#quattro strade
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Quattro strade, dir. Alice Rohrwacher (2020)
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Viviamo in un’epoca di grande ipocrisia. La follia umana sta raggiungendo un livello veramente esagerato. Attivisti verdi che sporcano di vernice le opere d’arte e gli edifici di importanza storica e culturale; adolescenti che invece di studiare a scuola, e capire che l’energia elettrica non nasce dal nulla, gridano sputando saliva di rabbia che dobbiamo salvare il nostro pianeta passando all’ energia alternativa. I centri storici sono pieni di spacciatori, che vendono l’erba. Ma non possiamo legalizzarla! No! Viviamo in un paese cattolico, dicono. Abbiamo il Vaticano…Ogni ragazza sogna di vendere il suo corpo o le sue immagini nude, invece di studiare e diventare un’insegnante o un dottore. Ma riaprire le case chiuse!- guai! Cosa dirà la chiesa?! Siamo tutti pieni di rabbia e invece di trovare soluzioni, trasciniamo questo mondo verso una terribile ed inevitabile fine.
Non sono né un profeta né un scienziato, ma anche con la mia scarsa preparazione posso e devo ricordare a tutti che esiste da tanti anni un modo per produrre l’energia, sostituire la plastica e ridurre al minimo l’inquinamento. Tutto quello che dobbiamo fare è togliere l’etichetta del demonio dalla cannabis! Immagino che qui mi accuseranno della propaganda della droga, ma non abbiate fretta con il vostro giudizio. Vi rinfresco la memoria, raccontando un po’ di fatti riguardo al nemico del popolo: la Cannabis.
Da 1 ettaro di canapa si ricava tanta carta quanto da 4 ettari di bosco. 1 ettaro di canapa emette tanto ossigeno quanto 25 ettari di bosco. I tessuti di canapa superano persino il lino nelle loro proprietà. La canapa è una pianta ideale per realizzare corde, funi, tessuti , borse e cappelli. Ciò che è anche molto importante: tutti i prodotti in plastica possono essere realizzati con la canapa, la ‘plastica’ di canapa è ecologica e completamente biodegradabile. Questo è solo un piccolo elenco delle qualità uniche della canapa: un'altra cosa- la canapa cresce in soli quattro mesi e un albero in 20-50 anni. Può essere coltivata in qualsiasi parte del mondo con poca acqua, inoltre è in grado di difendersi dagli insetti parassiti, non ha bisogno di pesticidi. È davvero un paradosso? Perché stiamo ancora abbattendo le foreste? Stiamo usando la plastica dannosa per sconvolgere l'equilibrio del pianeta? Sì, perché la società dei consumi giova solo ai problemi, non alle loro soluzioni.
E della Hemp Body Car creata da Henry Ford in 1937 vogliamo parlare?!… Ma finché ci sono l’interessi di compagnie petrolifere non vedremo mai queste macchine sulle nostre strade. Il Dio denaro sta comandando questo mondo e costringe ognuno di noi a fare le scelte che porteranno sempre più verso la distruzione. Dobbiamo pensarci e tutto può cambiare!
Adesso, dopo questa introduzione, che ho cercato di fare più breve possibile, voglio condividere con voi la mia esperienza personale. Perché non c’è niente più convincente e dimostrativo, come la prova tecnica.
Ho una grande passione per i mercatini delle pulci. Una volta, facendo la mia ricerca dei tesori ad un mercatino mi sono imbattuto in rullo del tessuto. Non sapevo cosa era, ma l’aspetto estetico e le caratteristiche tattili di questa stoffa mi hanno fatto battere il cuore! Per fortuna avevo davanti a me un venditore, che sapeva tutto su questo grande rullo tessile. Si trattava di canapa lavorata a mano negli anni ’50. E si è accesa subito la lampadina della mia creatività! Da anni volevo farmi fare un abito chiaro, non solo bello , ma soprattutto comodo e leggero. Un abito che fa fresco d’estate e che mi dà il sollievo in questo clima padano. Inizialmente ero concentrato sul procurarmi un pezzo di lino, il classico intramontabile per ogni gentiluomo. Ma dopo avere visto la Grande Bellezza dell’ antico manufatto in canapa non avevo più i dubbi. Comprato il rullo pesante di canapa dal felice venditore, ad un prezzo veramente simbolico di 20 € mi sono recato direttamente dal mio sarto, il signor Franco Parmelli, un sarto che ha più di 80 anni, la maggior parte di quali trascorsi nell’ accumulare un’impagabile esperienza nel campo di creazione di abiti su misura. La bellezza della stoffa che ho portato ha commosso il vecchio Maestro e abbiamo iniziato subito la realizzazione di questo progetto che io ho chiamato “ Legalize it!” Si tratta di un un completo fatto di pantaloni, pantaloncini corti, gilet e giacca a due bottoni, naturalmente di canapa. É un po’ bizzarro, lo so, ma proprio questi elementi di guardaroba possono essere giocati durante l’estate con il massimo piacere e conforto, senza rinunciare all’eleganza. Un taglio semplice e classico, i bottoni in madre perla e poco altro. Ed ecco a voi il risultato finale. Un abito così comodo e bello non l’ho mai avuto in vita mia! E’ diventata la mia seconda pelle. Sicuramente dà un po’ nell’occhio, in mezzo alla massa di infradito, pinocchietti e t-shirts… Ma preoccuparmi di cosa ne pensano gli altri di me non è stato mai per me un problema. Mi sentirò un combattente della piccola armata di uomini eleganti e a testa alta continuerò di vestirmi e non coprirmi… e a contribuire a salvare il pianeta!
Photos by https://www.instagram.com/giovannigarritano_ph?igsh=MTE2anU5d3BsZ2owdA==
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“Siamo noi, la generazione più felice di sempre.
Siamo noi, gli ormai cinquantenni, i nati tra gli inizi degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. La generazione più felice di sempre.
Siamo quelli che erano troppo piccoli per capire la generazione appena prima della nostra, quelli del ’68, della politica e dei movimenti studenteschi. Ancora troppo piccoli per comprendere gli anni di piombo, l’epoca delle brigate rosse e delle stragi nere.
Siamo quelli cresciuti nella libertà assoluta delle estati di quattro mesi, delle lunghe vacanze al mare, del poter giocare ore e ore in strade e cortili, delle prime televisioni a colori e i primi cartoni animati. Delle Big Babol e delle cartoline attaccate alle bici con le mollette da bucato. Delle toppe sui jeans e delle merendine del Mulino Bianco. Dei gelati Eldorado e dei ghiaccioli a 50 lire. Dei Mondiali dell’82 e della formazione dell’Italia a memoria. Di Bearzot e Pertini che giocano a scopa.
Siamo quelli che andavano a scuola con il grembiule e la cartella sulle spalle, e non ci si aspettava da noi nulla che non fosse di fare i compiti e poi di giocare, sbucciarci le ginocchia senza lamentarci e non metterci nei guai. Nessuno voleva che parlassimo l’Inglese a 7 anni o facessimo yoga. Al massimo una volta a settimana in piscina, giusto per imparare a nuotare.
Poi siamo cresciuti, e la nostra adolescenza è arrivata proprio negli anni ’80, con la musica pop, i paninari e il Walkman. Burghy e le spalline imbottite. Madonna e il Live Aid. Delle telefonate alle prime fidanzate con i gettoni dalle cabine e delle discoteche la domenica pomeriggio. Di Top Gun e Springsteen. Dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. Delle gite scolastiche in pullman e delle prime vacanze studio all’estero.
E poi c’era l’esame di maturità, e infine il servizio militare, 12 mesi lontano da casa, i capelli rasati e tante amicizie con giusto un po’ di nonnismo. Nel frattempo magari un Inter Rail e infine un lavoro. All’Università ci andavi solo se volevi fare il medico, l’avvocato o l’ingegnere. Che il lavoro c’era per tutti.
Siamo cresciuti nella spensieratezza assoluta, nella ferma convinzione che tutto quello che ci si aspettava da noi era che diventassimo grandi, lavorassimo il giusto, trovassimo una fidanzata e vivessimo la nostra vita. Non abbiamo mai dubitato un istante che non saremmo stati nient’altro che felici.
E, dobbiamo ammetterlo, per quanto il futuro ci sembri difficile, e per quanto questa situazione ci appaia incomprensibile e dolorosa, siamo stati felici. Schifosamente felici. Molto più dei nostri genitori e parecchio più dei nostri figli.
Siamo la generazione più felice di sempre."
Quelli del tempo delle mele
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A CHE SERVE L’UNIFIL?
La storia è nota. Migliaia di profughi della Guerra dei 6 Giorni vengono accolti dalla Giordania. Ma presto si dimenticano di essere ospiti di uno Stato. Girano per le strade armati e senza documenti, organizzano posti di blocco per raccogliere non meglio specificate tasse per la causa palestinese, perquisiscono i civili giordani, cercano di convincerli ad entrare nell’OLP nonostante siano soggetti alla leva militare giordana, rivendicano la competenza dell’OLP per i reati commessi in territorio giordano. Insomma, vogliono uno Stato nello Stato.
Quando nel 1970 questi profughi armati cercano addirittura di rovesciare re Husayn, la Giordania reagisce pesantemente. È il «Settembre Nero». Scoppia una guerra civile che durerà un anno. L’OLP sdogana la pratica degli scudi umani, che causano decine di migliaia di morti tra i civili, che per i miliziani islamici sono martiri. Rimarranno uccisi circa 6 mila guerriglieri. Gli altri si rifugeranno in Libano, dove li aspettano 100 mila profughi della Nakba, che non vedono l’ora di regolare i conti con Israele.
Le fazioni palestinesi si stanziano nel sud del Libano. E incominciano a fare il tiro a segno sulle città della Galilea. Di tanto in tanto sconfinano in Israele per compiere mattanze, come quella dell’11 marzo 1978, in cui muoiono 37 cittadini israeliani, tra cui 13 bambini.
Israele non resta a guardare. Il 14 marzo 30 mila soldati dell’IDF invadono il Libano ricacciando in una settimana l’OLP al di là del fiume Leonte, perdendo soltanto 20 uomini contro i 1000 dell’OLP, oltre a 3000 civili. In pochi giorni si riunisce il Consiglio di Sicurezza ONU, che emana la Risoluzione n. 425, con cui viene intimato ad Israele di ritirarsi, perché a calmare le acque ci penserà appunto l’UNIFIL, la Forza Multinazionale.
Questo UNIFIL, oltre ad assistere la popolazione civile, ha il compito di aiutare il Libano a ristabilire la propria sovranità, calpestata dai gruppi palestinesi che utilizzano il sud per lanciare attacchi a Israele. E dovrà coadiuvarlo nel disarmo delle milizie palestinesi. Il Consiglio di Sicurezza vuole che Israele se ne torni a casa, ma tra la linea blu e il fiume Leonte non dovrà rimanere neppure un Fedayyn con una scacciacani.
Israele si ritira. Ma sia l’esercito del Libano che l’UNIFIL non combinano nulla, a parte fare la guardia ai cedri millenari. Cacciate dall’IDF, nel giro di un anno le milizie palestinesi si ripresentano nel sud più agguerrite che mai. Nel frattempo Komeini è salito al potere ed è nata la sanguinosa Hezbollah, che riprende lo sport preferito dei guerriglieri islamici: i razzi verso la Galilea. Tanto che Israele è costretto nel 1982 a invadere ancora.
Sarà sempre la stessa storia, con ulteriore replica nel 2006. Da quasi mezzo secolo, nel rispetto delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, ogni volta Israele lascia il Libano attendendo invano la bonifica proclamata dall’ONU, ossia il disarmo completo di ogni gruppo armato nel sud. Le successive quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza continuano a rimanere lettera morta.
Israele ha appena invaso per la quarta volta il Libano nel tentativo di sbaragliare Hezbollah, foraggiato dall’Iran che gli manda armi attraverso la Siria, sotto lo sguardo non troppo severo proprio di quelli dell’UNIFIL, che in tutti questi anni hanno visto sotto il naso spuntare come funghi kilometri di tunnel come quelli di Gaza. Ora Hezbollah, secondo una tecnica ormai collaudata, si è ritirata a ridosso della forza multinazionale, sulla quale Israele, visti i precedenti, ripone ben poca fiducia. Ma volendo chiudere i conti con il Partito di Dio una volta per tutte, Israele sta entrando in un pesante conflitto con la forza multinazionale, che non vuole saperne di andarsene, almeno per ora.
Ma se l’UNIFIL è stato inviato nel sud del Libano dal Consiglio di Sicurezza ONU per disarmare qualsiasi milizia ostile a Israele, visti i fallimenti dell’ultimo mezzo secolo, per quale motivo Israele non dovrebbe esigere che l’UNIFIL svolga il compito per cui è stato creato? «Se non ci pensate voi, ci pensiamo noi» avrebbe detto Herzl Halevi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano.
Antonello Tomanelli.
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15-GIUGNO 2024 ROMA PRIDE
Anche quest' anno, come succede da anni, sentiremo molti politici lamentarsi di tanta ostentazione da parte di chi e' gay (o lesbica).
No! Dico! E che vogliamo dire di quelle migliaia di processioni religiose che ogni anno si tengono lungo tutto lo stivale italico? A che serve ostentare Santi e Madonne portati in spalla per tutte le strade di quartieri e paesi? Non basterebbe una bella messa tra le quattro mura di una chiesa?
@ilpianistasultetto
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questo desiderio di incontrare non è forse quello che più cerco? che ho sempre cercato in questi anni, che ho sempre voluto. una sensazione di essere nel posto giusto senza di; quel tanto che basta ad esperire la felicità con un'ombra di desiderio insoddisfatto, una parte della mentre altrove, sognante. lo faccio così spesso che non ne ne rendo nemmeno conto: che malinconia bellissima, che bello aspettare, in fondo. del passato mi mancano sempre più di tutto le attese, le piccole disperazioni. non era bello alla fine essere insonni ascoltando tu non mi basti mai, quattro anni fa in vacanza con i miei? se ci penso mi viene il mal di pancia dalla nostalgia. non era forse meraviglioso alla fine correre e immaginare di camminare per quelle strade insieme, o di andare a Tempelhof a sdraiarci nell'esatto centro dell'aeroporto per guardare ciò che si vede del cielo la notte da lì...? e tutto questo, e ogni attimo che vivo da sola nel mondo in attesa di qualcosa che verrà o non verrà, ma che mi crogiolo nell'immaginare
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Storia Di Musica #344 - The Pogues, Poguetry In Motion, 1986
Nel 1976 la rivista Sounds (che era una delle tre meravigliose riviste musicali inglesi, con il Melody Maker e il New Musical Express, e dalle cui ceneri nascerà Kerrang!) onora il cantante della band di oggi con un titolo, Face Of The Year, a quel viso grottesco, sdentato, che nascondeva un genio tanto bizzarro quanto straordinario. Shane MacGowan è un irlandese nato nel Kent, nel 1957, ed è un giovane punk scorbutico e ribelle quando fonda, a 19 anni nel 1976, la sua prima band: i Nipple Erectors, con due suoi amici, Shane Bradley e Adrian Thrills (che guarda caso farà più tardi il giornalista per il NME). Visto il nome (e questa sua verve creativa lo avrà anche per il gruppo che lo farà diventare un personaggio), lo abbreviano in Nips, il trio incide un paio di singolo e un disco, Only At The End Of The Beginning (1980) che non si ricorda nessuno. La band si scioglie, ma lui è deciso a continuare. Abbandona la ferocia del rock punk e si dedica ad una riscoperta del folk, del rockabilly, del country, a cui però non disdegna di arricchire caustici testi. Nel 1983 forma una nuova band, che all'inizio suona in piccoli pub o come buskers band nelle strade principali. Dopo un po' di fiducia, decidono di provarci professionalmente: MacGowan alla voce, Jem Finer al banjo e altri strumenti a corda, Spider Stacey al tin whistle, il flauto irlandese, Andrew Ranken alla batteria e James Fearnley, polistrumentista. Per mantenere quella verve di cui sopra, chiama il gruppo in gaelico irlandese, Pogue Ma Hone, e con questo nome pubblicano un singolo nel 1984, The Dark Streets Of London / The Band Played Waltzing Mathilda, lanciato su scala nazionale. Ma lo scandalo avviene quando si scopre che quel nome vuol dire "Baciami Il Culo", tanto che si vira meno maliziosamente su The Pogues. Si aggiunge la bassista Rocky "Cait" O'Riordan, e con questa formazione pubblicano il primo disco, Red Roses For Me (1984), che è una versione graffiante e velenosa della musica popolare irlandese e scozzese. La critica più ortodossa ne è sconvolta (famoso il commento di un critico "sembrano un branco di ubriachi di un pub irlandese lasciati liberi in studio") ma quel suono grezzo, ma che ha radici antichi, la voce impastata e le immagini sognanti di MacGowan iniziano ad avere successo. Se ne accorge Elvis Costello, che chiamato prima come produttore per un singolo, si accorge che la band da il meglio di s�� senza nessuna "sovraproduzione" e si convince a produrre il primo, storico album dei Pogues: il titolo Rum Sodomy & The Lesh (del 1985, frase che è attribuita a Winston Churchill in ricordo della sua esperienza nella Marina) fu scelto da Andrew Ranken "come il riassunto della nostra vita come band". In copertina La Zattera della Medusa di Theodore Géricault, con il fotomontaggio dei volti dei nostri sulla zattera. Il disco è un successo, il gruppo diventa un caso mediatico e la loro fama di personaggi bizzarri ai cui concerti può succedere di tutto inizia a spandersi ovunque. Costello è ancora con loro in Studio per un nuovo disco, e iniziano a scrivere molte cose. In queste sessioni nasce l'Ep di oggi, che doveva essere l'embrione del disco futuro ma successivi disguidi e screzi tra band e produttore lasciarono questi brani (e un altro, in seguito leggendario) pubblicati come EP.
Poguetry In Motion è un Ep di 4 brani, quattro gioielli Pogues che racchiudono la loro anima gioiosa e decadente, tra melanconia e sprazzi di euforia. London Girl è un rockabilly frizzante, ma sono gli altri tre brani davvero notevoli: Body Of An American è diventata famosa ultimamente per la presenza, quasi fissa, nella serie Tv The Wire della canzone durante i funerali dei poliziotti. Tra l'altro è storica una interpretazione di questo brano durante un Saturday Night Live del 1990, giorno di San Patrizio: MacGowan, visibilmente alticcio, con una sigaretta tra le labbra ne canta una versione strascicata e assurda. Planxty Noel Hill è "dedicata" al cantante di folk irlandese Noel Hill, che fu uno dei più critici contro il loro "celtic folk rock", definendolo una sorta di aborto della musica tradizionale. Ma la canzone più famosa, e in seguito loro classico, è Rainy Night In Soho: deliziosa, dolente e ideal-tipo delle loro future ballate dolorose, fu pubblicata in due versioni, una con un intermezzo di oboe e l'altra di tromba, più famosa.
In quelle sessioni con Costello, si registrò anche un altro brano, il più famoso dei Pogues: Fairytale Of New York fu registrata con O'Riodan come seconda voce, ma fu riscritta e re-registrata molte volte fino alla versione definitiva con Kirsty MacColl che appare nel loro disco successivo, If I Should Fall From Grace With God, che li consacra al successo internazionale. Un personaggio e una band che hanno lasciato un piccolo ma profondo segno, come dimostra il collettivo affetto che la morte precoce di MacGowan, nel Novembre del 2023, ha suscitato in tutto il mondo della musica.
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Natale
Non ho voglia di tuffarmi
in un gomitolo di strade.
Ho tanta stanchezza
sulle spalle.
Lasciatemi così
come una cosa posata
in un angolo
e dimenticata.
Qui non si sente altro
che il caldo buono.
Sto con le quattro capriole
di fumo del focolare.
G. Ungaretti
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Un sabato sera dai minuti contati questo.
Raggiunta casa di mia madre, entro in silenzio e come immaginavo lei è già a letto. Le chiudo la porta della camera per non disturbarla, mentre sistemo la spesa che le ho fatto, controllo nel frigorifero le confezioni di alimenti scadute. Le rimuovo buttando il contenuto negli organici.
Lei puntigliosa su queste cose, ora non le riesce più di controllarle.
Un rapido riassetto alla casa, ma non le metto a posto tutto. So quanto ci tenga a dimostrare di saperci ancora fare con le pulizie, diciamo che pulisco dove c'è da spostare o alzare qualcosa di pesante.
Mi giunge la telefonata di figlio 2 "Papà ci sono le pizze da infornare, sai che dopo devo uscire".
Mi avvio a casa, dopo aver avuto cura di sistemare le medicine dentro il porta pillole settimanale, in modo che mia madre non sbagli.
La frase di mio figlio "...sai che dopo devo uscire" era incompleta.
La verità è che lo dovrò accompagnare io. In auto raccogliendo tre suoi amici.
Le pizze sono uscite molto buone questa sera, forse la pioggia che insiste me le farebbe gustare meglio se Gabriele non uscisse. Se ancora per un sabato sera fosse il mio scricciolo a casa. Ma non sarebbe giusto per lui.
Appuntamento sotto lo stadio cittadino, poi seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino, poi la strada la trovi da te, porta a una pensilina dove c'è un altro amico per voi tre. Anzi quattro, maledetta rima.
Li ascolto parlare, mi fanno sorridere e anche ridere. Non hanno nulla che non vada bene. Sono ventenni con la voglia di vivere e divertirsi. Lo ero anche io. Forse non sentendomi mai amico al pari degli altri.
Tipo strano "il Rino", sempre assorto e spesso assente.
Li lascio alla pensilina concordata dove il quinto amico li aspetta, e si fanno i nomi di altri che arriveranno più tardi. Forse.
Li saluto, Gabriele inaspettatamente mi saluta baciandomi. "Non ti preoccupare pa' sarò bravo e starò attento, come vuoi tu".
Non ho nulla da obiettare, riparto. Alla prima rotatoria inverto il senso di marcia, un'ultima occhiata a qui sorrisi, a quella complicità di amici che legano le proprie vite in un patto di sangue, di quelli indissolubili che se ben curate, come relazioni, potrebbero durare davvero a lungo.
Nel mio ritorno solitario penso alle mie amicizie perse, al fatto che mi sento solo ed estraneo anche in mezzo ad altre persone.
Ho sempre pensato che la mia vita non avesse un senso, ma un senso l'ho trovato. Sono i sorrisi dei miei figli, la gioia dei loro successi, gli occhi innamorati di chi sceglieranno come persone con cui condividere la vita.
Questo non me lo voglio perdere. Mi madre e mio padre queste cose non le hanno mai viste. Mai. Io le voglio assaporare.
E mentre alla radio passa il brano "I love my life" di Robbie Williams, le sue parole:
I love my life
I am wonderful
I am magical
I am me
I love my life
Mi squarciano il cuore, e la pioggia è come se battesse direttamente sui miei occhi, e non sul parabrezza.
Sono solo, ovvero mi sento solo, ma dovrò aspettare. Aspetterò i successi e le gioie dei miei figli, prima di mollare.
Piove, vedo centinaia di ragazzi che si avviano alla discoteca.
Poco dopo incontro le ragazze sfruttate per dare del sesso a pagamento sui bordi delle strade.
Vorrei fermarmi, dare loro una coperta che le ripari, qualcosa di caldo da bere e la possibilità di dire loro: vai, sei libera. Puoi fare altro nella tua vita, perché hai forza di volontà da vendere.
Solo durante questi pensieri mi accorgo che in radio passa Sweet Disposition un pezzo che trovo meraviglioso dei The Temper Trap
A moment, a love
A dream, aloud
A kiss, a cry
Our rights, our wrongs
A moment, a love
A dream, aloud
A moment, a love
A dream, aloud
Stay there
'Cause I'll be coming over
And while our blood's still young
It's so young, it runs
Won't stop 'til it's over
Won't stop to surrender
Avere la forza, di superare, di aspettare chi è un passo indietro.
Mi sento maledettamente solo, anche se non lo sono. Sto male.
Ma in questo sabato sera i miei figli, chi in un modo e chi nell'altro, si divertiranno. Questo conta. Ne basta uno anomalo in famiglia. E quello sono io.
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Eyes on the world #208
Come può essere già settembre...
Mentre ci domandiamo come sia possibile, torniamo con un nuovo numero delle news il cui focus sarà sulla guerra in corso tra Israele e Hamas, quella tra Ucraina e Russia, uno sconfinamento mai avvenuto e le vicende di un noto social network.
Avete già capito tutto? Iniziamo 👇
🇮🇱 ISRAELE-HAMAS: IL CASO DI POLIOMELITE, LO SCONTRO CON HEZBOLLAH, L’ATTACCO IN CISGIORDANIA
1) Torniamo con il consueto update sulla situazione a Gaza. Domenica, l'esercito israeliano ha consegnato oltre 1,6 milioni di dosi di vaccino contro la poliomielite nella Striscia, dove è stato registrato il primo caso in 25 anni. La consegna, realizzata con l'aiuto delle Nazioni Unite, è avvenuta in un contesto di bombardamenti israeliani in risposta all'attacco di Hamas del 7 ottobre. La poliomielite, che può causare paralisi e morte nei bambini, è stata rilevata nelle fognature di Gaza, dove la popolazione vive in condizioni igienico-sanitarie precarie. La campagna vaccinale sarà gestita durante le pause umanitarie dai combattimenti, con l'OMS che chiede una tregua di sette giorni.
Sul campo, nella notte tra sabato e domenica, Israele ha attaccato il gruppo libanese Hezbollah, che ha risposto con il lancio di droni e razzi verso Israele, intercettati dall’esercito israeliano. Gli scontri hanno causato la morte di tre libanesi e un soldato israeliano, oltre a danneggiare infrastrutture in Libano. Israele ha dichiarato che l’attacco è stato preventivo per fermare un imminente attacco di Hezbollah, mentre Hezbollah ha affermato che la sua azione era una risposta a un precedente attacco israeliano. Entrambe le parti hanno sospeso temporaneamente le ostilità, ma il primo ministro israeliano Netanyahu ha avvertito che il conflitto non è finito. Le tensioni tra Israele e Hezbollah, alimentate dalla guerra a Gaza, sono aumentate negli ultimi mesi. Il ministro della Difesa israeliano ha dichiarato lo stato d’emergenza e il leader di Hezbollah ha promesso di continuare a sostenere i palestinesi di Gaza. Intanto, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato di monitorare la situazione e di sostenere il diritto di Israele a difendersi, pur cercando di ridurre le tensioni. Nonostante le tensioni, si stanno svolgendo trattative per un cessate il fuoco a Gaza. Analisti suggeriscono che né Israele né Hezbollah vogliono un'escalation del conflitto a causa di considerazioni interne.
Iniziata la settimana, nella notte tra martedì e mercoledì, l'esercito israeliano ha lanciato una vasta operazione militare in quattro città della Cisgiordania, territorio rivendicato dai palestinesi ma in gran parte sotto controllo israeliano. L'operazione, che coinvolge centinaia di soldati, droni e mezzi corazzati, è stata paragonata a quelle su larga scala condotte durante la seconda Intifada vent'anni fa. L'obiettivo dichiarato è contrastare "attività terroristiche" e ha portato alla morte di almeno 20 palestinesi, tra cui sei combattenti di Hamas. L'esercito ha bloccato le strade principali e istituito posti di blocco, soprattutto a Jenin e Tulkarem. L'operazione è proseguita nel corso della settimana, con Israele che ha arrestato e ucciso anche un comandante del Jihad Islamico. L'operazione è stata criticata duramente dal segretario generale dell'ONU, António Guterres, e ha suscitato preoccupazione negli Stati Uniti, che hanno ribadito l'importanza di proteggere i civili. Intanto, il Programma alimentare mondiale dell'ONU ha sospeso temporaneamente la consegna di aiuti a Gaza dopo che un suo veicolo è stato colpito da proiettili.
🇺🇦 UCRAINA-RUSSIA: DRONI E MISSILI SU KIEV E NON SOLO. ATTIVATE MISURE D’EMERGENZA
2) Lunedì mattina la Russia ha lanciato un massiccio attacco con droni e missili contro diverse città ucraine, tra cui Kiev, colpendo 15 regioni su 24. L'attacco ha causato almeno sette morti in varie località, tra cui Lutsk, Dnipropetrovsk, Zaporizhzhia e Zhytomyr. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha riferito che oltre 100 missili e circa 100 droni sono stati lanciati dalla Russia, con l'obiettivo principale di colpire le infrastrutture energetiche ucraine, già bersaglio di attacchi precedenti. Le esplosioni hanno causato interruzioni di corrente e acqua nella capitale e in altre città. L'azienda energetica DTEK e l'ente pubblico Ukrenergo hanno adottato misure d'emergenza per stabilizzare il sistema. Il ministro dell'Energia ucraino, German Galushchenko, ha descritto la situazione come complicata, accusando la Russia di voler lasciare l'Ucraina senza elettricità. Anche il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, ha condannato l'attacco, definendolo un crimine di guerra e ha ribadito la richiesta di poter colpire obiettivi militari in Russia.
🇯🇵 SPAZIO AEREO GIAPPONESE VIOLATO DALLA CINA PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA
3) Lunedì, un aereo militare cinese ha violato per la prima volta lo spazio aereo giapponese, causando una forte reazione da parte del governo giapponese. Il ministero della Difesa giapponese ha riferito che un aereo di sorveglianza Y-9 è entrato nel territorio giapponese per circa due minuti. Il governo giapponese ha definito l'incidente una violazione della sovranità nazionale e una minaccia alla sicurezza, dichiarandolo "totalmente inaccettabile". Negli ultimi anni, ci sono state tensioni tra Cina e Giappone riguardo a isole contese nel Mar Cinese Orientale, ma mai sconfinamenti aerei.
📱 ARRESTATO IL FONDATORE DI TELEGRAM PAVEL DUROV, INDAGATO PER LE ATTIVITÀ ILLEGALI SUL SOCIAL
Pavel Durov, fondatore di Telegram, è stato arrestato all'aeroporto di Le Bourget, vicino a Parigi, con l'accusa di complicità in attività illegali facilitate dalla piattaforma di messaggistica, che non collabora con le forze dell'ordine e non modera i contenuti. Telegram, con 950 milioni di utenti globali, è noto per la crittografia end-to-end, la possibilità di iscrizione anonima e la creazione di grandi gruppi. Tuttavia, queste caratteristiche hanno reso la piattaforma un rifugio per attività illegali, come traffico di droga, truffe e diffusione di pornografia illegale, causando preoccupazioni sulle responsabilità della piattaforma. Il magistrato francese incaricato del caso ha inizialmente esteso la sua custodia cautelare per un massimo di 96 ore, ma poi Durov è stato rilasciato su cauzione da 5 milioni di euro, con il divieto di lasciare la Francia. Telegram ha risposto alle accuse affermando di rispettare le normative del Digital Services Act (DSA) e negando qualsiasi responsabilità per gli abusi sulla piattaforma. Durov, che ha una doppia cittadinanza emiratina e francese, è noto per la sua resistenza a collaborare con i governi, suscitando critiche per l'uso di Telegram in attività illegali. Mercoledì è stato formalmente incriminato per 12 reati legati all'uso dell'app.
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Giusto un paio di brevi per concludere 👇
🇺🇸 La vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha rilasciato la sua prima intervista da candidata alla presidenza, affiancata dall'aspirante vicepresidente Tim Walz. Harris ha difeso l'operato del presidente Biden e ha ribadito il suo impegno per una "nuova era politica", criticando la gestione dell'immigrazione di Trump e promettendo di non interrompere la fornitura di armi a Israele. Durante l'intervista, Harris non ha affrontato temi riguardanti la sua identità o proposto misure concrete per i primi giorni della presidenza, rimanendo vaga su gran parte del programma. Ha inoltre dichiarato di essere aperta a includere un Repubblicano nel suo governo.
🇩🇪 Sabato, l'ISIS ha rivendicato l'attacco avvenuto venerdì sera a Solingen, Germania, in cui un uomo ha accoltellato e ucciso tre persone, ferendone gravemente altre cinque durante una festa cittadina. Il principale sospettato, un siriano di 26 anni, si è consegnato alla polizia, ma non ha fornito prove del suo legame con il gruppo terroristico. L'attacco è stato descritto dall'ISIS come una vendetta per i musulmani. L'uomo, giunto in Germania nel 2022, aveva ottenuto asilo dopo che la sua richiesta era stata inizialmente respinta. La polizia ha arrestato altre due persone in relazione all'attacco.
Alla prossima 👋
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“ La Guerra fredda aveva un senso. Fu una guerra ideologica in cui il vincitore, verosimilmente, avrebbe imposto al nemico sconfitto, per usare parole ormai screditate dal troppo uso, la propria filosofia e i propri valori. Può sembrare retorico, ma vi era in quello scontro fra giganti una certa nobiltà. Due grandi idee – la dittatura del proletariato e il capitalismo democratico – offrivano al mondo due strade diverse verso un futuro migliore. Le due diverse prospettive hanno creato speranze, attese, impegno e sacrifici che non sarebbe giusto ignorare. Oggi ogni traccia di nobiltà è scomparsa. Il comunismo è fallito e, come accade sempre in queste circostanze, la memoria collettiva ricorda soltanto le sue pagine peggiori: i massacri della fase rivoluzionaria, la fame ucraina, la persecuzione del clero, le purghe, i gulag, il lavoro coatto, i popoli trasferiti con la forza da una regione all’altra. La democrazia capitalista non è in migliori condizioni. Il trasferimento del potere economico dai produttori di beni ai produttori di denaro ha enormemente allargato il divario fra gli immensamente ricchi e i drammaticamente poveri. Il denaro governa le campagne elettorali. Le grandi piaghe della prima metà del Novecento – nazionalismo, militarismo, razzismo – si sono nuovamente aperte. Il linguaggio della competizione politica è diventato becero e volgare. Le convention americane sono diventate un circo equestre in cui i candidati esibiscono i muscoli della loro retorica. Il meritato riposo e un busto nel Pantheon della nazione, che attendevano gli uomini di Stato alla fine della loro carriera politica, sono stati sostituiti da posti nei consigli d’amministrazione, laute consulenze e conferenze generosamente retribuite (come i 225.000 dollari pagati da Goldman Sachs a Hillary Clinton per un dibattito dopo i suoi quattro anni al Dipartimento di Stato). Anziché affidarsi a leader saggi e prudenti, molti popoli sembrano preferire i demagoghi, i tribuni della plebe, i caudillos. Anche Putin appartiene per molti aspetti a un club frequentato da Erdoğan, Al Sisi, Orbán, Jaroslaw Kaczyński, Bibi Netanyahu, Xi Jinping, Lukašenko, per non parlare dei loro numerosi cugini in Africa e in Asia. Ma ha anche altre caratteristiche.
Deve governare un enorme spazio geografico popolato da una moltitudine di gruppi nazionali e religiosi. È il leader di un grande Paese che ha interessi legittimi e ambizioni comprensibili. È responsabile di una potenza che è anche un tassello indispensabile per l’amministrazione di un mondo caotico e pericoloso. Possiamo deplorare molti aspetti del suo carattere e della sua politica. Ma vedo sempre meno persone in Occidente che abbiano il diritto di impartirgli lezioni di democrazia. Occorrono 541 giorni per formare un governo in Belgio. Occorrono due elezioni politiche a distanza di sei mesi per formare un governo in Spagna. Occorrono tre commissioni bicamerali e due riforme costituzionali approvate dal Parlamento, ma sottoposte a referendum popolare, per cercare di modificare la costituzione in Italia. Nell’Unione Europea sono sempre più numerosi i cittadini che invocano il ritorno alle sovranità nazionali, ma in alcuni Stati nazionali (Belgio, Gran Bretagna, Spagna) la sovranità nazionale è contestata da regioni che chiedono il diritto di secessione. Mi chiedo: la democrazia è ancora un modello virtuoso che l’Europa delle democrazie malate e gli Stati Uniti delle sciagurate avventure mediorientali e del nuovo razzismo hanno il diritto di proporre alla Russia? “
Sergio Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, Longanesi, 2016¹. [Libro elettronico]
#Vladimir Putin#Russia#leggere#citazioni#Putin e la ricostruzione della grande Russia#saggistica#saggi#Recep Tayyip Erdoğan#Viktor Orbán#Xi Jinping#Lukašenko#Aljaksandr Lukašėnka#Bibi Netanyahu#ideologia#democrazie#Abdel Fattah al-Sisi#Jaroslaw Kaczynski#Europa#Stati Uniti#dittatura del proletariato#Guerra fredda#demagogia#retorica#capitalismo democratico#Hillary Clinton#Ucraina#militarismo#nazionalismo#razzismo#Sergio Romano
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Darwish
Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
É il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate da ogni direzione.
Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.
É l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal filtrare col tempo, eccetto a Gaza. Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola.
Ogni volta che esplode, e non smette mai di farlo,
sfregia il volto del nemico, spezza i suoi sogni e ne interrompe l’idillio con il tempo.
Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale. Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà. Il tempo laggiù non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico. Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente.
Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi.
𝐋’𝐮𝐧𝐢𝐜𝐨 𝐯𝐚𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐠𝐫𝐚𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐥𝐥’𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐧𝐭𝐞.
Questa è l’unica competizione in corso laggiù.
E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda o dalle canzoni patriottiche.
L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità o del ritorno d’immagine.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e offre il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore, non ha gola.
É la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia,
tende abbandonate al vento,
merce di contrabbando,
braccia a noleggio.)
Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione.
Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo.
Perché è arance esplosive,
bambini senza infanzia,
vecchi senza vecchiaia,
donne senza desideri.
Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie.
Non sfiguriamone la bellezza che risiede nel suo essere priva di poesia. Al contrario, noi abbiamo cercato di sconfiggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere.
Nel mentre che le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste.
Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo.
Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.
Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà.
Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori.
Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.
Vero, Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
Ma il suo segreto non è un mistero: la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole (vuole scrollarsi il nemico di dosso).
A Gaza il rapporto della resistenza con le masse è lo stesso della pelle con l’osso e non quello dell’insegnante con gli allievi.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno. Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza. Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico. Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.
Lei non vuole questo,
noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.
La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, né incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.
Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie.
Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo dalla parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato.
Niente la distoglie.
É dedita al dissenso:
fame e dissenso,
sete e dissenso,
diaspora e dissenso,
tortura e dissenso,
assedio e dissenso,
morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza.
(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.
Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
𝑆𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝐺𝑎𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑀𝑎ℎ𝑚𝑜𝑢𝑑 𝐷𝑎𝑟𝑤𝑖𝑠ℎ, 1973
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«Ci sono zone (...) che ormai sono militarmente controllate dalla mafia africana, luoghi in cui servono tre, quattro volanti alla volta per intervenire. (...) abbiamo anche 350 minimarket (...): ognuno di loro rappresenta una criticità, un luogo che attira bivacco o disperazione. (...) È triste da dire, ma (il quartiere) vive la sua condizione ormai con rassegnazione. (Più esplosiva la situazione nel quartiere confinante a est), alle prese com’è con le carovane dei rom in piazza e occupazioni delle case popolari». Soluzioni? «Non è vero che il sindaco non può fare nulla. Faccia innanzitutto un’ordinanza per chiudere prima i minimarket. Dice che può essere impugnata al Tar? Probabilmente è vero, ma intanto la faccia, poi si vedrà. Quindi illumini di più le strade. Infine inizi a controllare i tanti appartamenti subaffittati, dove in 40 metri quadri dormono in 15 sui materassi e di solito tutti spacciatori».
via https://www.lastampa.it/torino/2023/09/27/news/torino_nord_vie_degrado-13461850/
Parigi, Malmo, Bruxelles? O Il Cairo? NO, TORINO NORD.
Btw lo scrive mica una macchina del fango bensì LaStampa - un vero e proprio sepolcro imbiancato woke - intervistando tre capi circoscrizione, uno FdI l'altro pidino l'altro leghista.
Btw dove sono "più avanti" in Francia Svezia Belgio Londonistan, non c'è il degrado visibile palpabile livello ex sovietico di Torino.
Là, andateci, c'è tanto bel "social housing" che i nostri accoglioni credono risolva, tanto bel (semi-)nuovo che NULLA CAMBIA ANZI AGGRAVA - spiaze - nascondendo il degrado effettivo sotto il tappeto, quello dei second e third generation con più disperazione dei primi arrivati, gang più radicate, ghetti, spaccio come qui e più stupri di qui.
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Com’è possibile che viviamo tutti sullo stesso pianeta, eppure ci sono persone, come noi, che vivono per davvero, e persone, come loro, che sopravvivono solamente?
Mi sveglio all’alba, la mia stanza già assediata dall’afa di un giorno appena abbozzato all’orizzonte. L’aria condizionata non funziona. Non mi sorprende. Sono ai confini del mondo.
Trentaquattro anni fa, Majok, un bambino sud sudanese, si sveglia all’ombra di un albero, nel pascolo in cui sorveglia il bestiame di famiglia, per scoprire il suo villaggio avvolto dalle fiamme.
Mi trovo in Turkana, una delle contee più remote e svantaggiate del Kenya, al confine con il Sud Sudan. Mi preparo ed esco a ritrovare i membri del mio team, Salome e Edwin, che mi assistono in questa missione, e insieme ci dirigiamo verso il cancello principale. Lì ci aspetta un fuoristrada. Nel campo profughi di Kakuma, il terzo più grande del mondo, ci si può muovere solo sotto scorta.
Majok trova la sua famiglia sterminata, i muri di casa carbonizzati, tutto ciò che possedeva depredato. È il 1990, e la Seconda Guerra Civile del Sudan imperversa già da anni, ma lui non aveva mai pensato sarebbe arrivata fino al suo villaggio. Si era sbagliato. E sa che i miliziani torneranno a reclutare i bambini rimasti soli, obbligandoli a combattere nell’esercito dei ribelli. Fugge.
Il fuoristrada si fa largo tra le strade sconnesse e polverose del campo profughi. Non è il primo che vedo nella mia vita. Ma non c’è paragone. Ho fondato Still I Rise nel campo profughi di Samos, in Grecia. Laggiù, 7000 persone erano considerate il punto di rottura di una crisi terribile. Qui ce ne sono più di 290.000. Il 53% sono bambini. Uno su tre non va a scuola. Si vive con 0,04€ al giorno.
Nella disperazione di aver perso tutto, Majok trova conforto nello scoprire di non essere rimasto completamente solo. Proprio come lui, sono più di 20.000 i bambini perduti che, avendo guardato la morte negli occhi, sono fuggiti alla cieca per poi ritrovarsi nella savana e organizzarsi in piccoli gruppi, camminando in fila indiana, alla ricerca di un porto sicuro della cui esistenza non sono minimamente certi. Ma hanno sentito che in Etiopia le cose sono migliori, e così si sono messi in marcia. Majok ha appena 12 anni, eppure si trova a capitanare il suo gruppo. È il più grande.
Il fuoristrada si ferma davanti al cancello della scuola gestita dall’organizzazione che ci fa da spalla qui a Kakuma. Operano nel campo da decenni e fanno del loro meglio, ma mancano i fondi, le loro strutture hanno bisogno di manutenzione e le loro aule accolgono fino a 100 studenti per ogni insegnante. Potrebbe andare peggio: a Kakuma il rapporto insegnante-studenti arriva a 1:180. Ci prepariamo. Questo è un giorno importante per noi. Bambini e genitori ci stanno già aspettando.
Majok e il suo gruppo camminano per più di mille chilometri. Ci mettono mesi. Altri gruppi, anni. Non hanno che i vestiti che indossano. Sopravvivono elemosinando cibo nei villaggi che attraversano. Ma anche lì le risorse scarseggiano. Con il passare del tempo, le loro braccia si assottigliano e le costole emergono appena sotto la pelle. Hanno gli occhi scavati. Dei 20.000 bambini partiti, la metà muore di stenti, di polmonite, di malaria, sbranata dai leoni o uccisa dai miliziani. Molti si arrendono, consegnandosi ai ribelli per diventare bambini soldato. Ma non Majok.
Siamo a Kakuma, uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta, per mantenere una promessa fatta ormai quattro anni fa: offrire l’opportunità di studiare in una Scuola d’eccellenza, conseguendo il Baccalaureato Internazionale e, di conseguenza, la libertà, ai bambini più dimenticati del globo. È un momento importantissimo per me. Quando siamo pronti, bambini e genitori entrano nell’aula.
Dopo mesi di cammino, Majok e il suo gruppo arrivano in Etiopia. Eppure nel 1991 la guerra il raggiunge anche lì, e sono costretti a fuggire di nuovo, stavolta verso il Kenya. È qui, in un campo profughi chiamato Kakuma, o “nessun luogo” in swahili, che trovano riparo permanente. Gli esperti sostengono che i Bambini Perduti del Sudan siano i più traumatizzati mai esaminati nella Storia.
Distribuiamo i moduli ai genitori. Molti di loro non sanno leggere. Non fa niente, spieghiamo l’opportunità offerta: lasciare Kakuma per frequentare una Scuola Internazionale gratuita e cambiare per sempre il corso della propria vita. Tutti, nessuno escluso, firmano. Uno di loro si chiama Majok, ha più di quarant’anni, negli occhi le cicatrici di una vita inconcepibile, ma al fianco una bambina dal grande sorriso, dagli occhi brillanti e dai capelli intrecciati con amore e cura.
Siamo arrivati troppi tardi per Majok. Nel 1990 io non ero ancora nato. Ma non è troppo tardi per sua figlia. È per lei che siamo qui. E, attraverso di lei, siamo qui anche per lui. Per forgiare il futuro, cambiare il presente e, in un certo senso, riscrivere il passato. Per spezzare il ciclo dell’ingiustizia.
Saremo i primi al mondo a offrire ai bambini di Kakuma l’opportunità di conseguire il Baccalaureato Internazionale e, cosa ben più importante, la libertà grazie al potere dell’istruzione. Chi è con noi?
P.s. Come da prassi durante le operazioni più delicate, pubblicherò questo resoconto solo dopo il mio ritorno da Kakuma e avendo assicurato la buona riuscita della missione. Per ragioni di privacy, Majok è un nome di fantasia. La sua storia, e quella degli altri Bambini Perduti del Sudan, è reale.
Nicolò Govoni - Fondatore di "Still I rise"
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LA FAMIGLIA CHE HA OSPITATO 600 MIGRANTI IN CASA PROPRIA
Filippo Lombardo è un artigiano nato a Reggio Calabria, insieme alla moglie Loredana Crivellari, vivono a Ventimiglia in Liguria a pochi chilometri dalla frontiera con la Francia. Negli ultimi quattro anni hanno ospitato nella loro casa circa 600 migranti.
Sono ormai conosciuti come ‘quelli del furgoncino rosso’, accolgono e danno rifugio a tanti che vengono respinti al confine con la Francia. “Il primo si chiamava Hussain. Era un ragazzo tunisino. Lo abbiamo trovato malconcio, era stato picchiato”. A Natale è arrivata una ragazza nigeriana. Camminava per strada assieme al figlio di quattro anni. Erano stati respinti. Scaricati al confine. “Il problema – continuano nel racconto – è che non si fidano più di nessuno”. “Quando avvicini queste donne che sono state violentate e imprigionate in Libia, donne in viaggio da anni, donne che hanno attraversato il mare, senti tutta la loro preoccupazione”. In cambio, Filomena e Filippo non vogliono nulla. “Ci dividiamo i compiti” racconta Filomena, infermiera in pensione. “Io mi occupo dell’accoglienza in casa, lui va con il furgone quando sappiamo che ci sono donne o famiglie in mezzo alla strada”.
Alle volte l’afflusso è massiccio, anche trenta persone in una settimana. “Non ce ne siamo mai dovuti pentire”, racconta Loredana: “Nessuno ha mai portato via un solo euro”. “Vedevamo questi ragazzi e ragazze sulle strade… Forse perché ci siamo conosciuti negli scout, e quando sei scout lo sei per tutta la vita”. “In questi anni abbiamo capito che aiutare gli altri è bellissimo, ti cura l’anima” raccontano.
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Fonte: La Stampa; La Repubblica; foto di August de Richelieu
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Ancora sugli imbecilli
Abbiamo bisogno di voialtri. Voi siete le vittime del nostro piacere e il sottosuolo della nostra grandezza. Siete affondati perché possiamo emergere; vi abbassate perché possiamo salire. Permettetemi di pregare per l'anima vostra, imbecilli convinti e innumerabili. Quando vi contemplo seduti alla tavola di un ben illuminato caffè — le vostre facce hanno bisogno di molto luce — quando vi guardo per le strade e per i teatri, nelle botteghe e nei tranvai, una grande e invincibile tenerezza mi assale e duro fatica a reprimere la tentazione di buttarvi le braccia al collo e di baciarvi le mani. In quei momenti la mia pietà è realmente infinita e debbo nasconderla sotto la più brutale durezza per non umiliarvi più del bisogno. Quando penso a quel che vi manca e vi mancherò per tutto la vita; quante emozioni non sentite; quanti aspetti delle cose non scorgete; quante verità non alienate; quanto bellezza vi sfugge e quanto coraggio vi fa difetto, io, che non ho le lacrime facili, avrei sul serio voglio di piangere. Io so che passate attraverso il mondo senza intuirlo nella sua diversità e solidità; senza fermarvi a contemplare quelle minime cose che son le più grandi nell'emisfero della poesia; senza penetrare né l’anima delle vostre donne né quelle de' vostri compagni e neppure la vostra, la vostra infinitamente piccola anima. Io so che il genio può passarvi accanto, vivo, in carne ed ossa, in parole e in ispirito, e che voi non lo vedete, non siete capaci di vederlo, di avvicinarvi, di parlargli, di andare con lui, di lasciar padre e madre e ogni trascurabile bene per seguirlo all'interno dei suoi proibiti piaceri. Io so che quattro, cinque, dieci idee vi bastano per tutta la vita, vi servono per tutti gli usi quotidiani, per il giorno e per la notte, per l'amante e per il parrucchiere, per parlare e per scrivere, per alzarvi la mattina e per andare a letto la sera e che nel vostro cervello, senza finestre dalla parte del cielo, non hanno diritto d’ingresso che le verità diventate luoghi comuni e l'idee che a forza d'uso son fatte imbecillità. Io so, e lo so con matematica certezza, che pensate coll’altrui pensiero, che vedete cogli occhi degli altri, che giudicate col giudizio degli estranei e che le vostre ammirazioni e i vostri entusiasmi vanno soltanto a quelle cose che qualcuno di voi timbrò ripetutamente col sudicio bollo della fama più infame. Io so tutto questo — ed altro ancora che non dico per dignità — e non dovrei commiserarvi sinceramente dal profondo del cuore? Non crediate ch'io sia cattivo o che mi eserciti nel sarcasmo. Vi amo perché siete il contrappeso necessario dei pochi e la mia pietà è senza nessun sottinteso. E vi amo, vigliaccamente, anche perché ho paura della vostra vicinanza. […] Permettetemi dunque di pregare anche per voi, imbecilli preziosi e desiderabili, almeno una volta. Io non so quali sono le parole che posson farvi piacere e le grazie che ricercate ma lodo e celebro il Signore perché vi dia quel che domandate e perché tutti i vostri desideri siano speditamente esauditi.
G. Papini, Gli imbecilli [1913-1951], Viterbo, Millelire, 2007
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