#sapere umanistico
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Un mondo rimasto incompreso.
[...]Un brutto sogno. Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo[...]
"La campana di vetro" è un romanzo di Sylvia Plath, scrittrice e poetessa statunitense che ha vissuto l'esperienza dell'elettroshock e della reclusione.
Un tempo, quando si riteneva che "i malati di mente" dovessero essere separati dal resto della società, molti erano coloro che non riuscivano a compiere una scelta di vita. Lo "spazio dei possibili" era circoscritto da rigidi retaggi culturali.
Sylvia Plath incarna spettri che aggrediscono culturalmente la donna da secoli e, all'interno di questo romanzo, nei panni di Esther, cerca di liberarsene con tutte le sue forze. Joan avrà il destino opposto e si abbandonerà ai mostri che popolano gli oscuri e profondi meandri della mente umana.
Questa, labile e sensibile all'andamento sociale, rileva spesso i doppi messaggi che il mondo in cui viviamo ci propina. Si trovano passaggi in cui l'autrice si domanda come sia possibile che una persona abituata a ottenere e dare sempre il massimo, all'improvviso si spenga e perda la sua voglia di vivere. Farcela non può essere uno slogan pubblicitario, ma una concreta, vitale, indomita volontà!
Negli ultimi righi, infatti, Sylvia prova a dare un lieto fine a quella parte di sé che ha vissuto l'orrore dell'ospedalizzazione e la perdita dei propri punti fermi. Questa storia di cui ci fa dono, non è solamente un urlo di protesta contro gli stereotipi e la discriminazione, bensì una testimonianza storica di quanto sia importante porre al centro - quando si lavora in contesti in cui vi è sofferenza di qualsiasi tipologia - l'approccio empatico (si veda la differenza tra la dottoressa Nolan e il dottor Gordon).
"Curare" significa, inevitabilmente, permettere a se stessi di entrare nell'altro e mostrargli che non è poi così distante dal resto del mondo, che la sua unicità è parte di esso.
Sylvia mette in evidenza un aspetto poco simpatico all'approccio scientifico: la fede.
L'opera testimonia la potenza che risiede nell'individuare il proprio, intimo senso nella vita.
•Costancen
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04/10/2020: riflessioni del mio prof di Letteratura italiana sotto Covid
Probabilmente pederemo molto tempo in controlli, verifiche, procedure, disfunzioni tecniche. Pazienza.
Dice il saggio: "La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè non ha nessuna apparenza d'eroico." (Leopardi, Zibaldone, 112)
Teniamo sempre ben presente il principio umanistico che la Qualità è infinitamente più importante della Quantità, e che lo scopo finale di un percorso di studi superiore di tipo umanistico (ma non solo) è saper ragionare bene e orientarsi bene nel mondo, obiettivo che si può raggiungere anche riflettendo su quanto ci accade, e integrandolo nel sistema di conoscenze che è oggetto specifico del nostro studio, ovvero la lingua e la letteratura. La lingua e la letteratura sono nel mondo, e non si conoscono per mezzo di un'accumulazione di nozioni e dati che non ne possano spiegare il senso e le ragioni profonde.
Da questo punto di vista, una mezz'ora "persa" a connettersi o a risolvere un problema non sarà "persa" se sapremo farla fruttare in termini di conoscenza del "problema" della tecnica e dei processi evolutivi del mondo e della cultura moderni.
Come vedrete, Leopardi ha molto da insegnarci in proposito.
La vera cultura non è quantità; è discorso sul "metodo" ovvero sulla "via".
Cerchiamo, tutti insieme, una buona via, la migliore possibile nelle condizioni date.
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LA NOSTRA IDEA DI CAPITALISMO UMANISTICO E UMANA SOSTENIBILITÀ Ciò che intendiamo per Capitalismo Umanistico e Umana Sostenibilità è l’idea che l’impresa debba fare, sì, dei profitti, ma sapendo operare allo stesso tempo con etica, dignità e morale. Tali ideali trovano infatti fondamento nel concetto del giusto profitto in equilibrio con il dono e nel porre al primo posto il rispetto verso le persone, la loro dignità morale ed economica, e verso il Creato, con il quale ci impegniamo costantemente a vivere in armonia. Solo così il profitto, il dono, la custodia e la dignità della persona umana vivono nel reciproco arricchi- mento. Pensando all’azienda ci piace uno sviluppo garbato e costante, e anche questo è un insegnamento che proviene dalla vita contadina, dove le grandi accelerazioni e i grandi raccolti non possono divenire regola perché così fa- cendo verrebbe danneggiata la grande armonia della natura; la stessa natura ci insegna a non avere mai troppa paura degli eventi dolorosi, che spesso sono maestri, come diceva sant’Agostino, e di seguitare il passo regolare della nostra azione. Una tempesta di grandine non può interessare tutta la campagna, ma solo una parte; una crisi finanziaria non può durare tanto a lungo, quali che ne siano le cause. E proprio come Ulisse, basta tenere diritto il timone fino a quando non termina la tempesta, dopo la quale torna sempre il sole». Ancora oggi, se sappiamo essere suoi eredi morali, sapremo che la produzione deve avere un giusto prezzo e un giusto profitto. In un tempo non troppo lontano, l’evadere il fisco poteva essere da alcuni riguardato quasi come un’azione astuta, e a volte generava desiderio di imitazione. Oggi non è più così, le cose sembrano ben diverse. Pagare le tasse è un valore, un dovere e al tempo stesso un atto di riguardo verso la società della quale facciamo parte, verso il nostro prossimo. Proprio come è per il profitto, che va commensurato armonicamente. Come possono essere giustificati i profitti eccessivi? Io non ne desidero alcuno, e cerco ogni singolo giorno di porre la massima attenzione a che il guadagno sia conforme alla moralità della mia attività imprenditoriale e all’alta qualità del mio prodotto. Sono convinto che tale visione del mondo riecheggi in ogni persona umana e specialmente nei giovani, ai quali tanto dobbiamo e nei quali riponiamo ogni nostra speranza per il futuro radioso che ci attende. Oggi, con la tecnologia, tutti possono sapere tutto di ognuno, e la consapevolezza di un’azienda che fa giusti profitti, distribuendo il beneficio nell’equilibrio tra profitto e dono, crea un’atmosfera generale di fiducia, stima e di serenità».
Brunello Cucinelli
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Sono molto d’accordo con il tuo post. Io credo che non sia solo questione di dare sempre la priorità ai corsi STEM, secondo me ha anche a che fare con un discorso di classe. L’esempio delle lingue che hai citato è uno dei più classici: se sei povero e poliglotta non importa a nessuno (anzi, è “il minimo” per trovare un lavoro) mentre se sei ricco e sai dire ciao in un’altra lingua oltre alla tua sei un intellettuale super acculturato perché “hai viaggiato il mondo” (= hai speso migliaia di euro in quei corsi universitari che ti fanno cambiare paese ogni anno accademico). Se pensi agli americani, ad esempio, sono i primi a considerare fighissima la tendenza europea a parlare più lingue e allo stesso tempo si lamentano dei messicani quando parlano spagnolo in pubblico. Un bambino poliglotta difficilmente lo è perché ha studiato, ma realisticamente nasce in un contesto famigliare multilingue, e questo ~per qualche motivo~ sembra rendere meno valide le capacità che manifesta. Poi boh magari dico stronzate
no, no, sono d'accordo anch'io con te. ricordo che anni fa uscirono degli articoli sul fatto che la principessina charlotte parlasse due lingue a due anni (che poi, il titolo dell'articolo era stupido in partenza: a due anni parlare due lingue significa semplicemente conoscere quelle 300 (?) parole che un bambino di quell'età può sapere, moltiplicate per due. parlare è un parolone, ma si sa che ai giornalai piace sempre del buon e inutile sensazionalismo) e in molti risposero che anche i figli degli immigrati a quell'età parlano molto spesso più di una lingua, ma per qualche motivo non sembra altrettanto impressionante. qualcuno fece notare che è quindi un problema di classe, altri dissero che non tutti gli immigrati sono poveri. non so se il problema di classe sia contenuto o sia il contenitore di altre questioni o se i vari problemi si intersechino come d'abitudine.
appurato questo, a volte mi sembra che le abilità precoci, le inclinazioni (non cadiamo nel discorso genio perché a quel punto l'essere genio fa valere tutto) non scientifiche valgano meno (è forse una questione di produttività, di profitto?). mi chiedo addirittura se esistano abilità precoci in campo umanistico a questo punto, o siano solo passatempi per scioperanti. saper far di conto e saper più lingue sono abilità equivalenti? una scoperta scientifica vale più di una scoperta di tipo umanistico? sarei tentata dal dire di sì perché ovviamente sono la prima che spera di rinascere nella prossima vita con una propensione per la fisica hehehe. il mio è un discorso disordinato e confuso quanto una matassa, dal quale immagino possa partire qualche rimprovero o qualche osservazione (come la tua, e quindi grazie!) che però io non riesco a formulare.
#ask#un po' confusa sta risposta spero si capisca scusate sono troppo imbecille per riflessioni che vadano oltre lo shitposting
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P.s. e non rispondermi che
Non sei innamorata di me con la solita lirica
"""Noooo,no es amor lo que tu sientes se llama obsession
Una illusion en tu pensamiento que te hace hacer cosas asi funciona el corazoooon..."""
Non cerco questo ""amore"" che é destinato ai trentenni o meno.
Che a te piaccia o meno, io quando avrò 93 anni tu ne avrai 80!!! Una coetanea non credi? Io allora ne dimostrerò solo 83!!! E tu invece ne avrai 90 effettivi a causa degli psicoveleni della medicina psichiatrica regionale lombarda coronate dalle turbe del sonno dovute alle tue convinzioni freudiane che invece dovrebbero essere sostituite da nuove cognizioni costruttiviste ed evoluzioniste, che io, senza conoscerle, sostengo spontaneamente.
Cerco solo un evoluzione dell'amicizia in accordi mediani e progetti realizzati in comune altrimenti é solo un amicizia salottiera da rilassamento che non passerà alla storia in enssun modo.
Vorrei passare alla storia perché in sieme abbiamo realizzato questo e quest'altro.
Che c'entra l'innamoramento?
Tirarsi su le maniche e utilizzarci revisionandoci, evolvendoci e costruendo insieme, non dico tanto, ma almeno una cosa. Una.
Quello che ti sembra innamoramento é voler bene all'anima che nascondi e che sto cercando di tirar fuori dal pozzo dei nascondigli, tenendoti per mano.
É un intento salvifico per non far morire la nostra storia, nel marasma delle amicizie inutili e improduttive che si susseguono tra milanesi, monzesi e borghesi in genere.
L'appiattimento sensitivo umanistico, anziché l'elevazione all'immortalità dello spirito che può realizzare tutto ciò che vuole.
La verità sta nel mezzo.
La virtù viene dai veri medici, non quelli di regione Lombardia, ma quelli di Media, antica regione dopo l'Armenia.
Medici=di Media.
Media era tra l'Europa e la Cina.
Medi-cina.
Tutti i rimedi provenivano da quella zona che importava in Europa il sapere curativo cinese.
Capisci ammè.
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Vi dirò una cosa: vengo dal classico, da lettere, e dal mondo umanistico. Sempre cresciuta con l’idea che le materie scientifiche fossero più difficili - perché ero incapace io, perché me lo dicevano gli altri, ed io non metto mai in discussione le competenze degli altri. Fatto sta che ora mi trovo a studiare tutte quelle materie lì, chimica, matematica, citologia, e posso assicurarvi che son materie nelle quali non c’è bisogno di alcuno sforzo particolare (ve lo dice una che aveva tre a matematica). Intendo dire che son materie che si basano su leggi esatte, sono scienze (quasi) esatte. Sono regole. Studi il ragionamento e vai avanti. Le materie umanistiche non funzionano così. Le materie umanistiche non sono esatte, non si fondano su regole, si basano sulla tua reinterpretazione e capacità critica (se ce l’hai). Una materia considerata “semplice” come Storia è molto più complessa di chimica organica, dove procedi per leggi empiriche. Ovviamente con questo non sto dicendo che le materie scientifiche siano una passeggiata, anzi. Ma v’assicuro che studiare una poesia davvero, un pezzo di storia, un’opera d’arte, un pensiero filosofico, implicano una partecipazione così forte che quelle materie già “regolamentate” non prevedono, a meno di non volerle rivoluzionare, e quindi fare ricerca. Il succo è: non ve la tirate mai, in nessun caso. I campi del sapere son vasti e tutti complessi. La lingua inglese non è solo la lingua parlata. Racconta una storia, racconta di filologia, di un popolo, di cambiamenti sociali e così via.
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Qual è il mio obiettivo?
Basterebbe saper rispondere a questa domanda per annullare la confusione che ho in testa.
Mando cv come se già facessi parte di un ciclo produttivo. Li mando come se fosse una malattia, senza nemmeno sapere il perché, senza sapere se è davvero quello che voglio. La verità è che non è quello che voglio. Però non riesco a fare altrimenti perché mi sento letteralmente schiacciare all'imperativo morale e sociale di entrare a far parte di questo ciclo mortale di produzione.
Sono solo pochi mesi e già mi sento intellettualmente depauperata, sfiorita. Non leggo più paper, non seguo più una lezione universitaria, non sto imparando niente che mi faccia riprovare quella bellissima sensazione di sentire praticamente due mani che ti separano i due emisferi del cervello tanto è il blowminding.
Penso ancora al dottorato, ma non esiste una sola persona che faccia un dottorato umanistico a spiegare com'è che si faccia - a meno che non hai già un prof alle spalle per qualche motivo. Ancora peggio se uno vuole puntare all'estero, dove non esistono graduatorie pubbliche e quindi boh. Oggi ho letto commenti di una povera ricercatrice italiana che si lamentava di avere paper in revisione per mesi per poi riceverli rigettati, nel loop per cui se non li invii pare che non stai facendo nulla per cui devi necessariamente ricevere revisioni, spesso incongruenti, per dimostrare che fai qualcosa.
Dove mi giro mi giro vedo solo abnegazione e sacrificio: se entro nel circolo produttivo sono consapevole del fatto che potrei non durare a lungo perché vivrei come una macchina da guerra ed è una cosa che mi fa soffrire; se entro nel circolo accademico, niente avrà valore, oltre a vivere pure economicamente di stenti.
Ogni colloquio è per me una figura di merda che mina fortemente la mia già poca esistente autostima. Un mondo lavorativo dove mi devo fingere fiera e sicura di me e delle mie capacità, quando sono esattamente il contrario. Ed è inutile che io scriva un cv pompato, perché poi al colloquio mi metto a figura di merda da sola.
Mi sento persa, immobile, impantanata nella melma, difronte a milioni di scenari diversi, difronte a mille interessi che potrei perseguire ma che non hanno un futuro.
Ho amiche che lavorano già in azienda, altre che sono in Giappone a loro spese pur di perseguire la carriera accademica.
Se solo capissi, decidessi in cosa puntare, in cosa investire le mie energie, piuttosto che essere una macchina invia-cv, forse, sarebbe tutto più semplice. Invece così non è. Perché è sempre stato così, davanti alle scelte, io non so scegliere.
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“ Se le pulsioni sono naturali, se le emozioni sono in parte naturali e in parte orientate dalle differenti culture e dall’educazione, i sentimenti non li abbiamo per natura, ma per cultura. I sentimenti si imparano. E tutte le società, dalle più antiche a quelle di oggi, non si sono mai sottratte a questo compito. Fin dall’origine dei tempi, infatti, le prime comunità, attraverso narrazioni, miti e riti, insegnavano la differenza tra il puro e l’impuro, il sacro e il profano con cui circoscrivere la sfera del bene e del male, creando schemi d’ordine capaci di orientare i membri della comunità nei propri comportamenti. All’impurità era connesso il contagio, con conseguente reazione di terrore e procedure di isolamento, da cui si usciva con particolari pratiche rituali, magiche e scarificali. Gli antichi Greci avevano rappresentato nell’Olimpo, a guisa di modello e di orientamento, tutti i sentimenti, le passioni e le virtù umane. Zeus era il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite la sessualità, Ares l’aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia. Oggi, per apprendere i sentimenti, non possiamo più ricorrere ai miti, però abbiamo quel grandioso repertorio costituito dalla letteratura che ci insegna che cos’è l’amore in tutte le sue declinazioni, che cos’è il dolore in tutte le sue manifestazioni, che cosa sono la gioia, la tristezza, l’entusiasmo, la noia, la tragedia, la speranza, l’illusione, la malinconia, l’esaltazione. Educati dalle pagine letterarie, disponiamo di mappe mentali che, in presenza del dolore, ad esempio, ci indicano, se non le vie d’uscita, le modalità per reggerlo. E questo è forse il senso di quella neppur troppo enigmatica espressione di Eschilo che dice: “Solo il sapere ha potenza sul dolore” [Eschilo, Agamennone, vv. 177-178]. Penso che fino ai diciotto anni tutte le scuole, dagli istituti tecnici ai licei classici e scientifici, sono scuole di formazione. Si tratta di formare l’uomo. Le competenze si acquisiscono all’università. Perché non è un uomo chi è competente ma non ha alle spalle una formazione che gli consenta di svolgere con retto giudizio e adeguata comprensione la professione che in seguito sceglierà. Quindi niente scuola-lavoro, ma scuola a tempo pieno e, per allacciarci a quanto abbiamo detto, meno computer a scuola e più libri di arte, storia, scienze, matematica, filosofia, letteratura in tutti gli ordini scolastici. E visto che il mondo è ormai globalizzato, l’inglese fin dalla prima elementare, insieme alla filosofia, a cui già dall’infanzia ci si affaccia con le domande che i bambini si pongono. L’indirizzo “umanistico”, che ha sempre caratterizzato la nostra scuola, non solo va mantenuto, ma nell’età della tecnica va addirittura incrementato e non sostituito con un indirizzo tecnico, perché solo l’indirizzo umanistico può portare lo studente alla “maturità”, termine oggi sostituito, non a caso, con “esame di Stato”, come se la maturità di uno studente non fosse più lo scopo ultimo della scuola. “
Umberto Galimberti, Il libro delle emozioni, Feltrinelli (collana Serie bianca), settembre 2021. [Libro elettronico; corsivi dell’autore]
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Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente.
Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano. Un atteggiamento radicale non nasce dal nulla, non prende forma nel vuoto: esso parte dalle radici, e la radice, come disse Karl Marx, è l’uomo.
Questa grande affermazione, «la radice è l’uomo», non va intesa in senso positivistico o meramente descrittivo: quando parliamo dell’uomo non lo consideriamo come una cosa, ma come un processo; parliamo, quindi, del suo potenziale creativo, della sua capacità di sviluppare ogni suo potere, il potere d’una più grande intensità di essere, il potere di una più grande armonia di vita, d’un più grande amore, d’una più grande consapevolezza.
Ma parliamo anche dell’uomo come di un essere che si può corrompere, di un essere il cui potere di agire si può trasformare nella libidine di dominare sugli altri, il cui amore per la vita può degenerare nel gusto folle di distruggere la vita.
Questo radicalismo umanistico che mette in discussione drasticamente la realtà è guidato da una chiara intuizione della dinamica della natura umana e dalla preoccupazione per la crescita e il pieno sviluppo dell’uomo. In antitesi con l’attuale concezione positivistica, esso non è obiettivo, se per obiettività si intende il teorizzare senza che il processo del pensiero sia sostentuto e nutrito da un ideale profondamente sentito. Ma è anche troppo obiettivo se ciò significa che ogni fase del processo di riflessione poggia su una evidenza criticamente scrupolosa, e soprattutto, se accetta di mettere in dubbio le premesse del senso comune.
Tutto ciò significa che il radicalismo umanistico interroga ogni idea ed ogni istituzione su di un punto essenziale, quello cioè di sapere se essa aiuti oppure ostacoli la capacità dell’uomo di raggiungere una maggiore pienezza di vita, una maggiore felicità. Non è questa la sede per dilungarsi in una esemplificazione del tipo di acquisizioni del senso comune che vengono poste in discussione, dal radicalismo umanistico. E tanto meno ciò è necessario, dal momento che gli scritti di Illich raccolti in questo libro si occupano proprio di simili esempi, come l’utilità della scuola obbligatoria per tutti o dell’attuale funzione del prete nella società. Molti altri potrebbero essere enumerati, alcuni dei quali, del resto, emergono anche dalle pagine di questo libro. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare appena un poco il moderno concetto di progresso, inteso come un costante aumento della produzione, del consumo, della velocità, dei livelli massimi di efficienza e di profitto, e della possibilità di calcolare ogni attività in termini economici senza alcuna considerazione degli effetti che ne derivano per la qualità della vita e della crescita dell’uomo; oppure il dogma secondo cui l’aumento dei consumi renderebbe l’uomo felice, o quello per cui l’organizzazione imprenditoriale su larga scala deve necessariamente essere burocratica ed alienante, o la concezione che ripone lo scopo della vita nell’avere (e nell’usare) e non nell’essere; l’idea secondo cui la ragione è un fatto che riguarda l’intelletto e non ha nulla a che fare con la vita affettiva; la convinzione che il radicalismo è la negazione della tradizione e che l’opposto di “legge ed ordine” è la scomparsa di qualsiasi struttura. In breve, il dogma secondo cui le idee e le categorie che si sono sviluppate con l’affermarsi della scienza moderna e dell’industrializzazione sono superiori a quelle di ogni cultura anteriore ed indispensabili per il progresso del genere umano.
Il radicalismo umanistico mette in discussione tutti questi presupposti e non teme di giungere all’espressione di idee e soluzioni che possono suonare assurde agli orecchi della gente. Io ritengo che il grande valore degli scritti di Illich consista precisamente nel fatto che essi rappresentano un radicalismo umanistico fra i più completi e carichi di immaginazione creativa. L’autore è uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione, brillante nello scrivere e fertile nell’immaginazione: ogni suo convincimento è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale. L’importanza del suo pensiero, quale emerge da questi e dagli altri suoi scritti, consiste nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine quotidiana. Mediante uno choc creativo gli scritti di Ivan Illich comunicano un messaggio; solo chi reagisce esclusivamente con rabbia a quelle che gli sembrano semplici assurdità, non può intendere questo messaggio; per gli altri, per tutti, essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo.
Erich Fromm, Prefazione a Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”, Armando, Roma 1973
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Giorgio Locchi
WAGNER, NIETZSCHE E IL MITO SOVRUMANISTA
Nuova edizione
con prefazione di Adriano Scianca
La Musica tonale europea – in costante e segreto conflitto con il Verbo – ha educato ad un sentimento nuovo del Tempo della Storia: un tempo tridimensionale e non più lineare, in cui è ritrovata la pienezza dell’umano e del suo divenire. Da questo sentimento è scaturita una visione-del-mondo nuova, che ha per la prima volta invaso il dominio del linguaggio con l’opera artistica di Richard Wagner e, subito dopo, con quella filosofica di Friedrich Nietzsche.
Nasce così il Mito sovrumanista e con esso entra nella storia il vasto movimento spirituale, artistico, filosofico e infine politico che, in conflitto con la bimillenaria tendenza umanistico-egalitarista, ha dominato il XX secolo europeo. Il saggio di Giorgio Locchi mette in luce la lunga gestazione «musicale» del Mito, ne coglie la nascita e ne analizza le strutture, permettendo una più esatta comprensione della «parentela» che unisce Nietzsche a Wagner.
Ha ragione Adriano Scianca, nella sua bella Prefazione, sostenendo che: “Senza timore di esagerare, possiamo affermare che il presente volume sia il testo più originale e profondo pubblicato nella seconda metà del Novecento nell’ambito della cultura non conformista. Un volume spesso non facile, ma che apre una tale quantità di piste filosofiche e ribalta la lettura della storia moderna in modo così radicale che è difficile non restarne stregati. Si tratta, in ogni caso, di un libro con cui «fare i conti»: per chi aderisca a una visione del mondo identitaria, antiliberale, vitalista, nazionalrivoluzionaria, per chi si senta a vario titolo erede dei fermenti rivoluzionari che nella prima metà del Novecento infiammarono il mondo, il saggio di Locchi costituisce l’occasione per un radicale e spietato confronto con la propria percezione di sé, una messa in prospettiva di tutto quello che sappiamo o crediamo di sapere su noi stessi”.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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Avrei dovuto darmi prima alla contabilità
Google Foto mi ricorda che otto anni fa ero a Parigi per la gita di 5° superiore, mentre oggi sono a casa a fare un riassuntone di Contabilità per la "verifichina" nel pomeriggio...
Sì, mi sono iscritta ad un nuovo corso gratuito per Addetta alla Segreteria con accenni di contabilità, perchè col digital marketing non sembra ci sia da campare al momento e allora mi butto sull'unica soluzione che mi sembra possibile: darmi ufficialmente alla fatturazione.
Sapevo che sarebbe andata a finire così: c'avevo questo sentore già alle medie, quando per scherzo dicevo che sarei finita a fare la segretaria perchè ero troppo precisa. E mo' guarda, cerco di colmare le basi di contabilità che non ho (la fatturazione elettronica si riesce a fare anche senza sapere cos'è il regime fiscale e la partita doppia, change my mind).
Se fossi stata più lungimirante, avrei scelto Ragioneria come indirizzo delle superiori invece che il Liceo Linguistico e, se proprio avrei voluto continuare a studiare, un Corso di Laurea in Economia Aziendale al posto di Lingue e Letterature Straniere, lo dico sempre. Ma non è andata così: ho scelto le mie passioni invece che la migliore delle stradi possibili per il mio futuro e adesso si paga pegno.
Perché dico così? Avrei sicuramente odiato quella scuola e quelle materie, sarei arrivata esausta e sfinita alla Maturità e probabilmente avrei smesso di studiare, però avrei avuto più opportunità di trovare un lavoro subito come segretaria e adesso avrei già sei anni di contributi pagati. Invece ho solo una laurea triennale, un anno di servizio civile, una qualifica professionale, due tirocini e zero contributi pagati allo Stato perchè non riesco a raggiungere la soglia minima per versarli e il rimborso spese non è valido a fini fiscali. Quindi in sostanza ha più chance di trovare un'occupazione chi termina la scuola con il diploma da ragioniere piuttosto che una laureata in ambito umanistico. Adoro questo mondo.
Va bene, per oggi ho inveito abbastanza contro me stessa e l'assurdità del mercato lavorativo. Ora basta procrastinare. Torno ai regimi fiscali, che è meglio.
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Umanisti
Chissà se dico un'eresia, affermando che i filosofi svelano i misteri della natura umana e dell'universo ancor prima degli scienziati, utilizzando come unico strumento di misurazione scientifica il loro pensiero. Agli scienziati spetta poi il compito materiale di dimostrare quelle teorie.
Forse gli scienziati migliori sono filosofi, umanisti al servizio della scienza.
...
Dopo aver scritto questo post, per puro caso, mi è capitato di leggere un articolo che tratta proprio di questo argomento. Allora ho pensato a tutte quelle volte che i libri sono venuti a cercarmi per darmi delle risposte.
Credo che la legge dell'attrazione tra me e l'universo esista, esiste eccome, ma solo per le questioni puramente intellettuali. Quando si è trattato di bisogno di soldi, amore e soddisfazioni, l'universo ha sempre fatto le orecchie da mercante :(
"Il sapere, sia esso umanistico o scientifico, non può trovare spazio solo nelle accademie, ma deve riverberare nella comunità ed essere raggiungibile dalle persone, in modo da nutrirne l’esistenza e stabilire un rapporto di fiducia reciproca, un dialogo costruttivo e sistematico, altrimenti l’erudizione resta sterile e fine a se stessa."
Il link :) -> https://thevision.com/cultura/human-brains-fondazione-prada/
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Cultura e consumismo
Quando si parla di cultura si può fare riferimento alla cultura intesa in senso umanistico, una cultura che eleva lo spirito, raffinata. Una cultura “alta” che si distingue da quella “bassa”, che è quindi frutto anche di un processo di acculturamento individuale. Si può avere poi un approccio diverso, di tipo sociale, relativista e non valutativo. Un approccio che guarda alla cultura nella sua accezione pluralista e partendo da questo disegno potremmo considerare la cultura di una nazione come l’insieme delle pratiche popolari e di quelle alte.
Per Gramsci “cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.”
Se in un qualche modo oggi la cultura alta arranca ma resiste, quello a cui si è assistito negli ultimi decenni è stata la progressiva segmentazione e dissoluzione della cultura popolare. Una cultura fatta di pratiche quotidiane, usi e costumi che venivano tramandati. Anche chi aveva solamente il diploma elementare possedeva una cultura, ovviamente bassa e non accademica, parallela al proprio status sociale, e che riguardava comunque un sapere concreto della vita.
Pasolini descrisse già questo processo oltre quarant’anni fa. Egli attribuiva la responsabilità di questo fenomeno alla società che si era strutturata nel secondo dopoguerra, la società dei consumi. Ne parlava come un nuovo fascismo, anche peggiore di quello precedente. Il fascismo del ventennio non era riuscito a intaccare le anime particolaristiche presente in Italia. Il consumismo invece, pur agendo in un regime democratico, aveva invece omologato gli usi e i costumi degli italiani. Attraverso la televisione - e oggi potremmo allargare il campo dei mezzi di comunicazione - si è proceduto alla distruzione della precedente cultura popolare, ma non è stato lasciato nulla di nuovo, se non l’asservimento al consumo. Ma non solo, anche il sistema educativo è l’altro mezzo attraverso cui la massa viene sempre di più indotta a desiderare le stesse cose, a comportarsi allo stesso modo. Non subiamo descrizioni di quello che dovremmo essere, ma rappresentazioni, modelli culturali con cui ci confrontiamo ogni giorno e che ci vengono posti come idealtipo. Si potrebbe certo assumere il consumismo come nuova forma di cultura, cosa probabilmente vera, ma palese risulta essere il suo contenuto avaloriale, ed è questo uno dei principali motivi che muovono la critica di Pasolini.
“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui «deve» obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza.”
L’attualità della sua critica risulta oggi evidente dalla sempre maggior dipendenza che deriva dalla creazione di una grande massa di schiavi del consumo. Tutte le forme di culture del passato, quelle popolari vengono eliminati in quanto inutile nel sistema di produzione – consumo. Non si tratta solo della distruzione della cultura contadina preindustriale, ma anche del rifiuto totale dei suoi valori. La cultura contadina era basta sulla produzione al fine del sostentamento. Il consumismo va oltre: il consumo deve essere eccessivo, smisurato. Bisogna consumare il superfluo, e la vera forza di questo nuovo potere sta che sia di fatto impossibile concepire qualsiasi altro tipo di modello.
È questa la sua potenza distruttrice, poiché “nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta”
Consumismo come conseguenza di nuove relazioni di potere che nonostante i suoi aspetti di democraticità e libertà nasconde un volto assolutamente totalitario e conformante. Pasolini non vuole tessere le lodi del passato, ma è disgustato dalla nuova civiltà che ha preso piede, ma è cosciente che un ritorno al passato sarebbe disastroso. Tuttavia auspicava la possibilità di una correzione di questo sviluppo. A suo tempo egli intravedeva nel PCI l’unica forza in grado di dare voce alle aspirazioni popolari senza che queste venissero schiacciate dal conformismo della società dei consumi.
Oggi le parole di Pasolini appiano a distanza di anni come profetiche. La domanda che oggi ci si può porre è se davvero quello del consumismo sia un processo irreversibile il cui unico arresto sia la distruzione del nostro ecosistema o se sia possibile pensare, immaginare e concretizzare modelli alternativi di società in cui la grande massa non sia semplicemente un ingranaggio della catena di riproduzione della società stessa, ma possa appropriarsi dei mezzi e degli strumenti per un progresso collettivo.
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Gli Imperiali e l'arte. Uno studio sul collezionismo in Terra d'Otranto
Castello-Residenza Imperiali, Francavilla Fontana (Foto Alessandro Rodia)
di Mirko Belfiore
L’edificio che più di tutti testimonia il potere degli Imperiale nel Salento è sicuramente il Castello-residenza di Francavilla, sede di una delle corte fra le più vivaci dell’area. Sopravvissuto alla caduta del potere feudale e divenuto fra il XIX e il XX secolo, sede del potere civile, Esso è stato recentemente sottoposto a un importante progetto di recupero. Ristrutturato nelle linee architettoniche quanto negli ambienti interni, ciò che si sta delineando per questo edificio è un nuovo ruolo da protagonista come contenitore culturale cittadino, progetto che ha avuto come prima tappa la realizzazione del polo museale archeologico del MAFF.
Il visitatore che percorre queste stanze rimane piacevolmente entusiasmato dalla vista di una moltitudine di elementi che nel corso dell’età moderna hanno portato questo complesso a trasformarsi da rocca fortilizia cinquecentesca a dimora nobiliare: la Sala del camino, il loggiato barocco, l’importante atrio d’ingresso con l’elegante scalone monumentale, l’imponente ballatoio interno, gli affreschi della cappella gentilizia e il caratteristico fossato, antico luogo di “delizie” floreali.
Si volesse trovare il lato negativo nell’analisi delle opportunità offerte da questo interessante luogo, unico nel suo genere anche per il contesto in cui si trova, questo lo possiamo riscontrare nella totale assenza di quelle testimonianze artistiche, arredi o suppellettili che durante i secoli XVII e XVIII, si disponevano nei diversi vani e di cui oggi poco o nulla è rimasto.
La prova che all’interno di questo edificio fosse presente un cospicuo numero di manufatti, anche di un certo valore e fattura, non è il risultato di ricostruzioni a posteriori o ipotesi azzardate, ma è l’esito di un’analisi approfondita di alcuni degli inventari notarili fatti redigere dai principiali membri di Casa Imperiali. In queste importanti carte ritroviamo una consistente lista di oggetti d’arte, opere cartacee e mobilio di pregio, tutti facenti parte di un’importante collezione creata durante i due secoli di governo della famiglia in Terra d’Otranto e disposta non solo in questo luogo ma in altre residenze di proprietà.
Tramite la lettura di questi elenchi possiamo comprendere non solo l’entità del patrimonio immobiliare che la famiglia accumulò, successivamente vittima di smembramenti e dispersioni, ma cogliere anche importanti informazioni sul gusto e sulle scelte di indirizzo artistico che essi perseguirono. A seconda delle opportunità presentatesi, Essi poterono accaparrarsi capolavori provenienti da tutt’Italia, chiamare a servizio maestranze provenienti dalla madre patria genovese, servirsi dell’operato di artisti di grido della scena napoletana o romana, contesti che fra l’altro ben conoscevano, o impiegare artisti facenti parte della vivace scuola pittorica locale, creatasi all’ombra del loro mecenatismo.
Prima di avventurarci nella lettura dei numerosi inventari di Casa Imperiale a noi pervenuti, argomento dei prossimi articoli, trovo illuminante fare chiarezza sulle dinamiche che hanno portato alla realizzazione di queste interessanti raccolte.
Lo studiolo di Federico da Monetefeltro a Urbino (XV secolo)
Decifrare in poche righe il “mestiere” del collezionista non è un proprio un compito facile, visto che lo stesso rimane un percorso affascinante e dai mille risvolti, che nella scena italiana trova numerosissimi spunti e approfondimenti. Tentando di tracciare alcune linee guida, possiamo rimandare alla seconda metà del Quattrocento, durante quel periodo passato alla storia come il Rinascimento, il punto di svolta per la nascita di alcune delle più famose collezioni d’arte.
Tutto ebbe inizio nelle dimore principesche di alcune città del Nord Italia, sedi di corti sfarzose, e dove uomini e donne di alta caratura, amanti di qualsiasi tipo di espressione artistica, fecero realizzare dei piccoli ambienti privati: gli studioli o camerini. Quivi, immersi fra volte affrescate o arredamenti dai pregevoli intarsi lignei, si trovavano gelosamente custoditi un numero impressionante di manufatti: dipinti, sculture, opere in porcellana, gemme preziose, monete antiche e tutto ciò che incuriosiva o accarezzava la curiosità del nobile proprietario. Questo era un luogo intimo e riservato, perfetta sintesi dello status, del carattere personale e degli interessi del committente e dove lo stesso poteva coltivare le proprie passioni nei momenti di riflessione dalle fatiche del quotidiano. Fra i più celebrati ricordiamo quello di Federico di Montefeltro a Urbino, Isabella d’Este a Mantova, Francesco I de’ Medici a Firenze e Alfonso I d’Este a Ferrara. Tutto ciò, naturalmente, era a uso e consumo esclusivo del proprietario di casa, il quale poteva decidere di aprire la visita di questo luogo alla sua cerchia ristretta o consentire visite a personaggi di una certa importanza e di passaggio come potenti, diplomatici o ecclesiasti. Con la realizzazione di questi spazi si delinea un vero e proprio passaggio di consegne fra l’ambiente monastico, fino allora principale tenutario di tutto ciò che era sapere e arte, a quello umanistico, nuovo luogo di sviluppo e proliferazione del clima intellettuale dell’epoca.
Questo percorso vide un decisivo sviluppo nel periodo a cavallo del XVI e del XVII secolo, quando quel piccolo spazio andò a trasformarsi in un ambiente più ampio, più sontuoso e aperto al pubblico: la galleria. Si decise che l’espressione artistica doveva diventare anche e soprattutto esaltazione del potere raggiunto, dove il padrone di casa, nobile o arricchito che fosse, potesse mettere in mostra i propri “muscoli” ostentando la ricchezza, il ruolo politico e il livello del bagaglio di conoscenze culturali e filosofiche raggiunte.
In Italia, gli esempi di questo genere si sprecano. Non si possono non conoscere le vicende di corti principesche dagli echi leggendari come quelle sviluppatesi a Mantova con i Gonzaga, a Ferrara con gli Estensi, a Milano con gli Sforza, a Firenze con i Medici e a Roma con i vari papi saliti al potere, dove artisti dai nomi celebri vennero protetti da mecenati altrettanto celebri come Lorenzo il Magnifico, Vincenzo I e Ferdinando Gonzaga, papa Giulio II o Ludovico il Moro. Questi personaggi ben conoscevano il massaggio che questo genere di opere veicolava, tale da poter garantire una più rapida ascesa nel consenso.
Questa trasposizione di valori avvenne più velocemente e in maniera più diffusa nell’ambito dell’Italia centro-settentrionale, rimanendo inizialmente più anonimo nel contesto meridionale. Persino in un centro importante come Napoli, una città fra le più grandi e popolose dell’epoca, capitale del Regno sia in età angioina che in quella aragonese, non si rintraccia una collezione regia valevole di questo nome. Questa mancanza si rifletteva sicuramente sulle nobiltà partenopea quanto su quella sparsa nelle province periferiche, le quali senza un modello da imitare, non si posero mai il problema o l’obiettivo di realizzare tali raccolte, con tutti i risvolti poc’anzi elencati. Sia chiaro, non che mancassero uomini di cultura, mecenati o artisti di grido, ma la “febbre” del collezionismo mancava ancora di quella spinta che arriverà solo fra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento.
Ciò che scaturì in questo frangente fu una sorta di scontro fra le numerose sollecitazioni esterne e la nascita di una specificità culturale, dibattito che ebbe come risultato l’esplosione di una vera e propria stagione artistica, carica di novità e originalità. Il punto di non ritorno può essere fatto risalire alla diffusione delle disposizioni scaturite dal Concilio di Trento e dal successivo movimento controriformato, evento epocale che dalla seconda metà del XVI secolo ebbe un’influenza diffusa in tutti i campi dello scibile umano. Tutto ciò si tradusse in arte in quella esperienza culturale passata alla storia come Barocco e della quale sempre Napoli fu una delle massime interpreti.
Concilio di Trento, incisione (1545-1563)
Al sorgere del XVI secolo, il Regno di Napoli era entrato ufficialmente a far parte dei domini spagnoli, e con l’istituzione del Vicereame, tutto il Meridione si ritrovò inserito nel composito Sistema imperiale iberico. Questa nuova condizione non si tradusse in una completa subordinazione alla Spagna asburgica, grazie anche al governo di alcune figure di rilievo come il Viceré Don Pedro de Toledo che contribuì alla diffusione di una certa vivacità in tutti i campi, fra i quali la cultura.
Ritratto di Don Pedro Álvarez de Toledo con le insegne dell’Ordine di Santiago(Tiziano Vecellio, 1542, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek)
L’influenza dell’autorità spagnola, la Controriforma e la massiccia affluenza di genti straniere (fiamminghi, castigliani, toscani e soprattutto genovesi) spostarono sempre di più il baricentro della tradizione partenopea verso una soluzione molto più internazionale. In campo artistico fu paradossalmente sotto una dominazione come quella iberica, che la città conobbe un periodo di ricchezza e prosperità. Questa venne contraddistinta da una maturazione artistica senza precedenti che sfociò in un linguaggio riconoscibile in architettura, nelle decorazioni marmoree, negli stucchi e anche in pittura, grazie alla nascita di una maniera raffinata e fastosa che ben si sposò con l’animo passionale partenopeo. Volendo cogliere gli effetti scatenanti di questa nuova stagione, si possono identificare due eventi nodali.
Le sette opere di Misericordia (Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1606-1607, olio su tela, Napoli, Quadreria del Pio Monte della Misericordia)
In primis, tutto l’ambiente partenopeo venne sconvolto dall’energia cupa e dall’estremo naturalismo dell’artista lombardo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, presenza che diede un ulteriore spinta alle trasformazioni già in atto. Questi, in fuga da Roma per l’omicidio del rivale Ranuccio Tomassoni da Terni, si rifugiò a Napoli in due occasioni, nei bienni 1606-1607 e 1609-1610, venendo assoldato da committenze partenopee per la realizzazione di alcuni dipinti, vista la grande fama di artista rivoluzionario e dannato.
Ritratto del Cardinale Filomarino (Giovan Battista Calandra, 1642, olio su tela, Napoli, Chiesa dei Santi Apostoli)
Il secondo grande contributo lo possiamo ricondurre alla comparsa in città di alcune figure di notevole carisma come il Cardinale Ascanio Filomarino, potentissimo vescovo di Napoli dal 1641 al 1666 e il fiammingo Gaspar de Roomer. Il primo fu un riconosciuto protettore delle arti e facoltoso collezionista, mentre il secondo era un ricchissimo mercante giunto a Napoli da Anversa nel 1634, e proprietario di una notevole raccolta di dipinti che annoverava più di 1500 tele. A tutto ciò va aggiunta la fervente attività dei vari ordini mendicanti, figli dell’azione controriformata e attivi in città già dalla fine del XVI secolo.
Queste circostanze diedero l’opportunità ai pittori locali, in alcuni casi già tecnicamente validi, di poter essere presi in considerazione in misura maggiore dalla committenza napoletana. Quest’ultima, naturalmente, non smise mai di accaparrarsi i servigi artistici di maestri provenienti da lontano come Guido Reni (documentato in città nel 1612 e nel 1621-22), Domenichino (presente in città fra il 1631 e il 1641 per dipingere la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo) e Lanfranco (attivo a Napoli fra il 1634 e il 1646), o di accaparrarsi testimonianze pittoriche di artisti stranieri fiamminghi quotati come il Rubens o il Van Dick. Essa incominciò a prendere in considerazione gli artisti della scuola locale, i quali avevano dimostrato di aver maturato una nuova maniera pronta a rispondere alle loro esigenze.
Il Paradiso, particolare della cupola (Domenichino, Giovanni Lanfranco, pittura a fresco, 1630-1643, Napoli, Real cappela del Tesoro di San Gennaro)
Questa azione congiunta diede una spinta rivoluzionaria, tale da alimentare quella splendida stagione artistica che contraddistinguerà Napoli durante tutto il Seicento e buona parte del Settecento e che non si limitò ad essere solamente una copia del caravaggismo e dei suoi interpreti più importanti, ma che possedeva la forza di trasformarsi in una fucina creativa molto prolifica. Fra gli artisti che per primi reinterpretarono la lezione caravaggesca troviamo i nomi di Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera, Belisario Corenzio e per i quali venne coniato il termine di “tenebrosi”, epiteto assegnatogli per il potente iperrealismo e l’uso di toni cupi e pacati. Se l’arrivo del Merisi fu l’ascendente sugli artisti della prima metà del secolo, i restanti cinquanta furono condizionati dai traumi della grande peste del 1656, tragico evento che decimò violentemente la popolazione napoletana. Le reazioni a questo avvenimento fecero emergere una decisa avversione al precedente realismo, soluzioni che portarono all’utilizzo di quell’acceso cromatismo di derivazione veneta che andò a illuminare a giorno i colori tenebrosi e gli sfondi scuri delle realizzazioni precedenti. Gli artisti protagonisti e principi di questa stagione furono sicuramente: Luca Giordano e Francesco Solimena, senza dimenticare Mattia Preti e Paolo de Matteis.
Rappresentazione della peste del 1616 (Carlo Coppola, XVII secolo, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino)
Nella capitale partenopea si diffuse quella carica innovativa che oltre a trovare terreno fertile in città, seppe diffondersi capillarmente nelle aree periferiche del regno che, rotte le prime resistenze, non fecero altro che uniformarsi alla nuova tendenza. Ai confini di questo fenomeno emerse nella sua particolarità il territorio salentino, dove si svilupperà una cultura figurativa che coinvolgerà tutte le arti maggiori e che prese il nome di “Barocco leccese”.
L’ambiente pugliese, molto tradizionalista, rimase inizialmente arroccato sulle proprie tradizioni tardomanieriste di ambito veneto, vere e uniche protagoniste dei primi vent’anni Seicento, favorite dalla presenza continua e costante, soprattutto nelle aree del barese e del brindisino, di quei mercanti veneti in viaggio da e verso la Serenissima. Il punto di svolta arriva nel terzo decennio, allorquando incomincerà a farsi spazio la spinta incontenibile del nuovo gusto napoletano, il quale decreterà con le sue novità una vera e propria rivoluzione.
Annunciazione (Artemisia Gentileschi, 1630, olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte)
Basta elencare le numerose testimonianze dirette di tutti i dipinti che con abbondanza giunsero in Puglia dalle botteghe di pittori affermati e attivi a Napoli come Pacecco de Rosa, Andrea Vaccaro e Jusepe de Ribera, tendenza che continuerà durante tutto il Settecento con le opere di Luca Giordano, Francesco Solimena e Mattia Preti. In aggiunta a ciò, vanno registrati i soggiorni di artisti che a Napoli si formeranno ma che in Puglia troveranno importanti committenze come: Paolo Finoglio a Conversano, Francesco Guarini a Gravina e Cesare Fracanzano a Barletta. Infine, il meglio della pittura pugliese attiva più o meno stabilmente nella regione, fu totalmente influenzata dalla maniera napoletana. Questa tendenza fu incrementata dal fenomeno cosiddetto degli “artisti vicari” e che portò molti artisti delle provincie a spostarsi verso Napoli per apprendere uno stile affermato e prestigioso. Questi poi, ritornando nei luoghi d’origine, diffusero il nuovo “verbo” accaparrandosi le committenze della nobiltà locale desiderosa dei lori servigi.
Il giudizio di Salomone (Francesco Solimena, 1707, olio su tela, collezione privata)
Ciò fu possibile in maniera evidente in Puglia, dove la nobiltà trovava negli artisti locali una risorsa a buon mercato e molto più incline ad accontentare i propri voleri e i propri capricci.
In Terra d’Otranto e a Francavilla in particolare, gli esempi più rilevanti sono da ricondurre ad alcuni artisti: Domenico Antonio Carella, presente in numerosi centri del barese, del brindisino e del tarantino, Ludovico delli Guanti e la sua bottega, molto attivo a Francavilla, i fratelli Bianchi di Manduria o i maestri cartapestai Pinca e Zingaropoli.
Questa specie di “provincializzazione” o riduzione allo standard napoletano non deve essere letta come una discesa a un livello inferiore perché, mediante il tramite partenopeo, la cultura figurativa pugliese si spostò verso: “una scena ben più ampia e organica di quella alto adriatica e greco bizantina, permeata ancora da influenze lombarde e toscane tutto sommato minori che per decenni erano stati i principali stimoli esterni di differenziazione e di originalità rispetto alle restanti aree meridionali fino a tutto lo stesso periodo umanistico” (G.Galasso).
Basilica di Santa Croce a Lecce, particolare del rosone, massimo esempio del barocco leccese.
Tutto ciò fu possibile perché la feudalità pugliese non ricevette dall’autorità spagnola duri colpi come nelle altre zone del Meridione. Anzi, antiche e nuove famiglie come gli Acquaviva di Conversano, gli Orsini di Gravina, i Carafa d’Andria e i Caracciolo di Martina Franca, insieme agli Imperiali di Francavilla, raggiunsero proprio nel XVII secolo, il culmine della loro fortuna. Essi incrementarono il loro collezionismo privato commissionando cicli pittorici e creando consistenti quadrerie da inserire nei sontuosi palazzi di proprietà. Questi dovevano essere arredati secondo una vera e propria parata ufficiale, tanto da assomigliare palesemente alle fastose dimore partenopee, sia che questi si trovassero nella provincia più sperduta quanto nella centralissima Napoli.
Collezioni sterminate che avevano una collocazione ben precisa, e che nel caso degli Imperiali erano disseminate lungo le numerose proprietà di famiglia, dal nucleo feudale francavillese fino ai palazzi di Latiano, Manduria o Avetrana, senza dimenticare le dimore stagionali di Massafra, Carovigno e Mesagne, tutti luoghi dove questi manufatti era disposti con attenzione e cura e che proprio tramite la lettura degli inventari notarili possiamo tentare a riordinare.
(Continua)
Palazzo Imperiali-Filotico di Manduria e Palazzo Imperiali di Latiano
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A. Foscarini, Armerista e notiziario delle Famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra D’Otranto (oggi province di Lecce, Brindisi e Taranto) estinte e viventi, edizioni A. Forni, Bologna 1971.
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Michele Dantini - Il momento Eureka. Pensiero critico e creatività
Michele Dantini – Il momento Eureka. Pensiero critico e creatività
In ambito umanistico l’innovazione comporta, con la definizione di inediti “alberi del sapere”, la drastica mutazione di criteri di giudizio estetico e morale. Come accade che d’un tratto rifiutiamo le nostre abituali prospettive di valutazione? Quali patti o alleanze tra discipline sembrano improvvisamente vincere l’arida routine dello specialismo accademico e congiurano a disegnare nuovi mondi?…
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AMARCORD 1953: Antonello Trombadori e il volto di Togliatti
Fin dagli anni della resistenza al nazifascismo mio padre Antonello fu radicalmente influenzato dalla personalità di Palmiro Togliatti di cui subiva il fascino intellettuale e desumeva in pieno la visione di un PCI libero da pregiudiziali ideologiche, del ‘partito nuovo’ impegnato nella rinascita nazionale e motore della ‘democrazia progressiva’ regolata sui principi della costituzione repubblicana. Dopo l’attentato del 14 Luglio 1948, una volta divenuto responsabile della vigilanza personale di Togliatti, egli identificò a maggior ragione la linea politica della ‘avanzata democratica’ nella persona stessa del segretario del PCI.
La difesa di Togliatti da ogni attacco o insidia politica esterna o interna (basti pensare alla latente rivalità di Secchia e altri dopo la costituzione del Cominform) alimentava il suo intransigente ‘togliattismo’ nel promuovere e diffondere il culto della personalità del ‘capo amato dei comunisti italiani’. E fu proprio mio padre, qualche settimana dopo la morte di Stalin, a celebrare il sessantesimo compleanno di Togliatti in una cerimonia che si svolse nel salone della Direzione del PCI, il 26 Marzo del 1953. Del discorso pronunciato da Antonello Trombadori l’Unità pubblicò due giorni dopo il brano finale, intitolandolo ‘Il volto di Togliatti’. In quel discorso, mio padre riassumeva la sua fiducia nel ‘Capo’ del partito identificandone la figura e l’opera in continuità con le componenti della unità nazionale italiana e della causa emancipatrice del moto democratico e socialista…(Duccio Trombadori)
Da l’Unità del 28 marzo 1953
IL VOLTO DI TOGLIATTI
(Diamo qui il brano finale del discorso pronunciato da Antonello Trombadori durante la cerimonia svoltasi presso la Direzione del PCI in onore del compagno Togliatti per il suo sessantesimo compleanno.)
“…Se Gramsci primo marxista-leninista d’Italia dovette storicamente essere l’uomo della lotta senza quartiere contro il nullismo opportunista dei capi riformisti perla costruzione di un partito rivoluzionario autentica avanguardia e vero stato maggiore della classe operaia italiana, Togliatti discepolo di Stalin e continuatore di Gramsci è l’uomo cui spetta storicamente di ritrovare l’immenso valore di tutte le lotte condotte dai socialisti italiani e che sa essere l’erede dei fondatori e dei capi delle prime cooperative, delle prime leghe, dei primi sindacati di classe, degli operai e dei braccianti italiani anonimi ed eroici animatori dei primi grandi scioperi del secolo passato e degli inizi del secolo nostro.
Se Gramsci, primo marxista-leninista d’Italia, fu il vindice dell’unità operaia e teorico dell’alleanza degli operai del Nord e dei contadini del Sud, Togliatti, continuatore di Gramsci e discepolo di Stalin, è l’uomo dell’unità della maggioranza del popolo italiano attorno alla bandiera della libertà e della democrazia, è l’uomo dell’unità d’azione col grande partito socialista fratello, è l’uomo della Resistenza e della Costituzione repubblicana, è l’uomo della lotta concreta per la Pace e per il Socialismo.
Se Gramsci, primo marxista e leninista d’Italia, fu l’uomo della critica conseguente e del combattimento senza quartiere contro tutte le mire reazionarie della borghesia italiana, Togliatti, continuatore di Gramsci e discepolo di Stalin è l’uomo che alla testa di una grande forza rivoluzionaria di massa, operaia e contadina, può finalmente rinfacciare ai gruppi dirigenti della nostra borghesia di non essere neppure alla altezza di quel poco e di quel molto di sincera coscienza nazionale, di quel poco e di quel molto di spirito progressivo del quale erano stati capaci in tempi lontani e recenti un Cavour, un Vittorio Emanuele II, un Giolitti, un Nitti.
Togliatti ha tolto alla borghesia italiana tutte le sue maschere e ha restituito alle forze di progresso della società italiana tutto ciò che alcuni uomini della borghesia, e la borghesia stessa in quanto classe, seppero per avventura realizzare nell’interesse della nazione durante il primo periodo della nostra storia unitaria.
Ecco perché egli ha formato ed educato attorno a sé un nucleo di uomini tali, la cui unità, capacità e devozione alla causa più d’una volta hanno stupito e deluso i poveri guitti che coltivano la chimera delle divergenze, della diversità di orientamento, sperando solo per questo di veder vacillare la forza e la struttura di combattimento del nostro partito, le linee di sviluppo storico della nostra lotta.
Ecco perché non c’è lavoratore, non c’è persona onesta di qualunque ceto sociale, nel mondo intero, che al nome d’Italia non accoppi per spontaneità di pensiero il nome di Palmiro Togliatti.
Noi siamo orgogliosi di ciò come comunisti e come italiani.
Da molto tempo alla nostra patria non accadeva nulla di simile.
In generale gli uomini politici della borghesia italiana in quanto difensori miopi, servili o riottosi, di ristretti interessi, hanno sempre costretto il nostro Paese a farsi conoscere come provocatore di controversie e fautore di aggressioni e di intrighi internazionali, attirandosi addosso la diffidenza e l’odio dei popoli.
Bisogna ricorrere all’esempio di Mazzini e di Garibaldi per trovare qualcosa di diverso. Essi si che nel passato furono capaci di farsi amare dai popoli oppressi e di fare amare da questi popoli il popolo nostro.
Tale è Togliatti.
Emulo di quei grandi ma molto più di loro conosciuto e amato oggi nel mondo, data la enormità della posta in gioco e la grandezza stessa degli eventi di cui tutti siamo storicamente attori e spettatori.
Dice un testo classico della dottrina marxista: “il grande uomo è grande non perché le sue particolarità personali attribuiscono una fisionomia individuale ai grandi avvenimenti storici, ma perché egli è dotato di particolarità che ne fanno l’individuo più capace di servire alle grandi necessità sociali della sua epoca, sorte sotto l’influenza di cause generali e particolari. Un grande uomo è un iniziatore, perché sa vedere più lontano degli altri e sa desiderare più fortemente degli altri.
Egli risolve i problemi scientifici sollevati dal corso anteriore dello sviluppo intellettuale della società, egli indica le nuove necessità sociali create dallo sviluppo anteriore dei rapporti sociali: egli si assume l’iniziativa dii soddisfare queste necessità. Egli è un eroe. Un eroe non nel senso di potere arrestare o cambiare il corso naturale delle cose, ma nel senso che la sua attività è una espressione cosciente e libera di questo corso necessario e incosciente. Consiste in ciò tutta la sua importanza e tutta la sua forza”.
A me pare di potere affermare che proprio nella consapevolezza di questo particolare metro della grandezza umana, che è l’opposto della grandezza dei superuomini, di coloro che appunto pretenderebbero di dare alla storia un propria assurda impronta individuale, risieda una delle ragioni principali della statura di rivoluzionario, di internazionalista e di patriota del compagno Palmiro Togliatti.
Compagno Togliatti,
le circostanze della vita e del lavoro mi hanno concesso alcune volte di trovarmi vicino a te nei più diversi momenti. Di lavoro, di riposo, allegri e drammatici, anche solenni.
Ho conosciuto il tuo volto da lungi, nei comizi, nelle assemblee, nelle grandi riunioni di popolo alle quali tu sei solito portare il saluto del nostro Partito e la direttiva di combattimento tra un uragano di plaudente consenso e di gioia.
Ho conosciuto il tuo volto durante la riunione ristretta di lavoro nel tuo ufficio di Segretario generale del Partito e nell’accogliente umanistico silenzio del tuo studio privato.
Ho conosciuto il tuo volto nella libera, spaziosa aria delle nostre montagne, davanti all’azzurro del nostro mare.
Ho conosciuto il tuo volto aggredito dal male e in lotta ravvicinata contro la morte.
Ho conosciuto il tuo volto subito dopo il grave intervento chirurgico che ti restituì dopo alterne vicende alla vita e alla lotta.
Sempre sul tuo volto ho rivisto prima di tutto tre cose: la calma, la ponderazione, la fermezza.
Eppure tu sei uomo di ardenti sentimenti, di slanci umani, di impeti poetici, di affetti sottili!
Chi più di te conosce e apprezza l’entusiastico calore delle manifestazioni popolari, il piacere della vita e della natura, in tutte le sue forme più varie e misteriose, l’amore della poesia, della cultura, dell’arte?
Ma chi più di te è al tempo stesso capace di insegnarci che questo calore, che questo piacere, questo amore, quest’ansia di sapere tanto più sono profondi e veri quanto meglio sono capaci di esprimersi in modo ordinato, corretto, armonicamente equilibrato tra lo slancio del cuore e la moderazione dell’intelletto, tra la spontaneità dell’emozione e la misura della dottrina?
Compagno Togliatti, chi più di te sa misurare il dolore umano e sa partecipare alla sofferenza di milioni e milioni di uomini e sa guardare in faccia la crudeltà della morte?
Eppure tu ci hai insegnato che dolore e sofferenza e tragedia, essi stessi debbono essere tali da diventare nel comunista, nell’uomo che tutto se stesso dedica alla causa del popolo e della emancipazione del lavoro, sorgenti di riflessione umana, di meditazione politica, argomenti di ragionamento, suggerimenti per elevare a sempre più nobili altezze il nostro punto di osservazione, armi per proseguire la lotta, in nome della quale soltanto questa vita è degna di essere vissuta!
Compagno Togliatti, io ho guardato intensamente il tuo volto davanti alla salma del compagno Stalin a Mosca, nella sala delle colonne dove sfilava muto e deferente il popolo sovietico e dove manifestavano il loro cordoglio i capi del proletariato internazionale.
E’ impossibile per me descrivere non dico i profondi sentimenti che certo si alternavano nell’animo tuo davanti alle spoglie mortali del capo, del maestro, dell’amico tuo che non era più: ma anche soltanto i moti appena percettibili che agitavano nella maestà del momento, i lineamenti aperti e chiari del tuo volto.
Ma mi pare di avere capito una cosa, e credo di non essermi ingannato, che in quel momento fra le grandi idee e i sentimenti profondi e il ricordo delle esperienze memorabili che attraversavano la tua mente, uno soprattutto era il problema che ti stava davanti:
il problema della tua responsabilità di capo rivoluzionario, di patriota italiano, di dirigente massimo nella lotta per la pace e per il socialismo. A quel sentimento di responsabilità tu facevi fronte con tutto te stesso, con tutta l’esperienza della tua vita, che ti tornava in quel momento contemporanea, con tutta la tua persona umana.
Ebbene, compagno Togliatti, io sono anche certo di interpretare la volontà di tutti i presenti augurandoti in questo giorno felice per te e per tutti i lavoratori italiani di poter tenere fede all’impegno preso in nome della tua responsabilità davanti alla salma del compagno Stalin in ogni circostanza, in ogni occasione, in ogni momento delle grandi lotte che stanno davanti a noi e a tutto il nostro generoso popolo.
Sono certo dii interpretare la volontà di tutti i presenti nel rinnovarti con tutto il cuore e con tutta l’anima, lo impegno nostro indefettibile di essere sempre pronti sotto la tua guida e secondo il tuo esempio a moltiplicare gli sforzi perché il giorno della vittoria della pace e del Socialismo si avvicini sempre più e sia luminoso e chiaro come tu fortemente lo desideri e lo sogni.”
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