#romanzi con personaggi autentici
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pier-carlo-universe · 4 days ago
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Il grande inverno – Kristin Hannah. Recensione di Alessandria today
Un romanzo di amore, sopravvivenza e resilienza nel cuore della natura selvaggia.
Un romanzo di amore, sopravvivenza e resilienza nel cuore della natura selvaggia. Kristin Hannah, autrice di bestseller internazionali, ci trasporta nella gelida e affascinante Alaska con Il grande inverno, una storia intensa e avvolgente che esplora i legami familiari, la fragilità umana e la forza necessaria per sopravvivere nelle condizioni più estreme. Trama emozionante e ricca di…
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William Goldman: uno sceneggiatore da Oscar, uno scrittore da (ri)leggere
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Tutti probabilmente hanno visto Il maratoneta, capolavoro di John Schlesinger del 1976, con uno scontro ‘ad alta recitazione’ fra due mostri sacri: Laurence Olivier e Dustin Hoffman. Ma forse non tutti hanno letto il romanzo omonimo da cui è stato tratto il film, opera dell’ebreo newyorkese William Goldman. Difficile, come sempre, paragonare due forme artistiche così diverse come cinema e letteratura, ma in questo caso la medesima paternità è garanzia del massimo risultato. Nel libro c’è praticamente tutto: azione, stralci di storia contemporanea, caccia a criminali nazisti fuggiti in America del Sud per scampare ai processi, un feroce attacco al maccartismo, trame gialle e di spionaggio, pericolosi legami amorosi… Al protagonista, lo strambo Babe che ricorda un po’ il giovane Holden, mentre è intento a coltivare le sue due grandi passioni (la storia americana e la maratona: davvero esaltante la descrizione dell’impresa dell’etiope Abebe Bikila che a piedi scalzi trionfò alle Olimpiadi di Roma del 1960) capita di innamorarsi, di scoprire oscuri segreti familiari, di essere torturato da un dentista che non usa anestesia (è un ricordo autobiografico!) e di rischiare la pelle, in un susseguirsi a perdifiato di imprevedibili colpi di scena. La vicenda è raccontata con stile e linguaggio multiformi, che variano a seconda dei personaggi. La narrazione è vorticosa, avvincente, ironica e (vivaddio) politicamente scorretta. Ma cos’è l’umorismo? Goldman ne dà una definizione che sicuramente sarebbe piaciuta a Pirandello: “L’umorismo è l’inattesa giustapposizione dell’incongruenza”. Interessantissima l’introduzione, dell’autore stesso, sulla genesi del romanzo, della sceneggiatura e delle riprese, che potete leggere nell’edizione Marcos Y Marcos.
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Qualche parola su questo scrittore, uno dei più importanti sceneggiatori di Hollywood: nato a Highland Park (Chicago) nel 1931, pare che i genitori non riuscissero a tenerlo lontano dalle sale cinematografiche. Ha collezionato due Oscar: alla miglior sceneggiatura originale per Butch Cassidy con la strepitosa coppia, allora ancora inedita, Paul Newman-Robert Redford, “western insolito, accattivante e profondamente malinconico”, sulle note della colonna sonora di Burt Bacarach, e alla miglior sceneggiatura non originale per Tutti gli uomini del Presidente, con Dustin Hoffman e Robert Redford, storia di Carl Bernstein e Bob Woodword, i due giornalisti del «Washington Post» che svelarono lo scandalo Watergate, causando le dimissioni dell’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
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La sua prima sceneggiatura, era il 1963, fu per Soldato sotto la pioggia (anche in questo caso interpretato da una coppia di autentici fuoriclasse: Steve McQueen e Jackie Gleason) “fu anche il primo dei numerosi adattamenti realizzati per il cinema dai suoi romanzi”.
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Dopo una collaborazione con Michel Piccoli, 50.000 sterline per tradire (Masquerade, 1965), il successo è decretato dal bellissimo Detective’s Story (Harper, 1966) con Paul Newman e Lauren Bacall, tratto da Bersaglio mobile di Ross Macdonald.
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Non si maltrattano così le signore  (1968), con Lee Remick, George Segal e Rod Steiger, da un suo romanzo, racconta la storia di un serial killer che, ossessionato dalla figura materna, uccide donne di mezza età; il titolo si riferisce ad una frase pronunciata dalla madre del detective incaricato delle indagini; La pietra che scotta (1972) con Redford; Magic (1978), un horror-psicologico con Anthony Hopkins, ancora da un suo libro.
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Il resto è storia: da Papillon (1973), con il gigantesco duo Hoffman-McQueen, dal romanzo autobiografico di Henri Charrière, a Il temerario (1975), con Redford, a Quell’ultimo ponte (1977) di Richard Attenborough con un cast stellare, a Misery non deve morire (1990) da Stephen King, a L’ultimo appello (1996) con Gene Hackman, da John Grisham.
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“Lavorò molto e sempre con risultati altissimi, spesso arrivando solo per rimettere a posto le cose o senza ricevere la firma sul film”; una delle sue caratteristiche fu anche la grande versatilità, che gli permise di spaziare da un genere all’altro.
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Ma ecco gli altri libri (ahimè non molti) dell’autore. Io sono Raymond (1957): “Illinois, fine anni ’50. Raymond Euripides Trevitt ha otto anni, è carino, ha un temperamento irrequieto e vuole trovare la sua identità, il suo posto nel mondo. Il passaggio dall’età dell’innocenza all’adolescenza lo cambierà profondamente, ponendolo di fronte a domande universali la cui sola risposta può arrivare dall’esperienza diretta. Come accadde all’Holden Caulfìeld di Salinger, Ray capirà attraverso le vittorie e i fallimenti, le amicizie e gli amori, i tradimenti e gli abbandoni, che l’unico modo per conoscere se stessi è accettare le esperienze che la vita ci pone innanzi. Un toccante e luminoso racconto su che cosa significhi affrontare un rito di passaggio, inevitabile e necessario”.
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Il silenzio dei gondolieri, pubblicato con lo pseudonimo di S. Morgenstein, “è una vera perla nascosta riscoperta grazie al traduttore, Dimitri Galli Rohl. Si narra che Goldman abbia avuto una folgorazione durante la sua prima visita a Venezia, e sia corso in albergo a scrivere questa storia che si era visto nella testa già completamente formata”. La recensione: “Un tempo, a Venezia, tutti i gondolieri cantavano, ed erano i più meravigliosi cantanti del mondo. Ma sono in pochi, ormai, a ricordare quei tempi gloriosi. Nessuno si spiegava perché all’improvviso tutti i gondolieri avessero smesso di cantare. Un bel giorno Goldman sbarcò a Venezia, ebbe un’illuminazione e andò sino in fondo al mistero. Scoprì così la nobile e triste storia di Luigi, il gondoliere con il sorriso da tontolone. La sua impareggiabile maestria, le sue disavventure e il suo riscatto finale. Ecco dunque tutte le verità mai raccontate su Giovanni il Bastardo, Laura Lorenzini, Enrico Caruso, il Piccoletto, Porcello VII, Sorrento il Grande, la regina di Corsica e naturalmente su Luigi, l’unico e il solo. Lui, che ha conquistato Venezia con un atto di coraggio maestoso, resterà per sempre anche nei nostri cuori, con il suo sorriso, il suo sogno e il suo canto”.
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La principessa sposa, da cui nel 1987 è stato tratto il film fantasy La storia fantastica, diretto da Rob Reiner, con la colonna sonora di Mark Knopfler, interpreti Peter Falk, Robin Wright e Billy Crystal; l’ormai introvabile Calore (1985), un thriller-noir ambientato a Las Vegas e Fratelli (1986), il seguito de Il maratoneta, libro veramente imperdibile che consigliamo per queste agognate, meritatissime vacanze!
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volareinaltoversoilcielo · 3 years ago
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🌼 Recensione 🌼
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«So che la mia vita è significativa perché sono un buon amico»
È stato un viaggio doloroso, ma porto nel cuore l'amore, la gentilezza e la forza. La sofferenza la lascio tra quelle pagine a consumarsi inesorabilmente in una vita ingiusta.
🌼🌼🌼🌼🌼/5
Tra i romanzi più discussi del 2021, Una vita come tante si piazza tra i migliori libri che abbia mai letto.
Jude, Willem, Malcolm e JB sono quattro ragazzi che si incontrano per la prima volta al College, nel New England. Molto diversi fra loro, ambiscono a carriere altrettanto lontane le une dalle altre eppure li lega un’amicizia che andrà oltre il passare del tempo. Un’amicizia disposta a sopportare, senza chiedere mai, anche i segreti più nascosti di uno di loro.
Cosa sei disposto a fare per la felicità di chi ami?
L'amicizia non è forse una forma d'amore?
Un romanzo che affronta temi come la tossicodipendenza, l'abuso sessuale, la violenza fisica e psicologica, la pedofilia, l'autolesionismo.
La paura di perdere la persona che si ama.
Il prendersi cura, tacitamente, di qualcuno che non vuole essere aiutato.
Quando si ama ma non si riesce a dimostrarlo.
Quando basta uno sguardo per capirsi.
Quando un sorriso scalda il cuore.
Quando la gentilezza è la migliore amica di un cuore infranto.
Questo libro è poesia.
Questo libro ha un forte impatto sul lettore, per questo non è una lettura adatta a chiunque.
Una scrittura leggermente confusionaria, a tratti mi è risultato difficile capire, ma poi si ritrova il filo conduttore e ci si immerge nuovamente, tranquillamente, nella vita dei tanti personaggi presenti nel romanzo.
Dialoghi meravigliosi, incisivi, autentici.
Di questo libro resta il dolore, la gentilezza, l'amore, la preoccupazione, il tormento, l'amicizia, la forza.
È una vita come tante, racconta semplicemente la vita per quella che è, con tutte le sue sfumature.
Pagine colme di dolore, ma ovunque emerge l'infinita capacità dell'uomo di resistere e di amare.
È impossibile fare una recensione senza spoiler, per cui vi dico soltanto una cosa: leggetelo. Vivetelo. Non fatevelo raccontare, respiratelo.
Vi cambierà la vita.
Mi porto i personaggi sulla pelle, le loro gioie, la loro forza e le loro sofferenze che sento ormai mie.
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automatismascrive · 3 years ago
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Carcinizzazione fuori controllo: Chelabron
Non sono un’amante dell’high fantasy. Com’è facile intuire, considerando che ho aperto un blog di narrativa insolita, quando leggo speculative fiction desidero soprattutto scoprire mondi il più possibile alieni rispetto a quello in cui, in mancanza di imprevisti à la isekai, mi toccherà passare il resto dei miei giorni; difficilmente l’high fantasy uscirà dai paletti piuttosto rigidi che il sottogenere impone, ed è raro quindi che mi regali autentici momenti di meraviglia. Amo alla follia il New Weird, e sono costantemente a caccia di romanzi con ambientazioni ricche di sistemi magici complessi, animali mostruosi, biomi in cui le leggi fisiche sono alterate in modi imprevedibili e fondamentali: ancor più della fantascienza, il fantasy permette di immaginare le interazioni uomo-natura più impensabili e dalle conseguenze più interessanti da esplorare, che siano filosofiche, biologiche, fisiche o una qualche combinazione delle tre. Immaginate la mia gioia quando finalmente sono riuscita a leggere anche qualche scrittore italiano che si è allontanato dai sentieri battuti del fantasy tolkeniano, con qualche deviazione occasionale nell’urban YA e nel (sigh) paranormal romance, per avvicinarsi alle bizzarrie che mi sono tanto care.
Titania Blesh è una di queste. L’ho conosciuta inizialmente grazie ad Acheron Books, che mi ha fatto scoprire il suo A colpi di Cannonau: non essendo i pirati cosa mia (Black Sails a parte, s’intende) ho però virato immediatamente su Chelabron, edito dalla Dark Zone, che fin dalla sinossi sembrava invece assai più nelle mie corde. In un mondo abitato da minacciosa e letale megafauna, l’unica garanzia di sopravvivenza per la specie umana sembra risiedere nella simbiosi con i granchi locali, sul cui dorso vengono costruite intere città; Niniin, abitante di una prospera cheliopolis, desidera diventare Cerebrale e far parte della ristretta élite che ha l’onore di controllare il Granchio Rosso attraverso una delicata combinazione di ormoni e manipolazione neurale – ma l’esame è complesso e tutti cercano di metterle i bastoni tra le ruote, dai suoi genitori fino all’insopportabile ma geniale Sandros, Cerebrale di punta della cheliopolis. Ad Aquaforta, invece, Arenaria è convinta che la colonia si stia approssimando alla fine: il granchio su cui vivono è immobile da anni, la carestia strazia gli abitanti, ma suo padre si rifiuta di indurre l’artropode al movimento; la scoperta di un’arma leggendaria potrebbe però cambiare definitivamente la sorte della cheliopolis… Ma a che prezzo?
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In copertina: Arenaria e il Chelabron. Not depicted: la sua scorta infinita di battute orribili.
Fin da subito il romanzo si distingue per l’ambientazione science-fantasy piuttosto originale. Forse costruire città su dorsi di animali giganti non è un’idea così nuova, ma il rigore e la cura con cui il mondo abitato dalle nostre protagoniste è progettato e tutti i piccoli dettagli che permettono di comprendere in che modo vivono gli abitanti delle cheliopolis rendono la lettura una continua scoperta. Si tratta di un’ambientazione poco science e molto fantasy ma piuttosto coerente, che nonostante qualche sbavatura – fatico a credere che abitanti di città separate da centinaia di anni parlino la stessa lingua – ricostruisce un microcosmo complesso e interessante da esplorare. Nonostante sia necessario acclimatare il lettore in un’ambientazione in cui sono presenti parecchi concetti alieni o almeno non immediatamente ovvi, Blesh si rifiuta di piazzare lunghi paragrafi di spiegoni in cui ci racconta vita, morte e miracoli della megafauna, o sgradevoli as you know, Bob in cui i personaggi informano il lettore di cose che sanno già: complice anche la prima persona, ma soprattutto una scrittura limpida che punta all’immersività totale, tutti i concetti necessari vengono introdotti a tempo debito e sempre saldamente dal punto di vista di Niniin o di Arenaria, ciascuna con una voce ben distinta e molto godibile. Ci sono davvero poche pulci da fare allo stile, anche se ogni tanto mi è capitata sotto gli occhi qualche frase sgradevole o dei dialoghi un po’ legnosi – un vero peccato, visto che sembra un problema di (mancanza di) editing piuttosto che di prima stesura: sono parti facilmente limabili e la scrittura è di solito assai trasparente e permette di entrare comodamente nella testa delle nostre protagoniste.
Non era a posto un corno di niente.
[...] si stava prendendo ad amichevoli pugni [...]
Abbassò il fucile di qualche grado [...]
“Se non è l’eroina della Tragedia di Tantaariat!”
Alcune frasi un po’ innaturali (corsivo mio). Va anche detto che il tono del romanzo è piuttosto scanzonato e pieno di espressioni molto colloquiali, e c’è molta soggettività nel decidere che cosa “suona bene” e cosa no.
Infatti il secondo grande punto di forza del romanzo è proprio il filtro con cui sia Niniin che Arenaria percepiscono gli eventi del romanzo; non solo abitano in due cheliopolis diverse, ma appunto per questo sono immerse ciascuna nella propria cultura e nei propri schemi mentali. Le colonie non sono interscambiabili: ciascuna di queste è politicamente organizzata in modi specifici, ha cultura e convinzioni circa il granchio che li ospita radicalmente diverse e utilizza modalità per manipolarlo che differiscono persino nei termini utilizzati: Chelabron/Kelabron, Cerebrum/Cerebellum... Persino termini comuni come babbo/papà variano, permettendoci immediatamente di riconoscere il punto di vista che stiamo seguendo, senza nemmeno bisogno del nome ad inizio capitolo. Buona parte del romanzo ruota attorno ad un conflitto armato che porta all’incontro tra popolazioni diverse, con tutte le difficoltà e i rischi che ciò comporta: le pagine che descrivono l’interazione tra gli abitanti di Aquaforta e quelli di Sococos sono tra le più interessanti del libro, ed è un peccato che non siano tante, visto che la maggior parte sono dedicate ai conflitti dei “piani alti” che coinvolgono i genitori di Niniin, i Generalissimi, e la Maiora, che gestisce i Cerebrali e le influenze che possono avere sul Granchio Rosso. Anche il rapporto di ciascun personaggio con il Granchio e il modo in cui le società delle cheliopolis si relazionano con la megafauna è un tema centrale, ed è indubbiamente uno dei più intriganti; il rapporto simbiotico che lega le specie si collega ai misteriosi poteri del Chelabron, l’arma che dà il titolo al libro, ed è al centro della narrazione di Niniin, che ha studiato per anni il Granchio Rosso e ne è rimasta affascinata. La nostra protagonista è schiacciata tra il Cerebrum e l’esercito, e nel corso della storia sarà costretta a prendere decisioni sempre più difficili per poter diventare una Cerebrale, lottando contro i genitori guerrafondai ma anche contro il suo terrore paralizzante della violenza.
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Adorabile, vero? Ora immaginatevelo gigante. Rassicurante come il muso di un Eva in berserk che fa capolino dalla vostra finestra al sesto piano.
Niniin è un’ottima protagonista: è facile solidarizzare con lei per la sua vita faticosa di secondogenita, ignorata dai genitori perché bollata come vigliacca e segnata dalla tragedia che colpì Sococos quando lei era ancora bambina; viene naturale fare il tifo per lei e avversare istantaneamente Sandros, il rivale che le impedisce l’accesso al Cerebellum con piccolezze di ogni genere, e man mano che ci avviciniamo alla fine l’ansia per il suo destino è palpabile. Il suo arco del personaggio ruota tutto intorno allo sconfiggere la paura, e anche nei suoi momenti di codardia e di indecisione riusciamo bene a comprendere le sue motivazioni e a provare empatia per lei: vogliamo che sconfigga i suoi demoni e che riesca ad arrivare ai suoi obbiettivi. Purtroppo al suo punto di vista si affiancano le pagine dedicate ad Arenaria, che è una protagonista decisamente più debole.
In teoria l’aspirante eroina di Aquaforta sarebbe stata un ottimo contraltare alla paurosa e insicura Cerebrale, con la sua spacconeria e la sua propensione all’azione (per non parlare dei suoi terribili giochi di parole); tuttavia, nonostante inizialmente sembri che la sua evoluzione si costruisca in maniera speculare a quella di Niniin – dal coraggio irresponsabile alla cautela ragionata – le sue azioni, anche quelle dalle conseguenze drammatiche, non diventano il motore di nessun cambiamento significativo. Senza addentrarsi in spoiler eccessivi, ad un certo punto del romanzo Arenaria fa una scelta impulsiva che diventa una delle concause del disastro principale narrato nel romanzo; sembra un momento catartico per l’inizio di una trasformazione, ma Arenaria dedica pochissimi pensieri alle sue responsabilità e anzi liquida queste difficoltà con un “vabbè, alla fine è stato necessario” – conclusione potenzialmente interessante ma troppo rapida e indolore per costituire un momento di pathos. Non c’è un vero e proprio arco di trasformazione parallelo a quello di Niniin, o un altro tipo di evoluzione, e proprio per questo si fatica a sentire attaccamento per una protagonista così statica e immune al cambiamento; mi ha stupito, specialmente in un romanzo così attento per altri versi ad una costruzione drammatica soddisfacente.
  ------------------------------------------------------ ANGOLO SPOILER --------------------------------------------------------------
Anche alcuni punti di trama mi hanno lasciato un po’ perplessa (once again, SPOILER! Smettete di leggere qui e filate a leggere Chelabron, che ne vale la pena): la coincidenza del ritrovamento di Tantaariat proprio alla fine del romanzo, considerando le distanze percorse e la quantità di cheliopolis in giro mi pare un filo troppo fortuita, ma anche la necessità della Maiora di usare un Cerebrale per sabotare il neurone riproduttivo mi sembra poco credibile – d’accordo, c’è il rischio di danneggiare il granchio sparando o colpendo il neurone a distanza, ma mi sembra comunque un’alternativa migliore del sacrificio vano di diversi Cerebrali e di centinaia di altre persone per le migrazioni del granchio, almeno dal suo punto di vista.
---------------------------------------------------- FINE ANGOLO SPOILER -----------------------------------------------------------
  Nonostante una protagonista poco incisiva (su due, però) e qualche dialogo un po’ innaturale, Chelabron racconta una storia interessante in un mondo originale e ben costruito, ricco di elementi affascinanti le cui implicazioni sono abbastanza ben esplorate; se a ciò aggiungiamo anche uno stile che ha ben in mente che cosa fare per coinvolgere il lettore in prima persona, sono ben felice di passare sopra ai suoi difetti per godermi un romanzo che parla di granchi giganti. Meglio, un romanzo che parla di granchi giganti pieno di dad jokes fatti da una figlia! Questa sì che è vera sovversione dei ruoli di genere.
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bibliotecasanvalentino · 4 years ago
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera e l’autore prescelti sono: "Maigret si diverte" di Georges Simenon.
Il dottor Pardon, medico personale e amico del commissario, convince Maigret a prendersi una vacanza, ma il commissario preferisce passare le sue due settimane di libertà a Parigi, insieme alla signora Maigret, evitando accuratamente ogni contatto con il Quai des Orfèvres, dove ha lasciato detto che avrebbe passato le vacanze a Les Sables-d'Olonne. Nel frattempo l'ispettore Janvier, in qualità di sostituto ufficiale del commissario, si trova tra le mani un caso interessante che Maigret segue in modo appassionato, sui quotidiani, come un cittadino qualunque: il cadavere nudo di Éveline Jave, moglie di un medico, viene trovato in un armadio dell'ufficio del marito. Entrambi avrebbero dovuto trovarsi in Costa Azzurra, mentre lo studio sarebbe stato affidato al giovane dottore Gilbert Négrel. Lo stesso giorno dell'omicidio però, il dottor Philippe Jave afferma di essere tornato segretamente a Parigi per far visita alla sua amante, Antoinette Chauvet, la giovane figlia di una delle sue domestiche, Josépha Chauvet. Si scopre inoltre che il motivo del ritorno a Parigi della vittima era una relazione con Négrel, nonostante il fidanzamento di quest'ultimo con Martine Chapuis. Il padre di Martine, l'avvocato Noël Chapuis, assume la difesa di Négrel quando quest'ultimo viene arrestato per l'omicidio. Maigret mantiene la promessa di tenersi lontano dal Quai, ma occasionalmente invia lettere o biglietti anonimi a Janvier, o in altri casi fa una chiamata anonima a un giornalista. Il commissario è convinto che Philippe Jave fosse a conoscenza del tradimento della moglie e del suo furtivo viaggio a Parigi: questo fornisce a Maigret la chiave del mistero, che trasmette a Janvier, il quale risolve il caso.
Veramente un piccolo gioiellino! Ci si diverte veramente tanto a risolvere questo caso di omicidio sui generis insieme al commissario Maigret che, costretto da sua moglie e dal medico a prendersi un periodo di relax, segue appassionatamente sui giornali il caso del cadavere nell'armadio di boulevard Hausmann. Nell'insolita veste di spettatore, è infatti troppo corretto per intromettersi nell'indagine affidata al suo sostituto: seguirà così dal bar di place della Republique, davanti ad una birra fresca, il dipanarsi di questa inchiesta piena di colpi di scena e contraddittorie interpretazioni. Simenon scrisse questa storia in soli 7 giorni (gli stessi della durata del racconto) dal 6 al 13 settembre 1956 e che decise di regalare, in occasione del cinquantesimo romanzo sul famoso commissario, una vacanza dai casi polizieschi, a Maigret. Ma poi un commissario come lui ha realmente bisogno di una vacanza quando il delitto "perfetto" è sempre in agguato? Simenon con il suo commissario abbandona lo schema del giallo classico "all'inglese" fatto di investigatori infallibili per sostituirli con personaggi forse più "umani", come Maigret, che si lasciano guidare dal proprio istinto, immedesimandosi nei diversi personaggi e rendendoli vicini e autentici.
Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è stato un romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea. Nonostante la sua opera abbia intrecciato diversi generi e sottogeneri letterari, dal romanzo popolare, al romanzo d'appendice, passando dal noir e dal romanzo psicologico, Simenon è noto soprattutto per essere l'ideatore del commissario Jules Maigret, protagonista di racconti e romanzi polizieschi. Iniziò la sua carriera di scrittore a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista. Negli anni Venti, trasferitosi a Parigi, divenne un prolifico autore di narrativa popolare. Negli anni Trenta raggiunse la fama grazie al personaggio di Maigret, i cui racconti e romanzi furono i primi a essere pubblicati con il suo vero nome; sino ad allora infatti, Simenon aveva pubblicato opere sotto pseudonimo. Fu quella la svolta nella sua carriera letteraria. Lo stile di scrittura di Simenon è caratterizzato, nonostante il vocabolario scarno e la rinuncia a qualsiasi finezza letteraria, da atmosfere molto dense.
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enkeynetwork · 5 years ago
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Fumetti, strisce e graphic novels per tutti
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Fumetti che passione! Un gran numero di persone amano leggere storie disegnate e illustrate in sequenza; il fumetto per alcuni consente di calarsi dentro le storie e le vicende molto più di un libro. Ma il fumetto è anche una forma grafica molto particolare, con le sue caratteristiche tecniche. Perché si fa presto a dire fumetto. Non tutte le storie disegnate sono uguali; il fumetto è un medium molto complesso. Per ciascuna tipologia di fumetto ci sono stili grafici, sistemi di inchiostrazione e colorazione, perfino ordini di lettura da rispettare. Basti pensare ai manga, che vanno letti da destra verso sinistra e non viceversa. Per questo un fumettista deve conoscere perfettamente le varie caratteristiche di ogni stile di fumetto. Solo così sarà in grado di utilizzare le soluzioni visive, grafiche e artistiche che meglio si adattano al suo progetto. Scopriamo quindi quali sono i tipi di fumetto più diffusi e le loro particolarità grafiche!
Le strisce a fumetti
Il primo formato di fumetti che andremo ad analizzare sono le strisce. Il nome deriva dal fatto che solitamente le strisce erano posizionate sui notiziari, in genere a fondo pagina, per "staccare" dagli articoli e concedere un po' di relax al lettore. Già da questa caratteristica appare evidente il primo aspetto caratteristico delle strisce. Che è senz'altro la brevità. Questa forma di fumetto tende a fare della rapidità il suo cavallo di battaglia. Le strisce si esauriscono in tre o quattro vignette (più raramente cinque). Anche se, da quando si sono "sdoganate" dai quotidiani, le strisce hanno cominciato ad articolarsi visivamente n modo diverso, ricoprendo a volte anche un'intera pagina.
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I Peanuts sono stati protagonisti di un grandissimo numero di strisce disegnate da Schultz Per fare un esempio, pensiamo alle celebri strisce di Schultz con protagonista Snoopy e Charlie Brown, o le barzellette del cane Sansone. Una striscia rappresenta una scenetta, una gag comica, o anche un momento di riflessione. Dev'essere fulminante, incisiva e diretta. Ne consegue che lo stile grafico preferito per questo tipo di fumetto è generalmente (ma non sempre) essenziale e ridotto ai minimi termini. Esistono anche strisce molto complesse, ma in genere maggiore sarà la quantità di dettagli, più tempo il lettore impiegherà a decifrarli. E di conseguenza l'immediatezza della striscia, il suo punto di forza, andrà persa. Inoltre le dimensioni ridotte delle strisce rendono difficile per il fumettista riempirle di personaggi o sfondi dettagliati. Meglio optare per soluzioni visive immediate, con stile caricaturale o comunque cartoonistico. Inoltre, le strisce spesso (ma non sempre) sono in bianco e nero, un retaggio della loro origine "giornalistica".
Il fumetto vero e proprio; i comic book
I comic-book sono l'equivalente del fumetto come lo intende ancora molta gente. Attenzione, però; quando si parla di fumetto non intendiamo certo solo un prodotto da bambini, come può essere "Topolino" (che, a essere precisi, è un'antologia di storie in formato tascabile). Molti fumetti celebri contengono situazioni di violenza o per adulti, ad esempio quelli ispirati alla saga di Star Wars. C'è poi tutto il filone supereroistico di matrice americana. Dalla Marvel (storica capostipite e "sinonimo" per eccellenza di fumetto di supereroi) alla Dark Horse, passando per la nostrana Bonelli, il comic-book può avere moltissime declinazioni.
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Comic book sui supereroi Di conseguenza anche lo stile grafico adottato varia considerevolmente. I fumetti per un target più basso useranno stili ancora molto cartooneschi e deformati, con colori squillanti e poche sfumature. Viceversa, via via che il target si alza (pensiamo alle serie nostrane "PK" e "Witch") lo stile potrà diventare più dettagliato, addirittura sperimentale. Aumenta anche l'uso della computer grafica e degli effetti di colore più ricercati. Il fumetto per adulti tende ad essere molto fotorealistico; i personaggi hanno proporzioni esagerate solo quando ciò è richiesto dalla storia (pensiamo a Hulk o agli Avengers), ma generalmente si muovono in un contesto realistico. Come realistico è lo stile grafico. L'inchiostrazione è più elaborata, la colorazione, quando c'è, è molto curata e professionale.
Le graphic novels
Che differenza c'è fra un fumetto e una graphic novel? In genere i comic book possono essere di due tipologie; o slegati fra loro, o collegati da un filo di trama portante, che inizia con il primo numero e si conclude con l'ultimo. Se nei fumetti autoconclusivi può esserci una pluralità di personaggi diversi in ciascun episodio, nelle serie il cast è in massima parte conosciuto al pubblico, che sarà felice di ritrovarlo nell'uscita successiva.
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Le graphic novels sono degli autentici romanzi a fumetti Le graphic novel invece sono storie raccontate in un'unica soluzione; in genere raccolte in volume per differenziarle dagli albi a fumetti veri e propri. La graphic novel è praticamente un libro raccontato per immagini, da cui il termine stesso ("novel" in inglese significa romanzo, quindi romanzo grafico).. Proprio perché ogni graphic novel è un esperimento a sé, il loro stile grafico può variare moltissimo in base alle preferenze degli artisti. Esistono splendide graphic novel realizzate ad acquerello, altre iper dettagliate e tecnicissime, alcune poetiche che fanno uso di immagini volutamente distanti dalla realtà... Insomma, c'è l'imbarazzo della scelta. Spesso questo genere di fumetto è utilizzato per gli adattamenti di film o serie tv. In un prossimo articolo ci occuperemo invece dei manga, i fumetti giapponesi, che hanno uno stile particolarissimo e le loro caratteristiche cristalizzate nel tempo. Read the full article
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thrillerlibri-blog · 8 years ago
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Ed McBain -
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Ezra Hannon, Richard Marsten, Curt Cannon, Hunt Collins, John Abbott... Quanti pseudonimi per Salvatore Albert Lombino (1926 - 2005), noto in tutto il mondo come Ed McBain o col nome registrato all'anagrafe dello Stato di New York, Evan Hunter. In fondo, come si chiama si chiama. Oltre che scrittore, è stato anche uno sceneggiatore per il cinema (Gli uccelli di Alfred Hitchcock) e per la TV (tra gli altri, due telefilm della serie Il tenente Colombo tratti dai suoi romanzi). Ma, principalmente, se dici Ed McBain dici Ottantasettesimo Distretto. Kiss è stato probabilmente il primo romanzo di Ed McBain che ho letto e, conseguentemente, il primo che mi ha portato a conoscere e a preferire il genere Police Procedural, lo stesso dei miei romanzi.
Cos'è il Police Procedural?
L'autore italoamericano ne dà la sua personalissima definizione in ogni suo libro, subito dopo i ringraziamenti e prima dell'incipit. «La città descritta in queste pagine è immaginaria. Persone e luoghi sono tutti immaginari. Solo le procedure della polizia sono basate su precise tecniche investigative.» Già questo distingue il Police Procedural dagli altri generi del poliziesco. Luoghi e persone rivestono fondamentale importanza ma, a maggior ragione, in questo caso sono le procedure della Polizia a fare da padrone. Precise. Meticolose. Leggi e regolamenti alla mano. Ma torniamo al nostro Ed McBain: ambienta le storie dell'Ottantasettesimo Distretto in un'immaginaria città dell'est degli Stati Uniti. New York, come affermano in molti, lettori e critici? Forse, perché è modellata sulla Grande Mela. Ma non è New York. Perché, se avesse voluto, McBain ci avrebbe ambientato le proprie storie. Non dimentichiamo che romanzi come Candyland, pubblicato anche in Italia col vero nome, Evan Hunter, sono ambientati a New York. E allora perché questa specie di mistero? Secondo me, in realtà, non c'è alcun mistero. La Città non è una città (concedetemi il gioco di parole) specifica. Al di là che negli Stati dove vige il federalismo (U.S.A., Germania, etc.) esistono alcune differenze nelle leggi sia a livello di singolo stato (esempio, Texas, Arizona, Baviera, Renania Palatinato, etc.) sia a livelli locali, McBain si è preso la libertà di "generalizzare" in qualche modo, in modo da offrire al lettore un modello delle reali procedure di polizia vigenti negli Stati Uniti. Da tutto ciò è facilmente intuibile che ambientare i romanzi a New York, Boston, Washington, etc., non avrebbe avuto senso. Per il suo scopo, l'autore doveva per forza usare un luogo immaginario. La Città, appunto. La Città, insomma, è un po' la commistione di tutte le grandi metropoli statunitensi, fatte di poliziotti, sì, ma soprattutto di persone. Di poveri come di ricchi. Di bianchi, come di neri, ebrei, ispanici, caucasici, orientali. Gente che vive in eleganti grattacieli o sopravvive in ghetti tanto degradati da non distinguerli dalle discariche a cielo aperto.  
Il bacio d'addio
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Kiss si svolge esclusivamente nel quartiere di Isola, dove ha sede l'Ottantasettesimo Distretto. L'intreccio narrativo di McBain non è unitario ma, come spesso accade nelle sue storie, è duplice. Similmente a due grandi fiumi che sono l'uno l'affluente dell'altro, si incontrano e si intrecciano fino ad arrivare alla foce del finale. Da una parte abbiamo uno dei protagonisti abituali, il detective seconda classe Stephen Louis Carella (Steve per amici e colleghi) che assiste, insieme alla madre e alla sorella, al susseguirsi di testimonianze nel processo a carico di due tossici per la morte del padre del di lui padre, Anthony. Dall'altra, deve indagare assieme al collega di sempre, il simpatico e paziente "testa pelata" Mayer Mayer, sui tentativi di omicidio subiti da una donna, Emma Bowles. L'indagine condurrà i due detective all'omicidio del principale sospettato e non della donna che avrebbero dovuto proteggere. Questa storia, sebbene non abbia fatto da soggetto per una trasposizione sul piccolo o grande schermo, a parer mio è comunque quella "più" cinematografica. Il motivo risiede nel titolo, Kiss, la canzone che Frank Sinatra canta nel romanzo e che, come in ogni film che si rispetta, fa da colonna sonora alla vicenda. Un bacio dolce, appassionato, vero, che il cantante italoamericano chiede alla sua donna, un bacio senza compromessi e senza bugie. "Un bacio di morte", lo definisce l'altro italoamericano. L'autore. Lo stile di McBain, fatto di continue e approfondite ricerche è coinvolgente, fatto apposta per prendere per mano il lettore e portarlo direttamente al centro della scena. Isola, Diamondback, i fiumi Harb e Dix, l'entrata del distretto con i globi verdi accesi durante le ore serali e notturne,... tutto diventa familiare. Come familiare è l'atmosfera che si respira a casa di Steve Carella, con la bellissima moglie Teddy, sordomuta, e i due vivacissimi gemelli April e Mark, entrati nell'adolescenza. Lo stesso vale anche per Mayer Mayer e la moglie Sarah, entrambi ebrei, che festeggiano tanto il Natale quanto lo Yom Kippur sebbene lui, per ragioni di servizio, non può essere osservante fino in fondo. Perché la Città, sebbene immaginaria, è viva e reale, come lo sono i personaggi. E, come la Città, Kiss è una storia costruita, non pensata. McBain, con l'abilità di un maestro artigiano l'ha messa su insieme, mattone su mattone rendendola solida, come e più dei grattacieli di una città reale. Carella, Meyer, Arthur "Artie" Brown, il tenente Peter "Pete" Byrnes... Nessuno di loro ha la testa a uovo, i baffetti piegati all'insù e milioni di celluline grigie. Sono veri, autentici poliziotti americani, da manuale, dotati di grande testardaggine, un po' d'istinto e, soprattutto, buone gambe. Il loro ufficio è la strada, perché è lì che si concentrano crimini e criminali.  
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E anche gli altri personaggi, da Emma Bowles al marito Martin, dall'investigatore privato Andrew N. Darrow a Lydia Raines, sono tratteggiati come fossero loro i veri e propri protagonisti. Tutti con una ben precisa psicologia, tutti perfettamente delineati, tutti veri. Qualcuno ha detto che nei romanzi di Ed McBain, anche i morti hanno personalità. Perché, come ho accennato in precedenza, le storie Police Procedural, e Kiss è una di queste, parlano di uomini, di persone che incontriamo ogni giorno per strada e con cui ci confrontiamo. Magari noi non abbiamo una vita così avventurosa e ricca di colpi di scena. Colpi di scena che il nostro Ed McBain promette e, soprattutto, mantiene. Sempre.  Recensione di Francesco Bonvicini Editing di Simone Pinna Click to Post
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pier-carlo-universe · 27 days ago
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Quanti miracoli: Un viaggio verso la scoperta di sé e delle connessioni umane. Recensione di Alessandria today
Nicholas Sparks ci regala un romanzo profondo e toccante, dove miracoli inattesi cambiano la vita di tre protagonisti.
Nicholas Sparks ci regala un romanzo profondo e toccante, dove miracoli inattesi cambiano la vita di tre protagonisti. Recensione Il romanzo Quanti miracoli di Nicholas Sparks è una storia che intreccia i destini di Tanner Hughes, Kaitlyn Cooper e Jasper, tre personaggi apparentemente distanti ma uniti da un filo invisibile. Tanner, un ranger dell’esercito con un passato complicato, si ritrova…
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Le dimensioni contano...
Tempo di vacanze. Ritmi più lenti e giornate non più scandite da impegni lavorativi o scolastici. Tanto tempo libero che noi lettori potremo dedicare alla nostra passione. Non c'è dunque momento migliore per inziare una grande opera. E prendeteci in parola quando diciamo “grande”.
Ecco a voi i giganti della fiction stampata, i colossi che troneggiano dagli scaffali di letteratura, autentici monumenti che celebrano l'arte del narrare. Ecco a voi una selezione di romanzi che infrangono il muro delle 1000 pagine. Non lasciatevi scoraggiare dalle dimensioni. Qui sotto trovate un ristretto gruppo di maestri capaci di travolgere i coraggiosi con fiumi di pagine straripanti emozioni, riflessioni, passioni... e di ripagarli ampiamente dell'audacia dimostrata.    E considerate due indubbi vantaggi: è facilissimo trovarli disponibili nelle nostre sedi e difficilmente ne finirete uno a metà vacanza. Sicuro non rischierete di trovarvi senza qualcosa da leggere. Cominciamo con qualche classicone senza tempo. Si, certo, anche chi non li ha letti conosce a grandi linee la trama ma tutte le trasposizioni, cinematografiche o televisive, per quanto ben fatte, non riescono ad egualiare la complessità, la ricchezza di particolari che trabocca dalle pagine di un libro. Subito una coppia di campioni francesi, Alexandre Dumas con Il Conte di Montecristo (1.238 p.) e Victor Hugo con I Miserabili (1.353 p.). Storie potentissime, assolutamente senza tempo. Poi la grande scuola russa. Ovviamente Guerra e pace (1.415 p.) di Lev Tolstoj e l'ultimo capolavoro di Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov (2.038 p.) detentore del record di spessore nelle edizioni in tomo unico. Maneggiarlo assicura anche un discreto allenamento di bicipiti e tricipiti. Consigliati per entrambi, almeno all'inizio, carta e penna dove segnare nomi e gradi di parentela dei personaggi. Completano questa sorta di pantheon di semidei del romanzo classico, il Charles Dickens del Il Circolo Pickwick (1.054 p.) e Robert Musil che entra a pieno titolo nel gotha con L'uomo senza qualità (1.264 p.) librone straodinario che condensa come pochi altri lo spirito del 900 europeo.
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Bene, ma se volessimo qualcosa di più “contemporaneo” per appesantire la valigia, una scrittura meno datata, più moderna? Diversi autori attivi nelle ultime decadi hanno manifestato una certa inclinazione per il gigantismo. Primo tra tutti Ken Follet. Dai suoi due cicli principali possiamo attingere a piene mani. La Trilogia di Kingsbridge propone I pilastri della Terra (1.030 p.), Mondo senza fine (1.367 p.) e si conclude con il recente La colonna di fuoco (“solo” 907 p.). Anche per la Century Trilogy ci attestiamo su questi numeri impressionanti. La caduta dei giganti, L'inverno del mondo e I giorni dell'eternità fanno oltre 3000 pagine in tre. Altrettanto fine compositore di grandi narrazioni è un altro suddito britannico, Edward Rutherfurd autore di Sarum (1.076 p.) e di London (1.005 p.) che seguono le vicende delle due città inglesi, Salisbury e Londra...dall'epoca della conquista romana ai nostri giorni! La travagliata ed illuminante latitanza indo-afghana delle ex detenuto australiano Gregory David Roberts rivive nei suoi due monumentali Shantaram (1.177 p.) e L'ombra della montagna (1.085 p.). Ideali per accompagnare viaggi esotici. Ancora la povertà, la saggezza e la magia della terra indiana si dispiegano, è il caso di dirlo, nel mastodontico volume di Vikram Seth  Il ragazzo giusto (ben 1.618 p.)
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Per gli amanti del thriller fa al caso It (1.315 p.) del prolifico Stephen King. Sempre alta tensione ma ambientazione pre apocalisse ne Il quinto giorno (1.032 p.) del tedesco Franz Schatzing. Chiudiamo con due libri davvero contemporanei, quasi sperimentali. Parliamo di Contro il giorno (1.127 p.) di Thomas Pynchon e di Infinite Jest (1.280 p.) del compianto David Foster Wallace. Pressochè impossibile darne un breve sunto tanto le trame sono variegate, dense e digressive. Si tratta di vere e proprie esperienze che lasciano qualcosa a chi gira l'ultima pagina.
Buon viaggio!
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pangeanews · 5 years ago
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“Quello che importa è l’energia vitale qui e ora”. Su Göran Tunström, un classico contemporaneo, uno scrittore straordinario. Ovviamente, i tromboni che eleggono il Nobel lo hanno dimenticato
All’annuncio del vincitore del Nobel per la letteratura ogni volta io mi domando per quale ragione i tromboni dell’Accademia svedese da anni vadano a caccia di presunti geni in giro per il mondo e non si siano mai accorti di chi avevano sotto il naso. Forse è stata una dimenticanza casuale, o forse no. Vallo a sapere!
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Di una cosa però sono arciconvinto ed è che se ai nostri giorni ha ancora un senso utilizzare la parola “classico” riferita a uno scrittore lo dobbiamo a Göran Tunström (1937-2000). Un autore svedese originalissimo, uno dei pochi, veri, autentici classici contemporanei. Le sue storie partono dalla realtà, ma ben presto entrano in una dimensione surreale e visionaria per portare un messaggio sull’uomo e sul senso della vita. I personaggi devono quasi sempre combattere contro qualche trauma che li rende momentaneamente degli sconfitti, ma la ferita non è necessariamente un ostacolo insormontabile, anzi diventa un trampolino per scoprire se stessi e dare un nuovo significato alla propria vita. A patto di avere del coraggio. Come ebbe lo stesso Tunström, che da piccolo soffriva di asma, a dodici anni perse il padre e a vent’anni cadde in una profonda depressione. A tredici anni però aveva cominciato a scrivere e continuerà a farlo fino al febbraio del 2000 quando morì a Stoccolma. Vivere e scrivere furono per lui un’unica cosa. Lo scopo della sua esistenza e del suo lavoro fu uno solo: la ricerca del vero senso della vita.
* Tutta la produzione di Tunström, a cominciare da “L’oratorio di Natale”, uno dei più straordinari romanzi contemporanei che consiglio vivamente di leggere e rileggere, è caratterizzata dall’interesse per l’esperienza interiore, per l’individuo come portatore di sogni, per la costante ricerca dei significati del vivere, senza quasi mai dedicare attenzione a tematiche di attualità, di critica sociale, o tanto meno di politica. Ecco che mi tornano in mente i tromboni dell’Accademia svedese, ma lasciamo perdere. Nei suoi libri il mondo è segnato dal dolore e dalla sua forza di formare o deformare le persone. Davanti a una perdita, a un grande dolore, c’è chi reagisce isolandosi dagli altri e chiudendosi nella sordità e nella durezza. Per Tunström invece è importante mantenere aperti i canali della comunicazione, dell’ascolto, della comprensione. In una vecchia intervista spiegò bene la sua filosofia: “Non mi piacciono parole che sono diventate logore per il troppo uso come Dio o religiosità. Quello che importa è l’energia vitale qui e ora. È come acqua che riposa nel nostro profondo e noi dobbiamo aprire dei canali per rendere possibile la comunicazione. Con i miei libri io voglio predicare questa possibilità di comunicazione”.
*
Quella di Tunström è una narrativa all’insegna di un’espressività forte, destinata a porci domande da fare tremare le vene ai polsi. Sono storie costruite su un inestricabile intreccio di gioie e dolori, che può essere sciolto dell’invenzione poetica, la sola capace di ricreare di volta in volta il mondo. In un racconto Tunström fa dire a un personaggio una frase illuminante: “Così è la vita vera. Una terra arida. Una mulattiera in mezzo alle rocce. Qua e là qualche sottile filo d’erba, che trema al vento. Cielo e orizzonte, cime di monti. Grandi distanze tra i pozzi. Un filo di fumo presso una capanna. Pecore che cercano il pascolo. Un pastore. Tutte le altre cose che ho visto sono state eccezioni: le sorgenti alle quali ho bevuto. Le città che ho visitato, illuminate dall’elettricità. I letti soffici con lenzuola e coperte. Le tavole ben apparecchiate. Eccezioni”. Ecco, partendo da questa apparente banalità della realtà, Tunström grazie all’emozione delle sue invenzioni è capace di fare quel passo in più, quello decisivo, per cambiare la visione del mondo e della vita, per illuminare la profondità dell’anima degli uomini e portarci a scoprire quelle che lui ha definito “cattedrali di sogni e di idee”.
Silvano Calzini
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pangeanews · 5 years ago
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“E qualcuno lo sentì dire di aver visto il fantasma di Mishima”. Riflessioni sulla testa mozzata di Yukio (che spopola in UK)
Gioco di specchi cronologici. Nel 1959 Yukio Mishima pubblica La casa di Kyoko. Benedetto dalla precocità, Mishima ha 34 anni: la pubblicazione, dieci anni prima, nel 1949, di Confessioni di una maschera, lo segna come l’eroe della nuova letteratura nipponica. Il 2 novembre del 1949, all’editore delle ‘Confessioni’, Mishima scrive: “Ho rivolto verso di me la lama dell’analisi psicologica che fino ad oggi avevo affilato su personaggi immaginari e, nel tentativo di vivisezionare me stesso con le mie mani, mi sono ripromesso una precisione scientifica, di essere ciò che Baudelaire chiama ‘la vittima e il carnefice’”. Due cose: la lama, tragicamente rivolta, vent’anni dopo, contro la propria carne. La lama che ogni scrittore deve usare per fare macello di sé, sushi dei propri pensieri, uccidendosi: vittima e carnefice. Dopo aver svuotato se stesso, con le viscere dell’io che si muovono, a terra, come anguille, Mishima disseziona la Storia, passa dallo scritto all’atto. Nel disgusto degli scrittori, degli scriventi.
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Si scrive, sempre, per agire – la parola agisce in chi legge, con la dolcezza di un sibilo, con la perentorietà di un ordine.
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La casa di Kyoko fu un insuccesso. “Ho impiegato più di un anno a scriverlo, è stato un clamoroso insuccesso di pubblico, io mi sento terribilmente depresso”. Nonostante le intenzioni, alte, denunciate in una intervista, citando Flaubert e Stendhal. “L’essere umano, isolato, sorregge l’epoca moderna con il proprio isolamento. Penso che la caratteristica essenziale dei giovani d’oggi sia il nichilismo. Ma la parola contiene varie sfumature. Chi ha la consapevolezza di essere nichilista riesce a convivere con questo atteggiamento, chi non ne è consapevole ne viene distrutto”. Anche l’idea di fare un film sul romanzo naufraga. Masaichi Nagata, però, sessant’anni fa, il presidente della Daiei Studios di Tokyo, fa leva sul narcisismo di Mishima: gli propone di recitare nella pellicola diretta da Masumura Yasuzo, Una canaglia. Mishima accetta – lo scrittore, scagliato, s’incaglia nella necessità di applausi. “Solo pochi mesi prima, si era pensato come il Thomas Mann del Giappone moderno, ritirato nel suo studio per creare capolavori immortali; ora sogna di essere la versione giapponese di James Dean”, ironizza Damian Flanagan, inglese, studioso di letteratura estremo orientale, già autore di una biografia su Mishima e di diversi saggi su Natsume Soseki, in un articolo uscito sul “TLS”, Big in Japan.
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In generale, credo che gli inglesi – più avvezzi al sarcasmo che al tragico, a roteare la pipa più che la katana – non riescano a capire l’intensità – e la fragilità – di Mishima (come, a suo tempo, a fine Ottocento, restarono letteralmente sconvolti dalla lettura di Dostoevskij). Tuttavia Flanagan tocca un punto centrale: dal 1959 la vita di Mishima si orienta al gesto culminante, il suicidio pubblico consumato nel 1970. Il pretesto è la pubblicazione di due libri che sanciscono un ritorno di fiamma tra Mishima e gli anglofoni: Star, breve racconto sul mondo mercificato del cinema (maschere di maschere), pubblicato da New Direction, del 1960, e Trastulli di animali, inquietante rapporto a tre, dall’eros nero, edito in origine nel 1961, ora in catalogo Penguin. “Straordinario talento letterario, Mishima è stato artista dalle molteplici sfaccettature, consapevole della potenza del tempo. Ossessionato fin da ragazzo dalla Salome di Oscar Wilde, dalla descrizione erotica della decollazione di Giovanni Battista, Mishima desiderava, benché bellissimo, porre fine alla propria vita come una stella sul palco. Nel 1970, commise il suicidio rituale, seguito dalla decapitazione, offrendo, con sinistro umorismo, la propria testa mozzata ai lampi delle macchine dei fotografi, ai sogni dei cineasti”, scrive Flanagan.
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Nel 1961, come si sa, Patriottismo esplicita il tema: “Il ventotto febbraio dell’undicesimo anno dell’era Showa (due giorni dopo il colpo di Stato militare del ventisei febbraio), il tenente del primo reggimento della guardia imperiale, Takayema Shinji, sconvolto dalla notizia della presenza di alcuni suoi compagni nelle truppe ribelli e indignato per l’imminente scontro tra milizie appartenenti allo stesso esercito imperiale, si è squarciato il ventre con la spada di ordinanza”. L’esibizione è sempre legata all’ambizione dell’esilio; stare sul palco come sul seggio della ghigliottina.
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Colpito dalla morte di Mishima, Yasunari Kawabata, nel discorso commemorativo, scrive: “Potrò incontrare un altro amico e maestro? Alla pubblicazione del primo e del secondo libro de ‘Il mare della fertilità’, espressi il mio apprezzamento. Ritengo che questa sia la più mirabile opera giapponese dal Genji monogatari in poi”. Nel 1981 Marguerite Yourcenar pubblica Mishima o La visione del vuoto (in Italia lo stampa Bompiani) discutendo dell’ineffabile distanza – e della inquieta affinità – tra Oriente e Occidente, vita e morte, ombra e luce. “Il mare della fertilità, nel suo complesso, è un testamento. Il titolo, innanzi tutto, sta a provare che quest’uomo così prepotentemente vivo ha preso le distanze dalla vita. Questo titolo è preso, infatti, dall’antica selenografia degli astrologi-astronomi del tempo di Keplero e Tycho Brahe. ‘Il mare della fertilità’ fu il nome dato alla vasta pianura visibile al centro del globo lunare, e che ora sappiamo essere, come l’intero nostro satellite, un deserto senza vita, senz’acqua e senz’aria. Non si può dimostrare meglio fin dall’inizio che, di quel gran ribollimento che scuote una dopo l’altra quattro generazioni successive, di tanti finti successi e autentici disastri, ciò che alla fine risulta è Niente, il Nulla. Resta da sapere se questo niente, che si avvicina forse al Nada dei mistici spagnoli, coincida completamente con quello che chiamiamo in francese rien”.  Una buona definizione dell’allunaggio, tra l’altro, fenomeno di lunatici commenti.
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Capire che non lo ascoltano, che il momento supremo si logora in un super inferno, in una superiore incomprensione, è il segno. “Si rende presto conto che gli ottocento uomini adunati non lo ascoltano. L’invito a interrogarsi sulla coerenza della funzione delle Forze di Autodifesa, negata da una costituzione imposta da potenze straniere, e l’appello a seguirlo in un’azione per la salvezza dell’identità nazionale cadono nel vuoto della derisione e dell’insulto” (Virginia Sica nella Cronologia al ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie i Romanzi e racconti 1949-1961 di Mishima). L’incarnazione icastica del vuoto.
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Nella lotta non contro ma dentro il vuoto si esprime il lavoro dello scrittore. “Sempre più gli saliva dentro un senso di disgusto e di vuoto, un vuoto che non era ancora il Vuoto perfetto del giardino della badessa, bensì il vuoto di ogni vita, fallita o riuscita, o ambedue insieme”, scrive la Yourcenar. L’esito della lotta ci consegna la natura del vuoto in cui scriviamo: lo scrittore usa la testa per decapitarsi. (d.b.)
***
C’è una fotografia della famiglia seduta su una fila di sedie durante la cerimonia di commemorazione funebre che, nonostante una quasi generale disapprovazione del seppuku, attirò migliaia di persone. (Sembra che quel gesto violento avesse profondamente sconcertato certa gente passivamente uniformata a un mondo che le appariva senza problemi. Prenderlo sul serio, sarebbe stato rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita. Meglio non vedere in quel gesto che un misto assurdo ed eroico di letteratura, teatro e bisogno di far parlare di sé). Azusa, il padre, Shizue, la madre, Yoko, la moglie, avevano certamente ciascuno il proprio giudizio e la propria interpretazione. Li si vede di profilo, la madre con la testa un po’ china, le mani giunte e un’espressione che il dolore fa sembrare imbronciata; il padre ben dritto, in atteggiamento signorile e composto, probabilmente consapevole d’esser fotografato; Yoko, graziosa e impenetrabile come sempre; e, più vicino a chi guarda, sulla stessa fila, Kawabata, il vecchio romanziere che aveva ricevuto il Nobel l’anno prima, amico e maestro del defunto. Quel volto emaciato di vecchio è di estrema purezza; la tristezza vi si legge come sotto un foglio traslucido. Un anno dopo Kawabata si suicidava, senza alcun rito eroico (si accontentò di girare la chiavetta del gas), e qualcuno lo sentì dire, durante l’anno di aver visto il fantasma di Mishima.
E ora, tenuta in serbo per la fine, l’ultima immagine e la più traumatizzante; così sconvolgente che è stata raramente riprodotta. Due teste sul tappeto sicuramente in acrilico dell’ufficio del generale, messe una accanto all’altra come birilli, così vicine che quasi si toccano. Due teste, due bocce inerti, due cervelli che il sangue più non irrora, due computer bloccati, che non selezionano e non decodificano più il flusso ininterrotto di immagini, impressioni, sollecitazioni e risposto che ogni giorno a milioni investono un essere, formando tutte insieme quella che si chiama la vita dello spirito, e anche quella dei sensi, e motivando e dirigendo i movimenti del resto del corpo. Due teste mozzate, passate ormai in altri mondi in cui regna un’altra legge, e che a guardarle suscitano sbigottimento più che orrore. Ogni giudizio di valore, sia esso morale, politico o estetico, in loro presenza, momentaneamente almeno, è ridotto al silenzio. La nozione che s’impone è più sconcertante e più semplice: fra le miriadi di cose che sono, e che sono state, queste due teste sono state; e sono. Ciò che riempie quegli occhi senza sguardo non è più lo sventolante vessillo della protesta politica, né alcun’altra immagine intellettuale o materiale, e neppure il Vuoto contemplato da Honda, e che appare, improvvisamente, solo come un concetto o un simbolo tutto sommato troppo umano. Due oggetti, relitti già quasi inorganici di annientate strutture, che anch’essi, una volta passati attraverso il fuoco, saranno ridotti a residui minerali e cenere; neppure soggetti di meditazione, perché ci mancano i dati per meditare su di essi. Due relitti, sospinti dal Fiume dell’Azione, e che l’immensa ondata ha lasciato per un attimo in secca sulla sabbia, e poi trascina via.
Marguerite Yourcenar
Traduzione italiana di Laura Guarino
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pangeanews · 6 years ago
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“Chi di noi alla domanda se avesse preferito vivere nella Pietroburgo di Stalin o nella Roma di Mussolini, sceglierebbe la prima?”. Dialogo con Giampiero Mughini intorno a Interlandi, il giornalista imperdonabile
Forse non è un caso che l’autobiografia di Giampiero Mughini, “uno che non si è negato ad alcuna contraddizione”, mi dice, Memorie di un rinnegato, esca quasi in concomitanza – sarà sulla scena tra un paio di settimane – a uno scatto di mesi dalla riedizione del libro più libro, dal libro più bello – per nitore formale – e più sudato e più sfortunato e più vilipeso. Era il 1990, Mughini s’era sentito di raccogliere una eredità, per così dire, sentimentale se non intellettuale, da Leonardo Sciascia, morto nel novembre di quarant’anni fa, che su quel tema e su quel tipo avrebbe voluto scrivere. Soprattutto, voleva, finalmente, il libro. “Sarebbe stato il primo libro vestito e calzato della mia vita, e difatti ci avrei lavorato furiosamente per un anno e mezzo, a un tempo in cui mi svegliavo straripante di energia alla mattina mai dopo le sei e venti”, ricorda lui, ora, in una introduzione tonante, Storia di un libro un poco piacione. Come fanno i veri scrittori – e dovrebbero fare i veri giornalisti – Mughini aveva scelto il personaggio ‘scomodo’, anzi, addirittura imperdonabile, geniale e bastardo, ambizioso e vigliacco, d’intelligenza volitiva e bugiarda, con cui sollevare le sottane della Storia patria, mostrandone le vergogne luride, puzzose. Il libro s’intitolava A via della Mercede c’era un razzista (ora Marsilio, allora Rizzoli), aveva l’ardire di raccontare, con ardimento narrativo, “Lo strano caso di Telesio Interlandi”, nome che al solo pronunciarlo – non fosse che pare quello di un furibondo cabarettista – ti si rovinano i padiglioni. Era proprio lui, in effetti, il mefistofelico direttore dello schifoso La difesa della razza. Ma era anche lui, proprio lui, il giornalista di razza, guida de Il Tevere e di Quadrivio, che chiacchierava con Pirandello, aveva insegnato il mestiere a Vitaliano Brancati, veniva elogiato con parole di velluto da Guido Piovene, faceva mettere in scena i suoi lavori da Anton Giulio Bragaglia, aveva tradotto con impeto le poesie ‘comuniste’ di Aleksandr Blok, era additato da Longanesi come il giornalista più capace del suo tempo. Attraverso la storia truce di Interlandi, insomma, vien fuori che il fascismo fu fucina di cultura vera, solida, e che gli esseri umani, specie con la testa, sono più sfaccettati di ciò che si crede. “Prendeteli a uno a uno i destini di quegli scrittori e di quei giornalisti e vedrete quanto sia zigzagante la linea delle loro convinzioni e appartenenze”, scrive Mughini, e che, insomma, “non c’era alcun vallo profondo che spaccasse in due l’Italia abitata dai fascisti e quella abitata dagli antifascisti”, la storia delle virtù antimussoliniane a oltranza è un po’ una fola, tranne rari casi. Bastò questo, però, raccontare un uomo scomodo e il suo tempo, con quel tanto di tridimensionalità – d’altro canto, come e dove li sistemiamo Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti, Prezzolini e Bilenchi, Curzio Malaparte e Longanesi e Panzini e Soffici e Marinetti, allora? – per gridare all’eresia. Certe cose non andavano scritte, certi uomini era bene lasciarli a frollare nell’oblio. Così, nei Novanta, si squalificò il libro di Mughini. Sembra passato un secolo. Nel frattempo l’epoca fascista è studiata, sviscerata, messa in mostra, culturalmente riabilitata, è oggetto di romanzi malriusciti e di un livido ‘successo’ editoriale. Meglio rientrare nell’‘Interlandi’ di Mughini e capire chi eravamo. E chi siamo, ancora, forse, fatta razzia del residuo intelletto. (d.b.)
Pongo subito due fatti. Uno formale. L’altro affettivo. Quello formale. ‘L’Interlandi’, chiamiamolo così, è un libro felice, viziosamente narrativo, in cui (lo dico con tutto il cinismo letterario possibile) scegli un personaggio ‘scomodo’, anzi, sepolto nell’oblio (all’epoca), castrato dalla Storia, per farne un breve eroe romanzesco, con valzer di sontuose e sinuose comparse. È il libro che ti è più caro? Secondo. Il libro nasce intorno a un rapporto di rispetto al cubo e di amicizia con Leonardo Sciascia.
Quello che ho dedicato a Telesio Interlandi la bellezza di trent’anni fa, è un libro che per me sa di amaro. Prima che la Marsilio mi chiedesse di ripubblicarlo non lo avevo mai più letto né sbirciato. Nato dal mio amore intellettuale e dalla mia amicizia per Leonardo Sciascia, era il primo libro cui avevo lavorato come si deve con un libro: mesi e mesi di ricerca, montagne di libri letti a documentarmi, i capoversi limati a uno a uno incessantemente, la marcia della narrazione tenuta sempre in quarta in modo che il lettore non si allontani. Era un libro in cui l’editor della Rizzoli del tempo, Edmondo Aroldi, credeva molto. Accadde invece che a pochi giorni dell’uscita il libro venisse maltrattato nel giornale di cui ero una firma di punta, Panorama. Un imbecille della terza fila del giornale mi rimproverava di avere attenuato il giudizio negativo sull’Interlandi direttore de “La difesa della razza”. Se è per questo un ulteriore recensore, Sandro Gerbi, mi accuserà di avere voluto “rivalutare” l’Interlandi razzista e fascistissimo. Sul Corriere della Sera lo storico Paolo Alatri scrisse del libro limitandosi a mettere in fila i personaggi da me citati, alcune centinaia. E questo perché non poteva e non voleva “attaccare” un libro pubblicato dalla Rizzoli, la casa editrice del Corriere. Non uno, ho detto non uno, salutò il libro con simpatia. Naturalmente non avevo voluto “rivalutare” nessuno, e ci mancherebbe. Avevo raccontato un uomo reale – il miglior giornalista del fascismo, secondo Leo Longanesi – nell’Italia reale degli anni Venti e Trenta, dove non esisteva alcun vallo profondo che separasse i fascisti dagli antifascisti, e ammesso che di antifascisti ce ne fossero a parte quelli che erano esuli a Parigi o al confino sulle isole. A rileggerlo oggi, di quel mio libro non muterei neppure una virgola. Dirò di più, mi sembra che in questi trent’anni il libro sia ringiovanito, le sue parole suonino ancora più vere.
Cosa ti intrigava di Interlandi, uno che traduceva Aleksandr Blok nei Venti e vent’anni dopo era il direttore del fatidico giornale antisemita?
Che cosa mi intrigava di Interlandi? Tutto. Che fosse un siciliano e un antisemita, che fosse un mussoliniano al cento per cento e uno che aveva tradotto dal russo le poesie di Blok, che fosse uno che aveva diretto due giornali ed era dunque una delle “voci” del regime e che a cinquant’anni tutto del suo destino si fosse interrotto per sempre, che a salvarlo dalla cella fosse stato un avvocato bresciano socialista e antifascista che aveva avuto pietà per “un vinto”. Che cosa si può volere di più per il protagonista di un proprio libro?
Quando fu pubblico, il tuo libro creò scompiglio. Cito Nicola Tranfaglia da la Repubblica, era il 10 febbraio 1991. “Mughini non tace le infami campagne contro gli ebrei condotte da Interlandi né l’assurdità degli articoli che costellano La difesa della razza ma sembra voler dire al lettore: d’accordo Interlandi fu fascista e antisemita, sostenne la parte peggiore dell’ideologia fascista ma quanti altri giornalisti e intellettuali fecero come lui o addirittura peggio di lui eppure, cambiando casacca al momento giusto, sono riusciti nel dopoguerra a tornare sulla scena, a scrivere sui maggiori giornali, ad essere coccolati e riveriti come autentici democratici? Di qui un’innegabile simpatia (che percorre tutto il volume) per il personaggio a cui si intitola e un’indubbia tendenza a metterne in luce gli aspetti migliori del carattere e a prendere per oro colato quelle testimonianze (soprattutto familiari) che ne nascondono i difetti e ne pongono in evidenza le qualità umane e professionali”. Come hai preso le scudisciate di amici o detrattori, con spavaldo cinismo o con arcana delusione?
No, di quel giudizio di Tranfaglia non è veridico nulla. Non ho mai provato la benché simpatia umana per Interlandi. Semplicemente non ho scritto il libro come avrebbe fatto un retore dell’antifascismo. Ripetendo dalla prima all’ultima riga che Interlandi era politicamente e intellettualmente un mostro da quale tenersi lontano le mille miglia.
Oggi è il tempo giusto per tornare a Interlandi o ti accusano di rinfocolare la nuova, patologica onda degli antisemiti?
Nei confronti degli spregiatori di un libro che reputavo sacrosanto, provavo solo disprezzo intellettuale.
Mi pare interessante lo scambio di lettere, che pubblichi, tra Interlandi e Vitaliano Brancati, nel 1949. Brancati bolla l’impegno giornalistico durante il Ventennio come “sciocchezze di ventenni”, manco fosse una gita in territorio strano. Interlandi gli ricorda chi è stato e chi erano in una lunga replica (non pubblicata). Insomma, c’è chi ha pagato per tutti l’appartenenza al fascismo e chi ne è uscito pimpante… è così?
Il vicedirettore del “Quadrivio” era Luigi Chiarini, uno che era stato lì lì per scrivere un libro su “il cinema e la razza”. Nel dopoguerra Chiarini capovolse le sue posizioni – com’era nel suo diritto – e divenne uno dei maestri viventi della cultura cinematografica italiana. Uno scrittore che era stato fascista e che tuttavia era una persona per bene, Marcello Gallian, nel dopoguerra non aveva i soldi di che mangiare. Si presentava a Fidia Gambetti – che aveva cominciato da poeta fascista, era andato volontario in Urss e poi era divenuto comunista – con qualche sua opera sì da averne qualche migliaia di lire. Una di quelle opere è oggi conservata a casa mia.
D’altra parte, Interlandi svezza Brancati, dialoga con Pirandello e chiacchiera con Bragaglia, è giornalista sagace, tra i sommi, nell’era che ha fondato il grande giornalismo italiano. Insomma, leggendoti è chiaro che il fascismo, culturalmente (tra Marinetti, Malaparte, Ungaretti), sia stato fucina creativa straordinaria. A tuo avviso è ancora difficile riconoscere i meriti culturali di quel momento, di quel fermento?
Durante il fascismo c’è stata una cultura italiana viva e vitale. Scrittori, pittori, giornalisti, architetti razionalisti. La dittatura non aveva soffocato e asfissiato la cultura. Moravia e De Chirico e Gio Ponti vissero e lavorarono. Chi di noi alla domanda se avesse preferito vivere nella Pietroburgo di Stalin o nella Roma di Mussolini, sceglierebbe la prima?
Gli uomini vanno narrati e ascoltati nelle loro contraddizioni, senza pregiudizi o moralismi spuri (il Contra judaeos di Interlandi, terribile fascio di articoli, è elogiato sul Corriere da Guido Piovene), senza assolvere né dannare. Questo è quanto? O c’è altro? Oggi, per altro, chi è che vorresti narrare, disseppellendolo dalle brume della Storia o di qualche altra dannazione? 
Chi vorrei scegliere come protagonista di un mio libro? L’ho fatto nel caso del libro che uscirà fra un paio di settimane. Ho scelto me stesso, per dirne di uno che ne ha viste di cotte e di crude e che non si è negato ad alcuna contraddizione. “Memorie di un rinnegato”, è il titolo del libro.
*In copertina: particolare dal numero del 20 settembre 1938 de “La difesa della razza”, la rivista quindicinale diretta da Telesio Interlandi dall’agosto 1938 al giugno 1943
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pangeanews · 7 years ago
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Cari scrittori, pubblicate in clandestinità e preferite la fuga alla fama. Riflessioni su un testo di Sciascia scritto sul cranio di Tolstoj
C’è un fatto. Indelebile. Il poeta, lo scrittore, l’artista. Osa. Osa quello che gli altri non fanno. Perché? Perché la facoltà immaginativa gli fa immaginare cose che gli altri nemmeno si sognano. Perciò. Si esaurisce nella bellezza di un gesto – fiorisce nell’errore – coltiva l’irragionevole. Fugge le consuetudini. Fugge. Nel suo libro più segreto e sghembo, Nero su nero, pubblico nel 1979, specie di zibaldone intriso di corroborante cinismo, Leonardo Sciascia si confronta con la figura tonante di Lev Tolstoj. E lo becca al cuore. “La vita di Tolstoj si svolge tutta sotto il segno della fuga. Fuga dalla condizione sociale ed economica in cui è nato. Fuga dal destino di scrittore. Fuga da se stesso. Fuga dalla vita. Anche il suo matrimonio con Sofija Andreevna è una fuga: forse veramente amava Liza, la sorella di lei, come tutti in famiglia credevano”. Sciascia ha ragione. I testi più autentici di Tolstoj riferiscono la fuga: La confessione è fuga dalla scrittura – il titanico russo ripudia Anna Karenina e Guerra e pace – e dall’esistenza – il libro accoltella il dolore e si centra sul desiderio del suicidio – Padre Sergij è una fuga dai fari dell’aristocrazia, una fuga dentro i recessi di Dio, poi una fuga pure da Dio; Le memorie di un pazzo è una fuga dalla ‘ragione’ che regola il mondo. Anche i personaggi dei grandi romanzi di Tolstoj fuggono: Anna Karenina si getta con la foga di una fuggiasca tra le braccia di Vrònskij per poi buttarsi sotto un treno; il Principe Andrej di Guerra e pace fugge l’ardore della vita ritirandosi nel nichilismo. Eppure, ogni volta, la fuga, pur reiterata e ritentata, fallisce, è un aborto. Come accadde a Tolstoj, per altro, che scrisse la fuga senza praticarla, se non a 82 anni, nel 1910: pensava di scappare dalla moglie, dai figli, troppi, dal segretario ingombrante, Certkòv, dal ‘tolstojsmo’ (che gli faceva sonoramente schifo), dai fan, dai contadini che amava con ribrezzo e dagli aristocratici che odiava e basta, da chi lo riconosceva come il più grande scrittore del mondo occidentale, di sempre. Tolstoj, fuggendo, voleva azzerare se stesso. Non ci riuscì. “Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l’anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi”, scrisse alla moglie, prima di lasciarla per sempre. S’ammalò per strada. Fu ricoverato presso la stazione di Astàpovo, presa d’assalto dai cronisti di mezzo mondo – quello sputo di melma sul muso russo divenne il solido platonico della letteratura mondiale – e lì spirò, “‘Me ne vado da qualche parte, così nessuno mi troverà… Lasciatemi in pace… Bisogna filarsela via, filarsela da qualche parte’: sono le ultime parole di Tolstoj, nella notte dal 6 al 7 novembre del 1910”, annota Sciascia. Il gioco, vertiginoso, piace allo scrittore siciliano che avverte in quella fuga, paradossale e pazzesca, un tigrato istinto. “Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine”. Sciascia ha capito. Lo scrittore, il poeta, l’artista, vive in modo transitivo, traslato, trapuntato nel nulla. Fugge. Tutto. Perché nella fuga la vita acquista una nitidezza sana, decisiva. Le cose si vedono solo quando decidi di perderle. I punti di fuga di un panorama si percepiscono dalla distanza: il mondo si conquista uscendo dal mondo, l’uomo lo si conosce fagocitando l’ego, facendo falò dell’io. Morale. I grandi poeti sono quelli delle grandi scelte. E qui, in questo tempo misero, di guerriglia sottopelle, l’unica scelta è la fuga, la clandestinità. Lo dico. Lo ripeto. Lo scrittore, se è vero, sputa in faccia al sistema editoriale odierno. Trova che sia un insulto finire in quella barbarica voragine delle Feltrinelli o delle Mondadori; pensa che sia assurdo disintegrarsi nel mercato digitale propalato da Amazon, dove Saul Bellow o Barbie Girl è uguale; pensa che sia un obbrobrio pubblicare per editori-transatlantico che per far quadrare il fatturato, per fare quadrato sull’ovvio, pubblicano l’autobiografia di un cantante o il ricettario di un cuoco o il diario patetico di blogger prepuberale o i quattro stracci di un istanpoet, istantaneamente da vomitare. Questo, sia chiaro, non per un misero criterio di superiorità – nei fatti di scrittura, vivaddio, l’unica forma di classismo è il genio – ma di verità. Io, lì, non ci sto. Fuggo da quel sistema. Perché quel sistema non dà valore a ciò che per me è tutto. Il verbo. In quei luoghi il verbo non risuona. Muore. Per questo. Il poeta, che non ha niente da perdere e cade sempre con il muso verticale all’asfalto, preferisce gli editori clandestini, le rarefazioni di luce nell’indifferenza. Preferisce voltare le spalle. Predilige la fuga dalla fama, da tutto. Pretende, come santa Chiara, il privilegio della povertà: non vuole condizionamenti né condoni. I poeti, gli scrittori, gli artisti devono farsi cercare, accanitamente, devono essere bloccati, così limpidi, nell’atto della fuga, senza mendicare la lettura di alcuno. (d.b.)
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pangeanews · 7 years ago
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Tutti parlano di Star Wars. Ma in Inghilterra scoppia la polemica: i romanzi si scrivono meglio con la vagina…
Pare incredibile. Nel resto del pianeta culturale non si parla d’altro che di Star Wars, qualcosa che più che alla storia del cinema, ormai, ha a che fare con la teologia. L’ultimo film della terza trilogia, l’ottavo, Gli ultimi Jedi, è nelle sale dal 13 dicembre: benché sia un fenomeno del tutto americano, frutto del cervello fantascientifico di George Lucas, El Pais all’urlo ‘Star Wars’, las películas de peor a mejor, s’è inventato uno speciale obbligando quattro giornalisti a spremersi “analizzando le otto pellicole”, manco fossero la Repubblica di Platone. D’altronde, i francesi de Le Figaro, con ansia cartesiana, ci raccontano “tutto quello che bisogna sapere” sull’ultimo episodio della saga. Per fortuna c’è John Boyne a scombinare i piani di una informazione appiattita sull’ovvio. Boyne, dublinese, classe 1971, è quello del Bambino con il pigiama a righe, la storia, un po’ patetica, di Bruno, il bimbo tedesco che fa amicizia con l’ebreo nel campo di sterminio vicino a casa, da cui è stato tratto un film di un certo successo. Tradotto con brio in Italia (da Rizzoli), Boyne se ne esce sul Guardian con una polemica natalizia, Women are better writers than men. Proprio così. Nel bel mezzo della sua riflessione, Boyne spara questa frase lapidaria, “penso che le donne siano narratrici migliori degli uomini – l’ho detto”. La riflessione di Boyne parte da un dato di fatto culturale e trasversalmente pop. Sulle tovaglie che ritraggono i massimi scrittori d’Irlanda – campioni di cui, giustamente, gli irlandesi vanno orgogliosi – ci sono James Joyce e Samuel Beckett, George Bernard Show e Oscar Wilde, ma… “non c’è una vagina tra loro” (testuale). Cioè mancano Molly Keane, Edna O’Brien, Maria Edgeworth; scrittrici, tuttavia, che anche prese insieme, in un unico mazzetto, ci dicono molto, molto poco rispetto ai colleghi con la verga in mezzo, più ‘palestrati’ culturalmente. La polemica di Boyne – che spiattellata così pare davvero un poco rétro – ha il suo acme poco dopo. “Recentemente la palma paradossale di ‘più grande scrittore Americano’ è andata a un maschio bianco, Jonathan Franzen, che ha prodotto soltanto un romanzo meritevole, Le correzioni… tre minuti e mezzo dei Pet Shop Boys sono più ispirati e ironici di 600 pagine di tedio alla Franzen”. D’altronde, “sono sempre stati gli uomini a ritenersi i più grandi scrittori degli Stati Uniti. Gli ultimi sono stati John Updike, Norman Mailer, Gore Vidal, Saul Bellow e Philip Roth. I primi quattro sono morti, il quinto in pensione, e nonostante la loro determinazione a sopravvivere ai posteri, chi li legge ancora se non per spolverare lo scaffale? Eppure, io leggo ancora volentieri Il buio oltre la siepe di Harper Lee e Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCaullers”.
Lui è John Boyne
Convinto che i maschi appena scrivono un libro “si sentono compiaciuti per avere prodotto un lavoro intellettuale e provocatorio”, mentre le scrittrici donne devono lottare “con le unghie e con i denti per convincere il prossimo che non sono ragazze con le gambe nude distese su un campo di fieno roteando un nontiscordardime”, Boyne dettaglia il suo pensierino. Per gli uomini “le femmine, in un romanzo, si comportano come se fossero lì solo per fare sesso o per confermarli nella loro genialità”; le donne, invece, per natura “dovendo allevare i figli, gestire la casa e soddisfare le attese della società” hanno sopraffina capacità di “comprendere la complessità umana e di creare personaggi autentici”. Gli scrittori con il pene “sono ossessionati dalla propria reputazione più che dalla creazione di un romanzo davvero impeccabile”, ragion per cui, a conti fatti, la lotta per decretare “Il Più Grande Romanziere Vivente” si restringe per Boyne a un parterre di sole donne: Anne Tyler, Sarah Waters, Margaret Atwood. Ha ragione Boyne? La vagina è un romanziere migliore del pene? Dovremo sostituire Dante Alighieri con Vittoria Colonna, Alessandro Manzoni con Liala e Italo Calvino con Sibilla Aleramo? Calmi. Intanto. Il romanzo in lingua inglese ha una forte impronta femminile: pensiamo a Jane Austen, alle Brontë Sisters, a George Eliot, a Virginia Woolf. Che in Italia ci sia un problema ‘di genere’ pare indubbio: dal 2004 ad oggi il Premio Strega è andato solo a scrittori con il batacchio, idem per il Viareggio dedicato alla narrativa, dal 2010 dominio di soli maschi. Come a dire, va bene la parità, ma quando il gioco si fa duro vince chi ce l’ha più duro. Ad ogni modo, è dubbia, indubbiamente, di per sé la provocazione. Nel campo estetico conta chi è più bravo. Il ‘genere’, davvero, è una variabile impertinente, inutile, irritante.
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