberator statunitensi. In soli due giorni Ettel può aggiungere quattro aerei abbattuti al suo bottino personale e raggiungere quota 124 vittorie.
Quota 124 vittorie sarà il suo score finale, il 17 luglio 1943, il gruppo è nuovamente incaricato di svolgere missioni di supporto a terra contro le forze britanniche nelle vicinanze di Catania. Nelle vicinanze di Lentini, il Gruppo perse cinque aerei abbattuti dal micidiale fuoco contraereo britannico fra cui quello di Ettel che nell’azione muore a soli 22 anni,dopo che il suo Bf 109 G-6 si schianta a nord-est del Lago di Lentini.
  Il 31 agosto 1943 Ettel ricevette la croce cavalleresca della croce di cavaliere con foglie di quercia (Ritterkreuz des Eisernen Kreuzes mit Eichenlaub), era il  289° militare della Wehrmacht a ricevere la prestigiosa decorazione.
La Croce di Cavaliere della Croce di Ferro era conferita per eccezionali meriti di comando e/o di coraggio a militari di qualsiasi grado e si suddivide in cinque classi:
Croce di Cavaliere
Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia , istituita il 3 giugno 1940
Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia e Spade istituita il 21 giugno 1941
Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia, Spade e Diamanti istituita il 15 luglio 1941
Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia in Oro, Spade e Diamanti, istituita il 29 dicembre 1944.
In totale vennero distribuite 7.361 decorazioni della Croce di Cavaliere (43 delle quali a militari alleati del Terzo Reich), dei quali 890 ricevettero le Fronde di Quercia (8 stranieri), 159 le Fronde di Quercia e Spade (più una distribuzione onoraria all’ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto). Solo 27 uomini vennero decorati anche con i Diamanti, mentre Hans-Ulrich Rudel, pilota della Luftwaffe abbattuto trenta volte e con all’attivo circa 1.300 mezzi corazzati o blindati distrutti fu l’unico a ricevere la Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia in Oro, Spade e Diamanti.
Tornando al protagonista del nostro post odierno, Wolf-Udo Ettel fu sepolto nel cimitero tedesco di Motta Sant’Anastasia in una tomba non contrassegnata. Grazie per aver letto con tanta pazienza il nostro post, con la speranza che vogliate continuare a seguirci anche in futuro Vi salutiamo e diamo appuntamento al prossimo.
17 luglio 1943, nei cieli di Lentini muore uno dei maggiori assi della Luftwaffe Il 17 luglio veniva ucciso in combattimento nei cieli di Sicilia, uno dei maggiori assi della Luftwaffe nella seconda guerra mondiale, Wolf-Udo Ettel.
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pangeanews · 6 years ago
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50 anni fa Borges incontra se stesso su una panchina, a Boston. Ecco come un libro autografo del grande scrittore (la sua firma sembra una cicatrice) è entrato con ferocia onirica nella mia vita
Provo ad affastellare qualche dato, dando priorità fisiognomica al caso.
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Il 17 giugno, a Roma, incontro Sylvia Iparraguirre, la grande scrittrice argentina. Per me Roma è viva in quella sfera di versi di Iosif Brodskij: “Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come/ può soltanto sognare un frantume! Una dracma/ d’oro è rimasta sopra la mia rètina./ Basta per tutta la lunghezza della tenebra”. Con Sylvia non parliamo di Brodskij, ma di Borges: mi regala il libro-intervista di Victoria Ocampo, era il 1969. Tenete a mente la data, sarà importante nel viavai dell’articolo.
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Sette giorni dopo – lascio a voi gestire la cabbala – incontro un’altra Silvia, che avrei dovuto vedere a Roma la settimana prima. Lascio all’enigma ulteriori dettagli: è una donna che si aureola nel pudore. Anche Silvia mi regala un Borges. La prima edizione de Il libro di sabbia, “El libro de arena”, pubblicato da Emecé a Buenos Aires nel 1975. Io possiedo, molto più modestamente, l’edizione Adelphi del 2004. Il libro è firmato da Borges, per Silvia. La firma di Borges è incerta, minuscola, pare un sigillo equinoziale, la cifra che scinde gli uccelli migratori; si conclude con due segni che hanno statura di ideogramma. Sei feticista?, mi fa Silvia. No, dico. Ma da ora lo sono.
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Due Borges preziosi in una settimana. Non sono ossessionato da Borges, devo dire. Lo è, piuttosto, Piero Meldini, uno scrittore straordinario: è stato direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini per un lotto di lustri e 25 anni fa ha pubblicato con Adelphi, la casa editrice di Borges, un libro meraviglioso, L’avvocata delle vertigini. Meldini, se hanno senso queste didascalie, è il Borges italiano.
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Il primo racconto del Libro di sabbia si intitola El otro. “L’altro” – così la traduzione italiana, che cito dall’edizione Rizzoli, per mano di Livio Bacchi Wilcock – comincia così: “Il fatto accadde nel febbraio 1969, a nord di Boston, a Cambridge”. Borges, che scrive in prima persona, si siede su una panca, “davanti al fiume Charles”; il pensiero va inesorabilmente a Eraclito, “ad un tratto ebbi l’impressione… di avere già vissuto quel momento”. Di fianco a lui, “l’altro” fischia un motivo argentino che Borges riconosce. L’altro è lui stesso, più giovane, che è su quella panchina credendo di essere “qui a Ginevra, a pochi passi dal Rodano”. Consueta situazione borgesiana, che a L’altro, lo stesso ha dedicato una raccolta di poesie (era il 1964) e sul suo avatar ha compiuto una passeggera esegesi, tra le altre – con fetore di suicidio – in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, era il 1940, siamo in Finzioni.
*
Questa è la firma di Borges sulla copia di “El libro de arena” che mi è stato donato
Non è la geografia letteraria, però, che m’importa, qui, ma la ricorrenza di date. Borges nasce nell’agosto del 1899: nel febbraio del 1969 si prepara a compiere 70 anni. Mio padre, nel febbraio del 1969, di anni ne compie 20 – io sarei nato esattamente 10 anni dopo, nel febbraio del 1979. Boris Pasternak è nato – secondo il calendario gregoriano – lo stesso giorno in cui è nato mio padre, un anno dopo Borges. Giuseppe Ungaretti è nato lo stesso giorno in cui sono nato io, un anno prima di Borges. Mio padre è morto nel 1989, quando io avevo 10 anni, 20 anni dopo l’incontro di Borges con “l’altro” – e 3 anni dopo la morte del vero Borges, quello in carne. Se volete, tutti questi incroci sono spuri, favolistici, inutili: cosa vorrei dimostrare? Nulla. Mi sembra strano però che due donne di nome Silvia, a distanza di sette giorni, mi regalino un libro di Borges che ha a che fare con una medesima data, il 1969, e con un mese che ha stretta attinenza con la mia personale biografia. Borges ha scritto quelle cose per me e vuole comunicarmi qualcosa dall’altro mondo? Oppure, io sono la nota a margine di un sogno di Borges, il sogno eroso ed eretico di uno dei suoi tanti ‘altri’? Perché scrivo, d’altronde, se non come una rincorsa ai morti, un perdifiato nella vertigine? Perché, poi, la firma di Borges mi sembra una cicatrice, qualcosa che sutura, con sottigliezza orientale, più decenni e diverse vite, schiena contro schiena? La cosa più facile da supporre è che nel febbraio del 2019, su una panchina, io abbia parlato con mio padre, un altro me stesso, senza accorgermene. (Davide Brullo)
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pangeanews · 6 years ago
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L’enigma dello Sparviero, l’aereo scomparso nel Sahara: la marcia nel deserto dell’aviere Romanini e la donna che lo attese per dieci anni. Dialogo con Antonio Zamberletti
Una lunga scia di sangue misto a petrolio cola, terribile, sotto ai nostri occhi miopi, dentro le geometriche linee di confine della Libia. La sabbia, del deserto e del tempo, insinuandosi, copre i solchi delle ferite. La storia è vecchia, puzza di una guerra lontana, il sangue, poi, ha perso il suo colore e le sue croste. È passato poco più di un secolo da quando Giolitti, ai primi di ottobre, 1911, allungava le mani, in forma extraparlamentare, sulla Libia. Conquistata e riconquistata, colonia italiana. E la guerra, la seconda guerra mondiale. In mezzo, massacri di civili. Spargimenti di sangue e petrolio. La guerra finisce ed è ottobre, del 1960. Enrico Mattei è ancora vivo, sarebbe morto due anni dopo – in volo da Catania, precipita nella campagna pavese, il 27 ottobre. Alcuni tecnici dell’Eni scoprono, tra le dune del deserto, la carcassa di un aereo da combattimento italiano, è il 5 ottobre 1960. E loro sono tecnici della compagnia CORI (Compagnia Ricerche Idrocarburi) del gruppo ENI, impegnato in ricerche petrolifere nel deserto libico. Nella squadra si trova anche Gian Luca Desio, il figlio del famoso esploratore Ardito. A bordo, ancora chiuso nella cabina di pilotaggio, il comandante, ormai uno scheletro mummificato. Sotto un’ala, due cadaveri dei soldati dell’equipaggio, al riparo dal sole. Non ci sono le piastrine di riconoscimento, sono state strappate via dai predoni del deserto. Una mitragliatrice invece rimane, un simbolo senza tempo, ancora sul dorso dell’aereo, probabilmente, senza munizioni, non interessa a nessuno.
Mentre mi racconta la storia senza tempo dello Sparviero, Antonio Zamberletti – autore di gialli e spy-story, due volte semifinalista al Premio Scerbanenco per il miglior noir italiano dell’anno, sceneggiatore e soggettista presso la Sergio Bonelli Editore, sulle testate di Zagor, Dampyr, Nathan Never e Tex – con la pazienza di un monaco, mi mette a parte dei misteri che ancora avvolgono questo velivolo che lui ha visto, fedelmente ricostruito, qualche anno fa, nel museo di Volandia, alla Malpensa. Oggi il modello non è più visitabile, resta, a Volandia, solo una manciata di sabbia e l’impronta del relitto. Faccio un’inutile fotografia. Immagino. Lo Sparviero era un bombardiere leggero, ricognizione a lungo raggio, trasporto tattico e aerosilurante. Sedici metri di lunghezza, apertura alare di venti, alto quattro metri, sei tonnellate di peso, tre motori e quasi duemila chilometri di autonomia. Lo spettacolo che ha ideato Zamberletti, “L’ultimo volo dello Sparviero” affonda le radici nel fatto storico, poi lascia il campo alle ipotesi. La carcassa – uno scheletro con qualche brandello di pelle – di un vecchio aereo di guerra. Così, probabilmente, appare nel deserto, a vent’anni dalla tragedia, lo Sparviero, quando viene ritrovato. Era scomparso, senza lasciare tracce, dopo il decollo dalla base italiana di Berka, in Libia. Base K2 a Berka, un sobborgo di Bengasi.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, lo Sparviero era uno degli aerei da combattimento più impiegati dall’Aeronautica Militare Italiana, il Savoia Marchetti SM 79. Soprannominato dagli inglesi della Royal Air Force il gobbo maledetto per via della sua forma che presenta una gobba sul dorso, dove è situata la postazione del mitragliere, ma anche per la sua incredibile capacità di incassare numerosi colpi e per la difficoltà, che hanno i caccia inglesi, gli Spitfire e gli Hurricane, ad attaccarlo da dietro. Lo Sparviero in questione aveva matricola MM 23881 (dove MM sta per matricola militare) ed era inquadrato nella 278^ Squadriglia Autonoma Aerosiluranti, il cui nome era I quattro gatti ed era schierata in svariate basi in prossimità del Mediterraneo. I quattro gatti hanno come simbolo quattro gatti su un siluro, ideato da un sottotenente della Regia Aeronautica, Alessandro Maffei, e un motto: pauci sed semper immites, pochi ma sempre indomiti. Era il 20 aprile del 1941- una data forte: il compleanno di Hitler – lo Sparviero arriva in Libia. Il 21 aprile – altra data forte: la nascita di Roma – il gobbo maledetto parte per la sua ultima missione. Prima di sparire dai radar. A bordo dello Sparviero sei uomini formavano l’equipaggio: di loro, dei loro resti, non si seppe nulla fino all’ottobre del 1960, quando alcuni tecnici dell’Eni fecero i primi ritrovamenti. Pilota, secondo pilota, osservatore, marconista, motorista e mitragliere.
Chi c’è a bordo dello Sparviero? “Ci sono il capitano Oscar Cimolini, 33 anni, comandante pilota, nato a Trieste il 26 novembre 1908, il Maresciallo Cesare Barro, 27 anni, secondo pilota, veterano della guerra nell’Africa Orientale Italiana. Barro è il più giovane dei marescialli piloti della Regia Aeronautica. Nato a Conegliano, provincia di Treviso, il 16 maggio del 1914, Cesare Barro ha una figlia, e sua moglie aspetta la seconda, che non conoscerà mai suo padre, il Tenente di Vascello Franco Franchi, 29 anni, Regia Marina Militare, osservatore, nato a Fiume l’11 ottobre del 1912, il Sergente Maggiore Amorino De Luca, 26 anni, marconista, nato a Frascati il 7 febbraio del 1915. De Luca ha in tasca una licenza già firmata, ma gli viene ordinata un’ultima missione, il primo Aviere Quintilio Bozzelli, 26 anni, motorista, nato a Pistoia il 5 maggio del 1915. Bozzelli è nell’equipaggio che il 15 agosto del 1940 partecipa all’incursione aerea sulla base navale inglese di Alessandria d’Egitto. Il Primo Aviere Giovanni Romanini, nato a San Polo di Torrile (Parma) il 28 ottobre del 1916”.
A Volandia, la ricostruzione dello Sparviero misteriosamente scomparso
Una ricostruzione fedele ed evocativa del disastro dello Sparviero, fino a pochi anni fa, si poteva vedere a Volandia, dove un SM 79 era stato prestato dall’Aereonatica dal 2010, anno di fondazione del museo, fino a novembre 2016, quando è ritornato all’Aereonautica per restauro. Ma – chiedo a Zamberletti – perché ti sei gettato, a capofitto, sulla storia dello Sparviero? “Il relitto esposto non era quello originale, ma la suggestione era enorme. Ho iniziato a informarmi sulla vicenda, che, sinceramente, fino ad allora ignoravo. Lo Sparviero avrebbe dovuto silurare una petroliera inglese. Quello che mi ha colpito di più è stata la marcia dell’aviere Romanini, partito alla ricerca di soccorsi e morto di sete e fatica nel deserto”. Com’era la situazione in Libia? La situazione tattica: attività aeronavale febbrile. Gli inglesi stanno iniziando l’evacuazione del loro corpo di spedizione dalla Grecia sotto continui attacchi aerei italo-tedeschi. Gli aerei italiani partono dalle basi in Sicilia, dalla Libia, da quelle nel Dodecaneso. A Sud di Creta, i ricognitori italiani avvistano un convoglio composto dalle petroliere Breconshire e British Lord e, da almeno quattro navi da trasporto, scortate da unità di superficie, fregate e cacciatorpediniere. In zona, a Sud di Malta, c’è la portaerei Formidable, in navigazione con i suoi settanta intercettori e il suo gruppo da combattimento, composto dagli incrociatori Orion, Ajax e Perth. Le condizioni meteo sulla costa libica sono difficili. Ci sono fortissimi venti da Nord Ovest e visibilità scarsa a causa di nubi basse e densa foschia. Un’altra ricognizione italiana avvista i trasporti inglesi Bankura e Urania con le relative scorte. Alle ore 16 e 50, da Berka, decolla lo Sparviero del Tenente Guido Robone, il quale attacca la petroliera British Lord, colpendola e danneggiandola gravemente, e fa rientro alla base. Con lui dovrebbe decollare il nostro Sparviero, che però ritarda la partenza, forse per problemi a uno dei motori, decollando solo alle ore 17 e 25, senza fare più rientro alla base. Dopo due giorni di ricerche in mare, la 278^ Squadriglia informa il Ministero della Difesa di quanto successo con il seguente comunicato: Comunicato dalla 278^ Squadriglia Aerosiluranti a Ministero Difesa Aeronautica. Comunicasi che giorno 21 aprile at ore 17,25 apparecchio S-79 mm 23881 partito da Berka seguito comando 5^ Squadra Aerea per attacco convoglio scortato segnalato quadratino 5881 precedente rotta Uno-Zero-Cinque velocità otto miglia, non è rientrato. Da questo momento, lo Sparviero e il suo equipaggio sono dati per dispersi. L’unico cadavere ritrovato con la piastrina è riconosciuto dai bottoni dell’uniforme.
“A più di novanta chilometri di distanza dall’aereo, era stato ritrovato il corpo di uno degli uomini dell’equipaggio, Giovanni Romanini, identificato grazie alla piastrina di riconoscimento, che era partito alla ricerca di soccorsi, camminando tra le dune del deserto per almeno quattro giorni prima di crollare, ucciso dalla sete, dal caldo e dalla fatica. Con una borraccia che poteva contenere mezzo litro d’acqua. Il suo corpo era a circa otto chilometri dalla pista di Gialo Giarabub, che porta dalla costa verso l’interno. I corpi di due uomini dell’equipaggio non furono mai più ritrovati. Gli altri quattro vennero riportati in patria”. L’aviere Giovanni Romanini da Parma, classe 1916, camminò per novanta chilometri nel deserto alla disperata ricerca d’aiuto. Ora Romanini è sepolto al Cimitero di Collecchio, mentre i suoi compagni, rimpatriati e rimasti ignoti, senza nome, sono al Sacrario dei Caduti d’Oltremare, a Bari.
L’episodio drammatico presuppone uno scenario più vasto, la Seconda guerra mondiale. “La storia dello Sparviero e del suo equipaggio verrà collocata, infatti, all’interno di un contesto storico molto più ampio. Si inizierà dalla campagna di Libia del 1911 per proseguire con la Grande Guerra e le imprese dei pionieri del volo, per poi entrare nella Seconda Guerra Mondiale. Il tutto sarà documentato in maniera rigorosamente storica, a parte, per ovvie ragioni, gli ultimi momenti dello Sparviero e, soprattutto, la lunga marcia dell’aviere Romanini. Dobbiamo immaginare i suoi pensieri nei novanta chilometri di deserto, da quando lasciò il relitto dello Sparviero, iniziando la disperata missione di soccorso, fino a quando, sparato l’ultimo razzo a illuminare la notte africana, si coricò sulla sabbia, attendendo la fine. Saranno momenti in sospeso sul labile, sottile confine tra l’eroismo di Romanini e il suo dramma, tra la desiderata normalità di un ragazzo di venticinque anni mandato in guerra e la missione che sta compiendo, tra i ricordi di casa, della sua terra, della famiglia e la durezza del deserto africano”. Qual è l’aspetto più problematico nella ricostruzione teatrale? “Ci sono molti aspetti problematici. Ad esempio, nessuno non è mai riuscito a spiegare con certezza come mai lo Sparviero sia finito fuori rotta, terminando il suo volo a quasi quattrocento chilometri di distanza dalla base. Noi ci affideremo chiaramente, nei limiti del possibile, a una documentazione storica ineccepibile, grazie anche all’aiuto dell’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare”.
Quale idea ti sei fatto su come siano andate veramente le cose, su cosa sia andato storto? “Il relitto si trovava a più di 400 chilometri a Sud della base di partenza e di rientro. Si presume che, spinti fuori rotta dal vento forte, i piloti abbiano scambiato il deserto per la superficie del mare, esperienza che hanno riferito equipaggi in volo non strumentale anche in tempi recenti. Terminato il carburante, lo Sparviero ha tentato un atterraggio di emergenza, finendo il suo volo nelle sabbie del Sahara. Romanini avrebbe a questo punto tentato di raggiungere la pista di Gialo Giarabub, l’unico posto dove trovare aiuto, camminando per quattro o cinque giorni tra le dune, percorrendo circa cento chilometri, prima di morire”. Dei sei membri dell’equipaggio, due sono i militari che ancora oggi risultano dispersi; cosa pensi che sia successo loro? “Anche questo è un particolare che nessuno è mai riuscito a spiegare. È probabile che altri membri dell’equipaggio siano partiti alla ricerca di soccorsi, ma siamo nel campo delle ipotesi”. Avete raccolto notizie sui familiari dell’equipaggio dello Sparviero? “Abbiamo svolto diverse ricerche. Sono ancora in vita le due figlie del secondo pilota dello Sparviero, il Maresciallo Cesare Barro di Conegliano Veneto, alla cui memoria è intitolata la locale sezione dell’associazione arma aeronautica, che sta collaborando in maniera entusiastica al progetto”. Come si spiega il fatto che questa vicenda non sia nota come altre tragedie di guerra? “È una vicenda nota soprattutto agli appassionati di storia del volo e della Seconda guerra mondiale. Probabilmente se ne è perso il ricordo nel corso del tempo, è finita con il diventare una delle molte, tantissime tragedie di quella guerra, dalle quali si differenzia, forse, per la marcia di Romanini. Anche se è giusto non dimenticare che sullo Sparviero perso del deserto c’erano altri cinque uomini, ognuno con la sua storia. La seconda figlia del Maresciallo Cesare Barro, ad esempio, non conobbe mai suo padre e la moglie attese per anni notizie del marito, ufficialmente disperso assieme ai suoi compagni di volo”.
Romanini aveva una fidanzata, a Parma, Carla, che attese il suo ritorno per dieci anni prima di sposarsi. Al rientro della salma in Italia, andò al suo funerale, di nascosto, e pianse lacrime amare. Quando è stato ritrovato, il corpo ormai mummificato di Romanini, non aveva in tasca la foto di Carla. La bella Carla. Forse qualcuno aveva rubato anche la sua foto. Il suo sorriso, i suoi begli occhi. Romanini aveva con sé una pistola lanciarazzi – ha forse lanciato l’ultimo razzo prima del sorgere del sole, prima di morire – e indossava due orologi. Forse non era solo durante la marcia, forse il secondo orologio apparteneva ad un suo compagno, che era morto prima di lui. Giovanni, per gli amici Gianni, e Carla erano fidanzati, prima della guerra, erano andati a ballare la notte in cui è nata Giovanna Romanini, la nipote del grande aviere, che è stata chiamata così perché lo zio è stato il primo uomo a prenderla in braccio, quando è nata. A cullarla, teneramente, fra le sue forti braccia.
Linda Terziroli
L'articolo L’enigma dello Sparviero, l’aereo scomparso nel Sahara: la marcia nel deserto dell’aviere Romanini e la donna che lo attese per dieci anni. Dialogo con Antonio Zamberletti proviene da Pangea.
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