#si può morire di ciliegie
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con-la-e-finale · 9 days ago
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Si può morire di ciliegie?
Quante ne devo mangiare di ciliegie per morire di ciliegie?
Se mai dovessi suicidarmi m'ammazzerei di ciliegie.
E si può morire di mancanza di gatti?
Per quanto tempo ancora potrò vivere in assenza di un gatto nella mia vita?
Un giorno o l'altro mi troveranno stramazzato al suolo e il coroner dirà:
«Minchia, una crisi d'astinenza da gatti di questo livello non l'avevo mai vista».
E si può morire di mancanza di tuoi baci?
Per quanto ancora potrò sopravvivere senza?
Un giorno andrò in coma da mancanza di tuoi baci e il medico dirà:
«Minchia, trovatela subito!».
«Chi?» chiederà la capo infermiera.
«Ma come chi? La baciante!»
E si può morire di solitudine?
Quante gocce di solitudine ancora
potranno assorbire i miei occhi?
Oggi ho comprato un chilo ciliegie le mangerò stanotte
ne mangerò poche
lentamente
e bene.
Tranquilla, bambina
nessuna voglia di crepare.
Per essere un poeta sono troppo di buon umore.
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raccontidialiantis · 2 days ago
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Che tu sia maledetto!
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Ma come è stato possibile… mi stavi sulle palle da quando sei arrivato, nel condominio. E cercavo in tutti i modi di evitare qualsiasi contatto, con te. Cafone presupponente. Poi a un certo punto ho iniziato a sviluppare il gusto acquisito del tuo profumo, della tua sfacciata e prorompente fisicità. Della tua persona. Sarà stato per il fatto di vedere ogni giorno la tua sagoma, il tuo profilo. Sarà che ero vedova ormai da un anno e che sono comunque una donna di sani appetiti! Non eri male, oggettivamente.
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Anzi. E il tuo profumo mi piaceva ogni giorno di più: infine ne ho comperato un flacone per tenermelo nel cassetto e tutt'ora ogni tanto ne lascio un po’ in giro: che scema! Pian piano ho iniziato, da vera civetta curiosa quale sono, a cercare di scoprire il più possibile su di te. Ho messo in moto le mie due amiche fidatissime nel palazzo e la portinaia che per me stravede: il Kgb, il Mossad, la Cia e l'MI-6 insieme non hanno i loro mezzi. Né la loro totale mancanza di scrupoli, nell'aprire e richiudere la tua corrispondenza col vapore e scavare nel tuo passato.
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Ho saputo quindi che in modo molto riservato, senza farne mai parola con nessuno, fai spesso volontariato, che aiuti i bisognosi in mille maniere. A quasi cinquant'anni sei ancora scapolo - mai stato sposato - e un motociclista all'osso. Poi ti sei rivelato molto colto, un piacevolissimo conversatore e infine ho anche scoperto che suoni la batteria in un gruppo jazz. E che sei stato lasciato dalla tua ultima donna circa tre anni fa.
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Inevitabilmente, da buon informatico, capendo di essere oggetto di una segreta campagna investigativa, dopo pochi giorni hai mangiato la foglia. Hai capito che interessavi a me e una sera… t'ho trovato sotto casa ai bidoni della differenziata, in attesa. Ad aspettare che uscissi in ciabatte e maglionaccio a buttare l'immondizia! Devo dire che questo contropiede t'è riuscito benissimo: ero rossa, balbettavo, mi sentivo orribile. E per la prima volta mi sono accorta che ti volevo proprio.
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Da impazzire! M'hai abbracciata e io t'ho chiesto se per caso fossi pazzo: se solo uno dei miei figli fosse uscito a cercarmi o si fosse affacciato qualcuno che conosco alla finestra, sarebbe potuto succedere un bel casino! --- “Condominio breaking news: vedova piacente, evidentemente arrapata e immorale, circuisce il bellissimo pezzo di manzo scapolo della mansarda al sesto piano!” --- Hai riso, da bastardo quale sei, con quelle fossette adorabili sulle guance: ti sarei saltata addosso lì e t'avrei preso in bocca l'uccello seduta stante. Davanti a chiunque fosse passato. In ginocchio e adorandoti.
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Sono potuta scappare e molto malvolentieri, confesso, solo dopo averti promesso che ci saremmo rivisti da soli e come prima volta soltanto in un luogo ben lontano e appartato. Quando tre giorni dopo di tardo pomeriggio è successo, ero proprio cotta a puntino. Devo dire che ero irresistibile: bona da morire, direbbero quelle troie delle mie amiche. Una divorziata bella e gustosa: una torta preparata solo per la tua bocca. I miei capezzoli, irrigiditi e preventivamente cosparsi di olio alle mandorle, erano le ciliegie per il tuo esclusivo piacere.
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Mi sono subito resa conto che non avevo più alcuna difesa non appena salita sulla tua macchina: ero diventata una bambola di pezza nelle tue mani. M'hai presa in tutti i modi in cui si può prendere una donna matura. M'hai fatto fare tutto. Una femmina che sia stata sposata non ha più inibizioni: capisce già dal ritorno a casa dopo il viaggio di nozze che è meglio avere più rimorsi che rimpianti e non esita a fare qualsiasi cosa, con l'uomo che le piace al momento. Soprattutto con l'amante, se c'è passione corrisposta e crescente.
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Ora dipendo totalmente da te, tremo se solo mi guardi. Ti voglio di continuo. Cerco di fingere la solita sicurezza e una rassegnata serenità. Ma se sei attorno a me, se t'incontro in ascensore o per le scale, dentro ho un vero tumulto. Amami, prendimi, riempimi, farciscimi come un bignè. Fammi tua quando e come più ti piace. Mandami mille messaggi osceni: è la cosa che più gradisco.
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Trattami come la segreta puttana che sono diventata, per te. Arrivo nel tuo appartamento di nascosto e nelle ore più tranquille. Di primo pomeriggio o la notte all'una. Perdo sonno ma acquisto godimento, con te in bocca o conficcato nel culo. E mi piace da morire, questa sensazione di peccato. Mi sento in colpa, anche se non capisco bene perché. Ho rimorso sincero per tutte le volte in cui mi sono permessa di giudicare, di sparlare a proposito di amiche e colleghe che tradivano il marito. Perché non avevo mai veramente perso la testa, prima di te.
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Prima di capire che non ci puoi fare proprio niente. Però tu non far caso ai miei momenti di mortificazione. Inculami con forza. Perché - dicono - i culi vanno rotti, sennò non c'è gusto. Per entrambi. Fatti succhiare, ingoiare e scopami senza pietà. Eccomi, adesso: distesa ormai senza più pudore sul divano di casa tua. Aperta come cercassi clienti in un bordello ma bella e pronta solo per te. Leccami il culo e la passera. A lungo. Fammi godere come una scrofa in calore e poi possiedimi. Sborrami dentro, da vero maschio padrone. Godi. Muoviti, che poi devo prendertelo in bocca. Fino a che dovrai staccare la mia testa dal tuo inguine a forza. Ti devo far morire di sesso. Maledetto!
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RDA
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givemeanorigami · 6 years ago
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Si può morire di ciliegie? quante ne devo mangiare di ciliegie per morire di ciliegie? Se mai dovessi suicidarmi m’ammazzerei di ciliegie.        E si può morire di mancanza di gatti? Per quanto tempo ancora potrò vivere in assenza di un gatto nella mia vita? Un giorno o l’altro mi troveranno stramazzato al suolo e il Coroner dirà: “Minchia una crisi d’astinenza da gatti di questo livello non l’avevo mai vista”.                    E si può morire di mancanza di tuoi baci? Per quanto ancora potrò sopravvivere senza? Un giorno andrò in coma da mancanza di tuoi baci e il medico dirà: “Minchia trovatela subito!” “Chi?” chiederà la capo infermiera. “Ma come chi? La baciante!”.      E si può morire di solitudine? Quante gocce di solitudine ancora potranno assorbire i miei occhi?      Oggi ho comprato un chilo ciliegie le mangerò stanotte ne mangerò poche lentamente e bene. Tranquilla, bambina nessuna voglia di crepare. Per essere un poeta sono troppo di buon umore.
Si può morire di ciliegie? , Guido Catalano.
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ilmattinohaloroinbocca · 4 years ago
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Si può morire di ciliegie?
quante ne devo mangiare di ciliegie
per morire di ciliegie?
Se mai dovessi suicidarmi
m’ammazzerei di ciliegie.
Oggi ho comprato un chilo ciliegie
le mangerò stanotte ne mangerò poche
lentamente e bene.
Tranquilla, bambina
nessuna voglia di crepare.
Per essere un poeta
sono troppo di buon umore.
Guido Catalano
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magicnightfall · 4 years ago
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QUOTH THE RAVEN, “EVERMORE”
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Il titolo di questo post è un richiamo alla poesia Il corvo di Edgar Allan Poe. I più acculturati di voi potrebbero pensare che una simile scelta stia a sottolineare un qualche parallelismo tra il poema stesso, che parla di un amore ormai perduto, e l’ultimo disco a sorpresa di Taylor Swift, evermore.
I più acculturati di voi sbaglierebbero.
Perché come lo scrittore di Boston se ne stava svaccato in poltrona a meditare su un qualche tomo, quando la sua tranquillità fu turbata all’improvviso dalla visita di un corvo che ripete all’infinito la parola “Nevermore”, così io me ne stavo svaccata sul divano a meditare sugli episodi natalizi dei Simpson, quando la mia tranquillità fu turbata dalla notifica di un tweet di Taylor che annunciava “evermore”.
Avete presente casa Banks, in viale dei ciliegi 17, prima che l’ammiraglio Boom cannoneggi l’ora esatta, in cui tutti si mettono ai posti di manovra? Ecco, in quel momento l’internet era uguale: tutti che correvano ai posti di manovra cercando di parare il colpo che un nuovo disco a sorpresa avrebbe inflitto sulle nostre menti imbelli, che ancora stavano tentando di metabolizzare la maestosità di folklore.
Io quasi me l’immagino, Taylor, seduta su una sedia girevole con un gatto sulle gambe, mentre osserva il dipanarsi del caos che ha appena creato, come una Bond villain qualsiasi. Perché secondo me c’è malizia. C’è premeditazione. Non è tanto il voler donare arte al mondo, quella è solo la scusa con cui impacchettare le sue malefatte, per dar loro una parvenza di rispettabilità: lei, il mondo, vuole solo vederlo comburere.
(beccate questa, Taylor, non sei l’unica gattara a saper usare i paroloni)
D'altronde, è anche vero che ci sono modi peggiori di terminare un anno (specie uno catastrofico come il 2020) e quindi, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, vi presento
il Tomone 6.0.™.
RIGHT DOWN THE RABBIT HOLE
willow
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
La canzone che apre l’album è caratterizzata da una particolare levità, con una melodia che è subito orecchiabile e molto difficile scrollarsi di dosso.
Tematicamente, questa canzone potrebbe essere un ulteriore tassello nella dinamica tra Betty, James, e il flirt estivo di quest’ultimo, la misteriosa “august girl”. In particolare, willow sembrerebbe narrare proprio l’inizio della tresca, perché vi sono riferimenti espliciti alla clandestinità (“Head on the pillow, I could feel you sneaking in”;“Wait for the signal and I'll meet you after dark”). Anche quel “wreck my plans” mi fa propendere per questa interpretazione, perché dubito che nei piani di vita della “august girl” vi fosse quello di diventare l’amante di qualcuno, con tutte le conseguenze — negative — del caso.
Nel descrivere la canzone, Taylor ha detto che le dà l’idea di un incantesimo lanciato per far innamorare qualcuno, e in effetti in tutto il testo si respira quest’atmosfera di incantamento, quasi di perdita del libero arbitrio (“The more that you say, the less I know / wherever you stray, I follow”, “Life was a willow and it bent right to your wind”), un po’ come nella fiaba del pifferaio magico.
Il video, invece, è la diretta prosecuzione di quello di cardigan, e riprende il concetto del filo invisibile che lega tra loro due persone.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Show me the places where the others gave you scars”
champagne problems
[Taylor Swift, William Bowery - aka Joe Alwyn]
“Champagne problems” è un modo di dire per indicare un problema che, se paragonato a situazioni ben più gravi (la povertà, Matteo Salvini, la malattia, Matteo Salvini, la guerra, Matteo Salvini, la pandemia, Matteo Salvini), appare in fin dei conti risibile. Insomma, di che ti lamenti, che c’è chi sta peggio. Ciò non toglie che sia comunque un problema che ci fa star male (non sarebbe tale, altrimenti) e, pur riconoscendo una certa posizione di privilegio di chi si duole di un problema meno grave rispetto a un altro, non è nemmeno corretto minimizzarlo (se non altro per l’effetto valanga).
Così, qualcuno potrebbe considerare uno “champagne problem” il rifiuto di una proposta di matrimonio; si può prenderla con filosofia e decidere che non era altro che il modo che aveva l’universo per dirci che la vera felicità era già prevista allo svincolo successivo, siamo noi che abbiamo girato troppo presto (“But you'll find the real thing instead / She'll patch up your tapestry that I shred”). Nondimeno, è del tutto lecito soffrirne.
Taylor trasla la metafora del problema-non-problema-un-po’-problema al caso concreto attraverso lo champagne che, dall’espressione idiomatica, giunge a essere proprio quel Dom Perignon acquistato per celebrare — perlomeno quella era l’idea — una lieta occasione.
In questa canzone si respira tutta l’incredulità della persona rifiutata: i versi “Because I dropped your hand while dancing / left you out there standing” e “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason” creano l’immagine definita di qualcuno che all’improvviso viene mollato lì, così, senza una spiegazione, incapace di rendersi conto di cosa sia appena successo. E nel momento in cui lo si realizza, be’, si va in pezzi (“Your heart was glass, I dropped it”). Chissà se, tra gli invitati alla festa, ci fosse anche un Bart Simpson che poi, pronto col telecomando, facendo avanzare i fotogrammi, possa “persino individuare il secondo preciso in cui il suo cuore si spezza a metà”.
#AlcoholicCount: 9 (champagne, bottle, Dom Perignon)
#CurseWordsCount: 1 (fucked)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason”
gold rush
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Per quanto questa canzone mi sia piaciuta fin da subito, se devo essere sincera il titolo aveva creato in me aspettative di un poema epico sulla vera corsa all’oro. Avete presente, no? Il Klondike, lo Yukon, Jack London, le slitte per Dawson, cose così. Insomma, mi aspettavo una storia su un evento storico, e non una metafora, ma fa niente: quando sarò in vena di cercar pepite mi rivolgerò al tastierista dei Nightwish Tuomas Holopainen e al suo splendido Music Inspired by the Life and Times of Scrooge, in cui ha trasposto in musica la saga di Zio Paperone del fumettista Don Rosa.
gold rush è, innanzitutto, una canzone sulla gelosia che si prova nel vedere il centro del nostro interesse essere il centro dell’interesse di altri (“I don't like that anyone would die to feel your touch / Everybody wants you / everybody wonders what it would be like to love you”), proprio come l’oro lo era per tutti i minatori. Ma è anche una canzone sull’alzare bandiera bianca: dopo aver messo ripetutamente in chiaro, forse in modo quasi ossessivo, di non amare l’idea della competizione (tutti quei “don’t like”), alla fine si decide di rinunciare del tutto, e quella pepita che per un po’ si era riusciti ad afferrare (“I call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we wandered round had never / seen a love as pure as it”) viene lasciata andare (“I won't call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we never found will never / see a love as pure as it”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Eyes like sinking ships / on waters so inviting / I almost jump in”
‘tis the damn season
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
È probabile che ’tis the damn season e dorothea siano due facce della stessa medaglia. Se fosse, il punto di vista qui è di Dorothea, che ritorna per le vacanze di Natale nella cittadina in cui ha vissuto prima di diventare famosa.
È interessante notare quanto i toni dei due brani siano differenti: qui si indulge nella malinconia, e il passato viene ricordato con rimpianto (“And the road not taken looks real good now”; “And the heart I know I'm breaking is my own / to leave the warmest bed I've ever known”); in dorothea l’altra persona quasi dà per scontato che le cose dovessero andare come sono andate. Il domandarsi “Chissà se ogni tanto si ferma a pensarmi?”, seguito da quel “Sai, puoi sempre mollare tutto e tornare” non assurge mai al rango di una vera e propria presa di coscienza sull’importanza che si è avuta nei confronti di Dorothea; è solo un sogno a occhi aperti alimentato, più che da un reale desiderio, da una mera curiosità, che prende vita nel momento in cui si vede Dorothea sullo schermo, o sulle pagine di un giornale, per poi morire quando lo schermo sfuma al nero, o la pagina viene girata.
’tis the damn season è ammantata da un’atmosfera di rassegnata mestizia, veicolata da espressioni come “cold”, “gogs up windshield glass”, “bad perfume”. Paradossalmente, quell’immagine delle ruote infangate del furgone, che in condizioni normali sarebbe altrettanto “negativa”, qui invece è l’àncora ai bei ricordi di un tempo che fu, ma ormai perduto.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 5 (“damn”, compresa quella nel titolo)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And the road not taken looks real good now”
tolerate it
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Cold As You, White Horse, Dear John, All Too Well, All You Had To Do Was Stay, Delicate, The Archer, my tears ricochet e, infine, tolerate it: la traccia n. 5 degli album di Taylor è sempre una traccia peculiare; con l’eccezione di Delicate, vi si veicola sempre una certa dose di afflizione (perfino in All You Had To Do Was Stay, nonostante il suo beat possa far immaginare il contrario).
In questa canzone si racconta dell’atteggiamento scostante di una persona nei confronti di un’altra. È un rapporto di coppia in cui tutti gli sforzi di una per far funzionare la relazione (“I sit and watch you, I notice everything you do or don't do”; “Use my best colors for your portrait”; “I greet you with a battle hero's welcome”;) si scontrano contro la protervia dell’altro, un’arroganza che deriva evidentemente dal credersi migliore (si percepisce infatti un sentimento di inferiorità della voce narrante —“You're so much older and wiser and I / I wait by the door like I'm just a kid” — al punto che arriva a domandarsi se non sia invece lei, da persona meno “saggia”, ad aver frainteso tutto — “If it's all in my head tell me now / tell me I've got it wrong somehow”), e finanche contro una sorta di insofferenza (“Always taking up too much space or time”). Col risultato che tutto l’amore, anziché venir celebrato, viene soltanto tollerato: non è nulla di più di una scocciatura.
Sebbene l’ispirazione dichiarata di questa canzone derivi dal romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier (diventato anche un film di Alfred Hitchcock), non è difficile trovarvi temi e concetti da Taylor già affrontati in altri brani. Per esempio, a me sono venute in mente Dear John (“Don't you think I was too young / to be messed with”, “Well maybe it’s me / and my blind optimism to blame”; “Never impressed by me acing your tests”), Tell Me Why (“Why… do you have to make me feel small”), Cold As Yoy (“You put up walls and paint them all a shade of gray / and I stood there loving you and wished them all away”; “You never did give a damn thing honey but I cried, cried for you / And I know you wouldn't have told nobody if I died, died for you”), perfino We Are Never Ever Getting Back Together (“With some indie record that's much cooler than mine”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I made you my temple, my mural, my sky / Now I'm begging for footnotes in the story of your life”
no body, no crime [feat. HAIM]
[Taylor Swift]
Lo scettro per la canzone più brillante di evermore ce l’ha senza ombra di dubbio no body, no crime. Finalmente, l’ossessione di Taylor per la serie poliziesca Law & Order paga, e noi ne guadagniamo la divertente narrazione (mi auguro non autobiografica) di un omicidio. Quando l’ho fatto presente a mio fratello, mi ha risposto: “Capirai, nulla che i Carach Angren non abbiano già cantato”. Oh be’, in ogni caso non è mai troppo tardi per darsi alla cronaca nera, dico io.
Questo brano è il racconto lineare, ma sapientemente articolato, dell’uccisione di un uxoricida fedifrago, e già le sirene della polizia nell’intro (lasciatemi credere che l’ispirazione derivi da Hanno ucciso l’uomo ragno) contribuiscono a delineare una precisa atmosfera di gusto giallo.
La canzone è una vera e propria escalation: si comincia con una donna, Este, che fiuta il tradimento da parte del marito (“Her husband's acting different and it smells like infidelity”; “She says, that ain't my merlot on his mouth/ That ain't my jewelry on our joint account”), si prosegue con la misteriosa scomparsa della stessa Este (“Este wasn't there / Tuesday night at Olive Garden at her job / or anywhere” / “He reports his missing wife”) e con delle circostanze piuttosto sospette, che fanno ritenere un tentativo di depistare l’analisi forense sulla scena del crimine (“And I noticed when I passed his house his truck has got some brand new tires”). Che poi l’amante del marito si trasferisca a casa, be’, a questo punto è proprio il minimo che ci si possa aspettare.
La piega che prende la canzone a partire dalla terza strofa è tutto fuorché inaspettata, perché Taylor ci ha indirizzati lì con un crescendo ben costruito (e sottolineato da quei “But I ain't letting up until the day I die” nei due precedenti ritornelli). E qui scopriamo che il marito assassino è sulla buona strada per venire assassinato a sua volta: c’è la barca con cui far sparire il corpo (Dexter Morgan dice “ciao”), c’è la pulizia della scena del crimine, c’è l’alibi falso, c’è la macchinazione verso l’amante che avrebbe anche il movente (che propizio tempismo, quello di aver stipulato un’assicurazione sulla vita del morto).
La canzone termina, a chiusura del cerchio, con una variazione del ritornello: al posto di “lui” (il marito) quale sospettato dell’omicidio di Este ora c’è “lei” (l’amante) quale sospettata dell’omicidio di lui; infine, di nuovo “lui” ma stavolta al posto del secondo “io” nel verso relativo al non lasciar perdere. In questa frase in particolare, ripetuta e lasciata in sospeso su “he”, viene omesso fino all’ultimo il riferimento alla morte (a differenza di quando è riferita alla voce narrante), ma ormai era evidente, visto anche il passaggio dal tempo presente – “I ain’t” — al tempo passato — “I wasn’t”, quale sarebbe stata l’ultima variazione. E anche se era evidente, e sapevo dove Taylor sarebbe andata a parare, quando ho sentito quel “died” non ho potuto fare a meno di esultare. Tiè.
#AlcoholicCount: 2 (wine, merlot)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 2 (Este, il marito di Este)
#FavLyrics: “Este's been losing sleep / Her husband's acting different and it smells like infidelity”
happiness
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ascoltando happiness si entra per forza in un universo parallelo dove le leggi che governano il mondo naturale non valgono, perché mi rifiuto di credere che questi siano cinque minuti e quindici secondi di canzone. Ho capito la teoria della relatività e tutto il cucuzzaro, ma qui si rischia di minare i principi fisici alla base del tempo istesso.
La canzone si apre con un’immagine allegorica, il trovarsi “sopra gli alberi”, che permette di stabilire lo stato d’animo della voce narrante che riflette su una relazione terminata: ci si trova non letteralmente al di sopra degli alberi ma in un luogo mentale di sufficiente (seppur non completo) distacco per cui si è in grado di fare una valutazione obiettiva di ciò che è stato (“Honey, when I'm above the trees / I see this for what it is”). Nonostante l’epilogo infelice, infatti, c’è l’onestà intellettuale di riconoscere gli aspetti positivi (“In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”; “But there was happiness because of you”; “[…] seven years in Heaven”).
Non si è ancora, tuttavia, arrivati a quella maturità emozionale per cui si è in grado di lasciarsi tutto alle spalle: “But now my eyes leak acid rain on the pillow where you used to lay your head”; “I hope she'll be your beautiful fool / who takes my spot next to you / No, I didn't mean that / sorry, I can't see facts through all of my fury”. Ma d’altronde lo si ammette: “You haven't met the new me yet”.
L’assunto sviluppato nei ritornelli, tuttavia, ci fa capire che prima o poi si arriverà al punto in cui ci sarà (di nuovo) la felicità. Basta solo darle tempo.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”
dorothea
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
dorothea è la storia di una ragazza che ce l’ha fatta. Di una ragazza che ha inseguito i suoi sogni, che ha lasciato i confini limitanti di una cittadina di provincia e ha fatto fortuna. Qui è un suo vecchio amore giovanile che la ricorda. Probabilmente è diventata un’attrice famosa (“A tiny screen's the only place I see you now”, “Selling dreams / selling make up and magazines”), e si è circondata di amici altrettanto famosi (“You got shiny friends since you left town”). Ma quello che, dall’esterno, è visto come un sogno scintillante, potrebbe in realtà avere i suoi coni d’ombra. Lo sguardo di Dorothea brillava di più quando era a Tupelo, in Mississippi (“The stars in your eyes / shined brighter in Tupelo”), rispetto a dovunque si trovi ora (presumo Los Angeles, menzionata in ’tis the damn season), e se volesse potrebbe sempre mollare tutto e ritornare alle origini (“But it's never too late / to come back to my side”). Non che l’amore giovanile pretenda alcunché da Dorothea, né un effettivo ritorno né di essere pensato, ma è solo bello sognare di fare ancora parte della vita di qualcuno, quella vita che sembra così bella e perfetta, anche solo come vago ricordo.
Dorothea sembrerebbe l’altra metà di ’tis the damn season, però a punti di vista invertiti.
A me ha fatto venire in mente anche un’altra canzone, Queen of Hollywood dei Corrs. È la stessa storia: una ragazza parte da casa per inseguire un sogno, e lo raggiunge. Solo che anche in questo caso il sogno ha i suoi risvolti oscuri (qui, forse, ben più oscuri che in dorothea): “Now her mother collects cut-outs / and the pictures make her smile / but if she saw behind the curtains / it could only make her cry / She's got hand prints on her body / sad moonbeams in her eyes / not so innocent a child”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And if you're ever tired of being known / for who you know / you know, you'll always know me”
coney island [feat. The National]
[Taylor Swift, Aaron Dessner, Bryce Dessner, William Bowery - aka Joe Alwin]
Questo brano è un po’ il risarcimento morale per la parte di evermore (canzone) che non mi piace: la voce bassa e vibrante di Matt Berninger qua compensa quella alta di Justin Vernon di là.
Strutturalmente, coney island richiama exile, con due voci diverse che esprimono due punti di vista; entrambi hanno domande ma nessuno ha le risposte. L’intera canzone è pervasa da una malinconia nostalgica, in cui i ricordi riaffiorano prepotenti: da una panchina di Coney Island si tornano a rivedere, come fossero un film, scene di una vita passata, e si finisce col chiedersi cosa sia andato storto e quali potessero essere, di ognuno, le mancanze che hanno condotto a quell’epilogo.
Tra l’altro, è interessante notare come una delle cose per cui qui si domanda scusa è il non aver messo l’altra persona al centro delle proprie attenzioni (“Sorry for not making you my centerfold”, dove centerfold è il paginone centrale delle riviste), ed esattamente di questo ci si lamentava — a parti inverse — in tolerate it: in una stessa metafora editoriale, là si doveva pregare di essere considerati almeno una nota a piè di pagina (“Now I'm begging for footnotes in the story of your life”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Will you forgive my soul / when you're too wise to trust me and too old to care?”
ivy
[Taylor Swift, Jack Antonof, Aaron Dessner]
L’edera (ivy) è una comune pianta infestante, cioè una pianta che invade i luoghi in cui cresce, e danneggia le piante già lì esistenti. Non penso che Taylor potesse trovare una metafora migliore per raccontare una storia di infedeltà.
La narratrice è già promessa a qualcun altro (“Taking mine, but it's been promised to another”) il quale poi diventerà il marito (“And drink my husband's wine”), eppure non può fare a meno di cadere in tentazione: si è inevitabilmente innamorata di un persona diversa. È qualcosa che va al di là del suo controllo (“So yeah, it's a fire / it's a goddamn blaze in the dark / and you started it”) e per quanto provi all’inizio a osteggiarlo (“Stop you putting roots in my dreamland”) non ci riesce. L’edera ormai non solo ha attecchito, ma ha invaso tutto (“My house of stone, your ivy grows / and now I'm covered in you”). E non si può fare altro che arrendersi a questo, pur con la consapevolezza che non si potrà mai vivere in pace, ma sempre guardandosi indietro per paura (“What would he do if he found us out?”; “Spring breaks loose, but so does fear / he's gonna burn this house to the ground”), e nascondendosi, vivendo di momenti rubati (“I’d live and die for moments that we stole”), facendo tesoro di un tempo che è preso soltanto in prestito (“On begged and borrowed time”), certi che si verrà scoperti prima o poi.
Nella canzone non ci sono riferimenti moderni di alcun tipo, il che mi fa pensare che questa sia la canzone con protagonista la “pioneer woman” di cui Taylor ha parlato nell’intervista con Paul McCartney (link), presa in un amore proibito. Si capisce allora meglio, se dunque la collocazione temporale della storia è l’epoca dei pionieri americani (il vecchio West, per intenderci), il perché quella donna abbia dovuto sottostare alla forma (il fatto di essere stata promessa già a qualcuno, e infine sposarlo) anziché essere libera di seguire il proprio cuore (che però, in ogni caso, non sarà mai del marito: “He wants what's only yours”).
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 5 (goddamn)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Stop you putting roots in my dreamland”
cowboy like me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come gold rush, anche il titolo di questa canzone mi aveva fatto partire per la tangente: già mi vedevo insieme a Taylor tra le polverose pianure dell’Oklahoma, con i cavalli lanciati al galoppo, le Colt, gli sceriffi e i banditi, immagini e concetti che mi sono cari come a Cicerone era cara l’ipotassi. E se almeno gold rush mi piace un botto, quindi le perdono il fatto di avermi infinocchiata, questa canzone invece la trovo ben poco memorabile, se non proprio sciapa, e perciò un po’ me la sono legata al dito.
Si tratta di un brano abbastanza monotono, in cui nemmeno il bridge riesce a risultare meno anonimo delle strofe. Il che è un peccato, perché le premesse c’erano tutte, se solo musicalmente si fosse osato un po’ di più. La storia qui raccontata, in effetti, potrebbe essere un ottimo spunto per un dramedy di ricconi, coi campi da tennis e le macchine di lusso, così egoriferiti da non accorgersi nemmeno di farsi turlupinare da due arrivisti sociali che puntano solo ai soldi (“Telling all the rich folks anything they wanna hear”; “Only if they pay for it”; “Hustling for the good life”; “And the old men that I've swindled / really did believe I was the one”), ma poi si innamorano l’uno dell’altra. Da truffatori diventano truffati essi stessi (“Forever is the sweetest con”), o forse soltanto una dei due (“We could be the way forward / and I know I'll pay for it”), che potrebbe esserci rimasta scottata e allora torna al punto di partenza (“I’m never gonna love again”, che si ripete sia all’inizio della canzone che alla fine).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You're a bandit like me / eyes full of stars / hustling for the good life”
long story short
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ipotizziamo che, facendo una meritata escursione post-pandemia sui Monti Sibillini, io caschi da un precipizio perché non sono riuscita a mettere un piede sulla sporgenza a forma di zoccolo di gnu e l’altro sulla rientranza a forma di vertebra di moffetta, e di conseguenza finisca in coma. Ecco, nel (malaugurato) caso in cui vogliate svegliarmi (no, davvero, non disturbatevi), sparare a palla questa canzone potrebbe essere il modo migliore per farlo (ma comunque non c’è bisogno).
Per arrivare a long story short siamo dovuti passare per reputation. In This Is Why We Can't Have Nice Things, le cose belle andavano messe via, al riparo, per evitare che altri le rompessero, e i cancelli venivano chiusi, e ci si rifugiava all’interno; in Call It What You Want le finestre erano state sbarrate non tanto per resistere alla tempesta — arrivata così all’improvviso da non aver tempo di prepararsi — ma per mettere una toppa alla distruzione che la tempesta aveva causato (“Windows boarded up after the storm”). Tutte immagini, queste, che rimandano al nascondersi (“Nobody's heard from me for months”), a un atteggiamento di mera difesa, e di conseguenza passivo: non si poteva certo contrattaccare, tanto si era male in arnese (“I brought a knife to a gun fight”).
Il castello che crolla e la caduta dal piedistallo sono la stessa cosa, se non fosse che in long story short, alla fine, per quanto si sia stati spinti giù dal precipizio, non si finisce spiaccicati: “Climbed right back up the cliff / long story short, I survived”. Si abbandona l’atteggiamento difensivo di prima, e si diventa artefici della nostra stessa salvezza (“But if someone comes at us / this time I'm ready”). Non solo, ma si è anche menato qualche fendente, nonostante gli agguati subiti: “I was in the alley surrounded on all sides / the knife cuts both ways”.
E tutto quel che c’è stato prima può essere liquidato con un laconico “It was a bad time”. Adesso si guarda al futuro.
(Io, comunque, col cacchio che intendo arrampicarmi di nuovo su: mi faccio mangiare dai lupi e ciaone)
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And I fell from the pedestal / right down the rabbit hole / long story short, it was a bad time”
marjorie
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Eravamo usciti per fare un giro per le colline marchigiane tra i castelli di Jesi, forse verso l’Acquasanta. Mi ricordo un rettilineo asfaltato e il sole al tramonto che bagnava d’oro tutto intorno. Io e mio fratello ci divertivamo a cantare Dove il mondo non c’è più di Francesco Renga, che andava forte in radio in quel periodo. Questo mi fa pensare che fosse il 2002, e io avevo tredici anni e mio fratello undici. Mi sa che all’epoca nonno aveva già venduto la Ritmo e l’aveva sostituita con la Uno, e nonna si godeva i nipoti che non avevano una preoccupazione al mondo. Poi succede che a un certo punto cresci, hai i tuoi interessi, i tuoi giri, no, dai, non mi va di andare a cena dai nonni, devo studiare, vabbé, andiamo ma poi torniamo presto, guarda, no, oggi non vengo proprio che ho da fare. E poi a un certo punto se ne va uno, e tre anni dopo se ne va anche l’altra, e allora pensi che alcune cose avresti dovuto gestirle diversamente, perché lo sapevi che poi l’avresti rimpianto, potevi anche alzare gli occhi ogni tanto, sempre puntati per terra, evitare di essere sempre così insofferente, perché diavolo dovevi essere sempre così insofferente, e ripensi all’ultima volta che sei stata a cena lì e non sapevi sarebbe stata l’ultima, e richiami alla mente la casa, e ne visiti le stanze che hai archiviato nella memoria, perché non ci hai più rimesso piede dal giorno dell’ultimo funerale.
Ascoltando marjorie mi si è aperto un vaso di Pandora di ricordi, e ho pianto così tanto da essermi disidratata da sola. Spero che quest’album venderà bene, perché con almeno metà dei ricavi Taylor dovrà pagarmi i danni morali.
Marjorie Finlay era la nonna materna di Taylor, cui quest’ultima aveva già tributato omaggio nel video di Wildest dreams, attraverso il nome e le fattezze del personaggio da lei interpretato. Questa canzone è tanto intima quanto universale, e l’affetto che Taylor prova(va) per la nonna travolge l’ascoltatore come i carri armati britannici hanno travolto i soldati tedeschi nella battaglia della Somme. Tra le cose più belle, quei versi che hanno tutto il sapore di consigli di vita tramandati da nonna a nipote: “Never be so polite, you forget your power / never wield such power, you forget to be polite”; “Never be so kind, you forget your clever / never be so clever, you forget to be kind”.
La canzone colpisce nella sua semplicità: rispetto ad altri brani di evermore, il testo di marjorie non si esibisce in artifici poetici e fa a meno di tutto il bagaglio di orpelli retorici, metafore, sottotesti caratteristici della scrittura di Taylor, perché non avrebbero avuto ragion d’essere, in un brano così: quando si pensa ai nonni, la strada che collega cuore e cervello è un rettilineo, non una via tortuosa fatta di incroci e rotatorie. E allora “What died didn't stay dead / what died didn't stay dead / you're alive, you're alive in my head”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I should've asked you questions / I should've asked you how to be / Asked you to write it down for me / Should've kept every grocery store receipt / ‘Cause every scrap of you would be taken from me”
closure
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Non arriverò certo a dire che closure sia una brutta canzone (un aggettivo salace attribuibile solo a End Game, I Don’t Wanna Live Forever e a quell’abominio del remix di Lover con Shawn Mendes), perché non lo è, né che sia la peggior canzone di evermore (forse quella è cowboy like me), però ha qualcosa che le impedisce di scalare la classifica. Più che altro è colpa della produzione folk-industriale, specie nell’intro, che non aggiunge nulla; semmai toglie. E soprattutto stona sia nella canzone stessa, che poi prende altre direzioni, sia con il resto dell’album. Qualcuno, ben più eloquentemente di me, ha detto che “sembra quasi che si stia provando a connettersi a internet tramite una connessione cavo nel 1997”.
Il testo però ha i suoi guizzi, come “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite / and my tears / and my beers and my candles”, e il ritornello è molto orecchiabile. Forse è solo questione di acquisire il gusto, perché se il primo ascolto mi ha fatto dire “che madonna succede?” ben presto mi è entrata in testa, cigolii compresi.
Quanto al significato, il commento sulla connessione mi ha fatto pensare che possa, in effetti, trattarsi, se non di un modem (e ci manca solo che Taylor si metta a scrivere le canzoni sui modem, ma a questo punto non mi stupirei) di un’altra machine… magari big, e non stiamo certo parlando della canzone dei Goo Goo Dolls. “The way it all went down”; “Looks like you know that now”; “I know that it's over / I don't need your "closure””; “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles” son tutti versi che mi fanno pensare alla travagliata vicenda relativa alla vecchia casa discografica e alla proprietà dei master, cui di recente si è aggiunto un ulteriore capitolo con la vendita degli stessi, da parte della Big Machine, a un soggetto terzo rispetto a Taylor (“Your closure”). Oltre il danno, pure la beffa.
#AlcoholicCount: 1 (beers)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles”
evermore [feat. Bon Iver]
[Taylor Swift, Justin Vernon, William Bower - aka Joe Alwyn]
La vita è miseria e poi si muore, e Taylor con questa canzone ha pensato bene di ricordarcelo (ma siamo onesti: ce lo siamo mai dimenticato?).
evermore è una ballad malinconica accompagnata da un pianoforte meraviglioso, in cui si riflette su un periodo di profonda tristezza e sofferenza, che dura tuttora: si cerca di trovarne l’inizio (“I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”), si tenta di affrontare il problema, ma senza esito (“Writing letters / addressed to the fire”), si riconosce di non avere gli strumenti per gestire la situazione (“Barefoot in the wildest winter”), e anziché concentrarsi sui passi da fare per uscirne, ci si ferma guardare indietro, quel momento in cui tutto è andato in malora (“I rewind the tape but all it does is pause / on the very moment all was lost”). Tutto questo per giungere all’amara conclusione: che questo dolore sia per sempre (“That this pain would be for / evermore”).
Tuttavia la canzone si conclude con una nota positiva, a cui giungiamo guidati dal bridge. Una volta riconosciuto che esiste qualcosa in grado di darci la forza di andare avanti, allora ecco che cambia la percezione e, forse forse, this pain wouldn't be for evermore.
C’è da dire, tuttavia, che la formula è dubitativa in entrambe le conclusioni: non c’è mai la certezza, nell’uno e nell’altro caso, che il dolore sia o non sia perenne (l’ultimo verso dei ritornelli, infatti, è sempre introdotto da “And I couldn't be sure”), e se da un lato ciò dà speranza, dall’altra ti evita di illuderti troppo. A differenza di Daylight, in cui si dà per certo il lieto fine, qui resta sempre un margine di dubbio.
Questa canzone segna la seconda collaborazione col frontman dei Bon Iver, Justin Vernon, dopo exile. Avendo amato tantissimo quel contrasto meraviglioso tra la voce profonda di Vernon e quella delicata di Taylor, evermore mi incuriosiva parecchio. Purtroppo non posso dire che l'attesa sia stata del tutto ripagata, perché qui manca ciò che rendeva particolare exile, quel chiaroscuro di voci, avendo Justin Vernon deciso di cantare, anziché dall’oltretomba di sotto, dall’oltretomba di sopra; questo tipo di cantato, così alto, a tratti stridulo, è quanto più lontano possa esistere dal mio gusto personale, e se devo essere sincera faccio parecchia fatica ad arrivare alla fine del bridge.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”
right where you left me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Una delle due bonus track della deluxe edition che ancora non ho ascoltato perché non mi è arrivato il cd, ma non è che mi lamento perché per scrivere ‘sto robo ho esaurito tutta la mia energia vitale dei prossimi sei anni e due canzoni in meno son due canzoni in meno e io non che ci sputi sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
it’s time to go
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
WHEREVER YOU STRAY, I FOLLOW
evermore è stato presentato come il seguito naturale di folklore. In effetti, non c’è soluzione di continuità nei due lavori, e lo stesso video di willow, che riprende dove quello di cardigan aveva lasciato, lo dimostra. E nemmeno c’è una cesura tra le sonorità dell’uno e dell’altro, cosa che invece ha sempre caratterizzato il passaggio da un disco al successivo. Taylor stessa ha detto che una volta iniziato (e finito) di scrivere folklore non sono riusciti a fermarsi. È facile capire perché: canzoni di questo tipo, caratterizzate da una commistione di elementi biografici ed elementi di finzione, offrono uno sfogo artistico senza eguali. Probabilmente è stato come attingere a una vena creativa che non si esauriva ma che si alimentava da sola.
Anche in questo caso, ed è superfluo specificarlo, il cavallo di battaglia è costituito dai testi, in cui non si disdegna nemmeno di citare Re Mida e i giardini pensili di Babilonia. In un panorama musicale in cui molto spesso la sostanza recede in favore dell'apparenza, Taylor imperterrita, presumo dopo aver passato il lockdown un po' a registrare un po' a leggersi il Merriam-Webster, continua a sfornare dei testi che davvero non hanno paragone nel mondo mainstream, nel pop soprattutto.
Rispetto al predecessore, dove un ruolo importante hanno le ingenuità giovanili (dalla bambina di seven al trittico cardigan-august-betty) in evermore i temi trattati passano invece spesso sotto la lente cinica e disillusa dello sguardo adulto.
Sempre rispetto a folklore, che mi aveva folgorata subito sulla via di Damasco, confesso che evermore ci ha messo un po’ a carburare, a farsi strada. Probabilmente, folklore aveva dalla sua la particolarità di essere davvero una novità; non tanto (e non solo) per il sound, ma soprattutto per la storia della sua genesi (che tra l’altro è la stessa di evermore, solo che folklore è arrivato prima), cioè di musica creata per alleviare la solitudine e l’angoscia esistenziale dovuta alla pandemia. Con evermore, insomma, la sensazione è “been there, done that” che forse l’ha reso meno speciale ai miei occhi, nonostante sia stato annunciato a sua volta a sorpresa.
E se tutte le canzoni di folklore mi sono parse subito ben distinte nella loro individualità, qui ho fatto più difficoltà a scinderle, e ho dovuto attendere che mi si diradasse la nebbia nel mio cervello (cervello che tra l’altro sta ancora processando this is me trying) prima di essere in grado di distinguere, che ne so, long story short da dorothea (parlo per iperbole, eh!).
Forse, per tutta questa serie di circostanze, mi trovo a preferire folklore, ma avendo fatto sufficienti ascolti di evermore per apprezzarne le varie sfumature e la profondità, mi rendo conto che è difficile dare un giudizio così tranchant: perché al di là di tutto evermore è comunque un disco splendido, e a prescindere dai gusti personali che mi indirizzano più da una parte che dall’altra, una cosa è certa: con Taylor, comunque, si casca sempre in piedi. Visto il periodo natalizio, è un po’ l’annosa questione della faida tra panettone e pandoro: perché costringersi a scegliere quando ci si può strafogare di entrambi con uguale soddisfazione?
[a questo link il Tomone 5.0 su folklore]
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perilmoro · 4 years ago
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Forse è tutto questo. Avere più cura della luce. Non abbandonarsi alla notte. E non dico alla notte, non quella vera, dico al sonno.
Bisognerebbe riuscire a starci svegli, puliti, in mezzo alla vita.
Che non ti prenda più il sonno, il marcio del letto, che è lì che fanno le cimici, che poi si finisce a chiocciare come i vecchi, con qualcosa tra le mani.
Tutto tace e il mondo non ti trova, la vita non ti trova. L'ossessione si prende tutto. E niente è più vasto del bicchiere d'acqua in cui ti sei annegato.
Dunque se arrivi ad imparare che un'anima ti può rendere l'anima, bisognerà ricordarselo, perché non serve avere trovato. Bisogna ricordarsi di avere trovato.
Perché tutto può sparire attorno a noi. La casa, le strade, due occhi di biglie in un vestito a ciliegie, quello che eri fino adesso.
La notte ti prende e il mondo non basta più. Addio poesia, epica, amore per le scarpe, per i vestiti che iniziano a stare in piedi da soli, e sono proprio i tuoi vestiti. Tutto andato, e qualcuno ti viene a chiedere, "Ma che è successo, che è successo? E tu dici "Non lo so. Non lo so".
Perduto! Lost! Chi è perduto?
Anche se sei nato già incapace di difenderti, schifosamente obbediente, così teso all'impiastro, non bisognerebbe essere troppo crudeli con se stessi. Non darsi mai un sogno di quiete, né oggi, né domani. Non bisognerebbe, come se tutto fosse da arraffare, se tutto fosse sempre bottino.
Non bisognerebbe, o forse è l'unico modo. Amare sempre, nella colica. Vedere luci e abbagli e vederli scomparire subito, o stare a impazzire tra le camere, tra i rumori dei tubi degli altri.
Svuotarsi agli estranei, e non conservarsi niente.
Perché non si muore tutte le mattine.
Buttarsi sempre, non seguire la voce. Stordirsi. Curarsi di quello che non c'entra, affardellarsi il groppone, divorarsi, affezionarsi ai mali.
Non impadronirsi di niente.
Diventare meno ubbidienti e meno vigliacchi, perdere la poesia e le mutande, perdere ogni cosa di dosso, non conservare niente, e farsi attaccare tutto.
Curarsi invece l'anima, metterne un po’ dentro, un po’ da parte.
Come se non si dovesse morire per forza stanotte, come se ce ne fosse anche per domani, e dopodomani, perché è vero, si muore tutte le mattine, e un poco di più ogni volta e anche per tutte le altre volte.
-Vinicio Capossela “Non si muore tutte le mattine”
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infernodicolori · 5 years ago
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"Si può morire di ciliegie?
quante ne devo mangiare di ciliegie
per morire di ciliegie?
Se mai dovessi suicidarmi
m’ammazzerei di ciliegie.
E si può morire di mancanza di gatti?
Per quanto tempo ancora
potrò vivere in assenza di un gatto nella mia vita?
Un giorno o l’altro mi troveranno stramazzato al suolo
e il Coroner dirà:
“Minchia una crisi d’astinenza da gatti di questo livello non l’avevo mai vista”.
E si può morire di solitudine?
Quante gocce di solitudine ancora
potranno assorbire i miei occhi?
Oggi ho comprato un chilo ciliegie
le mangerò stanotte
ne mangerò poche
lentamente
e bene.
Tranquilla, bambina
nessuna voglia di crepare.
Per essere un poeta
sono troppo di buon umore."
@infernodicolori
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pangeanews · 5 years ago
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“Ciò che ti smarrisce orienta verso Dio”. Altro che testo sul celibato dei preti… Ecco una sfilza di autentici apocrifi di Benedetto XVI
Benedetto XVI dice che l’uomo sceglie Dio sposandosi a lui, spostandosi dal mondo, restando celibe per aderire al sacerdozio. Apriti cielo. Forse l’ha detto, forse no. Chi si dedica a Dio dona tutto ciò che ha: il corpo. Fa di sé, figura tra uomo e Dio, sfigurato, tanto uomo da darsi a Dio, uno sposalizio. Ma non è questo il punto: questa è cronaca. Mi preme questo: penso che lo scrittore, l’ultimo degli uomini, il grado zero, l’uomo-uomo, debba scavare nella polpa di Dio – quindi, della Storia. E nel cuore di chi detiene la parola rivolta a Dio. Su questo, nel 2014, ho scritto un romanzo, “Rinuncio” (Guaraldi). La prima parte del libro è costituita da una serie di lettere, pagine di diario, aforismi di Benedetto XVI. Quelli che ricalco, in particolare, sono introdotti così: “Questi pensieri sono stati scritti, a matita, nelle pagine di un libro di Saint-John Perse, “Exil”, tra i rari volumi che Benedetto XVI ha voluto nella sua cella. Sembrano costituire un insieme di pensieri congiunti dalla stessa ispirazione, raccolti da un titolo, “In estremo”. Benedetto XVI ha cominciato a scrivere i pensieri quando era Papa, così per lo meno dimostra la calligrafia: rotonda, netta e comprensibile nel periodo papale, devia bruscamente, all’improvviso. La grafia diventa più torbida e roca dopo la rinuncia”. Naturalmente, sono apocrifi. Il libro fu consegnato all’‘emerito’ da Piergiorgio Odifreddi – che non conoscevo – un anno fa. Che gli sia piaciuto o meno rientra nel chiostro del narcisismo da cui non mi sottraggo. (d.b.)
***
Né milizia, né mestizia o malizia – martirio nella preghiera, reclamare l’osso ultimo, il sopravvissuto, audacia nel soffrire.
Dio è raccoglimento, umiltà. “Inutile” è Gesù sulla Croce, è il niente a cui dedicare la vita.
Si nasce per servire, per essere ultimi: chi non ha pace, chi è frustrato, chi è infelice deve comandare.
Solo quando Gesù dubita trova Dio.
Non si è guida, si è scelti a guidare – senza desiderarlo si conduce al deserto. L’unico condurre è presso la morte.
Usare la carità come un’arma – amare fino a uccidere.
Il cristiano non è felice – cioè, esaltato – vaga nel mondo senza desideri. Deve toccare il fondo, sfondare l’abisso, amarlo.
Disutile, il cristiano non ha personalità. Vivere è il suo solo dovere, valicare la vita senza seminare il male.
L’ingenuità è la genuina natura di Dio.
Cedersi è il carisma del cristiano.
Sempre si è soli – l’obbedienza è una necessaria menzogna.
Gesù dirige verso il caos, non c’è direzione ma vagabondaggio, né destinazione se non la morte. Ordine, via e viatico per una vita celeste sono un possesso degli antichi dèi, umani; il volto di Cristo è inumano.
Non esiste ordine, ma imprevisto, come l’avvento di Gesù non accade mai all’ora stabilita. L’ordine è la follia degli uomini ordinari che non sanno riconoscere lo straordinario.
Ogni uomo è un ponte nel nulla – nessun mortale porta a Dio.
Piuttosto, perseverare in una preghiera che è attesa. Prepararsi all’incontro con Dio lasciando ai superstiziosi le giaculatorie, la lista languida dei rosari. Abitare il silenzio, come una foresta dove gli alberi sembrano lupi. Eventualmente, far sorgere una parola per Dio sul ciglio della morte. Mai sentirsi degni di Lui.
La carne è il centro del cristianesimo: per questo Dio se ne è ornato. In questo modo, ha compiuto il riscatto della carne, facendone luogo di purezza e non di disprezzo o vergogna. Per questo il cristiano affronta la carne, non la denigra. Si accontenta di saggiare l’anima, ma salva la carne, di cui bisogna impregnarsi. Toccarla fino a credere che sia immortale.
E se il demonio fosse nell’ostinato distacco dalla terra, dai mortali? Pensare di poter fare a meno dell’uomo e della morte è il male.
Le stimmate sono gli occhi di Dio – i chiodi diventeranno rose.
Senza amore non conoscerò l’Amore.
Accendi i sensi – non avvilirli – avventati sul mondo violentalo: altrimenti come potrai riconoscere ciò che è da amare?
Ciò che ti smarrisce orienta verso Dio.
Cosa è stato di tutto quell’amare? Non ci è di sostegno – è perso. Per fortuna: ci porta a desiderare Dio.
I martiri, i penitenti, gli eccezionali – non imitarli. Non vivere da santo, da ispirato, perché Dio non parla con te. Diventa un vuoto che rassicura gli uomini. Farsi fuori, per far fare a Dio.
Costruire – perché si abbia la percezione che è inutile. L’opera si fonda sul tormento, e sulla presunzione che il bene sia una certezza. Accontentati di vedere nella pietra deposta da Dio la cattedrale.
Dio è presso di te, ti è addosso, ti indossa – perché tu pensi che sia lontanissimo.
La Croce non è un peso, ma una liberazione, un’aquila. Ogni uomo vuole la morte, cioè liberarsi dei propri beni, della propria abitudinaria personalità, abolirsi. La Croce non è una spada per vendicarsi della cattiva sorte, bisogna puntarla contro se stessi, uccidersi.
La lancia che ha trafitto Cristo in Croce si è trasformata in ciliegio: i bambini lo accerchiano ed è il più timoroso a scalare l’albero. Come una pioggia di stelle, il bimbo fa cadere sulla testa e sul petto degli amici i frutti. Chissà quale sapienza apprendono ingurgitando quelle ciliegie. Non so se il loro viso si contorca in ghigno, oppure gli occhi conoscano la serenità dei corvi.
Sentiti sempre come se Gesù ti avesse abbandonato – per farti ritrovare.
Ho parenti nei boschi, la mia carta d’identità è la corteccia di una betulla e ho amato il ferro più dell’ostia – nel rosario sono inanellati occhi di lupo.
Accetta la sconfitta come una grazia – sfida l’abiura abitandola.
Rifiutare ogni cosa – soprattutto, chi mi ritiene buono, chi mi onora con opinioni di santità, chi mi crede un genio, chi sperpera casuali complimenti. Essere inamovibile e indifferente. Come l’albero dai rami sempre spalancati: accoglie falchi e corvi, accettando la morte. Come l’acqua. Comunque, condurre gli altri a convincersi che sono malvagio – ritenersi indegni, indigenti, indigeni nel nulla.
Mi diede un filo d’erba, piantandolo spaccò il vaso, perforando perfino il cemento del balcone. Come il chiodo affonda nella carne non riuscii più a sradicare il vaso dal balcone. Con ciò, l’erba non smarrì la propria debolezza, senza la quale si tramuterebbe non in albero, ma in uomo.
La preparazione che si impartisce agli uomini di Chiesa è per renderli adatti al mondo. I sacerdoti sono le creature più esperte del mondo, amministrano, mettono ordine tra le emozioni dei propri parrocchiani, le curano e annaffiano di senso mentre dovrebbero annientarle. Sono esperti di denaro più che di Dio e parlano della resurrezione come di un pattuito stipendio. La vita della Chiesa è diventata una devastante inversione dei termini: si parla di “preghiera” per dire “mercanteggio”, il deserto è un’aula di ricevimento, il confessionale la vorace finestra del guardone, Dio è l’uomo, il fedele che occorre compiacere, la povertà è sostituita dal bisogno di successo. L’uomo di Chiesa deve conquistare anime da porgere in pasto a Dio, il carnefice. Il sacerdote così è come il possidente che compra e rivende schiavi, come un allevatore che con gioia e tenacia conduce al trotto le bestie verso il macello.
Nessuna parola può superare la verità di un corpo – né sovrapporsi ad esso cancellandone il ricordo. Questo rende autentico l’invecchiare, terribile la morte, remoto Dio. Il verbo tenta di incardinarsi alla carne, vorrebbe incaricarsene, per essere vivo. Ma sono le parole ad aver scandito la morte, legato i corpi al deperimento. Se non parlassimo, moriremmo senza sapere di morire, di essere vecchi. La carne non è un alfabeto, e Dio non parla – tocca – brucia – buca.
Non accettare alcun ruolo di dominio, ancor meno se “a fin di bene”, perché il potere non ammette altro fine che il male e corrompe chiunque lo abita – soprattutto i religiosi.
Non appena pronunci una cosa, dici un volto, ne dichiari la sconfitta.
L’incarnazione è un incantesimo.
L'articolo “Ciò che ti smarrisce orienta verso Dio”. Altro che testo sul celibato dei preti… Ecco una sfilza di autentici apocrifi di Benedetto XVI proviene da Pangea.
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giovanna-dark · 6 years ago
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Il viaggio in Romania è andato all’incirca bene tranne solo un episodio in cui ho rischiato di morire o essere arrestata, o morire in prigione. Spiego: come è noto a Bucarest c’è questo mega enorme edificio frutto della mente malata di Ceaușescu che è la Casa del Popolo, il secondo edificio più grande al mondo dopo il Pentagono, oggi adibito a sede del Parlamento. Il sig. Ceaușescu, autonominatosi "Geniul din Carpați" ("Genio dei Carpazi") per costruire questa abnorme torta quadrata da un milione di metri cubi di marmo 12 piani e quattro livelli sotterranei, compreso un bunker nucleare, con saloni grandi come campi da cacio e alti venti metri, tappetti e lampadari da svariate tonnellate, ha raso al suolo una collina centinaia di case e sfrattato decine di migliaia di persone. Domenica il Palazzo del Popolo era chiuso e il Boulevard Unirii di fronte era occupato da una mezza maratona che ha bloccato la circolazione con mio grande disappunto perché ho dovuto fare un giro largo e lungo della madonna per arrivare all’ala ovest del palazzo che invece era aperta perché è stata adibita a Museo di Arte Contemporanea. Il museo apre alle 12, sono le 11.30 e io mi metto fuori ad aspettare fumando e mangiando le ciliegie che mi hanno elargito al mercato dell’Obor. Visito il Museo praticamente deserto la cui parte più bella è la terrazza panoramica, sono stanchissima e delle opere non me ne frega niente. Il biglietto mi è costato solo 4 lei, circa 80 centesimi di euro. Rido. Esco annoiata dal Museo e penso bene di non prendere la strada da dove sono arrivata, ma di farmi un bel giretto nel parco del Realismo Totalitario e Socialista che si estende nei pressi della Casa del Popolo, solo che appunto l’ingresso principale della Casa è chiuso e io non posso uscire da lì, quindi continuo a inoltrarmi del parco del Realismo Totalitario sperando di trovare un’altra uscita. Naturalmente sono l’unica scema a trovarmi in quella situazione e teoricamente non dovrei trovarmi lì perché non è contemplato usare l’entrata dell’ala ovest del Museo per fare il giro intorno alla Casa del Popolo, appunto perché è di una scomodità disumana e devi camminare fino allo sfinimento. Arrivo fino al confine del parco cinto da un muro che dà sulla strada, muro ogni tot. presidiato da guardie armate. Non so come uscire da questo cazzo di Palazzo e non ho le forze per tornare da dove sono venuta. La stessa sensazione di quando nuoti troppo a largo e ti accorgi di aver fatto una pirlata perché a tornare hai la corrente a sfavore. Potrei sdraiarmi da qualche parte nel parco e aspettare di riavermi, ma ho l’ansia che possa trovarmi qualcuno e giudicare severamente questa azione. Non credo che sia contemplato bivaccare nei giardini del Realismo Totalitario e Socialista senza una buona ragione. Quindi cosa faccio? Cerco di trovare un punto del muro di cinta che dà sulla strada non presidiato dalle guardie da dove posso saltare giù. Ad occhio il muro è alto circa 4-5 metri e penso sia fattibile, quindi lancio prima lo zaino poi mi faccio il segno della croce e salto. Cado a cento metri da una rumena che sta parlando al cellulare, mi vede e urla qualcosa  (in effetti vedersi cadere una persona dal muro del Palazzo del Parlamento può destare un certo sconcerto) ma io dico - I’m fine! That’s ok, that’s ok! -E mi allontano il più velocemente possibile da lì, esultando come una scema perché - incredibilmente - sono tutta intera. A me piace viaggiare da sola per questo motivo: è un esercizio di improvvisazione continua che mi costringe a trovare sempre nuove soluzioni punk per arrivare al fine del turismo borghese. Che in effetti non approvo quegli intellettuali che si lanciano in raffinate distinzioni tra viaggiatori e turisti, dove i primi sono culturalmente più preparati dei secondi. Nell’Occidente di oggi gli unici spostamenti possibili sono turistici, viaggiare è un’altra cosa, è uno spazio mentale per cui non serve spostarsi fisicamente. A volte le due cose coincidono, ma non necessariamente. Una delle cose più pazze degli ortodossi è il modo velocissimo con cui si fanno il segno delle croce, con il pollice l’indice e il medio unito e al contrario rispetto ai cattolici, che poi non una volta, ma in serie, a intervalli regolari. I protestanti invece niente segni, niente acqua santa, niente oro, che noia. Nostalgia di Bisanzio e ansia attanagliante per il futuro prossimo. Che Dio abbia pietà di me. 
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colpa-del-vino · 6 years ago
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Il pazzo innamorato
Partito a esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino.
Tanto è vasto il regno di mio padre, tanto è enorme la mia eredità, ma non vale nulla se non trovo ciò che cerco. Non ho una meta precisa, ma ho un obbiettivo fisso.
Socchiudo gli occhi sperando di riuscire a scorgere un villaggio in lontananza o, almeno, la fine di questa landa desolata.
Sono giorni ormai che attraverso questo deserto al di là del quale troverò l’avamposto sud, l’unico che ancora non ho visitato, l’ultimo che mi resta per dare un senso a questo viaggio.
Dovessi pure strisciare, io, principe di Zanebia, non mi arrenderò e ci arriverò.
Sfilo la borraccia d’acqua dalla mia cintura, ma la rimetto immediatamente al suo posto appena realizzo che ne è rimasta veramente poca e non ho idea di quanto cammino abbia ancora prima della prossima fonte di acqua.
Col tempo ho imparato a gestire i miei bisogni, tra i quali il mangiare e il bere, specialmente dopo essere quasi morto di fame qualche anno fa. In quell’occasione ricevetti un aiuto insperato, ma qui sarebbe proprio impossibile.
Trattengo a stento un urlo di gioia appena scorgo un lieve cambio sulla linea dell’orizzonte… davvero il deserto sta per finire?
È posso sperare che le sagome che man mano vanno delineandosi siano le mura di una città?
Sì, posso.
Ancora poco e potrò bere a volontà, mangiare e dormire come si deve e, forse, anche realizzare il mio obbiettivo.
 La città, non è altro che un villaggio cresciuto in modo disordinato ed essenziale, nulla a che fare con gli splendori della capitale che ho lasciato otto anni fa. Ormai non so più nulla di ciò che avviene laggiù, ma d’altra parte nulla avrebbe più senso se prima non la trovo.
Le strade brulicano di gente, e capisco che deve essere giorno di mercato.
Vedo il cibo, e ho fame, ma così tanta gente mi fa solo pensare che ho tante più occasioni per trovarla.
E così ignoro i morsi della fame e inizio a interrogare le persone.
Alcune mi scansano dicendo che non conoscono la persona che cerco, evidentemente è arrivata anche fin qui la voce del pazzo innamorato in cerca del suo amore perduto.
Determinato mi avvicino a una vecchia signora che vende stoffe:
“Mi scusi, volevo chiederle se ha mai incontrato il mio amore, i suoi capelli sono come la seta più preziosa e hanno il colore di un raggio di sole che fende le, nubi dopo un temporale.”
La signora scosse la testa e mi guardò comprensiva. “Mi spiace buon uomo. Non la conosco.”
E rivolgendomi a una contadina. “E lei signora. Il colore delle sue labbra è rosso come le ciliegie del suo banchetto.”
Anche lei mi guardò con compassione.
Corsi dietro a un’altra donna che si muoveva in fretta e a capo chino e incappucciata da un ampio mantello. “Signora, signora…” gridai per farmarla.
“Ma quale signora!” urlarono degli uomini che si erano radunati per deridere il folle innamorato ormai diventato famoso ovunque. “Quella te la puoi comprare per pochi spiccioli!”
La raggiungo e le metto una mano sulla spalla per bloccarla.
“E lei Signora” le dico mettendo enfasi sulla parola affinché tutti sentano, “ha mai conosciuto il mio amore? Ella si muove leggera come una farfalla, e profuma di primavera.”
“Non è qui ciò che cerchi” rispose senza voltarsi.
“Ella è più preziosa della mia stessa vita,” dissi con voce rotta dall’emozione “la sta cercando ininterrottamente da otto anni, sei mesi e quindici giorni, e se non è nemmeno qui posso anche morire all’istante.”
“Nessuno può essere degno di tanta devozione.”
“Lei sì.”
“E dopo tutto questo tempo, cosa le fa pensare che lei le sia ancora devota?”
“Non so se lei mi è devota, ma la amo e le sarò devoto per sempre, qualunque cosa sia successa. Voltatevi, per favore.”
Ed ella si voltò.
-S
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seideegiapulp · 6 years ago
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Lungo i filari, gli erpici avanzano estirpando l’erba primaverile e rivoltandola per farne concime, dissodando la terra perché trattenga l’acqua più in superficie, scavando piccoli solchi per l’irrigazione, distruggendo le radici maligne che rubano acqua alle piante. E nel frattempo i frutti ingrossano e i fiori sbocciano in lunghi grappoli sui ceppi di vigna. E con l’avanzare della stagione avanza anche la temperatura, e le foglie si fanno di un verde più scuro. Le prugne si allungano come verdi uova d’uccello, e il loro peso fa curvare i rami sui puntelli. Le piccole pere dure prendono forma, e le pesche cominciano a farsi vellutate. I fiori della vite perdono i piccoli petali, e le perline dure diventano acini verdi, e gli acini si fanno pesanti. Gli uomini che lavorano nei campi, i proprietari dei piccoli frutteti, guardano e calcolano. La stagione è florida. E gli uomini sono fieri, perché è con la loro competenza che sanno rendere florida la stagione. Con la loro competenza hanno trasformato il mondo. Il grano corto e smunto l’hanno reso grosso e fecondo. Le piccole mele aspre sono diventate grosse e dolci, e quei vecchi vitigni che crescevano tra gli alberi, e nutrivano a stento gli uccelli con i loro minuscoli acini, hanno generato un migliaio di varietà d’uva, rossa e nera, verde e rosa pallido, porpora e gialla; e ogni varietà ha il suo sapore. Gli uomini che lavorano nelle fattorie sperimentali hanno creato nuovi frutti: nettarine, noci dal guscio sottile, quaranta tipi di prugne. E non smettono di lavorare, selezionare, innestare, ruotare colture, impegnando se stessi e impegnando la terra a produrre. E per prime maturano le ciliegie. Tre centesimi al chilo. Al diavolo, come facciamo a raccoglierle a questo prezzo? Ciliegie nere e ciliegie rosse, succose e dolci, e gli uccelli si mangiano la metà di ogni ciliegia e le vespe vengono a ronzare nei buchi fatti dagli uccelli. E i noccioli cadono a terra e si seccano, con i lembi di polpa ormai nera che gli marciscono intorno. Le prugne violette si fanno tenere e dolci. Perdio, non possiamo raccoglierle, asciugarle e ramarle. Non possiamo pagare nessun tipo di paga. Allora le prugne violette tappezzano il suolo. E la buccia comincia a raggrinzirsi, e nugoli di mosche si avventano per banchettare, e la vallata si riempie del lezzo dolciastro della putrefazione. La polpa si fa scura e il raccolto avvizzisce a terra. E le pere si fanno gialle e tenere. Cinque dollari la tonnellata. Cinque dollari per quaranta cassette da venticinque chili; alberi potati, terreno irrigato, e poi tutta la trafila: raccogli le pere, mettile nelle cassette, carica i camion, consegna la frutta al conservificio…quaranta cassette per cinque dollari. Non ce la facciamo. E le pere gialle e tenere cadono dagli alberi e si spiaccicano al suolo. Le vespe succhiano la polpa tenera, e c’è odore di fermentazione e marciume. E l’uva. Non possiamo fare vino buono. La gente non può permettersi il vino buono. Allora strappa i grappoli dalle vigne, grappoli d’uva buona, d’uva cattiva, d’uva mangiata dalle api. Pressa i gambi, pressa insieme polvere e acini marci. Ma nei tini ci sono peronospora e acido formico. Carica zolfo e tannino. L’odore della fermentazione non è quello corposo del vino, è odore di decomposizione e sostanze chimiche. Al diavolo. Almeno l’alcol c’è. Si possono sbronzare. I piccoli coltivatori vedono i loro debiti montare come una marea. Curano le piante ma non vendono il raccolto, potano e innestano ma non possono raccogliere la frutta. E gli uomini di scienza hanno lavorato, si sono impegnati, ma la frutta sta marcendo al suolo, e il mosto in decomposizione nei tini sta appestando l’aria. E il sapore del vino: nessun sentore d’uva, solo zolfo, tannino e alcol. L’anno prossimo il piccolo frutteto farà parte di una grande azienda, perché i debiti avranno strozzato il proprietario. Il vigneto apparterrà alla banca. Solo i grossi proprietari possono sopravvivere, perché possiedono anche i conservifici. E quattro pere sbucciate e tagliate a metà, cotte e inscatolate, costano appena quindici centesimi. E le pere in scatola non vanno a male. Possono durare anni. La decomposizione si estende a tutta la California, e il tanfo dolciastro diventa un’enorme piaga. Uomini che sanno innestare le piante e rendere fecondi i semi non riescono a trovare un modo per far sì che chi ha fame possa mangiare ciò che produce. Uomini che hanno creato e dato al mondo nuovi frutti non riescono a creare un sistema che consenta di mangiare i loro frutti. E la rovina incombe sul paese come un’enorme piaga. Il prodotto delle radici, delle vigne e degli alberi dev’essere distrutto per tenere alto il prezzo, e questa è la cosa più triste e amara di tutte. Camionate di arance rovesciate a terra. Gente che fa chilometri di strada per prendersi la frutta buttata, ma bisogna impedirlo. Come fai a vendergli le arance a venti centesimi la dozzina se possono pigliare la macchina e andarsele a caricare gratis? E allora uomini muniti di pompe spruzzano kerosene sui mucchi di arance, e sono furiosi per quel delitto, furiosi con la gente venuta a prendersi la frutta buttata. Un milione di persone affamate, bisognose di frutta…e le pompe spruzzano kerosene su quelle montagne dorate. E la puzza di marcio riempie il paese. Si brucia caffè nelle caldaie delle navi. Si brucia mais per riscaldare, col mais il fuoco viene bene. Si buttano patate nei fiumi e si mettono guardie sugli argini per impedire alla gente affamata di ripescarle. Si scannano maiali e si seppelliscono, e la putrefazione s’infiltra nella terra. Un delitto così abietto che trascende la comprensione. Una piaga che nessun pianto potrebbe descrivere. Un fallimento che annienta ogni nostro successo. La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti, la frutta è matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire perché da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui certificati “morto per denutrizione”perché il cibo deve marcire, va costretto a marcire. Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia
John Steinbeck, Furore (1939) 
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dmxofficial · 7 years ago
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Si può morire di ciliegie?
Si può morire di ciliegie?
Quante ne devo mangiare di ciliegie
per morire di ciliegie?
Se mai dovessi suicidarmi
m'ammazzerei di ciliegie.
E si può morire di mancanza di gatti?
Per quanto tempo ancora
potrò vivere in assenza di un gatto nella mia vita?
Un giorno o l'altro mi troveranno stramazzato al suolo
e il coroner dirà:
minchia una crisi d'astinenza da gatti di questo livello
non l'avevo mai vista.
Esi può morire di mancanza di tuoi baci?
er quanto ancora potrò sopravvivere senza?
glorno andrò in coma da mancanza di tuoi baci
e il medico dirà:
minchia trovatela subito!
Chi? chiederà la capo infermiera.
la come chi? La baciante
i può morire di solitudine?
antegocc di solitudine ancora
potranno assorbire i miei occhi?
Oggi ho comprato un chilo di ciliegie
ne mangerò stanotte
ne mangerò poche
lentamente
e bene.
Tranquilla, bambina
nessuna voglia di crepare.
Per essere un poeta
sono troppo di buon umore.
- Guido Catalano
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castielleindistress · 4 years ago
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Le mani di Deanna sono tiepide, non è un calore abbastanza alto da considerarlo umano. Mentre Cassie ricorda perfettamente il calore della vampira: ogni volta che si abbracciavano o quando si mostravano conforto, la sua pelle era bollente.
La questione con Crowley era aperta da ancor prima di rivedere la cacciatrice. In qualche modo era stato utile a ritrovare Deanna e ad assicurare una sorta di “rapporto professionale”, a differenza delle volontà più primitive del demone stesso. In ogni caso, Cassie ha la certezza che Crowley non avrebbe fatto una stronzata, perché non c’è niente da guadagnare o da perdere sull’aiutarla.
“Come fai a dirlo con tanta certezza?” E non riesce a comprendere come la positività di Deanna potesse influire così tanto. Si sono davvero ribaltati i ruoli, perché ad infondere coraggio e speranza è sempre stata Castielle, mentre l’altra riusciva solo a guardare il lato oscuro di ogni cosa.
Ora la vampira coglie il proprio viso fra le mani, le accarezza il viso mormorando parole che dovevano esserle di conforto, ma è talmente distratta dalle emozioni che non può far altro che fissarla con le guance rosee e abbandonarsi timidamente al suo bacio. Che dovevano meritarsi un po’ di felicità, un po’ di quiete è ormai risaputo. È una volontà che non riesce a morire.
Accoglie quel bacio delicato, un bacio degno di due liceali ai primi amori, un bacio che sa di tiepidi primavere e di ciliegi in fiore. Le dita piccole ed affusolate di Cassie raggiungono il dorso delle mani della vampira, stringono i palmi con delicatezza e le scosta dolcemente dal proprio volto, senza mai staccare le labbra dalle sue. Accompagna i polsi al di sopra del petto nudo, morbido e formoso, li riposa al di sopra del cuore e lascia che ella possa sentirne i battiti accelerati - ed eventualmente un permesso implicito di poterla sfiorare.
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È l’ennesimo giorno cominciato da una notte insonne e comincia ad accusare stanchezza ed irritabilità. Veramente non riesce a stare molto tranquilla, negli ultimi giorni, ed anche se il ciclo mestruale è passato da giorni, quel malessere è sempre presente.
“Dee? Ho...necessità di uscire da questa stanza e...molto probabilmente anche da questa casa. Potrei assentarmi per qualche ora, se non è un problema.”
@janealianovna
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*Ho letto una storia molto bella ed ho deciso di condividerla qui con voi!
《Il ciliegio del sedicesimo giorno
Nel distretto di Wakegori, che appartiene alla provincia di Iyo, c’è un ciliegio famoso e antichissimo chiamato Jiu-roku-zakura, ovvero «ciliegio del sedicesimo giorno», perché fiorisce tutti gli anni il sedicesimo giorno del primo mese (secondo il vecchio calendario lunare), e quello soltanto. Il tempo della sua fioritura cade quindi nel Periodo del Grande Gelo, sebbene per regola naturale i ciliegi attendano la primavera prima di azzardarsi a fiorire. Il fatto è che nello Jiu-roku-zakura fiorisce una vita che non è − o almeno non lo era in origine − la sua. In quell’albero alberga lo spirito d’un uomo.
Era egli un samurai di Iyo e l’albero cresceva nel suo giardino e fioriva, insieme a tutti gli altri, verso la fine di marzo e i primi di aprile. Aveva giocato sotto quell’albero quando era bambino; i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi antenati avevano appeso ai suoi rami in fiore, una stagione dopo l’altra, per più di cento anni, strisce di carta colorata che recavano scritte poesie di lode.
Lui stesso era diventato vecchissimo sopravvivendo ai suoi figli e non gli era rimasta altra creatura da amare che non fosse il ciliegio. Ma, ahimè, durante l’estate di un certo anno, l’albero si avvizzì e morì. Il vecchio se ne dolse oltre ogni dire. Invano cortesi vicini gli trovarono un altro ciliegio, giovane e vigoroso, e lo piantarono in giardino, con la speranza di recargli conforto. Li ringraziò di cuore e dette mostra di aver ritrovato la felicità. Ma in realtà aveva la morte nel cuore, perché così teneramente aveva amato il vecchio albero che nulla avrebbe potuto consolarlo.
Alla fine gli venne in mente una buona idea: si ricordò come si può salvare una albero morente. Era il sedicesimo giorno del primo mese. Si recò da solo in giardino e s’inchinò davanti all’albero avvizzito rivolgendogli le seguenti parole: «Ti scongiuro di fiorire ancora una volta… perché sto per morire al posto tuo». (È convinzione diffusa, infatti, che si possa immolare la propria vita per un’altra persona, o per qualsiasi essere creato, compreso un albero, purché si ottenga l’aiuto degli dèi; e questa trasmigrazione dell’esistenza è espressa dalle parole migawari ni tatsu: «agire per sostituzione».)
Allora il vecchio distese sotto l’albero un telo candido e vi depose alcuni cuscini, quindi vi s’inginocchiò e fece hara-kiri, alla maniera dei samurai. E il suo spirito trasmigrò nell’albero e lo fece fiorire in quel preciso istante.
E tutti gli anni continua a fiorire il sedicesimo giorno del primo mese, nella stagione delle nevi.》
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Si può morire di ciliegie? quante ne devo mangiare di ciliegie per morire di ciliegie? Se mai dovessi suicidarmi m’ammazzerei di ciliegie. E si può morire di mancanza di gatti? Per quanto tempo ancora potrò vivere in assenza di un gatto nella mia vita? Un giorno o l’altro mi troveranno stramazzato al suolo e il Coroner dirà: “Minchia una crisi d’astinenza da gatti di questo livello non l’avevo mai vista”. E si può morire di mancanza di tuoi baci? Per quanto ancora potrò sopravvivere senza? Un giorno andrò in coma da mancanza di tuoi baci e il medico dirà: “Minchia trovatela subito!” “Chi?” chiederà la capo infermiera. “Ma come chi? La baciante!”. E si può morire di solitudine? Quante gocce di solitudine ancora potranno assorbire i miei occhi? Oggi ho comprato un chilo ciliegie le mangerò stanotte ne mangerò poche lentamente e bene. Tranquilla, bambina nessuna voglia di crepare. Per essere un poeta sono troppo di buon umore.
Guido Catalano
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calabriawebtvcom · 5 years ago
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Mogol: Con Carroccia sarà uno spettacolo fantastico
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Mogol: Con Carroccia sarà uno spettacolo fantastico
Una visita inattesa quella avvenuta ieri in città. Mogol, atteso per una conferenza in Calabria, ha voluto incontrare il direttore artistico del Festival d’Autunno Antonietta Santacroce.
Un incontro che ha avuto luogo nel Teatro Politeama di Catanzaro, in cui sono stati messi a fuoco alcuni dettagli tecnici riguardanti lo spettacolo che l’Autore terrà giorno 8 novembre.
«Quello a cui il pubblico assisterà – ha detto Mogol – sarà uno spettacolo che metterà in luce le qualità vocali straordinarie di Gianmarco Carroccia, che oltre alle sue doti di ottimo performer, ha una grande capacità nel coinvolgere il pubblico che non esita a cantare con lui. Sarà un concerto mai visto supportato da una orchestra di sedici elementi».
Carroccia è stato uno degli allievi che ha frequentato il C.E.T. e dei quali Lei ne è orgoglioso
«Il C.E.T può essere considerata una delle scuole più importanti al mondo. Una scuola che ha visto nascere le carriere artistiche di Arisa, Giuseppe Anastasi e Amara. Gianmarco Carroccia mi ha invitato a un suo spettacolo a Sperlonga e quando sono arrivato sul posto ho visto che ad attenderlo c’erano 3000 persone che alla fine non volevano che lui finisse il suo concerto. Un successo incredibile per un cantante che non aveva alle spalle una grande organizzazione, ma che tutti conoscevano benissimo. Fu in quella occasione che si è pensato di fare qualcosa insieme».
Un cantante che somiglia molto a Lucio Battisti, del quale possiede anche una voce simile seppur più incisiva.
«E’ vero. Di Lucio possiede la stessa sensibilità. E la gente questo lo percepisce restandone affascinata».
La sua presenza è importante per dare una perfetta spiegazione dei testi da Lei scritti per Battisti.
«E’ uno degli aspetti dello spettacolo. Io sarò lì a spiegare i testi che si rifanno a questioni di vita e il pubblico riuscirà ad avere una idea più esatta del loro significato. Tutto questo renderà il concerto più interessante, perché da sempre ognuno dà una interpretazione personale delle canzoni di Battisti».
Mogol è sicuramente un personaggio che con i suoi testi ha molto inciso nel panorama della musica del nostro Paese, attraversando sin dagli anni sessanta i diversi cambiamenti dei generi e dei gusti musicali degli italiani. In Emozioni. Viaggio tra le canzoni di Mogol e Battisti racconterà il suo lungo e celebre sodalizio con Lucio Battisti. A 20 anni dalla morte del cantante di Poggio Bustone, Mogol svelerà al pubblico aneddoti e curiosità e la genesi e la storia di canzoni intramontabili come Mi ritorni in mente, La Collina dei Ciliegi, Il mio canto libero e Il tempo di morire.
I biglietti per assistere al suo concerto potranno essere acquistati nella segreteria sita su Corso Mazzini (di fronte alle Poste Centrali), nei punti vendita Ticket One e online sul sito www.festivaldautunno.com e sul sito www.ticketone.it, dove è possibile pagare anche con la carta del docente e con app18. Per eventuali informazioni sui biglietti, sui concerti e gli eventi culturali è disponibile il sito del Festival, le  pagine Facebook e Instagram, l’app scaricabile per i cellulari Android e IOS. Per ulteriori informazioni:  [email protected] e telefono 331.830 1571.
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