#puntas fuxia
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Lucio Vanotti a/i 2018-19: teorema della geometria libera indossata
La si potrebbe quasi definire una rivoluzione gentile: la strada che Lucio Vanotti percorre con le sue creazioni punta, infatti, imperterrita verso la direzione del cambiamento generoso, dello scardinamento di regole imposte che a volte serrano assai il ritmo della composizione creativa del sistema moda, ma anche il ritmo della composizione del gusto nel sistema del proprio guardaroba, e dell’allestimento estetico della nostra stessa immagine, noi che la moda la indossiamo con piacere grande misto a consapevolezza interiore.
Una rivoluzione gentile perché percorre la sua strada quasi con fare silente: non c’è confusione nella maniera di Lucio Vanotti di proporre la sua visione concretizzata in collezioni sempre applaudite, bensì c’è l’invito garbato ad essere accompagnati ad esplorare un mondo squisitamente personale, costruito su pilastri solidi che hanno a che fare con la passione per filoni culturali, artistici e architettonici che hanno segnato le epoche. Passione che si unisce al talento sartoriale vero.
I nomi aiutano di certo a comprendere meglio: quei pilastri, o punti cardinali immancabili, sono la rievocazione dell’aspirazione all’armonia perfetta del classicismo, del suggerimento dell’Architettura radicale a godere del piacere estetico che la composizione architettonica regala a tutto il mondo che ci circonda, della nettezza rigorosa del brutalismo che guida la mano a disegnare silhouette asciutte eppur eloquenti, della volontà purificatrice di un ascetismo ammantato di Oriente, ma intriso di una capacità poetica che ha le radici nel genio tipicamente italiano.
Quelle radici che gli consentono di mescere tali riferimenti in un punto di vista riassumibile in un motto parafrasato, e per questo perfettamente personalizzato: “Less is … freedom!”, ovvero il meno non è tanto questione di meglio, ma questione di libertà. Semplicità vuol dunque dire niente orpelli che distraggono, solo forme essenziali e funzioni efficaci da comporre, da sperimentare, con le quali giocare, da far fluire oltre i confini dei generi sessuali e delle scansioni stagionali.
Quello di Lucio Vanotti è dunque un elogio della sottrazione che si rinnova anche nella collezione a/i 2018-19: qui l’amore per il rigore delle forme che si esplicano nella funzione è allacciato alla dimensione dell’uniforme, nel suo essere un codice di appartenenza scritto nei dettagli solitamente composti secondo un razionalismo profondo, che per Vanotti è la materia prima da scardinare per spingere l’orizzonte della sua esplorazione ancora più in là. Verso dove? Beh, stavolta la rotta è segnata da un approccio ludico e matematico assieme: giocare con le caratteristiche tipiche dei filoni che han fatto della divisa il proprio manifesto, ovvero workwear e new wave, sportswear e postmodernismo, hip hop e razionalismo, e ibridarli con attenzione meticolosa.
Il risultato è una semplicità d’apparenza assai complessa nella sostanza: sfila dunque la geometria, con le linee quadrate delle giacche over, con la forma rettangolare delle camicie, con l’appiombo dritto dei pantaloni; ma sfila una geometria che da rigorosa muta ed evolve nei volumi aiutati dagli espedienti sartoriali, così che le linee rette diventano in profili tondi dei volumi gonfi dei k-way trasformisti in cappotto e mantello, dei bomber e delle felpe che cambiano la scala delle proporzioni e diventano capispalla.
Il metodo da seguire è il principio dell’accumulo: strati composti con saggezza, bilanciando ogni dimensione per lasciare spazio espressivo anche alla forza della palette cromatica: che dalla gentilezza delle tonalità neutre sale d tono e di brillantezza, fino ad elettrificare i classici basici con shot di fuxia, arancio denso, giallo intenso e blu vibrante.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
{ Photo Backstage via © wwd e © pibemagazine }
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Tesori fioriti nel giardino montano
Per la grafica ringrazio la splendida @iridialair
https://www.youtube.com/watch?v=PpVWjIUMiX8
{Bosnia, Monti Maglic – Inverno, gennaio – 113 epoca Nuova}
Notte gelida e tempestosa sferza l’alture rocciose che dalle brulle piane invernali bosniache, s’innalzan nel buio come faraglioni di tenebra; m’un reame scintillante e luminoso è celato nelle ctonie viscere dei monti Maglic: regno lieto dai nani popolato presso cui son stati gentilmente invitati il monarca della Natura Cernunnos il Lugh el druido Enebro Rogelio De Canimar, giunti p'ingannar l'attesa di scender nella città dell’epoca Vecchia quando da quest’ultima saran concluse delle ridicole seppur noiose questioni burocratiche. Un tuono clamoroso ed inatteso esplode dai cumulo nembi che si son poggiati sulla cima della montagna abitata, il suo fragor la percorre nell’interezza sua con gran veemenza tanto chel cubano ne vien destato d’improvviso, col fiato corto apre i grandi occhi verdi, abituandosi gradualmente al passaggio tra l’oscurità e la luce offerta dai vari candelabri di cui la camera è costellata, appura ch’al suo fianco, nel morbido letto, la ben nota figura contorta del folletto ha levato gl’occhi dal libro che sta leggendo ponendoli su di lui; basta che l’iridi d’acqua marina tinte incontrassero quelle dal sol animate chel tremor del druido dispare, scivola lontano proprio come il temporale il cui rumoreggiar si disperde al termine della notte.
“Guarda stellino, è già l’aurora.”
Verbia cristallino il folletto indicando la grande finestra rotonda posta dirimpetto la branda che momentaneamente occupano: dalla vetrata il druido ha modo di notare come le nubi, simili a soffici monti di spumoso zucchero filato, abbian perso ogni carica ostile per distendersi al gelato vento e goder dei primi bagliori del sole assumendo tintura rosata e delicata, in netto contrasto colla volta blu ancor trapunta dalle distanti stelle. Enebro pon fine alla distanza tra se el picciol violinista venendo da egli accolto così, col capo poggiato sull’altrui spalla sinistra/ quella più larga e comoda per via della deformità/ guarda placidamente il guizzar del vapore condensato mentre l’ossute manine gli carezzan i crini castani; assieme disquisiscono dei moti celeri ed irregolari dei complessi nuvolosi spinti dalla tramontana gelida la qual dà vita a soffici animali o fiori eterei che sboccian sulla volta celeste del primo mattino, perdon lentamente la tintura rosea man mano chel sole s’innalza. La tempesta della notte precedente ha rinnovato il manto nevoso donando al monte un’aria limpida e fresca ma all’interno dello stesso n’è affatto freddo tanto chel druido, in virtù di codesto clima ctonio tanto confortevole, sceglie d’indossar una camicia di cotone accompagnata da un paio di braghe scure sorrette dall’immancabili bretelle stavolta fuxia.
“Che dici Aengus, andiamo a fare colazione o credi sia ancor troppo presto?”
"Son persuaso ch’i nostri osti ancor stian riposando: per tal cagione ti propongo di preparar loro una sorpresa.”
Afferma col tono tanto marmoreo quanto misterioso; i due discendon lunghe gradinate, percorron ampi saloni accompagnati dal fievole rintocco rimbombante del bastone dell’avvocato la cui punta argentata riecheggia sul prezioso pavimento levigato; nel mentre ch’arrivan al loco designato il silvestre monarca spiega all'amico l’intenzion sue: avrebbero preparato delle meringhe per tutti l’abitanti del monte che con così tanta generosità l’han accolti e, una volta giunti nelle cucine, si cimentano nell’allestimento delle pietanze.
“Dove l’hai trovati?”
Dimanda il cubano additando i petali di rosa chel cornuto sire sta pestando nel mortaio.
“Nel giardino ai piani superiori, ci son ancora dei cespugli fioriti tra la neve e c’è anche una serra che hanno costruito gl’alfar. Se ti va più tardi possiamo andarci.”
Così accordati Enebro riprende a cucinare denotando la sua abilità in quella disciplina scoperta sol recentemente la qual però l’ha affascinato a tal punto che s'è celermente impratichito: a vederlo par proprio un grande chef, la sua goffaggine quasi non gl’è d’impaccio mentre si sposta trai banconi, le braci accese, ed il forno incassato nella parete rocciosa, gli mancan solo il cappello bianco ed un grembiule da sporcar anziché la camicia e poi sarebbe potuto esser scambiato per un professionista cuciniere. Su svariate teglie di ghisa, svettano amabilmente più di cento pasticcini spumosi la cui fragranza è sì inebriante da svegliar i barbuti abitanti del monte e farl'accorrer entusiasti nel salone da pranzo ove trovan gradita sorpresa ma non color che ne son gl’artefici; druido e monarca si son infatti ritirati pria dell’arrivo dei nani a cercar la strada pel giardino. Essa vien ritrovata dall’impeccabile senso dell’orientamento del minuto bardo il qual conduce l’avvocato lungo una scalinata tortuosa che s’arrampica attorno ad una colonna di pietra percorsa da meravigliose vene d’oro in grado di rifranger la luce delle candele e diradar le tenebre sempre meno evidenti salendo poiché la luce diurna penetra da una grande porta trasparente.
“Non mi dirai che anche stavolta vuoi andar in mezzo alla neve scalzo e per di più senza mantello!”
Esclama ironicamente il castano mentre prende in prestito le vesti dall’armadio a muro locato accanto al portone; ei nota l’altrui figuretta ruzzar nel giardino candido a piè nudo: sol una lunga casacca sgualcita di lana cotta il copre cadendo sovra l'esili ginocchia a lor volta celate da cinerei pantaloni attillati da cui non riesce immediatamente a distinguersi la vaporosa coda volpina tinta di medesimo color. Il giardino è molto più vasto di quanto il druido immaginasse ed ornato da piante che l’occhio suso incontrò sol sui libri: tre alberelli dal tronco scuro spiccan sul candore circostante, alti pochi metri ma dalle maravigliose infiorescenze rosee su cui l’acqua ghiacciata è caduta con armonia tale da sembrar scintillante gioiello cereo.
“Questi sono ciliegi orientali! Un tempo la lor resina era molto usata in una grande varietà di filtri e preparati per la versatilità e le doti straordinarie.”
Osservando da vicino la terna d’alberelli fioriti attende chel monarca l'affianchi; quando ciò avviene il cubano n'ode le favelle.
“Come mai ora n’è più così?”
“Perché, purtroppo, da quando l’arcipelago giapponese e le terre limitrofe scomparvero, più d’un secolo fa, alcuno ha più avuto modo d’ottener la linfa di questi alberi ed i filtri che si preparavano son diventati leggenda.”
Risponde con una nota di tristezza il giovin il qual poggia sulla corteccia scura la mano destra scoprendo che proprio accanto ad essa il gelo ha saggiamente cristallizzato la resina.
“Puoi prenderla se vuoi.”
Voce profonda, lenta e grave risuona nel giardino montano, è l’albero che lieto di potersi donare invita a prelevar dalla propria pelle lignea il prezioso essudato.
“Come siete arrivati fin qui?”
Dimandan all’unisono Enebro ed Aengus.
“Ci portaron gl’alfar quando n’eravam altro che piccole piantine: fummo accasati in codesto spettacolar vivaio per suggellare un gemellaggio tra due specie che non san far a meno l’una dell’altra così come noi non sappiam far a meno della neve per fiorire.”
Spiegan allor gl’arbusti tornando poi a godersi quel candore. Soddisfatto il castano annuisce alle lor favelle raccogliendo in apposita custodia di latta la resina; prende poi un grosso respiro d’aria gelida la qual gl’arrossa ancor di più l’orecchie aguzze el naso puntuto e di ciò il sire s’accorge tosto.
“Or che l’abbiamo scoperti è nostro compito avvisare i nostri osti e far convocar esperti botanici per riportare alla luce questa specie creduta estinta.” Propone il monarca a cui il druido annuisce assai lieto dell’idea. “Vieni Enebro? Laggiù c’è la serra: vedrai ch’erba verde ci troverai.”
Aureo il sir indica una struttura minuta, interamente coperta del più trasparente cristallo, entrandovi l'esigue labbra rosee del giovane si dischiudono nel veder ch’all’interno del giardino coperto al posto del manto niveo si stende un tappeto d’erba tenera, un piacevole tepore aleggia in quel loco tanto chel castano appende il mantello di velluto ed ispeziona quel giardinetto in miniatura le cui porte son cotanto basse che per poco n’è costretto a chinarsi per passarvi.
“Un luogo delizioso, non ti pare?”
Chiede retoricamente al rosso il qual procede con la solita andatura altalenante, colle mani lasse che sfioran l’arcuate ginocchia, colle lunghissime orecchie aguzze ritte el convoluto capino ad egli rivolto; gl’annuisce pria di capriola all'improvviso verso un ceppo tagliato coverto di muschi e germogli: su d’esso è posto un grazioso paiolo di rame dalla mole assai ridotta e la fattura sapiente il qual reca piacenti sostegni ed intarsi fini. Inequivocabilmente attratto da esso il cubano gli s’appropinqua, coll’acme tondo del bastone percote gentilmente il ventre del calderone in miniatura traendone un melodioso risuonar così simile a quello d’una festosa campana.
“So che n’aspetti altro che provarlo…”
Il re offregli varie ampolline prese dalla propria bricolla, esse contengon fluidi pirotecnici sottratti dal circo ove fu prigioniero: per qualche cagione il silvestre monarca ha sempre conservato quelle fialette, mai pria d’allora n’ha fatto uso trattandole come reliquie in qualche maniera preziose malgrado n’avessero alcuna capacità magica, curativa o utile se non all’estetica.
“Vuoi davvero che ne prenda uno?”
Sgranando l’occhi il fanciullo si china affinché i settanta centimetri di differenza non fosser più tali.
“Certo, non te l’offrirei se non fosse così.”
Il rassicura il folletto, scrutandolo ei abbassa l’orecchie ed inclina il convoluto capo i cui ricci intricati ed ispidi si muovon tintinnando come mille campanelli soavi pria di riprender a verbiar.
“Puoi scegliere quello che vuoi.”
L’invita estinguendo ogni freddezza nella voce.
Soffocando malamente un sorriso commosso Enebro china lo smeraldino guardo, le sue lunghe dita sorteggiano l’ampolla che delle cinque è più a sinistra, aggiunge al piccolo paiolo qualche goccia d’acqua.
“Ti va d’aprirla meco?”
Dimanda allora rimanendo inginocchiato presso il ceppo tagliato.
“Perché privarti della gioia di vuotar una pozione nel calderone?”
“Non me ne priveresti affatto, anzi: sarebbe ancora più splendido.”
Nel replicar ciò egli pon sguardo fiducioso al sire, gl’occhi susi s’allargano, le bionde sopracciglia s’incurvano in una muta richiesta scevra di pretese, intrisa di speranza. A tal tenera visione il monarca si scioglie e gl’annuisce così la propria man sinistra s’accosta all’altrui sfiorandosi d’appria e sovrapponendosi poi nel mescere il contenuto della boccetta nel calderone dal qual serpeggia un fumo rosato via via più voluminoso che danza nell’aere tiepida; l’avvocato vi pon le mani tentando indarno d’acchiappar tra le dita le spire caliginose che salgon senza accennar di fermarsi diradandosi tosto nell’atmosfera donandogli un gaio sentor sempre più difficile da contenere. Il folletto da parte sua lascia la scena al castano el scruta a pochi passi di distanza, com’è sua consuetudine: n’osserva i movimenti e ne percepisce l’allegria indugiando col guardo sul modo in cui Enebro chiudesse l’occhi quando ride, come le pieghe attorno ad essi si facessero evidenti el grazioso naso s’arricciasse quando si armonico suon fiorisce sulle sue labbra; vederlo felice è prezioso e se ai mostri fosse concesso sorridere il sir l’avrebbe fatto estasiato dall'altrui emozione, più preziosa dei diamanti e gl’ori celati nella montagna.
Quando tutto il fumo vanisce i due s’accingon a tornar nel monte, passando nel giardino scrutan nuovamente i ciliegi poi il guardo del druido si posa sui cespugli di rose fiorite, verso d’esse s’avvicina notando come la neve cadendo su di loro, somigliasse ad un mantello soave fatto di cristalli soffici ordinatamente posti l’uni sugl’altri, veli leggeri e lucenti composti da minuscole forme perfettamente geometriche eppur mai tra loro identiche; il castano dev’essersi trattenuto più del previsto ad osservar codesti fiori dai petali rosati poiché di nuovo il freddo l’attanaglia, l’estremità sue tornan ad arrossarsi el corpo tornito prende a tremare leggermente inducendolo a porre piè nell’abitazione ctonia. Son accolti festosamente d'un paio di donne le quali son andate a prender dei quarzi grezzi per portarli ai laboratori e trasformarli in chissà quali meraviglosi monili ed oggetti, manifestando intenzion d’accompagnar gl’ospiti in uno dei tanti graziosi salottini disseminati nell'immensa abitazione, le barbute fanciulle porgon loro i canestri mostrando quanto raccolto: delle meravigliose pietre carnicine appen troate, prelevate così come sono dal costone roccioso e per questo intrise della possanza materna della montagna; una d’esse è indicata tosto dal cubano fanciullo il qual afferma utilizzando l’abituale registro serioso, celere ed oltremodo professionale.
“Questa ha grandi doti rilassanti: se vi realizzate un acchiappasogni aiuterà a calmar l’insonnia e scaccerà le paure dal letto su cui veglia.”
Liete di tal notizia le dame salutan i viandanti i quali, una volta penetrati in un caldo salone rischiarato dal crepitante caminetto, vengon ricambiati dalla sorpresa messa in atto quel mattino troando sul rotondo tavolino ligneo una dozzina di meringhe ed una coppia di tazzine di porcellana, intarsiate con gran perizia presso cui una fumante teiera posa: versandone il contenuto essi scopron che si tratta di un the aromatizzato alla rosa che gustano accompagnandolo con quanto è rimasto degli spumosi dolcetti d’albume audendo i canti soavi e gutturali prodotti dai nani che risuonano in tutta la reggia montana conferendole un’aura mistica e rilassante.
“Non che mi stupisca ma sei un cuoco eccellente, Enebro.”
Pronunzia a bassa voce il sire per non disturbar la musica ctonia.
“Oh via papi, la ricetta è tra le più elementari.”
S’affretta a spiegar il druido minimizzando.
“Sarà, ma prepararne più di cento in nemmeno un ora è una prodezza encomiabile e tu ci sei riuscito per un motivo ben preciso.”
Gli risponde il musico guardandolo di sottecchi.
“E sarebbe?”
“Passione: in ogni cosa che fai, sia essa la più banale e quotidiana ti doni completamente, stellino.”
A codesta rivelazione il volto d’Enebro si fa paonazzo come se fosse tornato in mezzo alla neve ma invece d’esser gelido il monarca s’accorge, nel carezzargli le guance piene col dorso delle dita, ch’invece son molto accaldate a causa dell’imbarazzo; per brevi istanti il castano sembra voler prender parola ma stranamente se ne trova sguarnito così finisce di sorseggiar la calda bevanda empiendosi coll’orecchie e la mente cullate dei suoni lontani e melodiosi cantati dai minatori fin quando, quasi senza rendersene conto, troa loco tra le braccia minute del folletto cadendo in leggero e ristoratore misto tra sonno e veglia.
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Bidibi Bodibi Bu! - Part 1
Bentornati! Eccoci di nuovo con l’inizio di un “nuovo” progetto (scroll down for English text)
Questa volta vi mostrerò come ho realizzato il cosplay della Fata Madrina di Cenerentola, la Fata Smemorina, per una signora simpaticissima che l’ha indossato in occasione del Lucca Comics & Games appena passato.
- Step 1: Studio del personaggio
Il personaggio non ha sicuramente bisogno di presentazioni, credo che un pò tutti conoscano la storia di Cenerentola e della sua fata Madrina alquanto pasticciona. Ammetto che Cenerentola non è sicuramente uno dei miei film Disney preferiti ma realizzare questo costume è stato un vero e proprio ritorno all’infanzia!
Per prima cosa, d’accordo con la cliente, abbiamo valutato quale tipo di tessuto sarebbe stato meglio utilizzare dovendolo portare ad una fiera all’aperto come il Lucca Comics. Alla fine abbiamo optato per un cotone ad armatura a nido d’ape di medio peso per la mantellina e la gonna e un cotone spigato azzurro (nella foto sembra bianco) per la maglia, mentre le maniche sono state foderate con un semplice cotone leggero rosa. Per il fiocco invece ho usato un raso elasticizzato fuxia che avevo appena acquistato per un altro cosplay realizzato in contemporanea (che vi mostrerò prossimamente)
Studiando il modello ho deciso di realizzare l’abito in due parti: mantellina con cappuccio e maniche foderate chiusa con il fiocco sul collo e un abito dalla vita molto alta realizzato con i due cotoni azzurri. Dopo aver realizzato il cartamodello su misura per la cliente sono passata alla fase del
- Step 2: taglio
Per prima cosa ho tagliato il corpetto azzurro dal cotone spigato che si componeva di quattro parti: davanti, dietro e le due maniche a tre quarti (ho fatto scegliere alla cliente come le preferisse visto che non si vedono mai)
Ho realizzato un corpetto con un’ampia pence davanti per via del seno abbondante che ho trasformato in arricciatura nel punto vita per lasciare al modello le linee fluide che caratterizzano la fata e ho lasciato aperti circa 15 cm sulla schiena per poter indossare l’abito senza inserire una cerniera.
Poi sono passata alla mantellina, realizzata in un pezzo unico per il corpo, le due maniche molto svasate foderate con il cotone rosa e il caratteristico cappuccio a punta.
Nella parte rimanente in basso ho tagliato una striscia di tessuto che sarebbe diventata la gonna dell’abito.
Ed ecco tutte le parti tagliate pronte per essere assemblate!
Non sembra ma ha un bel po di pezzi! Ora posso passare allo
- Step 3: Assemblaggio
Ho iniziato spillando insieme tutti i vari pezzi per passarli poi comodamente sotto la macchina e verificare già se mi fossi dimenticata qualcosa, sono partita dal corpetto azzurro e ho chiusto prima i fianchi poi i bordi per la scollatura.
In questo periodo purtroppo la mia tagliacuci mi stava dando qualche problema di taglio e infatti le rifiniture interne non sono venute precisissime come volevo la prima volta e quindi non ho fatto nessuna foto interna (poi l’ ho portata a riparare e appena me l’hanno riconsegnata le ho rifatte tutte perche sono pignolissima)
Dopo aver finito il corpetto sono passata alla mantellina e per prima cosa ho fatto il fiocco (visto che avevo già tagliato anche l’altro cosplay per cui avevo preso il tessuto)
Ed ecco la prima bozza della mantellina assemblata (devo dire che mi ha dato l’idea di fare una piccola linea di mantelle ispirate alle principesse Disney, ma prima di svilupparla devo organizzare le altre mille idee che ho in mente di fare ahaha)
Per il momento il cappuccio era pronto ma doveva ancora essere cucito allo scollo, perciò sono passata a realizzare le maniche da doppiare con il cotone rosa.
Dopo averle realizzate singolarmente le ho attaccate alla mantellina un paio alla volta
Dopo aver accoppiato il paio celeste con le fodere rosa ho cucito a mano la parte alta della manica sulla mantellina per lasciare le cuciture all’interno.
Nel prossimo post vi mostrerò il proseguimento della mantellina e dell’abito! A presto
Chiara (StregaCorvina)
Welcome back! Here we are with another project! This time let’s talk about a cosplay made some times ago: the Fairy Godmother from Cinderella! The client is a very nice and funny woman and it was a pleasure working with her, I made this dress for this Lucca Comics & Games.
- Step 1: Studying the character
The character is well-known to anyone, I think she is the most funny part of Cinderella movie (yes, I am not a huge Cinderella fan ahaha)
First of all I discussed with the client the kind of fabrics she wanted for the dress, as Lucca Comics is an outside convention so the dress need to be suitable for the November air.
We decided for some eavy cotton, light blue for the dress in two shades for the cape and the skirt and for the top, and pink light cotton for the lining of the sleeves. I used a fucsia satin for the ribbon as I was using the same fabric for another dress those days.
I decided to make the costume composed by: a dress with an empire waist (light blue top and blue skirt) and the cape with pointed hood closed by the ribbon. After drawing the pattern according to my client’s measures I started the
- Step 2: Cutting out the fabrics
I started with the bodice cotton first and I cut the four parts: front, back and sleeves, also the borders for the necklines. I asked the client to choose the lenght of the sleeves as she likes because they are alway hidden in the movie.
The pattern has a big dart on the front as the client has a big breast but on fabric I trasformed the dart in gathering on the wast line because I liked the bodice without cuts on the front. I also made a 15 cms opening on the back to wear the dress because I didin’t like the zipper on this kind of style.
Then I made the cape, making only one-piece pattern for the front and the back, the bell-shaped sleeves and the pointed hood. I used the last part of the fabric to cut the skirt.
Here we are with all the parts ready to be assembled! It’s an easy pattern but with a lot of pieces!
- Step 3: Assembling
I started pinning together all the pieces to go straight on the sewing machine. I started with the bodice but in this first part I skipped all the interior sewings as my serger machine wasn’t cutting very well (after the checking with the store I made them and closed the dress before the due date obviously)
After the bodice I made the ribbon for the cape, as in those days I was working on another cosplahy with the same fabric (I’ll show it to you later on)
The cape was taking shape! I just had to sew the hood and the sleeves. This cape give me the idea to start making a Disney princess inspired-cape line but I also have thousand of ideas in mind that I want to make....
Now it was time for the sleeves, I made first the light blue ones and attached them to the cape, then the pink cotton ones to make the lining. I sewn by hand the top part of the sleeves to leave all the seams inside.
This is all for today, in the next post I’ll show you the last parts of the construction.
See ya!
Chiara (StregaCorvina)
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Quella vita di me**a di cui andare orgogliosi. Beccatevi questo capolavoro: si intitola “La vita schifa”, lo ha scritto Rosario Palazzolo. Per fortuna, si tiene alla larga dai romanzi italiani degli ultimi trent’anni
Questo è solo il parere di un autore, di uno scrittore che decide di occuparsi di un altro scrittore. E per quanto emendabile, questa puntualizzazione diventa necessaria quando uno come me (che ha fatto dell’integralismo estetico la propria religione) incontra un romanzo come La vita schifa (un’opera che diversi critici avranno chiuso a pagina tre, ma che proprio per questo merita un coraggioso approfondimento di cui spero di essere degno). Rosario Palazzolo non è uno scrittore puro. È un attore, tra le altre cose nel cast de Il Traditore di Marco Bellocchio. Ma ha sempre scritto monologhi e testi teatrali, racconti e romanzi. Ed ha sempre letto, essendo costretto a farlo per mestiere (gli scrittori possono bluffare sulla loro formazione, gli attori no perché i copioni non si possono improvvisare). E la prima sensazione che mi è venuta addosso, immergendomi ne La vita schifa, è che le letture di anni di palcoscenico si siano stratificate con una magnifica casualità, si siano sovrapposte come placche tettoniche in una specie di patchwork, raccogliendosi intorno a una trama di per sé non molto originale – sebbene frutto di una lodevole intuizione – fino a collocarsi in precise cavità coniche come la kriptonite di Superman. Ognuna al suo posto, con pochissime eccezioni. Questa perfezione involontaria, quasi inconsapevole, fa de La vita schifa (Arkadia Edizioni, collana SideKar diretta da Ivana e Mariela Peritore e Patrizio Zurru) uno dei libri più belli letti negli ultimi anni.
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Che Dio ci liberi dalla trama
Liberiamoci subito della presenza/assenza di Ernesto Scossa, killer di mafia che – una volta morto, anzi proprio in qualità di morto ammazzato – guarda la sua vita dal di fuori e la radiografa con lo scanner delle parole. Ne scaturisce una confessione amarognola, un atto d’accusa verso il mondo che respinge le persone in un angolo e verso sé stesso in quanto angolo del mondo. Ma non è questo che m’interessa evidenziare del romanzo, quanto la sua estetica e la sua lingua. Elementi che combinati diventano musica, giri di frasi che finiscono sempre nel modo giusto, senza mai una sbavatura, grovigli di pensieri misurati persino nell’abbuffata di aggettivi, schiocco di note che nascondono l’invadenza del racconto e fanno sembrare tutto così adeguato, necessario, puntuale come la morte (appunto). Scritto nel siciliano vero – non la lingua di Camilleri, ma un siciliano così vero da azzannare mentre lo leggi e lo sbagli – di chi a Palermo deve tutto, La vita schifa attraversa le stagioni di questo Ernesto con la presunta anarchia e la rinnegata lucidità dei veri artisti. Di chi sa dove condurre il Lettore, perché padrone della storia e libero da ogni compromesso commerciale. «(…) mi ricordo di lei distesa, piccola come le cose minute, mi ricordo che allungo una mano per toccarla e nel mio pensiero, nel mentre che la tocco, di colpo spariscono tutte cose, come se il padreterno ha deciso di voltarci pagina, era l’ottantacinque e io avevo quasi nove anni, nove anni, e cosa potevo saperne a nove anni, delle cose che cambiano, come potevo figurarmi le rivoluzioni del tempo che fanno scoppia lo spazio, tipo certe telenovele che si guardava mia madre, dove a un certo punto sparivano tutti, pure le città: sabrina morì nell’ottantacinque, il vecchio coi baffi se ne andò in pensione e il bar cominciò a vendere pure patatine, mia nonna la portarono al ricovero e io cominciai a odiare il fuxia, e i capelli annodati». Sorvolando sull’interpunzione, nel senso che sono davvero poche le virgole non necessarie al testo, il romanzo è quasi tutto avvolto in queste nuvole narrative straordinariamente brevi, veloci ed eroiche. Ecosistemi che non hanno bisogno di nulla e che nulla chiedono al Lettore, se non di fidarsi della scelta che ha fatto. Ecco, Rosario Palazzolo ha il merito di onorare quel patto non scritto – invece andrebbe stipulato ogni santo giorno, ad ogni scontrino emesso da una libreria – tra Lettore e autore. Non promette nulla, libera subito dall’orgasmo della trama – pronti partenza svelata, morto che parla – eppure accompagna per mano lungo strade strette e incantevoli, ai cui lati non ci sono stese le calze degli operai ad asciugare ma passati prossimi, trapassati, indicativi strabici e futuri anteriori che disorientano senza smarrire, incalzano senza spaventare. La vita schifa quasi non ha trama, ed è un bene che Editore e Curatori abbiano favorito questa condizione senza imporre – come forse avrebbe fatto qualsiasi altra casa editrice di medio/grande entità – una soluzione storica e filologica, una continuità narrativa prossima al severo sviluppo degli eventi. Palazzolo si fa dirigere dal testosterone, peculiarità che impone anche al suo personaggio, e utilizza la virilità come indicatore di una bussola: punta là dove c’è da fottere, oltre che da uccidere, e in questa rincorsa semiseria e drammatica allo sticchio si snoda una personalità rara, un personaggio senza carne, quasi spirituale, un uomo del quale – grazie al cielo – nessuno si ferma a dire com’è fatto e cos’ha detto, perché al Lettore interessa solo farsi attraversare da Scossa.
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Lui è Rosario Palazzolo
Nemmeno letto al premio Strega
La vita schifa è stato segnalato, più che opportunamente da una brava filologa come Giulia Ciarapica, all’ultimo premio Strega. Nemmeno preso in considerazione, anzi conoscendo i meccanismi forse nemmeno sfogliato dai giurati, il romanzo non è entrato in dozzina. Non lo faccio notare per stupore, ma perché i limiti di questi meccanismi sono così evidenti che, se avessero letto La vita schifa, i componenti del comitato direttivo si sarebbero accorti che questo libro si tiene alla larga da tutti i romanzi italiani degli ultimi trent’anni. Non è un romanzo banale, non è un romanzo borghese né noioso, non è romanzo sulla storia del Paese – che qualcuno ci liberi da queste sofferenze – e non è nemmeno il romanzo di un autore mandato dal Picone di turno: PD, Forza Italia o Sinistra radical chic che cita Hegel con disprezzo e legge Fabio Volo. Se lo avessero letto, quelli dello Strega avrebbero notato che La vita schifa è un capolavoro perché non ambisce a sopprimere nessuno dei difetti su cui si lavora per mesi nelle scuole di scrittura, non asseconda le pulsioni degli editor di far chiarezza dentro pagine in cui non ci sarebbe nulla da chiarire, non strizza l’occhio alle versioni più becere dei gialli verso cui da una dozzina d’anni proviamo una pulsione erotica tanto potente quanto ingiustificata, non apparecchia frasi memorabili con l’ambizione con finiscano in Smemoranda o nelle fascette editoriali che dicono cose tutte uguali e inutili allo stesso modo. La vita schifa è un capolavoro perché non ha alcuna ambizione di esserlo, perché non soffre della febbre sottocutanea dell’eternità. «Grazie molte, e sono io che ti devo ringraziare, gli avrei detto, a questo, perché soldi ce n’erano rimasti pochi visto che avevo chiesto a katia di non prenderne alla banca ché se uno deva andare a morire mica gli servono, e poi erano soldi dell’altra vita, c’avevo detto, e l’altra vita era finita, e per primo dovevamo crederci noi alla nostra morte o qualcosa del genere, mi pare, e così, il giorno dell’epifania, dopo l’applauso, tutto il paese è venuto a presentarsi con noi, tutti in fila con io sono tizio e io sono caio, e porco il precipizio erano dieci giorni che la gente sapeva che eravamo a apecchio e manco un saluto e adesso eccoli tutti apparati come se eravamo apparsi dal nulla in quel momento là». La vita schifa è straordinario per tante ragioni: soprattutto perché ignora la bigotta scuola italiana, quel retrogusto cattocomunista che ne immobilizza ogni (vera) evoluzione dai tempi di Ennio Flaiano. Senza storia, senza protagonisti, senza artefici, senza vincitori e vinti, ma con la forza della vita (sebbene schifa) che da sola basta a spingere un romanzo che avrebbe meritato molto di più quello che finora ha avuto.
Davide Grittani
*Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da la Lettura del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mozzogiorno, inserto del Corriere della Sera.
L'articolo Quella vita di me**a di cui andare orgogliosi. Beccatevi questo capolavoro: si intitola “La vita schifa”, lo ha scritto Rosario Palazzolo. Per fortuna, si tiene alla larga dai romanzi italiani degli ultimi trent’anni proviene da Pangea.
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Centauri con stile: il casco oltre la sicurezza
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Centauri con stile: il casco oltre la sicurezza
Se proteggere è la funzione prioritaria di un casco, indossarne uno che abbia anche un certo stile è un diritto. Perché oltre alla sicurezza, il moderno centauro ha bisogno di porsi al centro dell’attenzione. Non solo della strada. Ed è così che il Made in Italy trova la sua piena consacrazione anche in questo settore. Sfornando caschi che combinano design e contenuti tecnici. Effettuando scelte stilistiche che rendono questo accessorio molto personalizzato e di grande appeal.
Il casco Momodesign
Si pensi a Momodesign, brand che fa della ricerca ingegneristica e grafica il proprio segno distintivo. La nuova collezioni di caschi FGTR si rivolge al mercato dei centauri più maturi. Mamme e papà, uomini e donne, che amano le due ruote. E che vestono perfettamente il ruolo di genitori indaffarati con spirito estremamente dinamico. La versione femminile è innanzi tutto un concentrato di tecnologia. Resistente agli agenti atmosferici, interno lavabile e antisudore, visiera antigraffio e due colorazioni glamour. Fluo Glossy grey Fuxia e Classic Acquamarine. La versione maschile è il casco Blade. Una versione jet con calotta contenuta e rivestita da una speciale vernice metallica. Prezzi a partire da 189 €.
Ilnuovo casco Thanatos di GIVI nella colorazione Titanio Opaco
L’universo GIVI
Nuovi e attraenti colorazioni anche per il casco Thanatos di GIVI. L’azienda bresciana con sede a Flero – fondata da Giuseppe Visenzi – lancia due varianti cult come il bianco perla e titanio opaco. Ma non rinuncia alla sicurezza, che per GIVI – tra le aziende leader del settore – è un vero e proprio vanto. La lunghezza del casco permette di coprire la zona cervicale, mente la visiera antigraffio ripara il naso. Il Thanatos è disponibile a partire da 131 €.
Il modello KV( National di Kappamoto, brand collegato all’universo GIVI
Dell’universo GIVI fa parte anche il brand Kappamoto, acquisto nel 1991, che si posiziona in fasce prezzo più basse. Ma senza penalizzare i parametri di sicurezza. La nuova collezione punta molto su leggerezza, design e colori. Fondendo l’anima urbana con la cultura del dettaglio. Il modello KV8 National ha finiture in similpelle e visiera corta, antigraffio con taglio ad occhiale. E’ disponibile in tre modelli – con bandiera italiana, americana e inglese – e ha un prezzo di 97 €. Effetto vintage invece per il K9 Classic, privo di visiera e con chiusura rinforzata a sgancio rapido. E’ in vendita a 73 €.
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