#Fronte jugoslavo
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italianiinguerra · 1 year ago
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Medaglie d'Oro della 2ª Guerra Mondiale - 1° aviere ANTONIO TREVIGNI - Cielo del Mediterraneo, 17 agosto 1940
Nome e CognomeAntonio TrevigniLuogo e data di nascitaTripoli, 18 febbraio 1917Forza ArmataRegia AeronauticaSpecialitàBombardamento TerrestreSquadra o stormo15º Stormo Bombardamento TerrestreReparto53ª SquadrigliaUnità47º GruppoGrado1º AviereAnni di servizio1936 -1940Guerre e campagneSeconda Guerra Mondiale (Africa settentrionale)Seconda Guerra Mondiale (battaglia dei convogli)Luogo e data del…
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gregor-samsung · 2 years ago
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“ Con il 24 febbraio 2022 entriamo nel territorio della guerra rimosso dalla retorica e dalla prassi comunitaria. Cacciata dalla porta della legge, la guerra rientra dalla finestra della storia. Nessun decreto può cancellare la guerra dal percorso dell’umanità, figuriamoci se privo d’autorità sovrana deputata ad applicarlo. Non c’è legge né istituzione che possa sterilizzare la storia. Rovesciando Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa / è così che penetra la guerra” [L. Cohen, Anthem, album The Future, 1992 (anno topico); NdA]. Abbiamo voluto vietarci questo pensiero. Abbiamo chiamato guerra l’epidemia di Covid-19, ma non ci consideriamo in guerra con la Russia anche se la sanzioniamo mentre armiamo l’Ucraina. Tabù semantico, figlio della dissonanza cognitiva che impone di non concepire reale ciò che non dev’esser tale. Con notevoli conseguenze operative. Esemplificate nel proliferare su impulso americano di sanzioni europee contro la Russia, inventiva tecnica parabellica di cui paghiamo prezzi almeno altrettanto alti di quelli che imponiamo ai russi – assai modesto il costo per gli Stati Uniti, che anzi fissano nella fine dell’interconnessione energetica russo-tedesca (europea) l’obiettivo di questa fase. La differenza è che noi non disponiamo di alternative in questo scontro. Stabilito che divisioni al fronte non intendiamo inviarne ma che non possiamo restare con le mani in mano, cos’altro resta se non sanzionare, cioè autosanzionarsi all’infinito? Mentre Mosca, varcato sconsideratamente il Rubicone, barcollando dispone di una tastiera tattica che va dall’intimidazione alla Bomba. Limiti strategici e vincoli tattici derivano da deficit di cultura geopolitica. Nelle opinioni pubbliche europee, segnatamente la tedesca e l’italiana, ci si è spinti a credere che la guerra – Guerra Grande, non conflitto locale, regionale o autocontenuto come quello jugoslavo – non esistesse più perché così Europa aveva statuito. Risultato: mancano a noi gli strumenti culturali oltre che tecnici per affrontare le “inutili stragi”, come ogni guerra appare ai moralisti che l’escludono per principio dall’orizzonte. Sembrerebbe esserci del vero nel postulato vecchio d’un secolo del protogeopolitico britannico Halford Mackinder, almeno se riferito ai regimi euroccidentali: “La democrazia rifiuta di pensare strategicamente finché non è costretta a farlo per difendersi” [H. Mackinder, Democratic ideals and reality, London 1919, Constable Publishers, p. 17; NdA]. Peccato l’Unione Europea non sia una democrazia perché non è uno Stato né è supposta diventarlo. Le esauste convenzioni democratiche che persistono in molti dei suoi Stati non sono attrezzate ad affrontare l’emergenza. Le istituzioni europee, che tendono a negare il principio della sovranità popolare e poggiano su uno strutturale deficit democratico – in espansione –, lo sono ancora meno. Anzi, contribuiscono a delegittimare le democrazie nazionali. In formula: più “Europa” uguale meno “democrazia” (le virgolette a marcare la distanza fra la parola e la cosa). “
Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli (collana Varia), novembre 2022. [Libro elettronico]
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corallorosso · 4 years ago
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L'invasione nazi-fascista alla Jugoslavia: la guerra criminale che l'Italia nasconde Il 6 aprile 1941 segna una fondamentale tappa nelle politiche di aggressione che caratterizzarono il regime fascista. Dopo la guerra di Etiopia, l’annessione dell’Albania, l’invasione della Grecia, la campagna d’Africa e di Russia, ottanta anni fa le truppe dell’esercito italiano invasero il Regno di Jugoslavia, un micidiale attacco a tenaglia sferrato con le truppe germaniche. Gli italiani penetrarono nel territorio jugoslavo dalla Venezia Giulia e da Zara con 7 Divisioni della Seconda Armata agli ordini del generale Vittorio Ambrosio, e da sud dall’Albania con 4 Divisioni della Nona Armata del generale Alessandro Pirzio Biroli. L’aggressione delle forze dell’Asse portò allo smembramento dello stato jugoslavo e all’annessione di parti del territorio occupato, con la creazione di nuove province e protettorati. È l’inizio di una delle pagine più vergognose della storia d’Italia, poiché alle atrocità tipiche d’ogni guerra di aggressione seguì una politica d’occupazione basata sulla repressione sistematica, messa in atto con la creazione di campi di concentramento, rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni e feroci rappresaglie antipartigiane. A ciò si aggiunga la tremenda carestia alimentare causata dalla disorganizzazione dell’amministrazione italiana, gli stenti e i maltrattamenti subiti dalle popolazioni slave, vittime peraltro di un odio razziale che aveva storia lunga. I pregiudizi antislavi serpeggianti nella classe dirigente italiana, nazionalista e irredentista, dopo la Prima guerra mondiale sono esemplarmente sintetizzati dal discorso che Mussolini tenne a Pola nel 1920: bisognava “espellere questa razza barbara, inferiore, slava, da tutto l’Adriatico”. Parole che contenevano in germe il programma annessionistico del futuro regime: giunto al potere, il fascismo lo trasformò in legge e mise in atto politiche di snazionalizzazione e discriminazione verso le popolazioni slave del confine orientale. I programmi di “bonifica nazionale” del cosiddetto “fascismo di frontiera” degli anni Venti e Trenta trovarono poi attuazione nel giugno 1940, quando il governatore della provincia dell’Istria propose d’istituire, tra Verona e Trento, campi di concentramento per gli slavi di quelle terre sospettati di sentimenti antitaliani. L’occupazione dei territori jugoslavi nel 1941 fu quindi l’ultimo, definitivo atto di una politica di sterminio. Nella provincia di Lubiana annessa dopo lo smembramento della Jugoslavia, dal settembre 1941 si applicava la pena di morte per il semplice possesso di materiale e pubblicazioni sovversive. Ogni azione partigiana prevedeva in risposta la fucilazione di ostaggi civili. La famigerata circolare 3C del generale Mario Roatta, in cui si leggeva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì testa per dente”, ordinava la fucilazione immediata dei sospetti partigiani, l’uccisione indiscriminata di ostaggi a discrezione dei comandanti impegnati nell’azione, l’internamento delle famiglie dei sospetti nei campi di concentramento, la distruzione delle abitazioni nelle zone interessate dalle operazioni mediante incendi attuati da reparti chimici, lanciafiamme e bombardamenti. I numeri di quella selvaggia occupazione sono impressionanti: si reputa che nei territori dei Balcani controllati dal regime fascista tra l’aprile del 1941 e il settembre 1943 almeno 350.000 persone siano morte per cause connesse all’attività delle forze d’occupazione, ma la stima arriva a un milione di morti contando l’occupazione globale delle forze dell’Asse italo-tedesca. Negli stermini in massa di civili si distinse anche il generale Alessandro Pirzio Biroli, che esortava le sue truppe con queste parole: “Ho sentito dire che siete dei buoni padri di famiglia. Ciò va bene a casa vostra, non qui. Qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”. Per debellare la ribellione nessun mezzo era considerato eccessivo e si garantiva l’impunità per ogni azione commessa, ordinando l’uccisione di 50 civili per ogni ufficiale italiano ucciso o ferito (superando di ben cinque volte il diktat nazista applicato in Italia!): l’eliminazione di massa e la distruzione d’interi villaggi era divenuta la norma. In Italia non c’è mai stato un processo di Norimberga per i criminali di guerra italiani, malgrado le Nazioni Unite, oltre che le nazioni aggredite, avessero raccolto materiale su centinaia di italiani, a partire dal 1935 e su tutte le guerre di aggressioni fasciste, dall’Etiopia alla campagna di Russia. L’immunità di cui ha goduto il fascismo nel dopoguerra malgrado i crimini contro l’umanità commessi, a livello personale come politico, ha dato luogo con il tempo ad un purulento revisionismo storico, che ha persino generato il ribaltamento delle responsabilità: gli aggrediti sono fatti passare per gli aggressori, le vittime per i carnefici. La creazione del “giorno del ricordo”, limitata alla vicenda delle foibe e all’esodo, determinata dall’appropriazione della memoria di quegli eventi e dal loro racconto distorto da parte di un ampio schieramento di forze nazionaliste e neofasciste, ipocritamente avallate da compagini che si dipingono come progressiste, dimentica e rimuove le cause che determinarono i sanguinosi eventi occorsi sul fronte orientale, stendendo un osceno velo d’oblio sulle nefandezze compiute dalla barbarie fascista. L’Italia democratica e repubblicana non ha mai fatto i conti con questa vergognosa pagina di storia. (...) La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia. (...) Giuseppe Costigliola
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patrizio-t · 5 years ago
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Il mio sogno di essere Ulisse
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“...Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, ché de la nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com' altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso...”.
L'Ulisse di Dante muore così. In una scena tragica e grandiosa fuori dal tempo, lontano da tutti, ai confini del mondo conosciuto, dopo aver convinto i compagni impauriti e recalcitranti ad andare avanti, sempre più avanti, oltre ogni limite, “per seguir virtute e canoscenza”.
Il mio Ulisse, invece, è morto martedì 15 giugno 2010 a Belgrado, in un appartamento del quartiere di Zvezdara. Suicida. L'hanno trovato sul suo letto, al suo fianco la pistola con cui ha messo fine alla sua vita.
L'Ulisse della mia infanzia, l'Ulisse di alcune generazioni di spettatori televisivi, aveva il volto intenso e il corpo atletico di Bekim Fehmiu, una delle stelle di prima grandezza del cinema jugoslavo, noto in Italia soprattutto per lo sceneggiato a puntate “L'Odissea”, fedele trasposizione del romanzo di Omero co-prodotto dalla Rai nel 1968 e diretto da Franco Rossi.
Avevo cinque o sei anni quando l'ho visto in tv. Allora non lo sapevo, ma quella che andava in onda era una replica. Sarà stato il 1984, più o meno. Ricordo però ancora la mia emozione di bambino di fronte a quella storia piena di avventura, di sangue e di mare salato, piena di storie vissute e storie raccontate, insieme fantastica e terribile.
E su tutti la figura umana ed eccezionale di Ulisse, forte, astuto, instancabile, dallo sguardo a volte torvo, a volte commosso a volte stupito, interpretato (l'ho scoperto soltanto molti anni dopo) da un attore nato a Sarajevo nel 1936, da una famiglia albanese del Kosovo originaria di Djakova.
Dopo essersi diplomato alla Facoltà di Arti Drammatiche di Belgrado, Fehmiu ha iniziato a recitare negli anni '50. La notorietà vera è arrivata però nel 1967, col ruolo di Beli Bora in “Ho incontrato anche zingari felici” (Skupljači perja) di Saša Petrović, che in quell'anno vince il Premio speciale della giuria al festival di Cannes e viene nominato all'Oscar.
Da questo momento inizia la sua carriera internazionale, di cui uno dei primi successi è proprio la serie dedicata all'Odissea. Nelle decine di film girati, Fehmiu ha lavorato insieme a vere leggende del cinema, come John Huston, Ava Gardner, Irene Papas (la Penelope dell'Odissea di Rossi), Claudia Cardinale e Dirk Bogarde.
Fehmiu è stato un vero apripista. Secondo l'autore e produttore italiano Francesco Scardamaglia, “Bekim è stato l'unico attore proveniente dal blocco comunista a recitare in occidente con venti anni di anticipo rispetto all'arrivo di Gorbacev e al crollo del muro di Berlino”. Fehmiu ha tentato anche l'avventura hollywoodiana, stroncata però in partenza dal flop di “The adventurers”, girato nel 1970.
A fine anni '80, complice il clima pesante che fece da preludio alla fine della Jugoslavia, Fehmiu si è allontanato dall'ambiente del teatro e del cinema. Nel 1987, in segno di protesta verso la crescente politica di discriminazione della popolazione albanese del Kosovo, l'attore ha abbandonato il palcoscenico del Teatro Drammatico Yugoslavo di Belgrado, durante le rappresentazione di “Madame Colontein” opera di Agnette Pleyal. E' del 1992 l'ultima apparizione cinematografica, in “Gengis Khan” diretto da Ken Annakin.
“La disgregazione della Jugoslavia, la guerra fratricida, la distruzione di Vukovar, il bombardamento di Dubrovnik, l'assedio di Sarajevo, la guerra in Kosovo, il bombardamento di ciò che restava della Jugoslavia, hanno spinto mio padre a isolarsi sempre di più”, aveva scritto tempo fa il maggiore dei suoi due figli, anche lui attore, che porta non a caso il nome di Uliks (Ulisse). “Ha rinunciato volontariamente alla parola, il più bello e forte tra gli attributi di un attore, chiudendosi in un silenzio di protesta. E proprio come direbbe Amleto, 'Il resto è silenzio'”.
Il figlio minore, Hedon, due giorni dopo la morte del padre ha dichiarato alla stampa: “Ha vissuto ed è morto come un samurai. Se n'è andato in grande stile, così come ha vissuto”. Poi ha aggiunto: “Fino a quattro mesi fa era una persona piena di vita. Poi però è arrivato l'ictus, e tutto è cambiato. Era debole, è invecchiato letteralmente nel giro di una notte. Si muoveva con difficoltà, non era più lo stesso. Non voleva finire così”.
Per una volta, albanesi e serbi (ma anche tutti gli altri abitanti di quella che una volta era la Jugoslavia) piangono insieme un uomo e un artista che in tanti film li ha uniti e fatti sognare. La moglie, Branka Petrić, anche lei attrice famosa, ha ricevuto in questi giorni migliaia di telegrammi di condoglianze.
Dopo la cremazione, per volontà dell'attore, le sue ceneri verranno portate a Prizren, città del Kosovo molto amata da Fehmiu (qui ha vissuto da ragazzo) e disperse nel fiume Bistrica, le cui acque, dopo aver incontrato quelle del Drin, attraversano l'Albania per sfociare nel mare Adriatico.
Itaca, “la pietrosa Itaca” non è poi molto lontana. Credo, sono convinto, che non sia un caso che Bekim, per riposare, abbia scelto lo stesso mare smeraldo su cui è nata la leggenda di Ulisse. E spero che questo suo ultimo viaggio non sia altro che un sospirato ritorno a casa.
(articolo di Francesco Martino)
Nella foto Bekim Fhemiu e la bellissima Irene Papas
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Un mio personale omaggio, a 10 anni dalla sua scomparsa, ad un uomo, ad un’icona, ad una potente energia che ha fatto sognare più di una generazione.
Partire verso l’ignoto, scoprire nuovi mondi, fuori e dentro di sé.
Questo deve essere lo scopo ultimo di ogni essere umano.
Cercare e ricercare senza stancarsi mai. Con la curiosità di un bambino e la voracità di un animale affamato nella notte.
Per tornare un giorno, forse, chissà, (non è importante) ma sicuramente cresciuto, cambiato, con il corpo più piccolo e piegato, segnato da cicatrici, ma con uno splendido viso e sorriso, spirito da leone, da vero combattente.
E poi la vita può anche finire, consapevoli che la nostra vita, le rotte che abbiamo aperto, serviranno a tutti quelli che seguiranno.
Un abbraccio Bekim, mio unico e solo Ulisse.
Patrizio
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paoloxl · 5 years ago
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Con la vittoria dei partigiani, l'Albania diventa una repubblica socialista. Il processo di liberazione e resistenziale albanese vede fin dal principio, oltre alla contrapposizione a fascisti italiani e tedeschi, anche uno scontro fra partigiani comunisti e nazionalisti fedeli al deposto re albanese.
Sin dall'occupazione italiana del '39 la resistenza del popolo albanese si fa sentire. Anche se l'occupazione avviene con successo, principalmente a causa della superiorità militare dell'esercito italiano, numerosi sono gli scioperi operai e le manifestazioni contro gli occupanti.
Dal '41 sotto la direzione del partito comunista albanese, in stretti rapporti con quello jugoslavo e dell'URSS, vengono create le prime divisioni partigiane che per un periodo iniziale fecero un'alleanza strategica con le brigate partigiane nazionaliste.
Le azioni militari dei due anni di resistenza armata, portano alla liberazione di alcune città, nell'ottobre del '44 di Valona, e alla liberazione definitiva in novembre.
In questo contesto si inserisce il ruolo dei soldati italiani di stanza in Albania, che dopo l'8 settembre, ricevono l'ordine di arrendersi alla resistenza Albanese ormai riconosciuta anche dagli Alleati.
Il comandante in capo, Renzo Dalmazo, residente a Tirana, non accetta e ordina alle sue truppe di arrendersi soltanto alle truppe tedesche. Quindici mila soldati, in maggioranza della divisione “Firenze”, non accettano di arrendersi ai nazisti,  1500 di questi si aggregano all’esercito per la liberazione nazionale albanese formando il battaglione “Antonio Gramsci”.
Un'altra parte molto consistente, quasi 20 000, si nascosero protetti dalla popolazione albanese nelle campagne.
Il popolo albanese seppe fare la distinzione tra fascisti e soldati inviati li dal regime. Il contributo dei soldati che divennero partigiani in albania fu importante e riconosciuto dalla Resistenza albanese.
In seguito alla liberazione, nel fronte  partigiano prevalgono i comunisti guidati da Enver Hoxha, e l'11 gennaio 1946 nasce la Repubblica Popolare Albanese.
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claudiodangelo59 · 3 years ago
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OGGI 17 OTTOBRE, ITALIANO RICORDA…
1942
SECONDA GUERRA MONDIALE
FRONTE JUGOSLAVO
ULTIMA CARICA
DELLA CAVALLERIA ITALIANA
IL REGGIMENTO "CAVALLEGGERI DI ALESSANDRIA (14°)”
CARICA A POLOJ (CROAZIA)
La CARICA di POLOJ (CROAZIA) è un episodio bellico consumatosi durante il secondo conflitto mondiale nel FRONTE JUGOSLAVO il 17 ottobre 1942, passato alla storia come ultima carica posta in essere da truppe militari regolari.
L'episodio ha visto come protagonisti da una parte il Regio Esercito, con il Reggimento "Cavalleggeri di Alessandria (14°)” e dall'altra l'Esercito popolare di liberazione della JUGOSLAVIA.
FU IN ASSOLUTO L'ULTIMA CARICA DELLA CAVALLERIA ITALIANA.
Dopo l'invasione della JUGOSLAVIA nel 1941 e la conseguente spartizione dei territori occupati voluta dalla GERMANIA NAZISTA, il REGNO D'ITALIA era presente a ZARA, in una parte della SLOVENIA (Provincia italiana di LUBIANA), nella parte nord-occidentale della BANOVINA di CROAZIA (congiunta alla Provincia di FIUME), in una parte della DALMAZIA e nella zona della BOCCHE DI CATTARO (Governatorato di DALMAZIA).
L'ITALIA assicurava i propri confini con diverse Divisioni, stanziate in basi nel FRIULI VENEZIA GIULIA, nell'ISTRIA, in ZARA, e in ALBANIA.
Con il crescere del malcontento popolare causato dall'occupazione dell'Asse, nell'ex Regno di JUGOSLAVIA prendeva sempre più piede un movimento armato filocomunista di opposizione, chiamato ufficialmente Armata popolare di liberazione della JUGOSLAVIA.
I Reparti jugoslavi seguivano, a grandi linee, le direttive del loro autoproclamato Generale Josip Broz Tito, che sarebbe poi diventato, con l'instaurarsi del Comunismo nella regione, primo Presidente della Repubblica Socialista Federale di JUGOSLAVIA.
I primi scontri si svolsero già nei primi giorni dell'invasione, per poi continuare durante tutta l'occupazione, principalmente sotto forma di azioni di guerriglia, di sabotaggio e di disturbo.
I "Cavalleggeri di Alessandria (14°)" era uno dei Reggimenti italiani presenti nei territori occupati in cui le truppe erano prevalentemente a cavallo: era di sicuro il Reggimento con la più alta mobilità tra tutti quelli nella zona. Il Reggimento, inquadrato nella 1ª Divisione Celere "Eugenio di Savoia", compiva azioni di pattugliamento e controllo del territorio e gli scontri con i partigiani erano frequenti.
Al sorger del sole del 17 ottobre 1942, il Reggimento, guidato dal Colonnello Antonio Ajmone Cat e supportato da una colonna di artiglieria ippotrainata, il 3º squadrone carri basato su carri L6/40 ed il battaglione Camicie Nere divisionale (81°), muoveva verso PRIMISLJE in una normale operazione di controllo quando, nelle prossimità del FIUME KORANA, un manipolo di partigiani Jugoslavi esplosero dei colpi dalle alture circostanti, uccidendo subito un Ufficiale e un Cavalleggero e ferendo diversi uomini e cavalli.
Il 14° effettuò un breve ripiegamento che diede tempo ai partigiani di riorganizzarsi e di appostarsi nelle alture vicine. Alle 13.00, il Reggimento si mosse in formazione a losanga, rinforzato dallo Squadrone di supporto con carri e pezzi d'artiglieria.
Alle 14.30, questo raggiunse POLOJ e si schierò nella valle in ordine di combattimento, poiché le alture erano tenute dai partigiani, e subito iniziò un violento scontro a fuoco.
Alle 17.00 si accentuò la pressione avversaria. Vista la difficoltà di manovrare con i cavalli, ed il pericolo di un nemico schierato su posizioni dominanti, il Comandante del Reggimento, Colonnello Antonio Ajmone Cat, valutata la situazione e l’approssimarsi del buio, decise di attestarsi a difesa su alcune modeste alture per conseguire un vantaggio tattico e costringere il nemico a scoprirsi.
Il caso volle che alla colonna del Colonnello Cat si fosse aggiunto il Generale Mario Federico Mazza, Vicecomandante della Divisione, che, d’accordo con il Generale Cesare Lomaglio, Comandante della Divisione, ordinarono ai “Cavalleggeri di Alessandria” di proseguire verso PRIMISLJE, nonostante l’operazione apparisse rischiosa a causa dell’oscurità e della presenza del nemico bene appostato.
Il Generale Lomaglio, col far del buio, decise di far ritirare le forze a PERJASICA, ma ormai i partigiani aspettavano questa mossa.
Alle 18.30 le truppe italiane iniziarono a muoversi, ma dopo pochi chilometri furono attaccate nuovamente da un violento fuoco di armi automatiche e di bombe a mano.
Il Colonnello Cat mandò in scoperta il 1° Squadrone del Capitano Antonio Petroni con lo Squadrone comando e quello dei mitraglieri.
Nel frattempo il 3° Squadrone, sfoderate le sciabole, si lanciò alla carica sui partigiani che scendevano dalle alture a sinistra, mentre il 2° Squadrone faceva lo stesso dal lato opposto; in retroguardia il 4° Squadrone del Capitano Vinaccia caricò ripetutamente per coprire la ritirata dell'artiglieria e degli automezzi: il Capitano Vinaccia cadde nello scontro, ma le perdite partigiane furono nettamente superiori. I pochi partigiani rimasti, a questo punto, decisero di organizzare un terzo sbarramento, ma una poderosa carica di sciabole riuscì a spezzare l'accerchiamento formatosi e a metterli in fuga.
A fine battaglia, in tarda serata, i "Cavalleggeri di Alessandria (14°)" contavano 2 ufficiali dispersi, deceduti ma i cui corpi non poterono essere recuperati, 1 ufficiale morto, 5 feriti, 10 morti, 56 feriti e 50 dispersi fra Sottufficiali e Cavalleggeri. I cavalli perduti furono 109, quelli feriti 60.
Le perdite partigiane non vennero mai confermate ufficialmente anche se presumibilmente il loro numero fu abbastanza elevato da determinare per le armi italiane almeno la vittoria tattica.
Nelle ripetute cariche era andato perso lo Stendardo che però, il mattino seguente, il Capitano Fabio Martucci Comandante dello Squadrone Mitraglieri con il suo attendente Morgan Ferrari, venne ritrovato impigliato al ramo di un albero e fu così recuperato.
Il 18 e 19 ottobre 1942 il Reggimento sostò a PERJASICA, a disposizione del Comando Divisione “Lombardia”.
Già all’indomani della battaglia c’era, negli alti comandi italiani, la voglia di cancellare l’episodio.
La Carica di POLOJ fu certamente un’azione coraggiosa compiuta in maniera esemplare dai Cavalleggeri italiani, in cui rifulsero diversi atti di eroismo individuali, che valsero loro 12 Medaglie d'Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra ad ognuno.
Però l’azione militare era scaturita da ordini superiori avventati e non aderenti alla situazione tattica sul terreno.
L’inettitudine dei Generali Lomaglio e Mazza venne prontamente taciuta, non tanto per non screditare i due alti Ufficiali, ma per non far trapelare quella che era la generale impreparazione di tutto il sistema militare italiano a contrastare efficacemente la guerra partigiana nei BALCANI.
Ironia della sorte il Colonnello Ajmone Cat venne presto allontanato dal comando del Reggimento e gli fu negato un qualsiasi riconoscimento ufficiale per la sua azione di comando nella battaglia di POLOJ.
Nel secondo dopoguerra la crisi tra ITALIA e JUGOSLAVIA sul territorio di TRIESTE e la condotta tenuta dagli italiani durante l’occupazione dei Balcani non aiutarono certo a rendere il giusto merito alla CARICA di POLOJ.
Su tutto cadde il silenzio delle Istituzioni italiane e per decenni l’intero episodio venne pressoché dimenticato.
Il Reggimento “Cavalleggeri di Alessandria (14°)” è stato sciolto il 30 giugno 1979 senza aver mai ricevuto una ricompensa allo Stendardo per i fatti dell’ottobre 1942.
..... CARICAT! ALESSANDRIA !!!
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toscanoirriverente · 7 years ago
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Filippo Facci: Ignoranti e Pezzi di Merda
I manifestanti di Macerata che hanno inneggiato alle foibe sono solo dei pezzi di merda, tra l'altro ignoranti, perché hanno mostrato di non sapere che nelle foibe i comunisti non gettarono particolarmente dei fascisti, ma italiani in quanto italiani.
Per il resto, si può ricordare solo quello che si ha saputo, quindi ha fatto bene il Capo dello stato Sergio Mattarella a dire che «le stragi, le violenze e le sofferenze patite dagli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati non possono essere dimenticate, sminuite o rimosse». Ma se qualcuno non ha mai saputo, prima che di dimenticare, ha il problema di sapere: ed è questa la condizione di milioni di Italiani disinformati per decenni. Dovrebbero anzitutto sapere: ma in questo, nel suo messaggio di ieri in occasione del Giorno del Ricordo, non li ha aiutati neppure Mattarella col suo linguaggio solenne, sì, ma un po' da pievano di paese, così discreto da suonare omissivo, così ellittico da risultare ossessionato dalla necessità di non disturbare e non dividere.
Insomma: se del messaggio di Mattarella non avessimo capito niente sarebbe stato meglio, perché a quello siamo abituati; invece abbiamo udito cinque o sei volte l'espressione «nazionalismo» e una sola volta, ben mimetizzata, l'espressione «comunismo». Dal discorso di Mattarella sembra solo che nella zona delle foibe c'è stato il problema del nazionalismo nazifascista (per un po') e poi nazionalismo di Tito, un tizio jugoslavo: «Le foibe e l'esodo forzato furono il frutto avvelenato del nazionalismo esasperato e della ideologia totalitaria che hanno caratterizzato molti decenni nel secolo scorso». Dopodiché nei Balcani sono passati ad ammazzarsi tra di loro, fine della storia: «I danni del nazionalismo estremista, dell'odio etnico, razziale e religioso si sono perpetuati, anche in anni a noi molto più vicini, nei Balcani, generando guerre fratricide».
Certo, Mattarella non poteva dire «i comunisti di Tito si allearono coi partigiani comunisti italiani nel massacrare italiani inermi e anche altri partigiani non comunisti», però fu quello che accadde. Mattarella però ieri non guardava all'Istria o alla Dalmazia, guardava a Macerata: da qui il suo citare strenuamente «il nazionalismo estremo e l'odio etnico della violenza ideologica eretta a sistema... una tragedia provocata da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica».
Alzi la mano, dopo questo messaggio, quel cittadino italiano che abbia imparato qualcosa sulle foibe e sulle deportazioni degli istriani e dei dalmati e dei giuliani. Alzi la mano quell'italiano modello Sanremo (buona serata) che non esca frastornato e disinteressato da certi penosi conflitto tra genocidi, da Giornate della Memoria contrapposte a Giornate del Ricordo, da chi vorrebbe proibire un negazionismo e però non altri. Le foibe e le deportazioni sino a poco tempo fa erano fatti completamente censurati o sconosciuti ai più (figurarsi nelle scuole) al punto che due consiglieri milanesi di Rifondazione comunista, ancora nel 2014, le definirono «un'invenzione», e anche la presidente della Camera non ritenne di dover organizzare commemorazioni. Alla Camera, in compenso, quest'anno è stata invitata a parlare una negazionista che l'ha già detto: il centrodestra riparla delle foibe per ridimensionare le colpe del fascismo.
Ma certo. Sino al 1992 lo scrittore Carlo Sgorlon denunciava «più di mille foibe» (gli diedero del pazzo) e poi una mappatura ne evidenziò 1.730: ma il problema è il fascismo. Solo i presidenti Cossiga e Ciampi andarono a visitare quei luoghi: Mattarella è troppo impegnato. Così ancora pochi sanno che furono infoibati italiani in quanto italiani, e che i comunisti slavi e italiani trucidarono, mutilarono, violentarono intere famiglie, ragazzi, ragazze, negozianti, contadini, partigiani e soldati che tornavano dal fronte.
Da noi tutti conoscono città «fasciste» come Latina o Sabaudia, ma quasi nessuno conosce Fertilia, in Sardegna, una delle tante comunità in cui furono forzatamente esodate le popolazioni giuliano-dalmate che volevano scampare alla pulizia etnica dei partigiani comunisti: 300mila persone in tutto. Quasi nessuno conosce la tomba di Norma Cossetto, studentessa 23enne infoibata ancora viva dopo esser stata violentata per due giorni da una ventina di partigiani titini e italiani. Da noi, all'accorrenza, si ricorda ogni cosa, il genocidio dei serbi contro i bosniaci, quello del Ruanda, della Cambogia, degli ebrei, dei turchi contro gli armeni: qualsiasi cosa, pur di non ricordare - come fece Paolo Mieli, tra mille polemiche - che i partigiani comunisti, coi titini, uccisero molti partigiani cattolici ma che non accadde mai il contrario. E, in attesa di un'accresciuta consapevolezza, ti programmano il Giorno del Ricordo nella settimana di Sanremo.
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sportpeople · 6 years ago
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In questa estate a dir poco tribolata per il nostro calcio, non c’è pace neanche in campo europeo. Alzino infatti la mano quelli che, a dieci giorni dall’esordio delle italiane in Europa, avevano una minima idea su chi dovesse disputare i preliminari.
Il caso Milan ha tenuto sulle spine ben tre società, con la Fiorentina che fino all’ultimo ha sperato di prender parte all’Europa League, vedendo sfumare il sogno proprio al fotofinish, quando il TAS ha riammesso i meneghini alla seconda competizione continentale, annullando – di fatto – gli iniziali due anni di esclusione.
È stato a questo punto che l’Atalanta ha materializzato il proprio futuro prossimo. Un nome e un cognome da tener ben presenti: FK Sarajevo. Una città che in noi occidentali nati alla fine del ‘900 evoca – purtroppo – le prime scene di guerra viste alla tv, con annessa distruzione e povertà. Una città che, invece, ha saputo riprendersi alla grande, tornando ad essere quel grande centro culturale e multietnico che da sempre l’ha contraddistinta.
Per chi vive di pane, pallone e curva, inoltre, Sarajevo non può essere una trasferta come un’altra. C’è tutto il fascino dei Balcani, delle loro tifoserie e della sicura difficoltà che aspetta chiunque valicherà le Alpi per raggiungere la capitale bosniaca.
Per gli atalantini l’Europa League continua a voler dire doppia trasferta. Quella bellezza vetusta e aspra che il Comunale saprebbe offrire, anche quest’anno resterà infatti celata dalla burocrazia Made in Uefa. La Brumana non è a norma e i nerazzurri dovranno ancora usufruire dello stadio Città del Tricolore, in quel di Reggio Emilia. Circa 400km tra andata e ritorno. Tutt’altro che agevole insomma. E se da un punto di vista emotivo, la voglia d’Europa è tanta su fronte orobico, dall’altro non può essere mai e poi mai accettabile dover traslocare – seppur temporaneamente – da casa propria per quelle che sono le gare più attese della stagione.
Tuttavia i supporter lombardi, manco a dirlo, rispondono presenti. I tagliandi venduti superano la soglia dei 7.000, un ottimo numero se si considera la distanza, il periodo vacanziero e soprattutto la tardività con cui è arrivata la decisione del TAS sulla posizione del Milan. Volendo fare una battuta gratuita: ha fatto più spettatori l’Atalanta in cinque partite di Europa League che il Sassuolo in tutte le gare di Serie A disputate sinora.
È una battuta che di gratuito non ha poi molto, a voler essere sinceri. Entrando al baretto di fianco ai botteghino non posso far a meno di osservare tutti i vessilli della Reggiana esposti. Un alone granata che in questo momento storico trasmette tanta tristezza e riporta bruscamente alla realtà dei fatti. Ai fallimenti, alle rovinose cadute di marchi blasonati e alle lacrime amare di migliaia di tifosi. Si può tranquillamente dire che il Giglio, il Città del Tricolore o il Mapei (chiamatelo come meglio credete) è il perfetto proscenio del calcio dei nostri tempi.
Per tornare sui consoni binari della sfida odierna, è necessario spostare l’attenzione sulla tifoseria ospite. Ho già avuto modo – qualche anno fa – di trovarmi di fronte alla Horde Zla (letteralmente Orda del Male), il gruppo organizzato che segue le gare del Sarajevo. Una bella realtà, che nel finale della scorsa stagione aveva dato vita a un fermo boicottaggio delle gare dei Bordo-Bijeli (bordeaux-bianchi) per alcuni dissidi con la dirigenza, accusata di corruzione. Uno scenario non atipico per chi conosce un minimo l’universo balcanico.
Il Sarajevo è inoltre il club più importante di Bosnia e vanta, nel suo palmares, due titoli vinti nel vecchio campionato jugoslavo. Un fatto non da sottovalutare se si pensa che i sarajevesi dovevano fronteggiare compagini del calibro di Dinamo Zagabria, Hajduk Spalato, Stella Rossa e Partizan Belgrado.
I tagliandi staccati in Bosnia sono 305. Una cifra di tutto rispetto, che fotografa alla perfezione i numeri dell’Horde Zla. Che del resto non discostano molto da quelli di tutte le altre squadre balcaniche, fatta eccezione per i quattro grandi sodalizi sopracitati.
Si tratta chiaramente di una delle partite più importanti della loro storia. Poter seguire il Sarajevo in Italia, in quel Paese così vicino ma per anni così lontano, laddove gli ultras sono nati e il calcio rappresenta un mantra vitale, dev’essere un orgoglio e un’adrenalina impareggiabile.
Un’eccitazione che li mostra subito battaglieri. Uno dei primi cori effettuati dopo l’ingresso nella Tribuna Nord è infatti proprio contro i bergamaschi. Gli ospiti mostrano di conoscere bene l’italiano da stadio e ne fanno sfoggio ripetute volte. Non so se la presenza dei gemellati di Dresda e la conoscenza del gemellaggio tra Bergamo e Francoforte abbia influito in questa scelta, di certo quello che si evince è la sfrenata voglia di andare a “pizzicare” uno dei mostri sacri del movimento ultras europeo e confrontarsi finalmente anche al di fuori di un campionato che – diciamocela tutta – offre tanta monotonia: poche squadre vantano un seguito organizzato e cospicuo e le stesse vengono affrontate più volte durante lo stesso campionato.
E gli atalantini? Chiaramente non la prendono bene, finendo per rispondere con la stessa “musica” nella ripresa.
È vero che la stessa gara giocata a Bergamo avrebbe avuto un fascino maggiore, ma è altrettanto vero che la “battaglia” del tifo merita comunque di essere evidenziata. Il settore nerazzurro sfodera un’ottima performance, che cala soltanto nella seconda parte della ripresa, quando agli ospiti riesce l’incredibile impresa di rimontare i due gol di svantaggio. I lombardi mostrano subito di esserci e come sempre ho apprezzato il loro modo di organizzare il tifo, con due lanciacori disposti nei punti nevralgici del settore e diversi ragazzi in balaustra a spronare i presenti.
Buono anche l’apporto della pirotecnica, che in più di un’occasione sarà stigmatizzata dallo speaker, ricevendo fischia da ambo i lati.
Quello che la Uefa vorrebbe uccidere è invece presentissimo a Reggio Emilia. Sì, perché non ci sono le tifoserie imbrillantinate della Champions League e non c’è nessun Messi da fotografare con gli smartphone. Se la rudezza bergamasca è celebre in Italia, non si può certo ignorare quella degli ospiti, che manco a dirlo rispondono appieno a tutti i canoni delle tifoserie d’oltre Adriatico: compattezza, manate perfette, diverse sciarpate, voce alta e parecchie torce usate “selvaggiamente” per festeggiare i gol.
In campo, come detto, finisce 2-2. Ci sarà da sudare per gli orobici al ritorno, quando l’Asim Ferhatović Hase si farà trovare pronto e ribollente. Ora a Sarajevo credono nell’impresa e sanno che davvero possono fare la differenza. Gli ultras dell’Atalanta hanno acquistato circa 400 biglietti, e già questo è sufficiente per dar lustro alla propria fama.
Senza scomodare la famosa trasferta di Zagabria nel 1990, la sfida che andrà in scena domani può comunque entrare di diritto nell’albo d’oro delle trasferte nerazzurre. In ogni caso una certezza c’è già: le partite più belle delle competizioni europee sono quelle disputate in estate. Senza alcun dubbio.
Simone Meloni
Atalanta-FK Sarajevo, Europa League: e se la Dea si trova contro l’Orda del Male? In questa estate a dir poco tribolata per il nostro calcio, non c'è pace neanche in campo europeo.
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goodbearblind · 7 years ago
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SANTA CLAUS CON IL SACCO DEI REGALI IN UNA MANO E IL FUCILE NELL'ALTRA. UNA FOTO STORICA PER RICORDARCI CHE IL NATALE NON É LO STESSO PER TUTTI I BAMBINI Durante le guerre civili anche Babbo Natale va in giro con un fucile da tiratore scelto. Questo devono aver pensato i bambini che seguono questo Santa Claus tra i mezzi corazzati e le macerie. Questa foto simbolo della Guerra d'indipendenza croata fu scattata a Vukovar, nel 1992. Probabilmente l'uomo nei panni di Babbo Natale è un soldato dell'Esercito Popolare Jugoslavo, visto che la città, dopo un assedio di 88 giorni e asprissimi combattimenti, tra EPJ e Guardia Nazionale Croata, tornò sotto controllo di Belgrado nel mese di novembre. L'immagine è veramente forte e dovrebbe aiutare tutti, noi per primi, a tenere i piedi ben ancorati alla realtà, passata e presente. Una realtà che dietro al consumismo esasperato, i regali privi di significato, gli auguri di circostanza nasconde le vicende umane di tante persone in difficoltà. A chi ha perso il lavoro, a chi è vittima di ogni tipo di discriminazione e violenza, agli anziani, ai migranti, ai poveri, agli emarginati, alle persone sole, a chi lotta e a chi resiste, va il nostro affetto più caro. E ai bambini. A tutti i bambini, e specialmente a quelli che domani mattina non troveranno una pila di regali sotto l'albero. In questa giorno rivolgiamo a loro il nostro pensiero più profondo. Perché arrivi il tempo in cui nessun bambino debba più patire la fame, il freddo, la guerra. Perché arrivi il tempo in cui non ci siano più orfani di padri morti al fronte, figli di stupri di guerra, sfollati da una casa distrutta dai bombardamenti. Perché le generazioni future possano considerare col disprezzo che meritano tutti coloro che hanno trascinato e trascinano ancora oggi l'umanità in quello scempio senza fine, chiamato guerra. Speriamo diventate adulti migliori di noi, e di quelli che vi hanno preceduto. Cannibali e Re (presso Vukovar)
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decima-flottiglia-mas · 8 years ago
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. Xª FLOTTIGLIA MAS 29 settembre del 1943 il Battaglione, chiamato "Valanga", come la gloriosa 9° Compagnia del cap. Morelli, che già aveva indossato il cappello con la piuma essendo un reparto alpino a tutti gli effetti, era inquadrato su comando di battaglione e tre compagnie. Successivamente venne aggregata una 4° compagnia, chiamata "Sereneissima", proveniente dal Battaglione N.P. e quindi reparto di Marina. Nell'aprile del 1944 entrò a far parte della Decima MAS assumendo il nome di "Luca Tarigo", una unità della classe "esploratori" affondata nel Mediterraneo nel 1941, come tradizione per i reparti della X MAS e cambiando il copricapo dal cappello alpino al basco con il giro di bitta della Marina. Queste varianti durarono però pochissimo e, probabilmente, non furono mai adottate dalla maggioranza dei Guastatori. Un'episodio accelerò infatti l'abolizione di queste varianti: una compagnia al comando del Cap. Satta venne inviata ad espugnare il rifugio alpino "Gastaldi", situato a 3200 metri d'altezza sul ghiacciao della Ciamarella in Piemonte, nel quale erano asseragliati 200 partigiani. Sebbene questi fossero molti di più dei Guastatori, meglio armati ed in una posizione più favorevole, i Guastatori alpini ebbero velocemente la meglio. Borghese si volle complimentare con Morelli e, giunto al reparto, lo trovò schierato senza alcun copricapo. Meravigliato chiese conto a Morelli di questo fatto e, il Comandante del Valanga, falsamente sorpreso (aveva organizzato tutto), disse ai Guastatori di andarsi a mettere il cappello. Tutti tornarono con il cappello alpino! Borghese capì ed in perfetto dialetto romano disse: "Va bè, Morelli ho capito, fai come ti pare!" E così il Valanga rimase Valanga e portò il cappello alpino! Solo la compagnia "Serenissima" continuò ad indossare il basco che già portava. Durante il periodo della R.S.I. il reparto operò dal fronte occidentale a quello orientale, soprattutto contro le infiltrazioni degli slavi del IX e X Corpus titino. E' anche grazie al "Valanga" che a Selva di Tarnova vennero salvati i 150 Bersaglieri del "Fulmine" sopravvissuti a tre giorni di combattimenti. Questi accerchiati da oltre 2500 slavi, furono liberati dai Guastatori che riuscirono ad avere la meglio sebbene in netta inferiorità numerica. Verso la fine del 1944 il "Valanga" raggiunse Jesolo dove si acquartierò nella colonia estiva "Dux", in riva al mare. Venne subito iniziato l'addestramento nella vicina Asiago al termine del quale fu conseguito il brevetto di specialità da tutti gli effettivi. A Jesolo i guastatori provvidero al minamento della spiaggai ed ebbero la responsabilità della difesa costiera. Alla fine di luglio il comando della divisione "Decima" decise di scardinare lo schieramento partigiano nelle Alte Valli piemontesi e il battaglione fu trasferito ad Ivrea da dove iniziò la marcia di avvicinamento che portò, tra le altre azioni, alla presa del rifugio Gastaldi. Nella prima decade di ottobre il battaglione lasciò il Piemonte e si trasferì a Vittorio Veneto, accantonandosi nelle scuole "Francesco Crispi". Quando in dicembre la divisione iniziò le operazioni contro il IX Corpus jugoslavo, al battaglione "Valanga" venne assegnato il compito di fermare il nemico nel settore settentrionale dello schieramento. Dopo un violento scontro a fuoco il battaglione, guidato dal Cap. Morelli, occupò stabilmente Tramonti di Sotto dove vennero rinvenute ingenti quantità di materiali, importanti documenti e catturati numerosi prigionieri, tra cui un maggiore britannico in uniforme. Sulla base dei documenti rinvenuti si decise di annientare il comando partigiano situato in una baita di Palcoda e il compito venne affidato a un plotone mitraglieri della 3° compagnia e a venti uomini della 2° compagnia "Uragano", della quale facevano parte i sergenti Grillo e Janiello. L'attacco si concluse con la cattura di circa cinquanta partigiani che vennero interrogati singolarmente il giorno dopo per giungere alle precise responsabilità dei singoli sulle efferate uccisioni avvenute nella zona. I colpevoli, in numero di dieci, vennero fucilati sul posto mentre gli altri furono avviati al comando della "Decima". Debellato il comando del X Corpus e liberata la val Meduna il battaglione "Valanga" rientrò a Vittorio Veneto per celebrare il Natale del 1944 ma il 26 dicembre vennero uccisi due guastatori in un agguato teso in città da alcuni guerriglieri della banda "Castelli". Dopo l'assassinio dei due guastatori, il battaglione riprese le azioni contro la banda "Castelli" nell'intento di catturarne il capo. Durante una di queste azioni cadde eroicamente il Sergente Maggiore Renato Grillo, il proprietario del distintivo. Il sottufficiale, indossato sull'uniforme un impermeabile inglese di quelli in uso presso le bande, si era introdotto da solo in una casa dove aveva luogo una riunione di partigiani, intimando loro la resa. Ma una raffica, sparatagli alle spalle lo uccise prima che tutta la pattuglia potesse intervenire. In questa occasione il suo amico e commilitone Janiello deve aver recuperato il distintivo che poi ha donato a Paolo Caccia Dominioni dopo la fine della guerra. Dopo la battaglia della Selva di Tarnova, le due compagnie rimaste a vittorio Veneto riuscirono a debellare la banda "Castelli", catturandone il capo. Il Castelli, che risultò responsabile anche del tragico agguato del 26 dicembre, venne fucilato. Nella prima decade di marzo il "Valanga si trasferì a Bassano del Grappa; in aprile riprese l'addestramento sulle falde del Monte Grappa. Il giorno 26 aprile rientrò dal campo ed al suo passaggio per le vie di Bassano la popolazione si radunò applaudendo i guastatori. Il giorno dopo giunse al battaglione l'ordine di abbandonare Bassano e raggiungere Thiene. Alle 19 il "Valanga" si mosse verso Thiene ma rest�� bloccato a Marostica perchè le colonne germaniche in ripiegamento occupavano la strada. Il 28 aprile il CLN di Marostica iniziò le trattative con il Capiano Morelli e venne convenuto che il battaglione avrebbe raggiunto nuovamente Bassano per sciogliersi: gli uomini sarebbero stati muniti di un lasciapassare e messi in libertà. Il 30 aprile il battaglione "Valanga" venne dichiarato disciolto. Agli ufficiali vennero lasciate le armi e a tutti i guastatori venne distribuito il brevetto in bronzo della specialità. La 2° compagnia che non si era ancora arresa raggiunse Trento, con un convoglio di Brigate Nere e, dopo accordi presi con il Vescovado si presentò ai carabinieri che, ricevute le armi, lasciarono liberi gli uomini. Era il 2 maggio 1945. A Morelli, che era stato decorato con due argenti al V.M. uno preso nel giugno 1940, in Francia (fu una delle prime decorazioni conferite) ed uno il 17 gennaio 1943 a Rossosch, furono revocate entrambe le medaglie insieme al grado, perché condannato, grazie ad una falsa testimonianza, per il periodo quando aveva comandato il Valanga. Non potendolo giudicare per un fucilazione di partigiani, eseguita secondo le regole del Diritto Penale Militare, si inventarono che aveva fatto la borsa nera! Benché ci fosse statal'amnistia, si rifiutò, sempre, di richiederla. Ma ebbe la sua rivincita. Senza aiuti, dimenticato dall'Esercito, degradato a geniere (soldato semplice), divenne uno dei più famosi direttori di produzione del cinema. Tra l'altro fu il direttore di produzione del film "La dolce vita". ( Notizie storiche tratte dal volume "Gli Ultimi in Grigioverde" di Giorgio Pisanò, dall'articolo di Sergio Coccia pubblicato sul numero 22 della Rivista "Uniformi & Armi" del febbraio 1991, dagli articoli pubblicati sui numeri 85 e 106 della stessa rivista e sul numero 16 del mensile "Militaria" del dicembre 1994 )
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colospaola · 6 years ago
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L’Amministrazione Comunale di Arona anche quest’anno onorerà il Giorno del Ricordo del 10 febbraio, evento che ricorda l’esodo di migliaia d’italiani dall’Istria, dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia nel secondo dopoguerra e i massacri nei quali migliaia di persone furono uccise.
Tutto ebbe inizio il 9 giugno 1945, quando fu stipulato a Belgrado un accordo tra Tito e il generale Morgan per la definizione dei confini tra la Jugoslavia e l’Italia.
Trieste e la costa occidentale dell’Istria, con le vie di comunicazione con l’Austria, passarono sotto l’occupazione anglo-americana, gli altri territori rimasero alla Jugoslavia, senza pregiudicare le future decisioni della conferenza di pace.
Il 4 luglio 1946, nacque il Territorio Libero di Trieste, dove la città e la zona limitrofa furono internazionalizzate in una zona i cui confini andavano da Duino a Cittanova d’Istria.
L’integrità e l’indipendenza del Territorio vennero assicurati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, mentre le proposte per il Governo provvisorio e lo Statuto permanente furono avanzate dalla Conferenza della Pace.
Vennero rispettati i diritti dei cittadini per la religione, la lingua, la stampa, le scuole e l’accesso ai pubblici servizi, ma la maggior parte delle norme contenute nello Statuto non furono mai applicate.
Con il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 il Territorio Libero di Trieste fu diviso in due parti.
Il dramma più grande lo vissero gli abitanti della grande e italiana città di Pola, con piroscafi, autocarri, auto e vecchi carretti che trasportarono migliaia d’istriani con i loro oggetti di uso quotidiano.
Gran parte dei profughi trovò  rifugio nei campi allestiti a Trieste, mentre altri scelsero di emigrare in Australia o in Canada.
Fu molto più drammatico, invece, il destino degli italiani che decisero di rimanere in Istria, sentendosi legati a doppio filo a quella terra tormentata.
Già negli ultimi anni della seconda guerra mondiale erano iniziate le prime epurazioni, ma fu solo nel 1948 che la situazione esplose in tutta la sua violenza.
Intere famiglie venivano prelevate nel cuore della notte, per poi essere uccise e sepolte nei grandi pozzi carsici delle montagne dell’Istria, detti foibe.
Chi invece sopravviveva era condotto nell’Isola Calva, un vero e proprio gulag dove erano utilizzati mezzi disumani per convincere gli italiani a giurare fedeltà a Tito e al partito comunista jugoslavo.
Venerdì 8 febbraio,  alle 10,  presso l’Aula Magna del Comune, ci sarà la testimonianza di Claudio Strozzi, figlio di esuli istriani, con la proiezione del video documentario tratto dal Sacrario della Foiba di Basovizza.
Domenica 10 febbraio, a partire dalle 10.30, si terrà un momento di riflessione e l’intervento del Sindaco Alberto Gusmeroli alla presenza delle Autorità presso Largo Martiri della Foibe, di fronte al palazzo comunale.
Il Giorno del Ricordo 2019 ad Arona L’Amministrazione Comunale di Arona anche quest’anno onorerà il Giorno del Ricordo del 10 febbraio, evento che ricorda l’esodo di migliaia d’italiani dall…
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italianiinguerra · 1 year ago
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Medaglie d'Oro della 2ª Guerra Mondiale - Maggiore pilota GIUSEPPE CENNI - San Luca (Reggio Calabria), 4 settembre 1943
Nome e CognomeGiuseppe CenniLuogo e data di nascitaCasola Valsenio (Ravenna), 27 febbraio 1915Forza ArmataRegia AeronauticaSpecialitàBombardamento a tuffoSquadra o stormo5º Stormo tuffatoriRepartoUnitàGradoMaggiore pilota facente funzione di Tenente Colonnello comandante del 5º Stormo tuffatoriAnni di servizio1935 -1943Guerre e campagneGuerra di SpagnaSeconda Guerra Mondiale (fronte…
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paoloxl · 6 years ago
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Il 5 febbraio verrà proiettato al cinema Astra a Trento “Red Land”, un film revisionista applaudito da Casa Pound. La proiezione è organizzata da Anvdg con la partecipazione della Fondazione Museo storico e del sindaco di Trento.
Prima di entrare in argomento una doverosa premessa: ricordiamo che la storia del confine orientale è stata ricostruita nelle sue linee generali in un testo agile e funzionale al grande pubblico già nel 2000 dalla relazione frutto del lavoro della commissione storico-culturale italo-slovena intitolata «Relazioni italo slovene 1880-1956». In merito stime degli uccisi nelle foibe o in generale dai partigiani jugoslavi e italiani ormai vi è un ampio consenso di massima. Nel loro libro «Foibe» Raoul Pupo e Roberto Spazzali stimavano a circa 5.000 il numero degli uccisi. Nella raccolta di interviste curata da Nicoletta Bourbaki «La storia intorno alle foibe» Jože Pirjevec parlava di 400-500 vittime in Istria subito dopo l'8 settembre e di poco più di 2.600 nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra. Pochi giorni fa il professor Pupo in un'intervista rilasciata al Gazzettino Veneto del 30 gennaio 2019 parla di 5-600 uccisi in Istria nel periodo successivo all'8 settembre e di 3-4.000 (con «forse qualcosa di più») vittime dopo la cacciata dei nazifascisti, affermando che a suo parere stime esatte sono molto difficili.
Insomma i fatti e la loro dimensione in linea di massima sono appurati, permane, come è ovvio e giusto che sia, il dibattito interpretativo, che lasciamo ad altri contesti perché ciò di cui ci preme parlare qui è l'uso politico di quella storia che quest'anno si arricchisce di un nuovo capitolo grazie al film «Red Land – Rosso Istria», che sarà proiettato a Trento al cinema Astra la sera del 5 febbraio in un evento che sarà introdotto da ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia), Fondazione Museo storico e sindaco di Trento.
Il film è liberamente ispirato ad un fatto reale: l'uccisione della studentessa Norma Cossetto ad opera di insorti nel settembre-ottobre 1943, il suo corpo fu rinvenuto nella foiba di Surani, vicino ad Antignana/Tinjan nell’Istria centrale, assieme ad altri 25 cadaveri. Era figlia del Podestà di Visinada Giuseppe Cossetto, che morì in combattimento in quei giorni dopo essersi aggregato al 134° battaglione camice nere, impegnato al fianco dei tedeschi nella riconquista dell'Istria.
Il problema è che il contesto mostrato dal film, ovvero l'Istria del 1943, è completamente falsato. Appena accennate (ed edulcorate) le politiche di snazionalizzazione della popolazione slovena e croata messe in atto dal fascismo, mai mostrati i crimini di guerra commessi dal Regio Esercito Italiano nei vicini territori Jugoslavi.
In «Red Land» la placida quiete dell'Istria viene d'improvviso prima interrotta dalla notizia dell'armistizio l'8 settembre e poi dall'arrivo di un manipolo di sadici «titini», che grazie alla complicità degli antifascisti italiani impongono il proprio regno del terrore.
Peccato che un rapporto di fine ottobre 1943 della stessa resistenza Jugoslava pubblicato in «Foibe» da Raoul Pupo e Roberto Spazzali affermi che l'8 settembre 1943 non vi erano in Istria reparti partigiani organizzati. Si era trattato di un'insurrezione di elementi locali ed i vertici Jugoslavi lamentavano proprio lo spontaneismo della cosa, con la sua disorganizzazione e le sue uccisioni a casaccio.
Infatti nel giro di un mese l'Istria venne riconquistata dai nazifascisti che ammazzarono qualcosa come 2.800 persone nel corso della repressione e ne deportarono altre 2.500. Le uccisioni e gli infoibamenti da parte degli insorti in molti casi avvennero proprio nel corso della riconquista tedesca, come risposta al fatto che erano spesso i fascisti locali ad indicare ai tedeschi chi fucilare, come accadde a Kanfanar/Canfanaro (dove vennero fucilate 26 persone dopo che gli insorti avevano liberato i soldati italiani che stavano venendo deportati dai nazisti) e a Nova Nas/Villanova del Quieto. Ovviamente stiamo parlando della violenza in Istria nel settembre-ottobre 1943, altre sono le dinamiche di ciò che accadde nel maggio 1945 nel quadro di costruzione del regime Jugoslavo.
Nel film per di più i «titini» se la filano senza neanche provare ad affrontare i tedeschi, dopo aver ucciso o abbandonato i propri complici italiani. In realtà la riconquista dell'Istria durò quasi un mese e ci furono duri scontri come a Tican/Tizzano, dove caddero in 84 tra partigiani e civili.
Ma non troverete nulla di tutto questo nel film «Red Land». I partigiani Jugoslavi uccidono, torturano e stuprano senza altra motivazione che puro sadismo, non esiste il contesto, non esiste un pregresso. Gli slavi ammazzano e stuprano perché son slavi, punto. Ancora più inspiegabile è l'atteggiamento degli antifascisti italiani che benché apertamente disprezzati e minacciati dagli Jugoslavi si fanno loro complici fino ad essere ammazzati tutti da loro o dai tedeschi che arrivano a salvare la situazione.
Come ha scritto il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki nella sua recensione del film «Rosso Istria è il primo film del dopoguerra in cui i nazisti fanno un ingresso alla “arrivano i nostri”» . Del resto non vi si accenna neppure di sfuggita al fatto che i «salvatori» nazisti di lì a poco nella risiera di Trieste avrebbero aperto un campo di concentramento in cui morirono 5.000 persone, vi transitarono 20.000 deportati (di cui solo 1.500 sopravvissero).
Normale che un film del genere piaccia a Casa Pound (che scommettiamo sarà presente con tutti i suoi iscritti) e che il loro gerarchetto accoltellatore millanti il merito di aver resa possibile la proiezione del film anche Trento. Una volta tanto ha ragione, quella mostrata nel film è la lettura fascista dei fatti, una lettura secondo cui solo il dolore e le sofferenze degli «italiani» contano.
Del resto «Red Land» è un film fortemente condizionato dal contesto politico in cui è stato prodotto e da chi lo ha voluto e finanziato (si vedano in proposito i i due articolo dedicati al film dal gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki). Non a caso lo stesso Salvini ha “sponsorizzato” a spada tratta il film: non è difficile vedere nella rappresentazione simil-zingaresca che viene fatta degli “slavi” l’immagine dell’altro da sé, dell’immigrato criminale “per natura” e negli antifascisti italiani “i buonisti” complici della “sostituzione etnica” del proprio popolo. Di fatto siamo di fronte al primo film di propaganda del nazionalismo salviniano e solo degli ingenui (o degli ipocriti) possono pensare che si possa stemperare la palese carica ideologica del film con qualche discorsetto di contestualizzazione storica o di generica condanna della violenza.
Anvgd, Fondazione Museo storico e sindaco di Trento avrebbero potuto presentare un'opera storiografica o un documentario, hanno preferito invece un film del genere (del resto ricco di scene parecchio splatter), e di fatto hanno scelto di avallare la narrazione fascista dei fatti. Qualunque cosa possano dire introducendo la visione la ascolteranno solo loro e sarà solo un modo per provare a pulirsi la coscienza. Di fatto hanno scelto di legittimare l'uso politico del passato a vantaggio di uno spirito nazionalista solo utile al razzismo e al neofascismo odierni.
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italianiinguerra · 4 years ago
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Medaglie d'Oro della 2ª Guerra Mondiale - Sottotenente SABATINO MINUCCI - Vuk Palay (fronte jugoslavo), 10 aprile 1941
Medaglie d’Oro della 2ª Guerra Mondiale – Sottotenente SABATINO MINUCCI – Vuk Palay (fronte jugoslavo), 10 aprile 1941
Nome e CognomeSabatino MinucciLuogo e data di nascitaNapoli, 1915Forza ArmataRegio EsercitoArmaFanteriaCorpo o specialitàBersaglieriReparto1° reggimento Bersaglieri UnitàGradoSottotenente di complementoAnni di servizio1940 -1941Guerre e campagneSeconda Guerra Mondiale (Campagna di Jugoslavia)Luogo e data del conferimentoVuk Palay (fronte jugoslavo), 10 aprile 1941Luogo e data della morteVuk Palay…
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paoloxl · 7 years ago
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Con la vittoria dei partigiani, l'Albania diventa una repubblica socialista. Il processo di liberazione e resistenziale albanese vede fin dal principio, oltre alla contrapposizione a fascisti italiani e tedeschi, anche uno scontro fra partigiani comunisti e nazionalisti fedeli al deposto re albanese. Sin dall'occupazione italiana del '39 la resistenza del popolo albanese si fa sentire. Anche se l'occupazione avviene con successo, principalmente a causa della superiorità militare dell'esercito italiano, numerosi sono gli scioperi operai e le manifestazioni contro gli occupanti. Dal '41 sotto la direzione del partito comunista albanese, in stretti rapporti con quello jugoslavo e dell'URSS, vengono create le prime divisioni partigiane che per un periodo iniziale fecero un'alleanza strategica con le brigate partigiane nazionaliste. Le azioni militari dei due anni di resistenza armata, portano alla liberazione di alcune città, nell'ottobre del '44 di Valona, e alla liberazione definitiva in novembre. In questo contesto si inserisce il ruolo dei soldati italiani di stanza in Albania, che dopo l'8 settembre, ricevono l'ordine di arrendersi alla resistenza Albanese ormai riconosciuta anche dagli Alleati. Il comandante in capo, Renzo Dalmazo, residente a Tirana, non accetta e ordina alle sue truppe di arrendersi soltanto alle truppe tedesche. Quindici mila soldati, in maggioranza della divisione “Firenze”, non accettano di arrendersi ai nazisti,  1500 di questi si aggregano all’esercito per la liberazione nazionale albanese formando il battaglione “Antonio Gramsci”. Un'altra parte molto consistente, quasi 20 000, si nascosero protetti dalla popolazione albanese nelle campagne. Il popolo albanese seppe fare la distinzione tra fascisti e soldati inviati li dal regime. Il contributo dei soldati che divennero partigiani in albania fu importante e riconosciuto dalla Resistenza albanese. In seguito alla liberazione, nel fronte  partigiano prevalgono i comunisti guidati da Enver Hoxha, e l'11 gennaio 1946 nasce la Repubblica Popolare Albanese.
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decima-flottiglia-mas · 8 years ago
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. Xª FLOTTIGLIA MAS . LA BATTAGLIA DELLA SELVA DI TARNOVA . L'ULTIMA DIFESA DI GORIZIA . Seconda parte Alla fine del 1944 il comando tedesco delle SS e della Polizia dell'OZAK (Operationszone Adriatisches Küstenland – Zona d'operazioni del Litorale adriatico) agli ordini di Odilo Globocnik - di fronte al rafforzarsi del IX Korpus partigiano iugoslavo a est e a nord di Gorizia - intraprese un'operazione offensiva, nome in codice Adler Aktion (operazione Aquila), con lo scopo di annientarlo. L'operazione venne condotta da truppe tedesche e reparti jugoslavi collaborazionisti, principalmente Cetnici e Domobranci, ma un ruolo di primo piano fu assegnato alla Divisione "Decima" (Xª MAS), appena spostata sul fronte orientale italiano, i cui battaglioni erano stati da poco impiegati nelle operazioni contro la Repubblica libera della Carnia (8-15 dicembre 1944). I reparti, tuttavia, furono impiegati singolarmente e non nell'ambito della Grande Unità, come erano soliti fare i tedeschi con le truppe dei loro alleati. All'operazione parteciparono i battaglioni Decima "Sagittario", "Barbarigo", "Lupo", aliquote dei battaglioni "Nuotatori Paracadutisti", guastatori "Valanga", genio "Freccia", ed i gruppi d'artiglieria "San Giorgio" ed "Alberico da Giussano". L'operazione Adler si concluse il 21 dicembre 1944 con scarsi risultat e comunque effimeri, poiché le truppe partigiane riuscirono a sganciarsi in massima parte, subendo perdite non gravi. La costituzione dei presidi nel Carso Modifica Il comando SS e Polizia dell'OZAK - responsabile dell'operazione - decise di disporre le forze italiane in una serie di presidi sul Carso e l'Altopiano della Bainsizza, per controllare le vie d'accesso a Gorizia, una strategia che tuttavia esponeva i reparti all'accerchiamento da parte di forze preponderanti, come accadde al battaglione "Sagittario" a Chiapovano, salvato dall'intervento del battaglione "NP" . I battaglioni della "Decima" si vedevano quindi coinvolti in una strategia suicida, per la quale non erano addestrati né equipaggiati in maniera adeguata. L'abitato di Tarnova - pressoché spopolato - si trovava in posizione strategica nella Selva, poiché dominava la strada statale 307 Gorizia-Aidussina, che era una delle dirette arterie di traffico verso il capoluogo carsico. Dopo pochi giorni, il battaglione "Sagittario" della Xª Flottiglia MAS - che si era installato a Tarnova - fu rilevato da aliquote del "Valanga" e una batteria del "San Giorgio", alle quali s'aggiunse per breve periodo il "Barbarigo": durante i cicli operativi di questi reparti furono colti i primi indizi di una possibile controffensiva partigiana[3]. Il 9 gennaio successivo anche queste guarnigioni furono rilevate dal battaglione "Fulmine", che prese posizione a presidio dell'abitato di Tarnova, con una forza di 214 uomini, articolato su tre compagnie, delle quali la 3ª "Volontari di Francia", distaccata dal battaglione "Primo Longobardo" e formata da figli di italiani residenti appunto in Francia e reclutati presso la base di Bordeaux, Betasom. Tarnova era l'unica località della zona investita da Adler a essere ancora presidiata da truppe italo-tedesche. L'abitato di Tarnova della Selva fu fortificato dai fanti di marina con la realizzazione di alcuni fortini con muretti a secco, tetti di lamiera, buche e filo spinato. Una cerchia più interna di difesa prevedeva alcune abitazioni civili riadattate alla bisogna in maniera non dissimile. Alcune mine antiuomo furono utilizzate per realizzare radi campi minati. L'equipaggiamento del "Fulmine" comprendeva diciassette fucili mitragliatori Breda 30, quattro mitragliatrici Breda 37, una mitragliera da 20 mm Oerlikon, nonché due lanciabombe Brixia da 45 e quattro mortai Breda da 81 mm. Il "Fulmine" aveva così disposto le sue compagnie: la 1ª compagnia difendeva il settore nord dell'abitato, la 2ª quello sud, e la 3ª "Volontari di Francia" quello occidentali. Il comando della guarnigione era affidato al tenente di vascello Elio Bini, in assenza del comandante Orru, feriti. La difesa di Tarnova è stata definita dal generale Farotti«una vera trappola per coloro che avrebbero dovuto presidiarle, anziché un'efficiente posizione di resistenza. « A presidiare Tarnova restò il più debole dei nostri reparti, il battaglione "Fulmine", con gli organici ridotti ad un paio di striminzite compagnie fucilieri, con pochissime armi automatiche di reparto e senza mortai da 81. Non so da chi sia stato commesso questo grave errore di valutazione, certo è che fu pagato poi duramente, proprio dall'incolpevole "Fulmine". Se il dispositivo iniziale fosse rimasto in posto ancora qualche giorno (due battaglioni ed una batteria da 75/13) l'attacco slavo avrebbe trovato ad accoglierlo forze adeguate e con un armamento tale da stroncarlo in sul nascere e soprattutto, mantenendo il possesso della rotabile, si sarebbe potuto far affluire rinforzi ed impedito l'accerchiamento e l'annientamento della guarnigione. » (G. Farotti, Sotto tre bandiere, Effepi, 2007) Il dispiegamento iugoslavo Modifica Il IX Korpus jugoslavo decise di eliminare il presidio[32], posto in posizione strategica a dominare la piana goriziana e la Valle del Vipacco[33], e pertanto pose due unità a chiudere gli accessi all'altopiano, con sbarramenti, dispiegamento di truppe e campi minati[22]; l'unità incaricata dell'attacco era la 19ª brigata slovena di liberazione nazionale "Srečko Kosovel", supportata da[3][32]: 30ª divisione jugoslava, basata sulla 17ª SNOB (brigata slovena di liberazione nazionale) "Simon Gregorčič" e sulla 18ª SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "Bazoviška" Divisione Garibaldi "Natisone", composta dalla 156ª brigata partigiana "Bruno Buozzi" e dalla 157ª brigata "Guido Picelli", formate con personale italiano 20ª brigata "Garibaldi Triestina", formata con personale italiano 31ª divisione jugoslava, composta dalla 3ª SNOUB "Ivan Gradnik", dal 20º battaglione e dalla 7ª SNOUB "France Prešeren". La 31ª divisione aveva il compito di sbarrare la strada fra Gorizia e Tarnova attestandosi sui monti San Gabriele, San Daniele, Gargaro[Gargaro è un villaggio, non un monte] e Monte Santo, già teatro di aspre battaglie durante la Grande Guerra e ricchi di trincee e ricoveri abbandonati. La 30ª divisione avrebbe chiuso la Valle del Vipacco con la brigata "Gregorčič" e occupato l'Altopiano della Bainsizza con la brigata "Bazoviška"[25][32]. La 19ª brigata ebbe in rinforzo una compagnia d'assalto e un'ulteriore dotazione d'armi d'accompagnamento, che portarono al parco armi altri quattro cannoni, due fucili anticarro, due mortai pesanti e tre lanciamine Partop (rectius partizanski top, cioè "cannone (top) partigiano", arma autoprodotta delle formazioni partigiane iugoslave)[3][34]. La brigata "Kosovel" iniziò la manovra d'approccio a Tarnova nel tardo pomeriggio del 18 gennaio, con una temperatura di dieci gradi sotto lo zero. Dalla sua base di Ottelza (oggi Otlica, frazione di Aidussina) ed attraverso Mala Strana[Mala Lazna?], a notte fonda essa giunse attorno a Tarnova. Alla mezzanotte le operazioni di posizionamento del dispositivo erano completate.[35] Secondo il piano del comandante Tone Bavec-Cene, il I battaglione avrebbe attaccato in due colonne, da nord-est dell'abitato, approfittando della miglior copertura offerta dai boschi che si spingevano fino a ridosso delle prime costruzioni di Tarnova. La prima colonna avrebbe attaccato seguendo la strada proveniente da Casali Nenzi (Nemci), una frazione dell'attuale Nova Gorica, la seconda quella che scendeva da Rialzo (Rijavci), altra frazione di Tarnova. Il battaglione avrebbe dovuto conquistare i bunker 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8: per questo scopo sarebbe stato appoggiato da due cannoni da 47/32 e due da 20 mm, mortai da 81, due "Partop" ed un PIAT, che poterono essere spinte fino a circa 300 metri dalla linea difensiva italiana, grazie alla copertura data dalla vegetazione[3]. Le armi d'accompagnamento e il posto d'osservazione avanzato della brigata - assieme al comandante di Divisione - si posizionarono nella frazione di Volčič, a est del centro abitato di Tarnova. Le postazioni per i mortai da 81 mm furono approntate duecento metri a sudest di Volčič[36]. Il II battaglione avrebbe attaccato da sud, per conquistare i bunker 9, 10 ed 11. Avrebbe così anche dovuto impedire eventuali tentativi di sganciamento italiani verso Gorizia. Il III battaglione sarebbe rimasto di riserva nei boschi a nord ovest del paese; solo un suo plotone sarebbe entrato subito in azione eliminando il bunker n. 1, costruito in posizione isolata[3]. Compito del III battaglione sarebbe stato impedire la ritirata della guarnigione italiana lungo la strada Tarnova-Raunizza. Il IX Korpus era stato rinforzato grazie ad armi, munizioni, coperte, carburante, viveri, esplosivo, divise, medicinali, stazioni R.T paracadutati dagli Alleati nel corso dei giorni precedenti. Gli attaccanti potevano anche contare sulle informazioni passate occultamente da almeno un abitante di Tarnova. Secondo G. Farotti, l'operazione di dispiegamento delle forze jugoslave venne condotta con grande abilità: « Brillante invece l'operazione condotta dal Comando partigiano che in brevissimo tempo riuscì a concentrare su Tarnova più di 2.000 uomini, con armi pesanti, senza far nulla trapelare e a minare la rotabile di accesso, dominandola con centri di fuoco disposti perfino sul San Gabriele, pilastro incombente su Gorizia e chiave di volta della sua difesa. » (G. Farotti, Sotto tre bandiere, Effepi, 2007)
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