#ritratto di Verdi
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Giovanni Boldini: Il maestro del ritratto nell'Italia post-risorgimentale. Recensione di Alessandria today
Esploriamo l’arte di Giovanni Boldini, celebre pittore italiano dell’epoca di Edgar Degas, noto per i suoi ritratti vibranti e la sua tecnica dinamica.
Esploriamo l’arte di Giovanni Boldini, celebre pittore italiano dell’epoca di Edgar Degas, noto per i suoi ritratti vibranti e la sua tecnica dinamica. Giovanni Boldini (1842-1931) è stato uno dei pittori italiani più illustri dell’Ottocento, riconosciuto a livello internazionale per i suoi ritratti raffinati e caratterizzati da un’espressione dinamica. Amico e contemporaneo di Edgar Degas,…
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“Ricordarmi di Attilio – anzitutto le Church’s, la flanella e il tweed d’inverno. Ricordarmi di Attilio visto la prima volta ai Lagoni, agosto 1958, sopra Casarola – Bernardo pescava insieme a Maurizio A. al lago più in alto. Attilio, il panama in testa, il golf blu sulla camicia bianca. Ricordarmi di Attilio che parla di Roberto Longhi, e con Pier Paolo va disegnando Scrittori della realtà, una sera in una trattoria di Monteverde (l’Antico Scarpone?); e Bernardo che vuole parlare di cinema. Ricordarmi di Attilio che dice a memoria qualche verso di Robert Frost una mattina a Parma, in piazza Garibaldi, mentre Mario Lavagetto ha una crisi allergica – ed è autunno. Ricordarmi di Attilio al Regio di Parma durante un intervallo della Luisa Miller, e ride di felicità, prendendo per mano Ninetta: – “Verdi non smentisce mai la verità dell’amore”. Ricordarmi di A. a Ongina la sera di un ottobre nebbioso – mangiamo anguille del Po fritte, e sulla sua testa, alla parete, è appeso, come uno stemma araldico, un grande ritratto del sempre meraviglioso don Peppino Verdi. Ricordarmi degli occhi socchiusi di Attilio, mentre ascolta Roberto Tassi parlare di Morlotti. Siamo su un prato a Trefiumi e andiamo a caccia di granchi. Attilio porta il panama in testa ma una sciarpa di lana annodata al collo – e fa caldo. Ricordarmi di Attilio che lascia raccontare storie a Ubaldo Bertoli, siamo a Roma, mangiamo all’Antica Pesa, storie di Goliardo Padova e chiede che vengano raccontate di nuovo, e ride con felice leggerezza. Ricordarmi di A. che si arrabbia divertito alle esose richieste d’aiuto di Ponzini (diceva Ponzini: “Mi si deve moltissimo: non sono un grande poeta?”), ecc. Insomma, ricordarmi di Attilio. Ricordarmi anche della impossibilità di ricordare la concretezza di Attilio ecc. “Più acuta presenza” oltre la cenere della vita – come l’incrinatura della sua voce nel pronunciare la “r”.” — Enzo Siciliano ricorda Attilio Bertolucci su Nuovi Argomenti
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“Le otto montagne”, sabato al Verdi di Sassari la Sonata “a Kreutzer”
Il celebre ritratto di Ludwig van Beethoven realizzato da Joseph Karl Stieler nel 1820 Sassari. Ultimo appuntamento sabato 9 novembre alle 19 al Teatro Verdi di Sassari per la rassegna “Le otto montagne”, ovvero otto sonate per violino e pianoforte tra le più famose della letteratura musicale europea. Marco Ligas (violino) e Andrea Ivaldi (pianoforte) eseguiranno forse la più famosa in assoluto,…
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Raffaele Fitto verso la vicepresidenza della Commissione UE
A tarda sera, in un'Eurocamera ormai vuota, la nuova Commissione europea ha avuto l'atteso via libera dei gruppi della maggioranza. Volto disteso, prudenza d'ordinanza, la presidente ha lasciato gli edifici del Parlamento europeo limitandosi ad un generico "vediamo" con i cronisti che gli chiedevano dell'appuntamento di martedì mattina per la lista dei commissari. Ma secondo diverse fonti europee è quasi certo che tra qualche ora, alla Conferenza dei presidenti dei gruppi, von der Leyen presenterà la sua lista. Con una sorpresa dell'ultima ora: al posto di Thierry Breton, nella casella destinata alla Francia ci sarà Stéphane Séjourné. A dispetto di cinque anni fa sulla lista dei nuovi commissari fino all'ultimo è stata mantenuta una coltre di riserbo, dovuta anche ad una certa instabilità delle ipotesi di deleghe da assegnare. Tra i principali nodi che la presidente della Commissione ha dovuto affrontare c'è stato quello della vicepresidenza esecutiva da destinare a Raffaele Fitto. Il ministro italiano avrà - anche se manca ancora l'ufficialità - la delega alla Coesione e al Pnrr e dovrebbe mantenere il ruolo pensato per lui prima della veemente protesta di socialisti, liberali e verdi: quello cioè di una vicepresidenza forte, formalmente dello stesso peso di quelle che avranno il francese Séjourné, la spagnola Teresa Ribera, il lettone Valdis Dombrovskis, lo slovacco Maros Sefcovic e l'estone Kaja Kallas. Il tutto nonostante il voto contrario a von der Leyen sia di Giorgia Meloni in seno al Consiglio europeo sia di Fdi alla Plenaria di luglio. Sul tavolo di Fitto ci sarà subito un dossier caldissimo, quello del rinvio della deadline del Pnrr: "Non è impossibile, dipende dai numeri", ha spiegato il commissario uscente Paolo Gentiloni. I principali movimenti tellurici dell'ultimo miglio hanno invece riguardato il candidato francese. Alle prime luci del giorno Thierry Breton, potente vicepresidente esecutivo con delega al Mercato interno, ha messo in scena un clamoroso strappo. In un primo tweet ha pubblicato la cornice di un quadro vuoto, spiegando che quello sarebbe stato il suo ritratto nella nuova Commissione. Subito dopo ha reso noto la lettera con cui ha ritirato la sua candidatura e ha rassegnato le dimissioni immediate. Von der Leyen, è stato il suo j'accuse, ha lavorato per chiedere l'esclusione della sua candidatura "per ragioni personali che in nessun caso sono state discusse direttamente con me". Ciò che Breton non ha reso noto è che il presidente Emmanuel Macron era sostanzialmente d'accordo. Poco dopo, infatti, l'Eliseo ha annunciato la designazione di Sejourné mettendo in chiaro l'obiettivo di Parigi: avere, all'interno della Commissione, una delega forte "sulla sovranità industriale Ue e sulla competitività". Il cluster di Sejourné (ogni vicepresidente esecutivo è infatti supervisore di un gruppo di commissari), raccontano diverse fonti europee, potrebbe a questo punto includere anche il portafoglio all'Economia. Al di là della distribuzione dei ruoli, ciò che emerge dalle nomine di von der Leyen è che la futura Commissione sarà nettamente a sua immagine e somiglianza. Una volta esclusi profili forti e non sempre in linea con la presidente, come quelli di Breton, Frans Timmermans e in misura minore Margrethe Vestager, i poteri dell'ex ministra tedesca, di fatto, risulteranno ben più incisivi. "Sarà un esecutivo Ue accentrato su Ursula, che opererà aspettando i suoi placet", è l'opinione di un europarlamentare della maggioranza di lungo corso. I socialisti potranno consolarsi con la delega della Concorrenza affidata a Ribera, mentre sul portafoglio del Commercio è dato in vantaggio il ceco Jozef Sikela sull'olandese Woepke Hoekstra, dato tra i papabili per l'Economia. La delega alla Giustizia appare diretta alla svedese Jessika Roswall, quella dell'Agricoltura al lussemburghese Christophe Hanses, i Trasporti al greco Apostolos Tzitzikostas. Il dossier della Migrazione potrebbe finire invece nelle mani della belga Hadja Lahbib mentre il Digitale avrà i colori finlandesi di Henna Virkkunen. Resta da capire se von der Leyen presenterà la squadra - undici in totale le donne - anche alla stampa, perché il Parlamento sloveno non ha dato ancora via libera alla candidata Marta Kos. In ogni caso, von der Leyen andrà per la sua strada. Read the full article
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Voice Professionals Italy produced 7x56 scripts (6x56 of which translated and adapted from the original Italian) and the 392 (between approx. 1'30" - 2'30" long) "Pillole d'Arte" (lit.: Art Pills) audio tracks for a portable multilingual videoguide in Italian, English, German, French, Spanish, Russian and Japanese for Arthea in December 2007 - January 2008, recorded at the ADM Studios, Rome, for SEDIF.
VPI Creative Director & Talent Manager: Edwin Alexander Francis.
Narration by: Davide Lepore (Italian), Mark Hanna (English), Edwin Alexander Francis (German), Jacques Peyrac (French), Luis Moriones (Spanish), Ivan Melkumjan (Russian) and Hal Yamanouchi (Japanese)
Here's one of three samples of the same clip "La Dama dal Collaretto" ; this one is in German: "Dame mit Kragen", by Amedeo Modigliani read by Edwin Alexander Francis ->
...and (for comparison) here's the (original) Italian version "La Dama dal Collaretto" read by Davide Lepore ->
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...and the Spanish version read by Luis Moriones ->
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...and below you can see 5 sample clips of "Apollo e Dafne" (by Gian Lorenzo Bernini) in Italian (read by Davide Lepore), Russian (read by Ivan Melkumjan), Spanish (read by Luis Moriones), French (read by Jacques Peyrac) and English (read by Mark Hanna)
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...and here is: "Adoration of The Child" by Fra Bartolomeo in the Japanese version read by Hal Yamanouchi ->
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ELENCO SCRIPT “PILLOLE D'ARTE” (ITALIANO)
ARTE ROMANA BRUTO CAPITOLINO ARTE ROMANA SPINARIO GIAN LORENZO BERNINI BUSTO DI MEDUSA GIUSEPPE PALIZZI FORESTA DI FONTAINEBLEAU GIOVANNI FATTORI LA BATTAGLIA DI CUSTOZA GIOVANNI SEGANTINI ALLA STANGA GIOVANNI BOLDINI RITRATTO DI GIUSEPPE VERDI VITTORIO CORCOS SOGNI ANGELO TOMMASI GLI EMIGRANTI VINCENT VAN GOGH IL GIARDINIERE PAUL CÉZANNE LE CABANON DE JOURDAN GIACOMO BALLA PESSIMISMO E OTTIMISMO ALEXANDER CALDER MOBILEMOBILE BOCCIONI ANTIGRAZIOSO ARCO DI COSTANTINO FONTANA CONCETTO SPAZIALE ATTESE MODIGLIANI DAMA DAL COLLARETTO ARTE ROMANA FANCIULLA SEDUTA GIACOMETTI FIGURE FONTANA DI TREVI E PALAZZO POLI NUNZIO LINEA BERENTZ LO SPUNTINO ELEGANTE, L'OROLOGIO, LA MOSCA GIOVANNI DA MILANO MADONNA CON BAMBINO ARTE ROMANA MARCO AURELIO ARTE ROMANA MOSAICO CON COLOMBE ARTE ROMANA MOSAICO DI CACCIA ARTE ROMANA MUSA POLIMNIA BURRI GRANDE SACCO ARTE ROMANA LUPA CAPITOLINA DUGHET PAESAGGIO CON RINALDO E ARMIDA PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO PIAZZA DI SPAGNA UNCINI PORTA DEL SOLE BASSANO PRESEPE STACCIOLI RUOTE FRANCIA SAN GIORGIO E IL DRAGO RUBENS SAN SEBASTIANO SANTA MARIA DEGLI ANGELI POLLOCK SENTIERI ONDULATI CAPOGROSSI SUPERFICIE ARTE ROMANA TOGATO BARBERINI ARTE ROMANA VENERE ESQUILINA RAFFAELLO FORNARINA BARBERINI BRONZINO STEFANO COLONNA CARAVAGGGIO LA BUONA VENTURA GUERCINO SEPPELLIMENTO DI SANTA PETRONILLA ARA PACIS AUGUSTAE VITTORIANO CASTEL SANT'ANGELO LA TERRAZZA E GLI SPALTI LA BIBLIOTECA E LA CAMERA DEL TESORO LA SALA DI APOLLO LA CAMERA DEL PERSEO E LA CAMERA DI AMORE E PSICHE LA STUFETTA DI CLEMENTE VII GALATA CAPITOLINO IL PROGETTO MEIER PER L' ARA PACIS
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Fu eseguito di getto a Parigi, il 9 aprile del 1886, il ritratto più famoso di Giuseppe Verdi, immagine indimenticabile di uno dei giganti della cultura musicale mondiale.
Pur nutrendo per lui un’autentica venerazione, il noto pittore ferrarese Giovanni Boldini dovette ricorrere ai buoni uffici di un comune amico per convincere il Maestro a posare, anche soltanto per poche ore, nel suo atelier parigino.
In verità, Boldini lo aveva già ritratto in precedenza, con un esito però giudicato non del tutto soddisfacente perché, come avrebbe affermato in seguito, disturbato durante il lavoro dalle continue chiacchiere di Giuseppina Strepponi, seconda moglie di Verdi.
Il nuovo ritratto a pastello ci presenta invece l’immagine forse più intima e vera del Maestro, raffigurato senza ufficialità, senza fronzoli e orpelli, come se fosse stato colto di scatto, in maniera inaspettata.
A Verdi in effetti quel quadro piacque, tanto da suggerire a Ricordi d’inserirne la riproduzione nell’edizione dell’Otello.
Di qualche momento di calma e relax, ora che gli anni iniziavano a pesare, ne aveva bisogno pure lui, anche perché, come dichiarò ad un amico, “dal Nabucco in poi non ho avuto un’ora di quiete. Sedici anni di galera!”.
A partire infatti dal 1842, quando alla Scala a 29 anni d’età ottenne il suo primo clamoroso successo col Nabucco, fra continue richieste e contratti da rispettare il Maestro di Roncole di Busseto compose, praticamente a getto continuo, numerosissime opere fra le quali, dal 1851 al 1853, la celeberrima “Trilogia popolare” con “Rigoletto”, “il Trovatore” e “la Traviata”.
Continuamente sballottato fra Milano, Parigi e Genova, dove amava svernare, se tuttavia voleva davvero riposare e trovare la concentrazione necessaria per il suo lavoro Verdi un’oasi di quiete ce l’aveva.
Si trattava della splendida tenuta di Sant’Agata, frazione a pochi chilometri di distanza da Busseto seppure già in territorio piacentino, dove il Maestro avrebbe vissuto quasi ininterrottamente, a partire dal 1851, per gli ultimi cinquant’anni di vita.
Solo in questo luogo il suo atavico amore per la campagna riusciva a trovare sfogo, tanto che “la Peppina” scrisse ad un’amica: “il mio Verdi si alza allo spuntar del giorno per andare a esaminare il grano, il mais, la vigna, le stalle, etc. Rientra rotto dalla fatica”.
Era anche ossessionato dalla cura del suo giardino, cioè dell’immenso parco che caratterizzava la tenuta, dove piantò alberi rarissimi e che abbellì di statue, grotte e persino un laghetto.
Qui lui, scrisse sempre la moglie, “czareggia or tanto, ch’io sono ridotta a pochi palmi di terreno, sui quali Egli non ha, per condizioni stabilite, il diritto di ficcarvi il naso”, sotto minaccia - in caso contrario - di piantarvi cavoli al posto dei fiori.
Oltre che giardiniere ed agronomo, Verdi si piccava però di essere anche un bravo “magut”, termine che in dialetto lombardo-emiliano significa muratore, dispensando consigli ed ordini persino quando si doveva rabberciare un muretto.
Così infatti scrisse di se stesso al conte Arrivabene nel 1867: “Se tu gli dici che il Don Carlos non vale niente, non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità di fare il magut, se n’ha a male”.
Era però di notte che “il magut” tornava ad essere il Maestro di sempre, quando cioè si levava di scatto dal letto per precipitarsi allo scrittoio piazzato in posizione strategica, a portata di mano, per scrivervi di getto le arie che aveva “sentito” nel dormiveglia, prima di scordarle.
Il mattino seguente, senza bisogno di rettificare una sola nota, le provava al pianoforte poggiato al muro della stessa stanza, sul quale pendevano appese le immagini del suo “pantheon” personale, fra le quali quelle dell’amico Alessandro Manzoni e del suocero Antonio Barezzi, suo primo scopritore e finanziatore, per il quale Verdi nutrì sempre un’autentica venerazione.
Il genio si manifesta anche così.
Accompagna questo scritto il “Ritratto di Giuseppe Verdi”, di Giovanni Boldini, 1886, Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma.
(Testo di Anselmo Pagani)
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Letizia Battaglia la fotografa di Palermo
Letizia Battaglia fotografa della mafia è una giusta definizione? Attraverso i suoi scatti, Letizia Battaglia ha senza dubbio testimoniato in molti momenti questo aspetto della vita di Palermo ma non è stato l'unico. Il suo occhio era rivolto alla città con i suoi mille volti, con le sue molte contraddizioni. La fotografia è stata per lei una missione, un modo per raccontare la sua terra in anni molto difficili. Unica donna tra tanti uomini Quando inizia la sua carriera di fotografa è il 1969: Letizia ha 34 anni e collabora con il quotidiano palermitano "L'Ora" ed è l'unica collega donna tra tanti uomini. Dopo una breve permanenza a Milano, torna nella sua città dove con il suo obiettivo testimonia momenti cruciali della vita della sua città. I suoi scatti fanno il giro del mondo e le guadagnano nel 1985 il Premio Eugene Smith a New York, ex aequo con la fotografa americana Donna Ferrato. Nel 1999 le viene invece tributato il premio "Mother Johnson Achievement for Life". Espone non solo in Italia, ma anche in Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Brasile, America e Canada e in alcuni paesi dell'est Europa. Negli anni Ottanta da vita al "Laboratorio d'If" uno spazio di formazione per fotografi e fotoreporter. Letizia Battaglia fotografa di Palermo Ci sono immagini che dopo decenni sono ancora impresse nella nostra memoria. Una di queste è senza dubbio quella che ritrae Piersanti Mattarella esanime tra le braccia del fratello Sergio. L'allora presidente della Regione Sicilia fu assassinato da Cosa Nostra il 6 gennaio del 1980 e Letizia Battaglia fu la prima fotoreporter ad accorrere sul luogo del delitto. Pochi mesi prima aveva immortalato un altro dei delitti eccellenti di quel periodo: quello del giudice Cesare Terranova avvenuto, appunto, il 25 settembre 1979. La foto ritrae il giudice alla guida di una Fiat 131 con i vetri dei finestrini rotti. Per Letizia Battaglia la fotografia era uno strumento di lotta civile. Immortalare ciò che la mafia stava compiendo in quegli anni era come una missione. Con le sue foto testimoniò, ad esempio, l'ascesa del clan dei Corleonesi mentre gli scatti che ritrassero Giulio Andreotti insieme agli imprenditori Ignazio e Antonino Salvo presso l'hotel Zagarella furono ammessi agli atti durante il processo al politico democristiano. Palermo non era solo mafia. Era una città che viveva una realtà molto più complessa. Il suo impegno costante la porterà a ritrarre questa complessità andando a sbirciare negli angoli più nascosti, a scovare i volti delle persone comuni. Eppure saranno due fatti di mafia a segnare la fine della sua carriera di fotografa: i delitti Falcone e Borsellino avvenuti rispettivamente a maggio e a luglio del 1992. Diverse fonti raccontano che Letizia fosse stanca di confrontarsi ancora con la violenza. L'impegno politico L'impegno politico fu un'altra parte importante della vita di Letizia Battaglia. Nel 1979 figura tra i fondatori del Centro di Documentazione "Giuseppe Impastato". Negli anni Ottanta e Novanta ha ricoperto diversi incarichi politici: consigliera comunale con i Verdi, assessore comunale a Palermo nella giunta Orlando, deputata all'Assemblea regionale siciliana con La Rete e vice presidente della Commissione Cultura nell'XI legislatura. Lo scorso anno, il 13 aprile, una lunga malattia l'ha portata via. Via dalla sua Palermo che ha ritratto con amore e dolore. In copertina foto di F. Heiberger da Pixabay Read the full article
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Conservo qui alcune parole d'amore di Alessandro d'Avenia su Leopardi; la favola del volto asimmetrico è ripresa pari dal Saggio psico-antropologico su G. L. e la sua famiglia; la fronte amplissima dalla descrizione del Ranieri; l'orecchio basso dal ritratto eseguito almeno cinque anni più tardi dal Lolli, e che Leopardi stesso giudicava "bruttissimo". Nel suo ritratto da giovinetto non è realmente presente nessuna di queste, o altre, imperfezioni: io ci vedo soltanto bellezza, come quella della "luna di primavera", e la delicatezza di "ali di farfalle", con occhi di "acqua di sorgente" (cilestri, come dice il Ranieri, non grigi né verdi). Ringrazio d'Avenia per aver elaborato con emozione, che è anche la nostra, questa descrizione della sua bellezza. Lo ringrazio meno per aver voluto a tutti i costi cercare una traccia della dicotomia cuore/ragione nella presunta asimmetria del volto. Ma il mestiere degli scrittori è di rendere più coerente e incisiva la realtà attraverso l'invenzione. Per quanto riguarda l'espressione di Leopardi, se devo vederci due elementi contrapposti, ma che nella mia percezione si armonizzano, sono il sorriso furbetto e le sopracciglia leggermente all'ingiù, che danno al suo sguardo intelligente un'intenzione accogliente (mite e profondamente comprensiva), quella che mi ha sempre attratta come un rifugio spirituale, definitivo, divino.
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Giovanni Boldini (Italian painter) 1842 - 1931
Ritratto di Giuseppe Verdi (Portrait of Giuseppe Verdi), 1886
oil on canvas
118 x 96 cm.
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i colori dei greci
“Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale e con la stessa parola il colore delle piante verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo) - quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani”. Così Friedrich Nietzsche, nell’aforisma 426 di Aurora, riflette sulla stranezza cromatica dei Greci antichi.
Già Goethe, nella sua Teoria dei colori, aveva osservato che il lessico greco del colore è straordinario, cioè fuori da ogni norma, tanto è diverso dal nostro. Associazioni cromatiche tanto inedite che hanno portato alcuni studiosi del Settecento e Ottocento a blaterare che i Greci non vedevano i colori. Li vedevano, eccome, solo li esprimevano in un altro modo: di certo, gli occhi degli uomini sono sempre stati gli stessi e sempre saranno. I colori erano per loro, innanzitutto vita e luce: un’esperienza tutta umana e non fisica, ottica, che niente a a che fare con lo spetto cromatico del prisma teorizzato da Isaac Newton. Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, nomina solo quattro colori: il bianco del latte, il rosso porpora del sangue, il nero del mare, il giallo del miele e dei campi.
Nero, µ??a? e bianco ?e???? indicavano il buio e la luce (la parola latina lux, “la luce” ha la stessa etimologia del colore greco). Ed è proprio dalla mescolanza di luci e ombre che secondo i Greci si formavano i colori. Il greco ?a???? indica un colore che spazia dal giallo al rosso al verde: verderame, potremmo forse dire. La sua tinta è quella calda del grano maturo, ma anche dei capelli tutti biondi degli eroi omerici fino alla luce rossastra del fuoco caldo che illumina la notte o del sole arancio e rotondo al tramonto. L'aggettivo πορφυρεοζ significa "agitato", in continuo movimento" "ribollente", fino ad indicare il color porpora che dal rosso sangue sconfina nel blu; πορφυρεοζ è "il pescatore di porpora" dal momento che le tinture erano prodotte dal succo estratto da certe conchiglie e poi lavorato a mano da esperti tintori. Il colore κυανεοζ, ciano, indica un color blu così generico da vagare dall'azzurro al rosso cupo fino al nero della morte. Ancora, il mio colore preferito, γλαυξοζ, glauco, significa prima di tutto "brillante", "rilucente", "traboccante di luce", proprio per definire il mare che sfrigola di luce. Sono glauchi gli occhi di Atena, "chiari come quelli di una civetta", di colore ceruleo, azzurro, grigio-azzurro. Fu William Gladstone, illustre omerista e politico inglese, tra i primi ad insistere sull'impressione luminosa dei colori greci. Nei secoli precedenti notando le stesse "stranezze" linguistiche della definizione cromatica presso altri popoli e fin nella Bibbia, si era acceso un fervente dibattito accademico sulla possibilità che gli Antichi vedessero fisiologicamente- proprio a livello di retina- dei colori in meno rispetto ai nostri occhi fino a parlare di cecità dei Greci. Le teorie di Darwin prima e gli studi di fisiologia e medicina poi dimostrarono senza dubbio il contrario: i Greci vedevano il mare, i campi, il cielo, i paesaggi dello stesso colore in cui li vediamo noi oggi - o forse di colore più bello, perché sentivano il bisogno di esprimerlo in un altro modo, privato. In definitiva, gli antichi Greci davano ad ogni colore un altro significato, un senso di luminosità, di gradazione, di chiarezza. Vedevano la luce e ne coloravano l'intensità: così il cielo è bronzeo, ampio, stellato, mai soltanto blu, e gi occhi sono glauchi, scintillanti, mai solo azzurri o grigi.
A. Marcolongo
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Cleo de Merode, 1901,
di Giovanni Boldini
✓Giovanni Boldini (Ferrara, 31 dicembre 1842 – Parigi, 11 gennaio 1931) è stato un pittore italiano, considerato uno degli interpreti più fantasiosi della Belle Époque.
✓Il genere pittorico che diede più fama e lustro al nome del Boldini fu senza dubbio quello del ritratto.
Dalle scene di vita quotidiana di passanti per strada, ai ritratti dei personaggi più in vista della bella società parigina e internazionale: gli aristocratici di tutto il mondo, infatti, facevano a gara per regalare a Boldini i loro volti.
✓Tra questi ci fu Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Vittorio Emanuele II, Vincenzo Cabianca, William Seligman, Sir Albert Kaye Rollit, Leopoldo Pisani, Lina Cavalieri, ecc. ecc.
solo per citarne alcuni.
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"Vogliamo che l'Ilva chiuda, i bambini muoiono": Federica con un disegno denuncia la situazione a Taranto Su un foglio si vedono due ciminiere, alcune case sullo sfondo e in mezzo un cielo nero. E' il ritratto che Federica, bimba di sette anni, fa del rione Tamburi, nel quale abita: è il quartiere di Taranto più vicino allo stabilimento dell'ex Ilva e quindi il più esposto alle emissioni che arrivano dall'acciaieria. "Vogliamo che l'Ilva chiuda", è il titolo del disegno, accompagnato da riflessioni durissime sulla sua città: "Ecco perché i bambini sono in ospedale, sono malati e muoiono". "Io penso che Taranto è troppo inquinata - scrive ancora Federica - che deve migliorare. Noi non vogliamo che ci tolgono la scuola Deledda-De Carolis. Vergognatevi per tutto quello che ha fatto l’Ilva, gli altri bambini stanno in ospedale per colpa dell’Ilva brutta. Ecco perché dovete vergognarvi tanto". Riflessioni che scuotono: "Vogliamo parchi giochi, boschi. Brutti, ci inquinate tanto. Vogliamo spazi verdi, ecco cosa penso di Taranto". globalist
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WALLY E EGON
Modella e amante di Schiele, Willy morirà poco più che ventenne, Egon prima dei trenta. Si lasciano dietro tre mila opere.
E’ la donna più conosciuta della storia della pittura: tutti gli studenti di Belle Arti hanno appeso in camera almeno un poster che la ritrae. Eppure di lei si sa pochissimo, se non che doveva essere bellissima e che ha avuto una vita molto breve, in gran parte divisa con uno degli artisti più straordinari della sua epoca.
Lei si chiama Walburga “Wally” Neuzil, lui è Egon Schiele. Lei è figlia di un insegnante di liceo di un paesino della provincia austriaca (1896). Il padre, però, muore quando lei è ancora molto giovane e la famiglia deve trasferirsi a Vienna, dove spera di cavarsela meglio.
Gli inizi di Wally sono abbastanza oscuri. Qualcuno dice che a Vienna fa la commessa, altri che invece fa la prostituta. C’è una frase ambigua dello stesso Schiele dove dice, testualmente: “Wally era qualcosa di più di una prostituta”. Questo però non significa che Wally è in vendita. In realtà lei si mette ancora giovanissima a fare la modella per i pittori e a quei tempi, nella Vienna dove l’impero asburgico sta vivendo i suoi ultimi anni prima di crollare, la differenza fra una modella e una prostituta non è così netta.
Quello che si sa è che lei, forse già a quindici anni, diventa la modella preferita di Gustav Klimt e, secondo alcune ricostruzioni, anche la sua amante. Ma quasi subito arriva Schiele. Non si sa se a presentarli sia lo stesso Klimt (molto amico di Schiele) o sei lui l’ha raccattata lungo il viale principale di Vienna, dove allora le prostituite di una certa classe sono solite cercare i loro clienti.
Comunque siano andate le cose, Schiele comincia a stravedere per questa ragazzina. Fino a poco prima la sua modella preferita è stata la sorella Gertrude (Gerti), anche lei adolescente: e anche lei amatissima dal pittore (che forse si è spinto fino all’incesto).
Ma quando nella sua vita appare Wally, diventa la sua modella di moltissimi quadri e disegni e anche la sua amante. Lei non lo abbandona mai. Vanno a abitare in un paesino fuori Vienna e lui incappa in un antipatico incidente: viene accusato di aver violentato una ragazzina di 14 anni. Al processo viene assolto da questa accusa, ma non da quella di aver fatto entrare minorenni nel suo studio, che ha decine e decine di quadri erotici in bella mostra. Dovrà farsi quasi un mese di prigione. Wally lo aspetta e lo conforta.
Dopo si trasferiscono in un altro paesino, più tollerante, sempre vicino a Vienna. E Schiele continua a dipingere la sua Wally, che conserva sempre le sue sembianze di ragazzina innocente. Sono centinaia di quadri erotici. Di solito lei è nuda, e indossa soltanto delle calze che oggi chiameremmo autoreggenti (verdi, rosse, nere). Qualche volta (come nel famoso quadro omonimo) solo una camicia rossa. Schiele muore giovanissimo, ma è un artista che non si risparmia: dietro di sé lascia quasi tre mila opere. E in questi lavori c’è sempre lo stesso filo conduttore: Wally quasi nuda in pose molto provocanti.
Ci si interroga, allora e anche negli anni futuri, sul perché di questa scelta: in parte si tratta delle ossessioni personali di Schiele, ma si tratta anche del ritratto di una borghesia apparentemente molto per bene, che però al suo interno coltiva torbide passioni. Proprio come in quegli anni, e proprio a Vienna, rivelerà Sigmund Freud. Schiele deforma la figura di Wally (e delle altre modelle) per segnalare che ci si trova di fronte a un mondo malato e prossimo alla fine (crollerà infatti con lo scoppio della prima guerra mondiale).
Nel 1915 accadono due cose. La prima è che Schiele viene arruolato. La seconda è che abbandona Wally e sposa una ragazza di Vienna (figlia di un fabbro benestante), Edith Harms. Dietro questa scelta c’è probabilmente il desiderio di ritrovare un po’ di normalità, e anche, se non soprattutto, il bisogno di denaro.
Ma la storia non è così limpida. Ci sono quadri successivi al matrimonio di Schiele, dove la modella, sempre con le sue calze nere, è ancora Wally. E c’è chi giura che c’è stata anche una vacanza nella quale Schiele si porta dietro Wally e non Edith. Non solo: si dice che Schiele, per non perdere Wally, le abbia proposto di fare ogni anno una lunga vacanza insieme, lontano dalla moglie.
Ma la guerra travolge tutti. Sotto le armi, ovviamente, Schiele soffre, fino a quando viene trasferito in un ufficio a Vienna, dove può continuare a dipingere con una relativa calma e libertà. E infatti partecipa con molto successo alle esposizioni di Vienna, Dresda e Praga della Secessione viennese.
E Wally? Lei si è iscritta a un corso per infermiera militare, l’ha superato a parte per i Balcani. Ma ormai l’ombra delle morte si sta avvicinando ai protagonisti di questa storia. Edith e il bambino non ancora nato di Schiele muoiono pochi giorni prima del 31 ottobre del 1918. Lo stesso Schiele muore pochi giorni dopo, stroncato (come la moglie e il figlio) da un’epidemia di influenza. Quando Schiele muore non sa che Wally è morta quasi un anno prima a Spalato, dove aveva contratto la scarlattina da uno dei suoi pazienti. Wally ha poco più di vent’anni e Schiele non arriva a trenta.
(Dal "Quotidiano Nazionale" del 24 maggio 2015)
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GLI ALIENATI MENTALI - THÉODORE GÉRICAULT
Théodore Géricault è uno dei principali esponenti dell’arte romantica. Si forma seguendo un percorso accademico, guidato dal maestro Pierre Narcisse Guérin. Ben presto, però, si allontana dalla strada neoclassica, rifiutando i tradizionali ideali e mezzi espressivi a favore della contemporaneità. I primi quadri che realizza sono a carattere storico, immersi nel clima delle guerre napoleoniche; tuttavia, prendono le distanze dall’iconografia bellica tradizionale, incentrata sulla celebrazione della vittoria, per concedere spazio ai personaggi minori: ufficiali, soldati, cavalli, sconfitti. Lo dimostrano dipinti come Ufficiali dei cavalleggeri della guardia imperiale alla carica (1812), Corazziere ferito che lascia il fuoco (1814) e La zattera della medusa (1819), l’opera che, con più facilità, gli viene associata e che ha contribuito a donargli la fama.
L’opera che preferisco dell’artista, però, è meno conosciuta. Si tratta del Ciclo degli alienati, una raccolta di 10 tele di cui solo 5 sono pervenute, raffiguranti pazzi ospiti di un manicomio.
Questi dipinti dimostrano perfettamente come Géricault si sia distaccato dalla produzione dei suoi colleghi, allontanandosi dai temi e dai soggetti di successo. Come nei quadri a sfondo storico, anche qui l’interesse del pittore si rivolge a soggetti minoritari, alle persone escluse ed isolate dalla società, arrivando a dipingere l’estremo degrado dell’individuo. Qui è la follia a fare da protagonista.
Géricault trae ispirazione da quella che era la psichiatria ottocentesca, che inizia a considerare i malati mentali non come individui da escludere, ma come persone degne di essere curate. In particolare, la psichiatria dell’epoca si basava sulla convinzione secondo cui le caratteristiche psichiche di una persona fossero deducibili dai lineamenti e dalle espressioni del volto. I pazienti, infatti, sono tutti dipinti a mezzobusto, proprio per focalizzare l’attenzione dell’osservatore sulle loro fattezze.
In particolare, Géricault raffigura pazienti psichiatrici affetti da monomanie. Il termine deriva dal greco monos, che significa solo, e da mania, che significa follia, e si riferisce ad un disturbo della mente che si manifesta con espressioni di delirio dovute all’attaccamento ossessivo ad un pensiero o comportamento.
I quadri sono, nel complesso, essenziali. Lo sfondo è scuro, a tinta unita, e pone il soggetto in risalto, creando un senso di indeterminatezza; anche i colori sono cupi, bruni, in contrasto unicamente con i volti pallidi e spenti. Lo sguardo è sempre rivolto lontano, perso nel vuoto, fisso sulla propria ossessione che astrae dalla vita reale. Gli occhi sono arrossati, incavati, le palpebre gonfie, le rughe profonde. L’aspetto è arruffato, sporco, trasandato.
Un primo ritratto è Alienata con monomania dell’invidia: un’anziana signora pare essere accigliata da qualcosa che si trova al di fuori dello spazio del dipinto, ma che sembrerebbe provocare un sentimento di astio e, appunto, invidia. Gli occhi sono arrossati ed il viso è segnato da rughe profonde, che contornano soprattutto la bocca, contratta anch’essa in un’espressione ostile, aspra.
Un secondo quadro è Alienato con la monomania del furto: un uomo con i capelli e la barba spettinati e gli occhi stralunati, totalmente assenti. Il volto, in questo caso tendente verso toni più giallastri e verdi, è illuminato dal colletto bianco, che rappresenta le poche pennellate di colore presenti nei dipinti.
Vi è poi Alienato con la mania del comando militare: si tratta, in questo caso, di un uomo più anziano, dal volto fiero e dagli abiti militari ornati da una medaglia al collo; sono riferimenti ad un valore bellico che non è rispecchiato dalla trasandezza estetica e dalla perdizione mentale.
Un altro dipinto è Alienata con la monomania del gioco: anche in questo caso, è raffigurata una donna anziata con occhi incavati ed arrossati e un viso adorno di rughe; anche qui, lo sguardo rivolto verso il nulla, come se il pensiero della donna fosse fisso su un’unica cosa, il gioco. Un gioco che l’ha condotta alla povertà, come dimostrano gli abiti umili e la cuffia malmessa, dalla quale fuoriescono capelli disordinati.
Infine, Alienato con la monomania del rapimento dei bambini: si tratta di un uomo di mezza età, ma il cui viso emana un’aria infantile, come gli abiti che indossa. Di nuovo, lo sguardo è rivolto verso qualcosa che si trova al di là della tela e che crea nell’uomo un’espressione di vaga tristezza, sottolineata dalla curvatura della bocca.
L’alterazione mentale, qui, emerge dall’incredibile espressività dei soggetti dipinti. Vi è un rifiuto totale per l’idealizzazione: i volti sono rappresentati con i propri difetti, con i segni del tempo e della pazzia. La bellezza risiede nel realismo, nella realtà, nella forza con cui i visi emaciati dei protagonisti esprimono il proprio stato d’animo, turbato e turbolento.
Sono ritratti del tutto al di fuori degli schemi convenzionali, che indagano un lato della realtà umana rimasto per troppo tempo ai confini della vita e lo innalzano a soggetto degno di rappresentazione artistica.
Nicole C.
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