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Guinea: Una Corsa per la Sopravvivenza nel Cuore della Giungla. Fernando Gamboa ci trasporta in una storia mozzafiato, tra pericolo, amore e lotta per la verità. Recensione di Pier Carlo Lava
Guinea di Fernando Gamboa è un avventuroso thriller ambientato nella giungla della Guinea Equatoriale, un romanzo che incolla il lettore alle sue pagine sin dal primo capitolo.
Guinea di Fernando Gamboa è un avventuroso thriller ambientato nella giungla della Guinea Equatoriale, un romanzo che incolla il lettore alle sue pagine sin dal primo capitolo. La protagonista, Blanca Idioa, una giovane antropologa in missione per l’UNICEF, si ritrova ingiustamente accusata di un crimine e inseguita da un pericoloso militare. Senza vie di fuga, Blanca si rifugia nelle profondità…
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" Restammo ancora a guardarci, io ben convinto a non porre per primo nessunissima domanda. Finché: «Io sono la zia» si decise riducendo la voce. «Lui dice che sono soltanto una cugina, ma in effetti sarei come e più di una zia, perché chi ha accudita la sua povera mamma fino all’ultimo se non io? Per sua fortuna è mancata prima di dover soffrire il peggio. Poi tutto è stato così difficile, nessuno potrà mai averne idea. Fino al giorno della disgrazia lo conoscevo poco, lui. Sempre stato in giro per il mondo, collegi accademia caserme. Ma da allora ho dovuto occuparmene io, si vede che così comandava il destino in Cielo. E sono ormai nove anni, sa?» Finii il caffè, rimasi con il bicchiere in mano. Il vetro era ancora fresco. «Nove anni» riprese in cantilena, quella sua voce sempre più sottile, «oggi è niente, ma in principio: oh, non voglio neanche ricordarlo il principio. Un giovane come lui, perdere gli occhi e una mano. Così: solo perché Nostro Signore non vuole nessuno contento a questo mondo. Alle manovre, giocando con una bomba. Dico giocando perché cosa sono poi queste manovre al giorno d’oggi?
Dia a me quel bicchiere.» «Il mio comandante mi ha spiegato» dissi. Per darmi un tono fissavo le mattonelle del pavimento. Ogni quattro formavano un disegno azzurro, una specie di arzigogolato fiore su fondo bianco. Dalle tende trasparenti alla finestra la luce si posava su quei fiori a raggera rilevandone l’esilità. «Un uomo come lui» seguitava adagio via via raggrinzendo e distendendo le rughe del volto. «Anche abbastanza ricco, sì. Lui ricco, mica io. Lo straccio d’una pensione di vedova, io. Ma lui: ricco. Neanche quarant’anni. Sano come un leone. E solo al mondo.» Schiacciai accuratamente la cicca nel piattino che mi aveva offerto come posacenere. «Gli stia ben dietro in questi giorni, mi raccomando» disse ancora. «Non deve mai lasciarlo solo. Lo sa, vero? E abbia pazienza, figlio mio, tanta santa pazienza. Non lo contraddica, non discuta per carità, gli dia sempre ragione, che lui parli o straparli. L’unica salvezza è rispondergli sempre sì. Sì e sissignore. Capito?» «Certo, signora.» "
Giovanni Arpino, Il buio e il miele, Baldini & Castoldi (collana Romanzi e Racconti, n° 5), 1993 [Edizione originale: 1969]; pp. 10-11.
#Giovanni Arpino#Il buio e il miele#Profumo di donna#Scent of a Woman#letture#leggere#libri#citazioni letterarie#narrativa#romanzi#letteratura italiana del '900#XX secolo#amicizia#amici#invalidità#cecità#Torino#Genova#Roma#Napoli#Italia#scrittori piemontesi#viaggio#servizio militare#amore#devozione#passione#innamoramento#fedeltà#guerra
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Il viaggio nel Masso Verde - storia e immaginazione
Una diretta di un’ora con approfondimenti riguardanti il primo volume di Storia di Geshwa Olers: Il viaggio nel Masso Verde.
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Lui è un realista. Uno che non legge romanzi, ma al massimo saggi, uno che non studia per diletto, ma solo per guadagno. Che non viaggia per sognare ma solo perseguendo un' utilità. In un momento che ci vede in disaccordo su qualcosa di abbastanza centrale una sua risposta è stata: "Guarda che così va a finire solo nei libri". Io ci ho riflettuto molto, ma alla fine la mia risposta sarebbe questa: "Quando mi hai detto "Un amore così esiste solo nei libri" ecco forse credi che io, nonostante la mia età e i miei trascorsi, sia soltanto un' illusa, che ancora crede che l'amore sia possibile. Un amore pieno, limpido, senza ombre, dove convivere in modo armonico e in piena collaborazione, senza egoismi e meschinità. Un amore dove l' altro sia meta e fine ultimo, viaggio e traguardo. Forse sono io che in fondo sono soltanto la sciocca che credo di essere."
Tuttavia non credo che gliela darò mai questa risposta. Un tempo gliel'avrei data, adesso avrei soltanto paura di passare per una lagnosa rompiscatole.
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Vertigini Letterarie
Leggendo Robinson, l'inserto domenicale de la Repubblica, mi è capitata nella sempre bellissima intervista a fine inserto di Antonio Gnoli questa risposta: la letteratura è insieme all'arte il più straordinario serbatoio di immagini e di suggestioni. Certi romanzi spiegano la geografia meglio di un geografo. Queste parole sono state dette, appunto, da un grande geografo italiano, Franco Farinelli. E mi sembrano perfette per parlare un po' di questa carta geografica della letteratura del '900 che è questo libro, che mi ha tenuto tutto il mese di Settembre sulle sue pagine.
Ho scoperto il nome di William Gaddis anni fa, dopo aver letto quel capolavoro che è L'Incanto del Lotto 49 di Thomas Pynchon. Del misterioso autore di quel libro non si sanno che poche cose, fotografie solo da giovane studente, tanto che alcuni sospettarono che fosse uno pseudonimo di Gaddis. Questa è leggenda, Pynchon esiste davvero, ma è vero invece che tutti e due sono i pilastri del post-modernismo letterario americano, che ha incantato tutta una serie di scrittori diventati iconici, con romanzi quali L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon (1973), Infinite Jest di David Foster Wallace (1996) e Underworld di Don De Lillo (1997) o Le Correzioni di Jonathan Franzen (2001).
Le Perizie è un libro mondo, scritto nel 1955 (1220 pagine) che è stato riproposto da Il Saggiatore dopo quasi 50 anni dalla prima edizione Mondadori, che all'epoca lo divideva in due volumi (1967). Racconta la storia di Wyatt, un giovane del New England cresciuto dal padre pastore protestante e la Zia Mary, ultra calvinista, nel ricordo di sua madre Camilla, morta in un viaggio in Spagna. Wyatt scopre di avere un talento particolare nel disegno, tanto che una volta arrivato a New York viene ingaggiato come falsificatore di antichi quadri rinascimentali fiamminghi da un ricco uomo d'affari, Recktall Brown (il cui nome è tutto un programma). Tutto intorno a questa vicenda gira un gruppo di personaggi secondari e delle loro storie, tra scrittori in cerca di successo, attrici, artisti, poeti, critici d'arte che tra feste senza senso e dissertazioni esistenziali si interrogano sul ruolo dell'arte, degli artisti e del loro senso nel mondo. Le perizie del titolo è un sottile gioco semantico: sono sia quelle tecniche che certificano l'autenticità di un'opera d'arte, ma sono anche in senso più ampio una disamina infinita che vede i personaggi coinvolti in un interrogarsi minuzioso sulla crisi del pensiero filosofico occidentale, dalla metafisica aristotelica alla storia dell’alchimia, dalla storia delle dottrine religiose alla storia dell’arte moderna.
Quello di Gaddis fu volutamente un tentativo di scrivere un libro che andasse oltre, sia in termini strutturali che soprattutto linguistici. È l'apoteosi della citazione, di oscuri pittori fiamminghi del 1500, di testi scritti da santi eretici, di luoghi veri e immaginari, in un mix che si pone a metà strada tra il Faust e Finnegans Wake. All'epoca fu un fiasco, tanto che Gaddis per oltre venti anni abbandonerà la letteratura e lavorerà come pubblicitario per grandi gruppi industriali americani, come l'IBM. Ritornerà al romanzo solo venti anni dopo, con un'opera forse ancora più audace, JR, che però stavolta fu un successo, tanto che vincerà nel 1976 il prestigioso National Book Awards, premio che Gaddis vincerà ancora nel 1994 con A Frolic Of His Own (non tradotto in Italiano).
Tra i suoi più grandi ammiratori c'è Jonathan Franzen, che ha intitolato il suo podcast e blog personale Mr Difficult, non a caso, dato che era il soprannome di Gaddis per via del suo stile barocco, a tratti schizofrenico, imperscrutabile e con la caratteristica, unica e singolare, di caratterizzare i personaggi per uno stile riconoscibile nel linguaggio (per spiegarmi meglio, come quei tic linguistici che si hanno, il ripetere spesso un intercalare, un modo di dire e così via). Nel 2002 Franzen scrisse sul New Yorker un articolo, intitolato Mr. Difficult: William Gaddis and the Problem of Hard-to-Read Books, in cui divide i lettori in due gruppi: gli Status Model, che cercano in un romanzo una forma d'arte, e i Contract Model, che cercano in un romanzo una forma di intrattenimento. In Gaddis lo sfoggio, nel caso de Le Perizie, di citazioni erudite, rimandi all'antropologia, all’esoterismo, alla teologia cristiana o alla pittura fiamminga sono segnali paradigmatici di Status Model, e fu questa analisi stilistica che portò lo stesso Franzen a passare dal romanzo forbito (e a tratti indimenticabile) ma "difficile" da leggere che fu Le Correzioni a quello più semplice strutturalmente e più godibile che fu il successivo Crossroads.
Leggendolo, ho detto alle mie amicizie di lettura che non lo avrei consigliato a nessuno, sebbene sia stata una delle letture più incredibili della mia vita. Perchè c'è uno sforzo intellettuale che, e non so nemmeno se sia in fondo un problema, non è solitamente più richiesto per lo meno in un momento personale di riflessione come può esserlo una lettura.
Lascio l'ultima riflessione alla traduzione: fu opera già nel 1967 del grande Vincenzo Mantovani, uno dei più grandi traduttori di autori anglofoni della nostra editoria, scomparso l'anno scorso. Lui aveva un amore viscerale per Gaddis, che mi rendo conto era una sfida da rompicapo per un traduttore ma che per lo stesso motivo era amatissimo da chi queste sfide le accettava. Lo stesso Mantovani lavorò per 15 anni alla traduzione di JR, che è in pratica un romanzo dialogo su un giovane genio adolescente che scopre un modo per fare soldi nella finanza, ma non trovò mai un editore disposto a pubblicarlo. Ci riuscì solo nel 2009, grazie alle Alet di Padova, che tra l'altro non pubblica più, rendendo introvabile questo altro romanzo così sui generis e forse per questo così fondamentale.
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Come sta andando la tua lettura di Fondazione e Terra?
Ciao! Ho finito di leggere Fondazione e Terra la settimana scorsa, e per il momento sto prendendo una pausa da Asimov per dedicarmi ad altre letture, ma in futuro sicuramente leggerò il resto del Ciclo dei Robot che mi manca (ossia la maggior parte, prima del Ciclo della Fondazione di Asimov avevo letto solo la raccolta Io, robot).
Il mio parere su Fondazione e Terra è lo stesso parere che ho avuto sull'intera serie, ossia che il viaggio mi è piaciuto di più della destinazione e che grazie a questa serie sono diventata un po' più eterofoba; sono sicura che il finale mi avrebbe lasciato di più se avessi avuto il contesto del Ciclo dei Robot e nello specifico su Daneel (che mi ha piacevolmente sorpreso rivedere dopo Fondazione Anno Zero), ma ora come ora non nego che mi abbia lasciato un po' a bocca asciutta. Comunque, Trevize mi è generalmente piaciuto come protagonista, e ho trovato interessante la sua dinamica con Pelorat e Bliss (che, a proposito, alla fine de L'orlo della Fondazione non mi andava affatto a genio, ma nel corso di Fondazione e Terra mi è cresciuta, quindi mi ha dato un po' ai nervi quando alla fine si è scoperto che per tutto il tempo le sue azioni erano condizionate da Daneel, ma questo sarà un papiro per un'altra volta); anche se a volte ho sentito la mancanza di Harla Branno e di Stor Gendibal, entrambi personaggi che mi erano piaciuti parecchio e che mi è dispiaciuto abbandonare, questa mancanza è stata colmata dall'interesse che ho provato per la missione di ricerca della Terra: non ho letto molti romanzi di fantascienza, avendo un'inclinazione maggiore per il fantasy, quindi non so quanto possa essere un luogo comune del genere, ma ho trovato affascinante il modo in cui il nostro pianeta è considerato qualcosa di lontanissimo e materia di leggende, di cui si può dubitare l'esistenza.
Se dovessi fare una classifica dei romanzi del Ciclo, ora che li ho finiti, penso che sarebbe:
Preludio alla Fondazione
Fondazione Anno Zero
L'orlo della Fondazione
Fondazione e Terra
Prima Fondazione
Seconda Fondazione
Fondazione e Impero
Mi sono dilungata un po' più di quanto mi aspettassi, ma comunque sono aperta a discutere ulteriormente della serie, se ti fa piacere :)
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Dune
LA RECENSIONE IN BREVE
- Dune mette in scena solo la prima metà del romanzo, gettando solide basi per reggere una storia estremamente complessa.
- Villeneuve prende decisioni che possono piacere o meno, ma dimostra piena consapevolezza della materia narrativa che sta adattando.
- Il minuzioso world building non rappresenta una premessa, ma è essenza stessa di Dune.
«Io sono un seme» è ciò che dice Paul Atreides a circa metà del romanzo scritto da Frank Herbert nel 1965. Una rivelazione indottagli della spezia geriatrica, la droga che altera la percezione spazio-temporale, e che impregna l’aria di Arrakis, o meglio conosciuto come Dune. È in quel momento che il ragazzo smette di essere, improvvisamente, solo un ragazzo. E per la prima volta, Paul, figlio del Duca Leto Atreides e Lady Jessica, educato dalla donna alle sacre vie del Bene Gesserit, esprime consapevolezza di sé, trovando alcune dolorose risposte alle sue domande, nella conclusione del primo arco narrativo del suo personaggio. Primo arco narrativo di molti, tanti quanti sono i nomi con cui verrà chiamato all’interno del libro: Muad'dib, Usul, Lisan al Gaib, Kwisatz Haderach, Madhi. Un seme, creato con un determinato scopo, certo, ma dalla crescita imprevedibile, che penetra in profondità, si diffonde, si trasforma, e modifica il territorio circostante.
Dune di Frank Herbert, è uno dei romanzi di fantascienza più influenti di sempre, il libro ha dato origine a una saga che ha cambiato profondamente l’immaginario collettivo a partire dalle sue fondamenta, è esso stesso un seme. Lo è nel suo modo di contenere tutta una serie di idee, temi, suggestioni, capaci di sbocciare in luoghi e situazioni sempre diverse, senza però perdere specificità. Perché, questa saga, dietro la sua facciata di epica eroica di tradizione classica, che sembra solo apparentemente seguire il monomito, ovvero il viaggio dell’eroe (di cui, in realtà, Dune rappresenta un’aspra critica), la storia di Paul e dei Fremen, il popolo nativo di Arrakis, è invece un romanzo che a volte sembra un trattato di filosofia, di psicologia, di etica o di religione. Altre acquista connotati politici, parlando di lotta di classe e degli effetti del colonialismo, mettendo in discussione sia le figure messianiche che i leader carismatici. Altre ancora assume la forma di un’eco-narrazione che anticipa alcune delle problematiche che oggi sembrano più urgenti che mai.
Anche la prima parte dell’adattamento di Denis Villeneuve, in cui è Timothée Chalamet ad interpretare Paul Atreides, è un seme. O perlomeno, il primo stadio di un qualcosa che sembra destinato ad acquistare forma. È, però, necessario prima piantarlo per poi poter godere dei suoi frutti, ed è quello che Villeneuve ha provato a fare con il suo Dune, che segue piuttosto fedelmente la storia di Herbert, ma risulta anche intimamente villeneuviano,(scusate l’aggettivazione). È qui che forse c’è un equivoco di molti: il ricercare compiutezza in un’opera che per sua natura rappresenta un inizio. Questa versione di Dune è un tentativo di gettare solide basi per reggere una storia ancora più complessa, non tanto nell’intreccio, quanto nella stessa costruzione del suo stesso mondo. Di fatto, si tratta della prima parte di un dittico, e come tale deve essere considerata.
In molti lo hanno ripetuto così tante volte da farlo divenire un logo comune: Dune è un libro impossibile da trasporre al cinema. Potrebbe essere vero ma solo in parte, nel senso che un adattamento presuppone sempre il dover fare alcune scelte, perché a un cambiamento del mezzo di narrazione deve seguire, necessariamente, un cambiamento della stessa materia narrativa. Sta di fatto che il romanzo di Herbert è così denso, stratificato e colto, da per poter essere raccontato in un altre forma che non sia il libro, figuriamoci quella filmica che ha durata limitata. il libro di Herbert lo si può paragonare a un prisma dalle molte facce, che riflettono la luce in modo diverso a seconda di come le si guarda. Ora immaginate di dover dipingere quel prisma. Prima di tutto è necessario scegliere come orientarlo e farlo colpire dalla luce. È quello che fa Villeneuve, insieme ai co-sceneggiatori Jon Spaihts e Eric Roth, prendendo delle decisioni che possono piacere o meno, ma dimostrando una profonda consapevolezza. Mancano dei personaggi questo è vero e alcuni snodi non sono ancora esplicitati, ma non era difficile aspettarsi qualcosa di diverso da questo.
Il Dune di Frank Herbert è realmente uno strano oggetto letterario. Ha un approccio molto concreto al mondo che racconta, costruendo nei minimi dettagli interi ecosistemi per soffermarsi poi in maniera particolare a delineare il contesto dal punto di vista politico e socio-economico. C’è una parte del romanzo in cui il Duca Leto (nel film interpretato da Oscar Isaac) discute dei salari da offrire agli estrattori di melange, la sostanza presente solo su Arrakis e che permette i viaggi interstellari, il cui monopolio è detenuto dalla Gilda spaziale. Leto ha, infatti, ricevuto dall'Imperatore Padiscià Shaddam IV, che governa l’Universo, l’ordine di trasferirsi dal suo pianeta natale Caladan ad Arrakis, subentrando ai nemici di sempre, gli Harkonnen, per gestire la raccolta di spezia.
Shai Hulud è il termine usato dai Fremen per indicare i vermi delle sabbia, ossia l'incarnazione fisica della loro unica divinità.
Si tratta di una scena, quella di cui sopra, rievocata nel film di Villeneuve di sfuggita, con una sola linea di dialogo, non particolarmente importante ai fini della trama, eppure per me sufficiente per comprendere il tono dell’adattamento. Una situazione che poco c’entra con una storia nota per le atmosfere lisergiche e un certo gusto per l’eccesso, elementi enfatizzati dai due prodotti culturali più noti legati al libro: il grandioso e folle progetto naufragato di Jodorowsky nel 1975, raccontato in Jodorowsky's Dune, documentario del 2013 di Frank Pavich, e l’affascinante quando confuso disastro di David Lynch con Kyle MacLachlan del 1984 - a cui, nonostante tutto, voglio benissimo, anche solo per aver ispirato l’avventura grafica omonima, quella sì un capolavoro, di Cryo Interactive del 1992.
Dune è anche questo: l’approccio è spesso pragmatico, l'atmosfera più mistica che lisergica, il tono più solenne che eccessivo. Il film di Villeneuve è così, presenta un’austera grandiosità estetica, coerente con la visione d’insieme. La fotografia di Greig Fraser è caratterizzata da toni scuri, metallici e terrosi, mentre nella scenografia ricorrono forme geometriche e massicce, soprattutto negli edifici di Arrakeen, modellati sulle ziqqurat mesopotamiche, o nei fregi dei palazzi che ricordano i bassorilievi neoassiri. Antichità e futuro si incontrano quasi per alludere a un tempo fuori dal tempo, e non si è fuori strada si parlasse di «tempo del mito». Mentre il vasto deserto, territorio dei Fremen dei giganteschi Shai Hulud, i vermi della sabbia, fa il resto.
Anche se narrativamente sobrio, Dune colpisce per la semplicità con cui racconta gli eventi, senza banalizzare o semplificare una vicenda parecchio strutturata già di per se. Villeneuve fa delle scelte e, per esempio, tutto il contesto religioso (e in particolare il ruolo del Bene Gesserit, ordine religioso matriarcale che muove i destini dell’Impero e che sarà al centro di una serie TV attualmente in pre-produzione), viene relegato un po’ sullo sfondo, presente solo in alcune pennellate. È anche vero che il libro è fatto di parole, pensieri, annotazioni. D’altronde, ogni capitolo del libro è corredato da estratti tratti dai testi storiografici della principessa Irulan, figlia dell’imperatore. Mentre il film di Villeneuve, puntuale nell’esporre l’intreccio, costruisce il suo mondo e delinea i rapporti anche attraverso sogni, allusioni, piccoli dettagli e, soprattutto, sguardi e gesti. Un linguaggio corporeo che va a sostituire il flusso costante di pensieri dei personaggi letterari.
Il Bene Gesserit è la sorellanza che muove i destini dell'Impero, il cui compito è quello di incrociare e conservare le linee genetiche delle casate.
Villeneuve utilizza così le lingue, anche quelle dei gesti, in modo fluido, forse anche più del romanzo, dove l'uso di nomi e termini mutuati dalla lingua araba erano comunque fondamentali nella costruzione culturale di Arrakis. Ma non è la prima volta che il regista dimostra una certa attenzione verso tematiche come il valore fondante del linguaggio nell’identificazione culturale, il suo ruolo nell’intrecciare relazioni e la possibilità di alterare la percezione del mondo. Lo aveva fatto nel suo film più peculiare: Arrival del 2016. Che anche in quel caso si trattava di un testo letterario molto difficile da trasporre. A Villeneuve, del resto, piacciono le sfide e spesso non sembra nemmeno interessato a dare al pubblico quello che vuole o si aspetta.
Riprendendo il discorso sul linguaggio, e in particolare a come nel film è stata resa la famosa Voce, ossia una tecnica Bene Gesserit che influenza il subcoscio di chi l’ascolta attraverso la modulazione del tono, presta il fianco anche a un altro aspetto dell’opera che non lascia indifferenti: suono e colonna sonora contribuiscono in maniera attiva alla definizione del mondo stesso. Il sound designer Theo Green, che aveva già lavorato con Villeneuve in Blade Runner 2049, fa qui un lavoro impressionante nel modulare intensità e volume, giocando con l’assenza di suono in brevi, ma significativi momenti. In questo, lavora in sinergia con Hans Zimmer, che compone una roboante colonna sonora, certamente ingombrante, ma di grande importanza narrativa. Il risultato è una base sonora costante, granulosa e avvolgente su cui si innesta il racconto, e che dà costantemente la sensazione di arrancare e sprofondare nelle sabbie di Arrakis.
Giocando sulla contrapposizione tra i campi lunghi degli sconfinati paesaggi, i primi piani e dei dettagli, la macchina da presa indugia spesso sui volti dei personaggi e in particolare gli occhi. Sono gli occhi blu - per effetto della spezia geriatrica - di Chani (Zendaya) che appare nei sogni di Paul; quelli del popolo di Arrakis che accoglie il giovane duca al suo arrivo sul pianeta al grido di Lisan al-Gaib, «la voce da un altro mondo»; quelli forti, consapevoli ma spaventati di Jessica, mentre cerca di far convivere gli obiettivi del Bene Gesserit con i propri, in un’interpretazione notevolissima di Rebecca Ferguson.
I Fremen sono i misteriosi abitanti di Arrakis. Vivono in insediamenti segreti chiamati sietch.
Timothée Chalamet è un Paul abbastanza coerente con il personaggio del libro, ma forse troppo monocorde. Di certo, non ha avuto la possibilità di emergere completamente. In questa parte della storia, Paul è un ragazzo in balia di forze che hanno segnato il suo destino, alla ricerca di se stesso.
La vera sfida d’altronde, non è cercare il Dune di Frank Herbert in quello di Villeneuve, ma provare a capire cosa il regista stia cercando di dirci attraverso Dune. In questa prima parte di un progetto più articolato, si può certamente intuire il percorso intrapreso da Villeneuve, all’interno dei tanti offerti da Frank Herbert. È un seme, come detto in precedenza, e bisogna capire dove piantarlo e cosa nascerà.
È comunque difficile guardare a un film come il Dune di Denis Villeneuve senza però sentire la voce di tutta la tradizione precedente e senza farsi influenzare dal peso dell’opera originale o dalle visioni dei diversi autori. Dune è, forse esagerando, il Gilgamesh del nostro tempo, o almeno la cosa più simile a un poema mitologico declinato in forma post-moderna. Contiene, come le grandi epopee antiche, molti dei temi della cultura da cui ha preso forma. Ma allo stesso tempo, è uno dei principali modelli per tutte le storie di fantascienza che sono venute dopo. Non solo un libro inadattabile ma il libro che forse più di tutti può ambire allo status di mito, quando si parla di narrazione investita di sacralità e significatività. A livello estetico, il film è eccezionale. Si questa solennità può essere, in un certo senso, interpretata come mancanza di originalità, ma in verità credo che la forza di questo adattamento di Dune sia nelle cose molto più piccole. Proprio nei piccoli dettagli sullo sfondo, nei gesti dei personaggi che hanno tutti, sempre un significato, nonostante esso spesso non sia esplicitato. Nella cura con cui una parola, detta in un determinato modo, alluda invece a un mondo intero. In questa storia, del resto, il world building non rappresenta solamente una premessa ma ne è essenza stessa. Quello che manca in un film che forse sarebbe stato meglio chiamare Dune Parte I è, letteralmente, l’epica. Ma quella verrà dopo, perché in questa fase della storia non era prevista. In questa fase abbiamo il racconto di una crisi, dello smarrimento, di morte e rinascita. L’epica verrà dopo, si spera.
#dune#dune movie#paul atreides#thimothee chalamet#zendaya#oscar isaac#frank herbert#villeneuve#movie#rebecca ferguson#review#recensione
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“Che cosa pensano di fare qui? Be’, c’è la risposta ufficiale; prepararsi per la vita, vale a dire lavoro e sicurezza per crescere bambini che si preparino per la vita vale a dire lavoro e sicurezza per. Ma, a dispetto di tutti i consiglieri scolastici, di tutti gli opuscoli che illustrano quanto buon denaro si può guadagnare puntando su una solida educazione tecnica – farmacologia, diciamo, o contabilità, o le diverse opportunità offerte dal vasto campo dell’elettronica – ce n’è ancora un numero incredibile che si ostina a scrivere poesie, romanzi, drammi! Intontiti dal sonno, scribacchiano negli istanti carpiti fra una lezione, l’impiego a mezza giornata e i doveri coniugali. Coi cervelli storditi dalle parole riassettano una sala operativa, smistano la corrispondenza in un ufficio postale, preparano il biberon, friggono hamburger. E da qualche parte, in mezzo alla schiavitù del dover-essere, il folle poter-essere sussurra loro di vivere, di conoscere, sperimentare – cosa? Meraviglie! Una Stagione all’Inferno, Viaggio al Termine della Notte, i Sette Pilastri della Saggezza, la Chiara Luce del Vuoto��� Qualcuno di loro ce la farà? Oh, certo. Almeno uno. Due o tre al massimo – tra le migliaia che tentano. Là in mezzo, George prova una sorta di vertigine. Oh Dio che ne sarà di loro? Che possibilità hanno? Devo urlargli, qui, ora, che non c’è speranza?”
-Christopher Isherwood, “Un uomo solo”
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La casa nella prateria, i romanzi
Forse non tutti sanno che la serie televisiva La casa nella prateria è stata tratta da una serie di romanzi dal titolo originale Little House, scritti tra il 1943 e il 1945 dalla scrittrice statunitense Laura Ingalls Wilder. Se siete amanti dei romanzi di Louise May Alcott (Piccole donne) e Lucy Maud Montgomery (Anna dai capelli rossi) credo vi potrebbe veramente piacere questa serie di romanzi che è stata pubblicata più volte anche in Italia col titolo La piccola casa nella prateria, l'ultima edizione in ordine cronologico è di Gallucci editore ed è di facilissima reperibilità.
Link: https://www.galluccieditore.com/
Laura Elizabeth Ingalls Wilder (Pepin, 1867 – Mansfield, 1957) prese a ispirazione la sua stessa infanzia per scrivere i suoi romanzi, infatti aveva appena quattro anni quando suo padre decise di lasciare il Wisconsin per cominciare una nuova vita nei territori messi a disposizione dei coloni dal governo americano.
La serie ed Little house è composta da 9 libri:
1. La casa nella prateria (titolo originale Little House on the Prairie) Link: https://amzn.to/3tfLaNa
Trama: In viaggio verso il Kansas con la famiglia Ingalls. La vita nella prateria è difficile e talvolta persino pericolosa, ma papà, mamma, Mary, Laura e la piccola Carrie sono felici di realizzare il sogno di una nuova vita
2. Sulle rive del Plum Creek - La casa nella prateria 2 (titolo originale On the Banks of Plum Creek)
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Trama: La famiglia Ingalls comincia una nuova vita nel Minnesota. Mamma e papà lavorano sodo per costruire una casa e coltivare la terra, Mary e Laura cominciano la scuola e la piccola Carrie cresce a vista d'occhio. Le difficoltà e i pericoli sono tanti, nella prateria, ma gli Ingalls li affrontano con tenacia e ottimismo.
3. Sulle sponde del Silver Lake - La casa nella prateria 3 (titolo originale By the Shores of Silver)
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Trama: Laura e la sua famiglia si trasferiscono nel Sud Dakota, con la speranza di farsi assegnare un appezzamento di terreno in cui stabilirsi defi nitivamente. Ogni giorno sulle sponde del Silver Lake arrivano coloni in cerca di fortuna. Gli Ingalls dovranno darsi molto da fare per difendere la loro futura fattoria.
4. Il lungo inverno. La casa nella prateria: 4 (titolo originale: Long Winter)
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Trama: Gli Ingalls affrontano con coraggio il terribile inverno nel Dakota. In casa tutta la famiglia lavora sodo per sopravvivere alle tempeste di neve. Ma l’intero paese resta senza provviste e il giovane Almanzo Wilder decide di affrontare un pericoloso viaggio alla ricerca di cibo…
5. Piccola città del West. La casa nella prateria: 5 (titolo originale Little Town on the Prairie)
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Trama: Con l’arrivo della primavera la famiglia Ingalls può finalmente partecipare alla vita sociale della piccola città del West in cui si è trasferita. Laura stringe amicizia con Almanzo Wilder, il suo futuro marito, e lavora con impegno per guadagnare il necessario a far studiare Mary all’università.
6. Gli anni d'oro. La casa nella prateria: 6 (titolo originale These Happy Golden Years)
Link: https://amzn.to/3PDdKjc
Trama: Laura è cresciuta, vive lontana dalla famiglia e insegna in una scuola... anche se molti dei suoi alunni sono più alti di lei! Ma ogni venerdì il suo amato Almanzo Wilder viene a prenderla e la riporta a casa per il fine settimana. Sono anni felici, che preludono a nuove e importanti tappe della vita.
7. I primi quattro anni. La casa nella prateria: 7 (titolo originale: The First Four Years)
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Trama: Laura e Almanzo Wilder, appena sposati, cominciano con grandi speranze la loro vita insieme in una casetta nella prateria. Ma ogni stagione porta inattesi disastri: tempeste, malattie, incendi, debiti. I due giovani non intendono però lasciarsi abbattere. Anche perché ora la famiglia è cresciuta…
8. Nei grandi boschi del Wisconsin. La casa nella prateria Prequel (titolo originale Little House in the Big Woods)
Link: https://amzn.to/3PHYJfQ
Trama: Questo romanzo racconta la prima infanzia di Laura Ingalls che, a quattro anni, vive ancora in una piccola casa di legno, ai margini dei Grandi Boschi del Wisconsin. C’è sempre tanto da fare per tutti ma la sera, dopo una lunga giornata di lavoro, le allegre note del violino di papà riuniscono la famiglia felice intorno al fuoco.
9. La storia di Almanzo. La casa nella prateria Prequel 2 (titolo originale Farmer Boy)
Link: https://amzn.to/3PYoA4q
Trama: Qusto romanzo racconta invece l'infanzia del futuro marito di Laura, Almanzo. Mentre Laura Ingalls cresce all’Ovest, Almanzo Wilder nasce in una prosperosa azienda agricola nello stato di New York. Qui, insieme al fratello e alle due sorelle, lavora dall’alba al tramonto nei campi e nelle stalle, con qualunque tempo e in ogni periodo dell’anno. Ma di tanto in tanto c’è anche modo di divertirsi…
Questi libri oltre ad ispirare la serie televisiva che tutti abbiamo visto e che va tuttora in onda in replica sui nostri schermi televisivi ogni giorno sul canale 27 del digitale terrestre, ha anche dato vita ad un cartone animato giapponese prodotto tra il 1975 e il 1976 dal titolo Laura (Sōgen no shōjo Rōra, lett. "Laura la ragazza delle praterie) che andò in onda anche in Italia, ma sinceramente non lo ricordo perchè all'epoca non ero ancora nata e poi non ne lo hanno trasmesso molto in reoplica immagino. Però se vi interessa recuperarne qualche puntata qualcosa su Youtube c'è.
La serie televisiva americana La casa nella prateria è disponibile con tutte le sue stagioni anche su Prime video, nel caso vi interessi
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Sono andata a Genova in aprile, con la mia famiglia, dopo tantissimo anni a rimandare questo viaggio. E ho comparto libri qua. 3 libri e 2 tomi di One Piece (perchè vorrei avere un tomo di One Piece in tutte le lingue che mi piacciono. Purtroppo non c'era il primo tomo alla libreria dove sono andata. Ho preso i tomi 99 e 102).
Sto leggendo "Loveless" di Alice Oseman, un romanzo queer inglese che volevo davvero leggere da quando è uscito. È molto divertente vedere che il primo libro che leggo entrambi in inglese e in italiano sono romanzi sull'asessualità. In inglese, ho letto "Let's talk about love" di Claire Kann. E Loveless si tratta di asessualità et aromantismo.
Non l'ho finito ancora. È grosso (quasi 500 pagine), e come ho detto, è il primo romanzo che leggo in italiano. Va bene, ci sto riuscendo !
Questo romanzo è davvero tanto importante. Da leggere. Se volete capire che cosa sono l'asessualità e l'aromantismo, e vi piace i romanzi 'young adult', è per voi. Mi ritrovo perfettamente in questa storia e personaggio. Non sono aromantica ma spiega così bene tutto ciò che provo nella vita come persona asessuale.
Sono tanto felice e fiera di finalmente leggere Loveless ! È une passo enorme per me. Di leggerlo in italiano. Perchè quando ero al liceo, avevo provato a leggere un romanzo, ma non sono riuscita a questo momento. Era il primo tomo di "Vampire Diaries" che avevo comprato in un'aera di servizio dell'autostrada sul ritorno in Francia del viaggio scolastico.
... Dovrei provare a leggerlo adesso, magari ! (Ma dopo Loveless, hehe)
[Accetto volontieri le correzione]
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l'altro giorno quando ero a roma e aspettavo che arrivasse l'ora del concerto sono entrata nella libreria della zona e fra i romanzi storici mi ha colpita la copertina bellissima di un libro che, controllando su goodreads, a quanto pare non è per niente popolare. non volendomi appesantire durante il viaggio ho solo salvato il titolo e poi l'ho scaricato, ieri ho iniziato a leggerlo e mi sembra molto molto bello: protagonista la famiglia del poeta del cinquecento inglese philip sidney, si chiama l'alchimista imperfetta. lette circa 20 pagine e fremo per continuare. con il senno di poi avrei dovuto comprarlo e non preoccuparmi di dovermelo portare dietro dal lazio
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Alma di Federica Manzon: Un ritorno a Trieste tra memoria e identità. Recensione di Alessandria today
Tre giorni che diventano lo spartiacque tra il passato e il futuro, in un viaggio alla ricerca di sé stessi.
Tre giorni che diventano lo spartiacque tra il passato e il futuro, in un viaggio alla ricerca di sé stessi. “Alma” è un romanzo di Federica Manzon che racconta il ritorno della protagonista nella sua città natale, Trieste, dopo anni trascorsi lontano. Alma è costretta a tornare per raccogliere l’imprevista eredità lasciata dal padre, un uomo enigmatico e sfuggente, che ha sempre attraversato il…
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Virgilio, grande poeta latino, immortale guida di Dante nel suo viaggio ultraterreno, oltreché protagonista di uno dei più importanti romanzi del Novecento: La morte di Virgilio di Hermann Broch.
Virgil, great Latin poet, immortal guide of Dante in his otherworldly journey, as well as the protagonist of one of the most important novels of the twentieth century: The Death of Virgil by Hermann Broch.
Special thanks to Laura Vargiu for her memory of Broch, a profound scholar and lover of all the arts // Ringraziamenti speciali a Laura Vargiu per il suo ricordo di Broch, letterato profondo e amante di tutte le arti: https://ilpontedelleparole.blogspot.com/2023/05/il-ritorno-di-virgilio-edizioni-via-del.html
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"Draghi, grattacieli e fiori di ciliegio" Passeggiate sentimentali tra Giappone, Cina e Corea.
Questo libro è un viaggio tra le pagine di altri libri, tra fotogrammi di film, tra sogni e suggestioni. Dai grandi autori della letteratura cinese ai romanzi contemporanei che hanno cambiato il volto della narrativa giapponese degli ultimi anni (Banana Yoshimoto, Sayaka Murata, Mieko Kawakami). Passando per i fenomeni sociologici dell’Asia “pop”, come il concetto di kawaii (carino, grazioso) e…
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La nostra identità è sempre approssimativa
Lo sappiamo, abbiamo un’identità approssimativa. Non ci è mai possibile conoscere totalmente noi stessi. Così ci arrangiamo con quello che crediamo di aver capito di essere. Per il resto, vi sono ragioni del cuore che la ragione non conosce, come ha ben detto Pascal.
Ma vi è approssimazione e approssimazione. Possono essere molto differenti i modi con cui ci approssimiamo, ossia ci avviciniamo, alla conoscenza di noi stessi. Cercando di comprende le remote e invisibili esperienze a cui sono ancorate le nostre abitudini emotive. Oppure cercando di diventare consapevoli dell’effettivo impatto che produciamo sugli altri con i nostri modi di agire. E’ strada da fare e occorre fiato e impegno per farne molta. Il fiato del desiderio, della necessità che sentiamo di voler sapere di più di noi stessi, senza accontentarci. E l’impegno, lo sforzo di interrogarci, di porci domande nuove, di dubitare di ciò che crediamo di aver già capito della nostra identità. Occorre anche l’impegno di buoni romanzi e buoni film, di esperienze con un po’ di coraggio, di conversazioni con gli amici che hanno la pazienza e la voglia di andare a fondo, di curiosità verso le altre persone. Insomma si fa strada, e si conquista consapevolezza, irrobustendo lo sguardo e il pensiero, perché sono lo sguardo e il pensiero che abbiamo allenato che ci consentono di vedere con maggiore accuratezza l’invisibile della nostra unicità.
Potremmo anche farci, lungo questa strada, un paio di domande, diverse e complementari: sin dove arriva la mia identità? e anche: di cosa è fatta la mia identità? Durata e sostanza del nostro io. Orizzontale e verticale di chi siamo.
L’identità si estende, è un movimento che viaggia e si sposta, nel tempo, nei luoghi e nelle relazioni. Dunque, cosa raggiunge? Quale mondo include e quale esclude la mia identità? Noi siamo anche dove non arriviamo.
L’identità è anche contenitore che si riempie, di esperienze, di idee, di valori, di emozioni. E tanto altro ancora. Quale dunque il suo contenuto, la sua materia? Quanto di questo contenuto che ha dato sostanza alla nostra identità è stata una scelta consapevole? E nei casi in cui non lo è stata, nei casi in cui abbiamo avuto esperienze che non abbiamo scelto, quanto, successivamente, le abbiamo trasformate in riflessione, ne abbiamo compreso il segno che hanno lasciato nel nostro cuore?
Così abbiamo ineludibilmente identità approssimative. Ma per quanto la nostra identità sarà sempre più vasta di ciò che ne potremmo dire, possiamo fare questo viaggio da passeggeri inconsapevoli, oppure ovvero cercare di capire meglio dove caspita stiamo andando, evitando così di rimare sorpresi o delusi di ciò che ci accade.
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Storia Di Musica #291 - Deacon Blue, Raintown, 1987
Lo spunto per le storie settembrine me lo ha dato un aneddoto simpatico sugli Steely Dan, protagonisti dell'ultima storia di Agosto. Una delle loro canzoni più famose, Deacon Blues, da Aja (il loro capolavoro del 1977) fece un viaggio emozionale fino in Scozia, dove un giovane ragazzo si appassionava alla musica, soprattutto a quel pop così sofisticato, pieno di stratificazioni sonore, piccoli gioielli musicali incastonati nelle melodie, e immensa classe esecutiva. Ricky Ross si chiama quel giovane ragazzo, che dopo che a Dundee viene licenziato da professore precario delle scuole secondarie, si trasferisce a Glasgow, dove decidere di mettere su un gruppo. Prima trova il batterista, Dougie Vipond, poi un bravissimo pianista, James Prime, un chitarrista, Graeme Kelling, e una corista, Carol Moore. Le prime esibizioni sono incoraggianti, ma la Moore decide di mettersi da parte. Ross si ricorda che aveva sentito ad un provino, improvvisato in Bath Street, una ragazza che lascia il suo indirizzo, ma non il suo numero di telefono. E la storia vuole che fu lo stesso Ross ad arrivare sulla Great Western Road di Glasgow per chiedere a Lorraine McIntosh di unirsi al gruppo. E c'è la ciliegina sulla torna: durante uno delle prime serata acclamati dal pubblico, Dougie Vipond leggermente brillo incontrò Ewen Vernal, bassista, nel bagno di un locale e gli chiese di unirsi al gruppo. Il nome per la band è quello che Ross ha in testa da anni: Deacon Blue, e siamo nel 1985. Glasgow in quegli anni è una città in piena trasformazione sociale, anche con profonde fratture socio economiche (per farsi un'idea, suggerisco i romanzi di Douglas Stuart) ma dal punto di vista musicale sarà la capitale scozzese della musica. Tanto che un giornalista del Glasgow Herald, John Williamson, decise di produrre una cassetta in allegato alle pagine culturali del giornale con tutte le promesse della musica cittadina di quel periodo: ci sono futuri gruppi e artisti molto famosi come i Wet Wet Wet, Kevin McDermott, Hue and Cry e i Deacon Blue, che contribuiscono con Take The Saints Away.
Dopo questa esperienza, sono pronti ad andare in studio, insieme a Jon Kelly, capo ingegnere del suono agli Air Studios di Londra. Ross ha in mente una sorta di concept album su Glasgow, che ne racconti le sfumature più varie. Raintown, pubblicato nel 1987, si presenta con una meravigliosa foto in bianco e nero di Oscar Marziaroli, italo scozzese futuro acclamato fotografo, che ferma una città avvolta nella perenne pioggerellina con sullo sfondo uno dei simboli della città, la Finnieston Crane, una gigantesca gru portuale, ormai non operativa, simbolo dell'industriosità degli abitanti, proprio all'imbocco del porto cittadino. Dal punto di vista musicale, seppur si parte dall'idea di pop sofisticato del mitico duo da cui prendono il nome, i Deacon Blue mischiano il lirismo vocale e le atmosfere uniche di Van Morrison, un canto-racconto degno del primo Springsteen e un'eleganza che ha una sua totale particolarità. Il disco ha un andamento ondeggiante tra brani calmi e riflessivi e quelli più incalzanti: l'inizio è davvero suggestivo, con Born In The Storm che come una nebbia si dirada e sfuma in Raintown, canzone che è profondamente legata all'esperienza di Ross, con versi che dicono "Waiting for the phone to ring to make me all I am.\You're in the suburbs waiting for somewhere to go\I'm down here working on some dumb show\In a raintown" che raccontano l'inizio di tutta la storia. Ross scrive del rapporto con il business musicale nella bella Ragman e nell'altrettanto suggestiva Loaded, scritta di getto come un flusso di coscienza su una base improvvisata dagli altri componenti della band su una cassetta super 8, ed è capace di dipingere affreschi musicali persino drammatici in abiti delicati e affascinanti. He Looks Like Spencer Tracy Now è ispirata ad un pensiero, a che vita avesse fatto l'uomo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima: tra incontri particolari ("he may have been with Oppenheimer, shaken Einstein's hand\Did we have to drop the bomb? You bet, to save this land\He was only taking pictures around the critical mass\While the troops on Tinian island sang 'Follow the bouncing ball') e cosa potrebbe essere oggi (He may have been a nationalist, a physicist or a pacifist (...) Well, I have seen that movie of Dr. Jeckyll and Mr. Hyde\And I know he looks like Spencer Tracy Now). When Will You (Make My Telephone Ring) ha ai cori il famoso gruppo R&B londinese dei Londonbeat. Alto livello è anche Chocolate Girl, che racconta di un tipo anaffettivo, un certo Alan, ricco e spendaccione, "He calls her the chocolate girl\Cause he thinks she melts when he touches her\She knows she's the chocolate girl\Cause she's broken up and swallowed\And wrapped in bits of silver". Ma il capoavoro è Dignity: ritratto di quello spirito scozzese della dignità del lavoro, racconta la storia di un impiegato comunale, probabilmente uno che lavora sulle strade, e che non perde il sorriso nemmeno quando è preso in giro dal ragazzini e che ha un sogno, comprare un gommone, un dinghy, che vuole chiamare Dignity, con cui "I'll sail her up the west coast\Through villages and towns\I'll be on my holidays\They'll be doing their rounds\They'll ask me how I got her I'll say, "I saved my money"\They'll say, "Isn't she pretty? That ship called Dignity". In Love's Great Fears, liricissima e tutta giocata sul duetto Ross - McIntosh, che diventeranno marito e moglie poco tempo dopo, c'è Chris Rea alla chitarra.
Il disco, per le qualità musicali, per la scelta azzeccata dei singoli e per la sua atmosfera sofisticata, che quasi inventerà un genere, ha un successo clamoroso: arriva fino al numero 14 nella classifica dei dischi più venduti, rimane in classifica un anno e mezzo e vende oltre un milione di copie. La band continuerà a scrivere belle cose, e il successivo When The World Knows Your Name del 1989 arriva persino al numero 1 in UK e contiene la loro canzone più famosa, Real Gone Kid, facendo divenire sogno il successo che un ragazzo scozzese aveva immaginato sentendo una canzone, Deacon Blues, che parla di nerds and losers, secondo le famose parole di commento di Donald Fagen. Dedicherò il mese di settembre a gruppi scozzese degli anni '80, che è un periodo storico e una zona geografica che ha regalato cosine niente affatto male alla storia della musica.
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