#Davide Grittani
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giancarlonicoli · 7 months ago
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29 giu 2024 15:42
“FALCAO FACEVA IL MOLLICONE CON MIA FIGLIA ROSANNA, CEREZO SALUTAVA DICENDO 'PORCA PUTTENA', QUALCHE SOCIETÀ ARRIVO’ ADDIRITTURA A OFFRIRMI LA PANCHINA” – LINO BANFI, NEL QUARANTENNALE DE “L’ALLENATORE DEL PALLONE” SCHERZA SU SPALLETTI PARAGONANDOLO AL MITOLOGICO ORONZO CANA’ – "SIAMO CALVI ENTRAMBI E FACCIAMO VOLI PINDARICI PER DIRE COSE SEMPLICI. PERÒ LUI È UN GRANDE ALLENATORE” – "A QUEL FILM DEVO SENZA DUBBIO MOLTO. MA NON ESAGERIAMO. PRIMA AVEVO GIÀ FATTO…” - VIDEO
Davide Grittani per il "Corriere del Mezzogiorno - edizione Bari" - Estratti
Aspettando nuove e lunghe notti magiche, tra appassionati, addetti ai lavori e tifosi sono in molti a intercettare nel non semplice lessico di Luciano Spalletti le stesse spericolate parabole e metafore di Oronzo Canà, l’allenatore dell’allegra brigata della Longobarda nel film ormai divenuto cult l’Allenatore nel pallone (diretto da Sergio Martino, 1984). «Siamo calvi entrambi – evidenzia Lino Banfi, che quando parla di calcio diventa incontenibile –, entrambi facciamo voli pindarici per dire cose semplici, questo è vero. La prendiamo alla larga, come dicono a Roma. Io nel mio slang, con cui nel film volevo dire che il calcio appartiene davvero a tutti, soprattutto a chi crede di non amarlo e di non esserne contagiato dalla passione.
Lui nel suo tentativo di elevare concetti semplici, uno sforzo che sinceramente apprezzo molto: perlomeno, in un mondo molto appiattito verso il basso e in un ambiente come quello del pallone in cui la comunicazione molto spesso è meno che basica, Luciano Spalletti è uno che cerca di elevare ragionamenti e conclusioni. Però – ammonisce – le similitudini finiscono qui, perché lui è un grande allenatore e uno straordinario motivatore, un costruttore di gioco come pochi ce ne sono al mondo, mentre io nei panni di Canà ero solo un cialtrone dotato di un po’ di coraggio e forse di tenacia».
Ma lei a quell’amorevole cialtrone deve moltissimo, se non tutto. «Calma, gli devo senza dubbio molto. Ma non esageriamo. Prima dell’Allenatore nel pallone avevo già fatto moltissimi film, compreso Vieni avanti cretino . Che mi dicono essere il film più utilizzato per meme e reel in Italia, questi nuovi codici per trasmettere i nostri stati d’animo sui social».
D’accordo, ma gli italiani nascono poeti, navigatori e… «… E allenatori, lo so. Specie in periodi di competizioni importanti, come quella in corso (gli Europei, ndr)». E che fa, non ce la racconta qualche perla legata al quel film? «Era nata una bella amicizia con Falcao, anche se nel film ne ho un po’ strapazzato il cognome dicendo a un certo punto “Falcao, Falcon, come chezzo si dice”… ». Quindi, che succede? «Che questo ragazzone brasiliano s’innamora della mia famiglia, oltre a fare un po’ il mollicone con mia figlia Rosanna».
Come nel film tra Aristotele e sua figlia Michelina? «Non proprio, nel senso che nella vita reale non successero le cose successe poi nel film». Torniamo a Falcao. «Mi chiede di far invitare a una festa anche un suo carissimo amico, Cerezo: un altro grande calciatore brasiliano della Roma (poi trasferitosi alla Sampdoria, ndr). E di fargli uno scherzo perché lui non conosceva l’italiano».
Cioè? «Mi chiede di fargli salutare tutti col mio intercalare “porca puttena”, facendo credere a Cerezo che si trattasse di un modo italiano di salutare con affetto». Oddio, risultato? «Cerezo, un ragazzo davvero molto gentile, calciatore che voleva mezzo mondo, se ne andò in giro per tutta la serata incontrando persone a lui sconosciute e dicendogli “porca puttena”. Falcao piegato in due dalle risate, mia figlia Rosanna con le lacrime agli occhi, mia moglie Lucia arrabbiata con me che mi ero prestato a questa cosa».
 (…) C’è stato anche un momento in cui qualcuno la prese persino sul serio? «Ci furono un po’ di presidenti di squadre minori, soprattutto tra i dilettanti, che in maniera provocatoria e goliardica mi offrirono la panchina delle proprie squadre. Insomma di fare l’allenatore per davvero». E lei come reagì?
«Non scherziamo, se esistesse davvero uno squinternato come Oronzo Canà bisognerebbe bonariamente preoccuparsi. Oddio, con la sua “B Zona” oggi potrebbe addirittura fare scuola ad allenatori blasonati che forse non hanno più niente da dire e non se ne accorgono. Ma Canà appartiene alla mitologia, è un’icona del qualunquismo che diventa talento e del coraggio che proietta le persone oltre ogni limite. Ma se la seconda caratteristica è anche molto positiva, la prima resta un limite invalicabile».
Il 26 ottobre 1984 saranno quarant’anni da l’Allenatore nel pallone , un “film-mondo” come si dice adesso. Un film in cui c’è più sociologia che calcio, più antropologia che commedia. In fondo noi Italiani non siamo cambiati affatto. «Per alcuni aspetti mi faccia aggiungere che, non essere cambiati affatto, è stata la nostra fortuna». 
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pangeanews · 4 years ago
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“Lui si porta i libri di Kafka ma poi studia solo ogni cu*o che passa”. Le hit dell’estate più rarefatta del secolo, ovvero: sull’analfabetismo della musica italiana (che spacciano per indagine socio-artistica)
Ci si attendeva tonnellate di romanzi claustrofobici incubati durante la clausura anticontagio (arriveranno, dategli tempo) e di film ambientati nella cattività degli zoo per umani che sono diventate le città (purtroppo a quello di Enrico Vanzina ne seguiranno altri), così nel frattempo sono tornate le canzoni. Anzi le hit, come sono chiamate quelle produzioni che dovrebbero durare quanto gli assorbenti e invece diventano la colonna sonora delle stagioni.
Ci sono sempre state le hit, ma quelle imposte dalle radio durante l’estate post Covid – la più rarefatta e sospesa dell’ultimo secolo – oltre a rinsaldare i nostri vincoli affettivi con la mediocrità sembrano aver individuato la loro funzione sociale: sono diventate il piccone con cui demolire quel che resta della lingua italiana, il machete con cui smembrarla a beneficio di una comunicazione orizzontale, istantanea, indistinguibile e quindi informe. «Senza studiare, senza fiatare, basta intuire che è anche troppo, colpo d’occhio è quello che ci vuole, uno sguardo rapido» scriveva Ivano Fossati (Il battito, 2006), preconizzando la necessità di sintonizzare le nostre frequenze filologiche su onde sempre più elementari, catacombali: «Dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire, basta romanzi d’amore, ritornelli, spiegazioni, interpretazioni facili – diceva Fossati – ma teorie complesse e oscure, lingue lontane servono, pochi significati, titoli, ideogrammi, insegne, inglese, americano slang». Si argomenta spesso della crisi della letteratura, del vuoto intorno al cinema e della mancanza di coraggio dell’arte italiana, ma la verità è che dalla musica pare non ci si possa aspettare altro che disgregazione, chiacchiericcio, volgarità più o meno esplicite, analfabetismo a rigorosa misura di social. Ma guai a scambiarla per sottocultura, al contrario questa potrebbe essere la nuova frontiera della dignità autoriale con cui viene chiesto di fare i conti agli interpreti del nostro tempo, e chi non risponde «presente» o è tagliato fuori o è un dinosauro (come chi scrive).
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La morte di una lingua.
Per brevità (ovvero banalità), velocità di trasmissione e universalità del messaggio, le canzoni post Covid sono diventate l’espressione più allarmante della deriva del Paese e della Lingua, nonostante questa rimanga tra le più belle, complesse e tradotte al mondo. Ma forse è proprio questo il demonio contro cui combattere, il padre nobile e ingombrante da abbattere. Forse alle nuove generazioni di produttori e compositori non va giù proprio questo, l’insopportabile paragone con un passato impietoso sotto troppi aspetti: nobiltà della missione, qualità del prodotto, straordinaria ricchezza artistica, inarrivabile varietà di proposte, mercato che oggi semplicemente non c’è. Va da sé che l’unica espressione culturale con cui ingaggiare un confronto, nel tentativo di riuscire a vincerlo, per paradosso è proprio l’ignoranza. Volendola tracciare con una parabola, la flessione della ricerca linguistica all’interno delle canzoni moderne, si dovrebbe scavare un fossato, interrarsi in un bunker atomico. Indifendibile, squallida, quasi sempre sessista anche se nessuno dei Benpensanti della Domenica lo fa notare. A larghi tratti analfabeta, quasi sempre composta da una manciata tra sostantivi, aggettivi e pronomi (massimo dieci, sempre gli stessi), ampiamente intrisa di offese gratuite, nomi e marche importati da lingue straniere. Né militante né consunta, né vissuta né scaltra. Una lingua traslucida, abbandonata per eccesso di frequentazione. Una lingua al consumo, usa e getta come le carte prepagate. Una lingua fantasma, nemmeno codice di riconoscimento. Avvertimento lampeggiante, segnale di insipienza riconoscibile da tutti e da lontano. Una lingua svenduta al massimo ribasso, umiliata come se di null’altro si potesse parlare che di stronzate, perché alla gente ignorante (stando al marketing alla base della concezione di questi capolavori) bisogna rivolgersi con cose ignoranti (ecco perché una signora che storpia il nome scientifico del ceppo di un virus su una spiaggia italiana, mixata e debitamente masterizzata fa più download di Alberto Angela). E in questo deserto nessuno chiede uno sforzo di creatività, nemmeno a quelli che invece avevano colpito – o ci avevano provato – per la loro audacia. «E comunque si balla, come bolle nell’aria. E si tagga la faccia, che è riaperta la caccia. E comunque si bacia, l’italiana banana…» canta Francesco Gabbani nel Sudore ci appiccica, mentre Diodato fotografa la solitudine che ci siamo lasciasti alle spalle con «lo vedi amico arriva un’altra estate, e ormai chi ci credeva più, ché è stato duro l’inferno ma non scaldava l’inverno, hai pianto troppo questa primavera» (tratto da Un’altra estate). Non fanno meglio Ermal Meta e Bugo, con Mi manca: «E mi manca aspettare l’estate, comprare le caramelle colorate. E mi manca (mancano, sarebbe plurale) le strade in due in bici. Mi manco io, mi manchi tu. E mi manca una bella canzone (sinceramente, anche a noi!)».
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Bene intesi, nessuno pretendeva la chiave d’interpretazione dell’umanità. Ma forse è proprio dentro la musica, nelle note più spensierate di questi testi privi di urgenza e tensione morale, che la pandemia sembra aver riposto tutte le banalità che ha succhiato infilando una cannuccia sulle nostre teste. «Blocco a volte sembro ancora triste, il testo è vero sai che mamma è fiera, fumo sopra ai sedili di un Velar, penso a quando il successo non c’era – Shiva in Auto blu – fa i soldi appena diciottenne, in qualche modo sotto quelle antenne, in quanti cambiano lo sai anche tu…», con un seguito quasi mai inferiore ai 20 milioni di follower. Che la lingua non esista più lo si capisce da gemiti, monosillabi e vomiti che ormai sono diventati testo e non pretesto, overdose di egocentrismo, autoerotismo più esasperato di quello di certi scrittori. «Lui si porta i libri di Kafka – profetizza J-Ax nella sua Bibbia estiva, quella di quest’anno si chiamava Ostia lido – ma poi studia solo ogni culo che passa». E poi la ricostruzione delle giornate tipo in cui riconoscersi tutti, non solo gli adolescenti ai quali questi pezzi sarebbero destinati. «Mi chiedi com’è passare le giornate a stare sul divano, con un caldo allucinante che mi scioglie, non dormo più la notte, ventilatore in fronte, e questa casa sembra proprio un hotel – scrive Giulia Penna in Un bacio a distanza –. Latine, il bel Paese, pizza pasta e mandolino, tu portami del vino, ché forse in questo pranzo non t’arriva manco il primo».
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Come nei decreti “Mille proroghe” in cui insieme alla manovra finanziaria finiscono anche le sanatorie sui profilattici scaduti, in questa deriva consumista sono finite umiliazioni («ay papi non mi paghi l’affitto (…) Mamma lo diceva, sei carino ma non ricco»: Giusy Ferreri ed Elettra Lamborghini, La Isla); icone di plastica («tu fra queste bambole sembri Ken, ti ho in testa come Pantene»: Baby K e Chiara Ferragni, Non mi basta più);l’ostentazione della povertà («Nelle tasche avevo nada, ero cool, non ero Prada»: Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, Dorado); e la nemesi, sotto forma di insofferenza verso gli eccessi di comunicazione («Te lo spacco quel telefono, oh-oh, l’ho sempre odiato il tuo lavoro, oh»: Elodie, Guaranà).
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Ferie d’Agosto.
In una memorabile scena del bellissimo film con cui Paolo Virzì ha anticipato di almeno un ventennio il funerale politico del Paese, cioè Ferie d’Agosto, Ennio Fantastichini (capo famiglia di Destra) dice a Silvio Orlando (capo delegazione di Sinistra) queste parole: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo manco voi, ma da mo’…». Che non solo è vero, ma fotografa alla perfezione la saturazione di un pubblico in cui chi prova a dire «no» è condannato all’emarginazione, alla solitudine, alla gogna. «Se c’è una cosa che mi fa spaventare, del mondo occidentale, è questo imperativo di rimuovere il dolore. Secondo me ci siamo troppo imborghesiti – dice Dario Brunori in Secondo me – abbiamo perso il desiderio, di sporcarci un po’ i vestiti, se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore».
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Certo non mancano le eccezioni, taluna musica riesce ancora a incarnare l’essenza di una missione a cui non solo i chiamati all’appello rispondono (cit. Leo Longanesi). Così come non mancano le ambizioni, le lezioni di scienza e coscienza di chi mette insieme la musica al più antico insegnamento degli umani, il sapere (penso al progetto Deproducers, lo straordinario tentativo di deprodurre, appunto, la musica attraverso l’ausilio della scienza); ma si tratta di oasi che al cospetto delle cover patinate, delle tracce inascoltabili imposte dalla tv e dalla pubblicità, dinanzi al muro di intolleranza al bello eretto soprattutto da alcune etichette musicali, non arriva alla grande platea. E non ci arriva perché non racconta una mutazione, non arriva perché non riesce a essere antidoto a tutto il peggio prodotto in questi anni, segnatamente in questi mesi.
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A pensarci bene la pandemia non c’entra, al contrario come noi è costretta a subire questo strazio. La verità è che la cifra stilistica media, l’asticella della dignità, la percezione del gusto e l’estetica condivisa hanno perso qualsiasi ritengo, hanno rinunciato a ogni freno inibitore, così ciò che fino a venti anni fa era meno dello scarto delle bobine oggi è diventato esperimento, ricerca scientifica, derivato d’introspezione, indagine socio-artistica. E a nulla valgono gli impietosi paragoni col passato, quando provando a spiegare alle nuove generazioni la sofferenza da cui proveniamo lo si fa con una canzone di Francesco de Gregori («meno male che c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine», da La ragazza e la miniera), perché nessuno ha più tempo per ascoltare questi dinosauri. La missione è quella di favorirne l’estinzione, aprendo le porte di un mondo digitale, inespressivo e anaffettivo in cui la canzone – intesa come esperienza/fenomeno – riveste la stessa utilità dei prolungamenti delle unghie: umiliare la natura, nasconderne i prodigi. Come i bari fanno col talento.
Davide Grittani
* Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da “la Lettura”del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera. Dirige la collana “Dispacci Italiani (Viaggi d’amore in un Paese di pazzi)” per l’editore Les Flaneurs. 
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enricicca · 3 years ago
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Un mio servizio interamente autoprodotto per recensire La bambina dagli occhi d’oliva (Arkadia Editore), terzo romanzo dello scrittore foggiano Davide Grittani
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iannozzigiuseppe · 5 years ago
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Rinascite – Lidia Popolano – Prefazione di Davide Grittani – Algra Editore Rinascite - Lidia Popolano Algra Editore «In ogni racconto l’autrice cattura ciò che le sta intorno coi suoi ricettori di sensibilità, lo traduce in sensazioni e lo trascrive in esperienze, piccole e quotidiane int della vita che risiedono negli oggetti di uso comune (
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voglioscriveredite · 8 years ago
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Procede la mia maratona #Stregathon: leggo libri che sono stati candidati al rinomato premio e che, non per forza, stanno galoppando per la finale.
Perchè tutti gli anni decido di dedicarmi a questa “pratica” ?
Non perchè sia una fan del Premio Strega, nè perchè ho esaurito tutti i libri che giacciono sulla mia libreria e devono essere ancora letti.
Per capire, per capire cosa appassiona il mio paese, i suoi lettori e … le lobby.
Due i libri appena terminati “Gin tonic a occhi chiusi” di Marco Ferrante (Giunti Editore) e “E invece io” di Davide Grittani (Robin Edizioni).
Indignata, sono indignata e delusa e … non capisco. Insomma mi ritrovo sempre a dover constatare che l’Italia vuole essere mediocre, l’Italia vuole essere quella dei pochi problemi, del “é meglio un gin tonic!”
Devo dire no grazie, non solo al gin tonic !
Non solo all’Italia mediocre e pecoreccia che mi ricorda sempre da che parte guardare, non solo alla cultura degli anni 2000, che trovo sempre più imbarazzante e poco rispettosa dell’intelligenza umana.
Dico no, ai libri che sono spot televisivi, che non seguono nessun criterio, che occupano spazio e inchiostro ingiustificati.
“Gin Tonic a occhi chiusi” sembra un libro scritto per l’èlite, per compiacerla, per far sì che questa estate, sotto gli ombrelloni chic di Forte dei Marmi, non si possa parlare d’altro.
No, non voglio questa Italia !
Non voglio arricchire la mia interiorità con questo tipo di “prodotto”. Superficiale, poco piacevole, molto banale.
Io sono una di quelle, che non ha amato “La Grande Bellezza” di Sorrentino: un già visto, parole, gesti, vestiti, modi, cliché, tutto pazzescamente imbarazzante e scontato. Così anche nel libro.
Altra cosa invece il piccolo e intimo lavoro di Davide Grittani, narra di un uomo nel suo equatore della vita, che decide di partire per il Sud America per festeggiarsi. Per regalarsi la giusta ricompensa e forse, così, darsi la possibilità di essere altro.
Un uomo che si dona, al lettore, a sé stesso, con la sua umanità, che si chiede se ciò che ha vissuto, visto, perduto sia tutto così irripetibile e irrimediabile.
Un uomo, che riempie il suo tempo, di vita.
Davide Grittani mi ha agganciata, mi ha fatto capire come sia sempre difficile esserci, far sentire la propria penna in un mondo che segue regole, italiane. Dove la meritocrazia e il buon gusto sembrano un lontano miraggio.
Mi chiedo, ma tutto questo clamore intorno al Premio Strega ! Tutto questo, che un tempo era scoprire talenti, fare cultura, dove si è perso tutto questo ?
In una bottiglia di liquido giallo che sa di zafferano.
In una bottiglia che è possibilità di vendita, in una bottiglia che ormai ha sbiadita quella meravigliosa etichetta che fa delle bibite alcoliche di altri tempi dei cimeli, che parlano di passato e di ciò che non tornerà mai più.
Gin Tonic ? no, grazie ! Puntare sempre su sé stessi, è necessario. Procede la mia maratona #Stregathon: leggo libri che sono stati candidati al rinomato premio e che, non per forza, stanno galoppando per la finale.
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sciscianonotizie · 3 years ago
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La rivista Achab, diretta dall’autore Nando Vitali, presenta a Napoli il XII volume dedicato al poeta e regista romano nell’ambito dell’evento “Pasolini, il poeta corsaro”
Sono trascorsi 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini e tantissimi sono gli eventi in Italia che ricordano il grande artista, bolognese di nascita e romano di adozione. Anche la rivista letteraria Achab, fondata e diretta da Nando Vitali (ad est dell’Equatore edizioni), ha dedicato il suo speciale all’autore di “Ragazzi di vita”.
Il Convento di Piazza San Domenico Maggiore ospiterà l’evento di presentazione della rivista Achab dal titolo: “Pasolini, il poeta corsaro”, domenica 22 maggio 2022 alle ore 17. Interverranno, insieme a Nando Vitali, anche Domenico Ciruzzi e Davide D’Urso. Letture a cura dell’attrice Patrizia Di Martino. Videoproiezione a cura di Sasipro del docufilm “La sequenza del fiore di carta” di Pier Paolo Pasolini. “Pasolini, il poeta corsaro” fa parte del programma di appuntamenti culturali previsto dal Comune di Napoli nel mese di maggio.
Da Filippo La Porta ad Ascanio Celestini, da Erri de Luca a Carmelo Musumeci e poi Andrea Di Consoli, Elżbieta Jachelewska e S.R. Fazel. Sono oltre 30 gli autori, i poeti, gli illustratori, i saggisti italiani e stranieri che hanno partecipato a questo numero speciale di Achab, ciascuno con una testimonianza, un ricordo, un pensiero, un’osservazione sul poeta. Una sorta di mondo aperto sulla geniale e molteplice arte pasoliniana.
“Pasolini vuol dirci che vivere davvero vuole dire sprecarsi. La ricotta alla quale tendiamo vale per tutti, a volte con una segreta nota parodica (a Napoli il ricottaro è colui che vive sulle spalle di un altro, solitamente una donna prostituta), ma l’allegoria può essere allargata alla società degli uomini di ogni tempo, al di là dei miti. Siamo barche in mezzo al mare. Credo se potessi incontrare Pier Paolo Pasolini, domandandogli chi siamo, mi riderebbe in faccia col suo viso asciutto, dicendomi “Hic sunt leones”, affannando subito dietro a un pallone in quel modo turbolento e fanatico che si usa nei campetti di periferia”, commenta Nando Vitali
“Lo scopo del nostro lavoro non è nella cristallizzazione o celebrazione della memoria di Pier Paolo Pasolini ma è quello di indagare la realtà contemporanea attraverso la sua poliedricità artistica, le controversie, i temi sociali, territoriali e ambientali, le guerre a cui lui stesso ha mostrato particolare attenzione e ancora la poesia, il cinema, la scrittura, il pensiero politico e filosofico che lo hanno reso partecipe della rivoluzione culturale italiana degli anni Sessanta e Settanta e che a tutt’oggi resta motivo di riflessione sulla società per il loro significato profetico”, spiega Giuliana Vitali, caporedattrice di Achab.
  Hanno collaborato al XII numero di Achab:
Nando Vitali, Filippo La Porta, Andrea Di Consoli, Angelo Ferracuti, Ascanio Celestini, Nicola Vicidomini, Nicola Fano, Paolo Vanacore, Simona Baldelli, Nicola Guarino, Erri De Luca, Carmelo Musumenci, Paolo Restuccia, Daniela Mastronola, Davide Grittani, Giuliana Vitali, Alexandro Sabetti, Emilia Santoro, Elżbieta Jachleweska, A. C. Whistle, Sandro Medici, Andrea Carraro, Barbara Napolitano, Marco Debenedetti, Valentina Di Cesare, Shirin Ramzanali Fazel, Michele Caccamo, Giuseppe Cozzolino, Lillo Siracusa, Daniela Tani, Jack Vitiello, Marta Santone.
source https://www.ilmonito.it/la-rivista-achab-diretta-dallautore-nando-vitali-presenta-a-napoli-il-xii-volume-dedicato-al-poeta-e-regista-romano-nellambito-dellevento-pasolini-il-poeta-corsa/
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samuele · 4 years ago
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Davide Grittani è matto, ma mi piace come scrive (e quello che scrive).
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levysoft · 4 years ago
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SULL’ANALFABETISMO DELLA MUSICA ITALIANA
Ci sono sempre state le hit, ma quelle imposte dalle radio durante l’estate post Covid – la più rarefatta e sospesa dell’ultimo secolo – oltre a rinsaldare i nostri vincoli affettivi con la mediocrità sembrano aver individuato la loro funzione sociale: sono diventate il piccone con cui demolire quel che resta della lingua italiana, il machete con cui smembrarla a beneficio di una comunicazione orizzontale, istantanea, indistinguibile e quindi informe.
[...] «Dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire, basta romanzi d’amore, ritornelli, spiegazioni, interpretazioni facili – diceva Fossati – ma teorie complesse e oscure, lingue lontane servono, pochi significati, titoli, ideogrammi, insegne, inglese, americano slang». Si argomenta spesso della crisi della letteratura, del vuoto intorno al cinema e della mancanza di coraggio dell’arte italiana, ma la verità è che dalla musica pare non ci si possa aspettare altro che disgregazione, chiacchiericcio, volgarità più o meno esplicite, analfabetismo a rigorosa misura di social. Ma guai a scambiarla per sottocultura, al contrario questa potrebbe essere la nuova frontiera della dignità autoriale con cui viene chiesto di fare i conti agli interpreti del nostro tempo, e chi non risponde «presente» o è tagliato fuori o è un dinosauro (come chi scrive).
La morte di una lingua.
Per brevità (ovvero banalità), velocità di trasmissione e universalità del messaggio, le canzoni post Covid sono diventate l’espressione più allarmante della deriva del Paese e della Lingua, nonostante questa rimanga tra le più belle, complesse e tradotte al mondo. Ma forse è proprio questo il demonio contro cui combattere, il padre nobile e ingombrante da abbattere. Forse alle nuove generazioni di produttori e compositori non va giù proprio questo, l’insopportabile paragone con un passato impietoso sotto troppi aspetti: nobiltà della missione, qualità del prodotto, straordinaria ricchezza artistica, inarrivabile varietà di proposte, mercato che oggi semplicemente non c’è. Va da sé che l’unica espressione culturale con cui ingaggiare un confronto, nel tentativo di riuscire a vincerlo, per paradosso è proprio l’ignoranza. Volendola tracciare con una parabola, la flessione della ricerca linguistica all’interno delle canzoni moderne, si dovrebbe scavare un fossato, interrarsi in un bunker atomico. Indifendibile, squallida, quasi sempre sessista anche se nessuno dei Benpensanti della Domenica lo fa notare. A larghi tratti analfabeta, quasi sempre composta da una manciata tra sostantivi, aggettivi e pronomi (massimo dieci, sempre gli stessi), ampiamente intrisa di offese gratuite, nomi e marche importati da lingue straniere. Né militante né consunta, né vissuta né scaltra. Una lingua traslucida, abbandonata per eccesso di frequentazione. Una lingua al consumo, usa e getta come le carte prepagate. Una lingua fantasma, nemmeno codice di riconoscimento. Avvertimento lampeggiante, segnale di insipienza riconoscibile da tutti e da lontano. Una lingua svenduta al massimo ribasso, umiliata come se di null’altro si potesse parlare che di stronzate, perché alla gente ignorante (stando al marketing alla base della concezione di questi capolavori) bisogna rivolgersi con cose ignoranti (ecco perché una signora che storpia il nome scientifico del ceppo di un virus su una spiaggia italiana, mixata e debitamente masterizzata fa più download di Alberto Angela). E in questo deserto nessuno chiede uno sforzo di creatività, nemmeno a quelli che invece avevano colpito – o ci avevano provato – per la loro audacia. «E comunque si balla, come bolle nell’aria. E si tagga la faccia, che è riaperta la caccia. E comunque si bacia, l’italiana banana…» canta Francesco Gabbani nel Sudore ci appiccica, mentre Diodato fotografa la solitudine che ci siamo lasciasti alle spalle con «lo vedi amico arriva un’altra estate, e ormai chi ci credeva più, ché è stato duro l’inferno ma non scaldava l’inverno, hai pianto troppo questa primavera» (tratto da Un’altra estate). Non fanno meglio Ermal Meta e Bugo, con Mi manca: «E mi manca aspettare l’estate, comprare le caramelle colorate. E mi manca (mancano, sarebbe plurale) le strade in due in bici. Mi manco io, mi manchi tu. E mi manca una bella canzone (sinceramente, anche a noi!)».
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Bene intesi, nessuno pretendeva la chiave d’interpretazione dell’umanità. Ma forse è proprio dentro la musica, nelle note più spensierate di questi testi privi di urgenza e tensione morale, che la pandemia sembra aver riposto tutte le banalità che ha succhiato infilando una cannuccia sulle nostre teste. «Blocco a volte sembro ancora triste, il testo è vero sai che mamma è fiera, fumo sopra ai sedili di un Velar, penso a quando il successo non c’era – Shiva in Auto blu – fa i soldi appena diciottenne, in qualche modo sotto quelle antenne, in quanti cambiano lo sai anche tu…», con un seguito quasi mai inferiore ai 20 milioni di follower. Che la lingua non esista più lo si capisce da gemiti, monosillabi e vomiti che ormai sono diventati testo e non pretesto, overdose di egocentrismo, autoerotismo più esasperato di quello di certi scrittori. «Lui si porta i libri di Kafka – profetizza J-Ax nella sua Bibbia estiva, quella di quest’anno si chiamava Ostia lido – ma poi studia solo ogni culo che passa». E poi la ricostruzione delle giornate tipo in cui riconoscersi tutti, non solo gli adolescenti ai quali questi pezzi sarebbero destinati. «Mi chiedi com’è passare le giornate a stare sul divano, con un caldo allucinante che mi scioglie, non dormo più la notte, ventilatore in fronte, e questa casa sembra proprio un hotel – scrive Giulia Penna in Un bacio a distanza –. Latine, il bel Paese, pizza pasta e mandolino, tu portami del vino, ché forse in questo pranzo non t’arriva manco il primo».
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Come nei decreti “Mille proroghe” in cui insieme alla manovra finanziaria finiscono anche le sanatorie sui profilattici scaduti, in questa deriva consumista sono finite umiliazioni («ay papi non mi paghi l’affitto (…) Mamma lo diceva, sei carino ma non ricco»: Giusy Ferreri ed Elettra Lamborghini, La Isla); icone di plastica («tu fra queste bambole sembri Ken, ti ho in testa come Pantene»: Baby K e Chiara Ferragni, Non mi basta più);l’ostentazione della povertà («Nelle tasche avevo nada, ero cool, non ero Prada»: Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, Dorado); e la nemesi, sotto forma di insofferenza verso gli eccessi di comunicazione («Te lo spacco quel telefono, oh-oh, l’ho sempre odiato il tuo lavoro, oh»: Elodie, Guaranà).
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Ferie d’Agosto.
In una memorabile scena del bellissimo film con cui Paolo Virzì ha anticipato di almeno un ventennio il funerale politico del Paese, cioè Ferie d’Agosto, Ennio Fantastichini (capo famiglia di Destra) dice a Silvio Orlando (capo delegazione di Sinistra) queste parole: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo manco voi, ma da mo’…». Che non solo è vero, ma fotografa alla perfezione la saturazione di un pubblico in cui chi prova a dire «no» è condannato all’emarginazione, alla solitudine, alla gogna. «Se c’è una cosa che mi fa spaventare, del mondo occidentale, è questo imperativo di rimuovere il dolore. Secondo me ci siamo troppo imborghesiti – dice Dario Brunori in Secondo me – abbiamo perso il desiderio, di sporcarci un po’ i vestiti, se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore».
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Certo non mancano le eccezioni, taluna musica riesce ancora a incarnare l’essenza di una missione a cui non solo i chiamati all’appello rispondono (cit. Leo Longanesi). Così come non mancano le ambizioni, le lezioni di scienza e coscienza di chi mette insieme la musica al più antico insegnamento degli umani, il sapere (penso al progetto Deproducers, lo straordinario tentativo di deprodurre, appunto, la musica attraverso l’ausilio della scienza); ma si tratta di oasi che al cospetto delle cover patinate, delle tracce inascoltabili imposte dalla tv e dalla pubblicità, dinanzi al muro di intolleranza al bello eretto soprattutto da alcune etichette musicali, non arriva alla grande platea. E non ci arriva perché non racconta una mutazione, non arriva perché non riesce a essere antidoto a tutto il peggio prodotto in questi anni, segnatamente in questi mesi.
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A pensarci bene la pandemia non c’entra, al contrario come noi è costretta a subire questo strazio. La verità è che la cifra stilistica media, l’asticella della dignità, la percezione del gusto e l’estetica condivisa hanno perso qualsiasi ritengo, hanno rinunciato a ogni freno inibitore, così ciò che fino a venti anni fa era meno dello scarto delle bobine oggi è diventato esperimento, ricerca scientifica, derivato d’introspezione, indagine socio-artistica. E a nulla valgono gli impietosi paragoni col passato, quando provando a spiegare alle nuove generazioni la sofferenza da cui proveniamo lo si fa con una canzone di Francesco de Gregori («meno male che c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine», da La ragazza e la miniera), perché nessuno ha più tempo per ascoltare questi dinosauri. La missione è quella di favorirne l’estinzione, aprendo le porte di un mondo digitale, inespressivo e anaffettivo in cui la canzone – intesa come esperienza/fenomeno – riveste la stessa utilità dei prolungamenti delle unghie: umiliare la natura, nasconderne i prodigi. Come i bari fanno col talento.
Davide Grittani
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blobrockagency · 5 years ago
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“Dispacci Italiani. Viaggi d’amore in un Paese di pazzi. Vol. 1: Toscana. L’atelier della bestemmia”, a cura di Davide Grittani
“Dispacci Italiani. Viaggi d’amore in un Paese di pazzi. Vol. 1: Toscana. L’atelier della bestemmia”, a cura di Davide Grittani
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Il Taccuino Ufficio Stampa
Presenta
Dispacci Italiani. Viaggi d’amore in un Paese di pazzi.
Vol. 1: Toscana. L’atelier della bestemmia
a cura di Davide Grittani
Les Flâneurs Edizioni presenta “Toscana. L’atelier della bestemmia”, il primo volume della collana “Dispacci Italiani. Viaggi d’amore in un Paese di pazzi”, curata dal giornalista e scrittore Davide Grittani. Un’indagine…
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tmnotizie · 5 years ago
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SANT’ELPIDIO A MARE – Davide Grittani, con il libro La Rampicante, ha rappresentato il comune di Sant’Elpidio a Mare nell’ambito del premio letterario “Il borgo Italiano 2019”. Il premio ha l’obiettivo di promuovere e divulgare la letteratura italiana che fa riferimento ai piccoli centri italiani definiti comunemente “borghi” e si pone come strumento per far conoscere i diversi autori e i singoli territori, creando un ponte tra le realtà locali.
Sant’Elpidio a Mare è diventata protagonista grazie al libro di Davide Grittani, che affronta alcuni dei temi più cari alla letteratura universale, come la relazione tra padre e figlio, il rapporto dell’uomo con la giustizia, con il denaro e quindi, essenzialmente, con la verità, passando per la stringente attualità di argomenti come l’adozione e il disagio infantile, fino all’atto estremo, solenne e irreversibile della donazione d’organi.
La cornice della storia è, per l’appunto, quella del borgo medievale di Sant’Elpidio a Mare che, dopo una serie di ricerche in diversi territori, l’autore ha scelto come particolarmente adatto per dare corpo alla sua narrazione.
“Il romanzo di Grittani, che è stato insignito nel tempo di prestigiosi riconoscimenti ed è stato applaudito da critica e pubblico  – dice il sindaco Alessio Terrenzi – non è solo un inno alla vita in tutte le sue sfaccettature e ombre, ma è anche una riflessione importante sul senso di “essere umani”. È motivo di orgoglio, per noi, che l’autore abbia scelto proprio Sant’Elpidio a Mare come ispirazione per il suo lavoro, perché è anche la prova di come i piccoli borghi, pregni di Storia e di storie, pullulino di vita vera, vissuta”.
“Sono stata particolarmente orgogliosa di candidare questo romanzo al Premio Strega, lo scorso anno –aggiunge l’assessore alla Cultura Giulia Ciarapica – e di sostenerlo con ogni mezzo. Grittani è uno scrittore autentico, come autentiche sono le atmosfere di Sant’Elpidio a Mare descritte nella sua storia”.
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robertmasi · 6 years ago
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La rampicante
Allora, invece di cercare la risposta, accettiamo l’offerta come fosse scontata.
Avrei voluto entrare in punta di piedi nel lascito pregevole di quest’opera di Davide Grittani, degno candidato al Premio Strega di quest’anno; tuttavia, una volta terminata la lettura, ho scelto di farlo utilizzando la stessa tecnica da lui usata in questo suo terzo romanzo: La rampicante, penetrando fin da subito…
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enricicca · 3 years ago
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All'Anmig di Foggia Davide Grittani (al centro, fra Elina Miticocchio e Giammarco Si Biase) presenta La bambina dagli occhi d'oliva" (presso Foggia, Italy) https://www.instagram.com/p/CfUYaB4ttg-/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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iannozzigiuseppe · 5 years ago
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Rinascite - Lidia Popolano - Prefazione di Davide Grittani - Algra Editore
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pangeanews · 4 years ago
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“Siamo stati l’elettroshock del sistema, abbiamo svegliato elefanti che dormivano”. I cataloghi irripetibili di Theoria e Transeuropa
Piccola o grande, letteraria o generalista, quando chiude una casa editrice ne andrebbe rispettato il lutto, vegliato il dolore. Oltre alla redazione sottosopra e all’onta degli ufficiali giudiziari che passano a requisire ciò che possono, sotto cataste di inediti, cartoni di copie saggio e montagne di bozze incompiute restano soprattutto i sogni di chi – attraverso la più impervia e impegnativa delle imprese culturali – credeva di contribuire all’alito del mondo. Certo se si tratta di editori a pagamento o dal catalogo insignificante verrebbe da dire poco male, ma un’indagine del Centro per il libro (2015) stabilì che tra quelle in difficoltà a chiudere erano soprattutto le case editrici con un’identità (38%) mentre sigle senza troppi scrupoli riuscivano più o meno a cavarsela (53%). Per formazione personale, in questo breve viaggio nell’editoria di fine anni Novanta prenderò in analisi due casi che esperti e studiosi considerano irripetibili: Theoria e Transeuropa (limitatamente alla loro prima vita, dalla fondazione al declino), due case editrici che quasi senza sospettarlo hanno riscritto le regole del gioco, anticipato modelli e riferimenti, sparigliato i giochi. Altri tempi, vero. Altri libri, veri.
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Stagione irripetibile
Ciascuna sommersa dai suoi guai e dai suoi debiti, verso metà dei Novanta alcune sigle editoriali molto diverse tra loro decisero di costituire un’alleanza. Nacque Logica, composta da Costa&Nolan, il Lavoro Editoriale, Leoncavallo Libri, Piero Manni, Moretti&Vitali, Pequod, Vignola, Theoria e Transeuropa (questa la formazione stando al catalogo del 1999). In particolare intendo soffermarmi sull’esperienza di queste ultime due sigle, sul coraggio con cui seppero costruire un catalogo che – ancora oggi, a vent’anni di distanza – raccoglie il meglio della narrativa italiana. Molti autori che esordirono o pubblicarono con Theoria e Transeuropa in quel periodo, sono diventate firme autorevoli della nostra letteratura. Quello che successe grazie a due binomi animati dalla stessa lucida follia, Repetti-Cesari e Canalini-Tondelli, non si è mai più verificato nell’editoria e nell’impresa culturale in genere. Certo oggi sarebbe impossibile riproporlo per modalità e contenuti, ma quella capacità di osare e quella tendenza all’anarchia pura – accumulando molti debiti, sia detto fuori di retorica – non appartiene al nostro tempo così come allora non appartenne a nessun altro. Nessun altro riuscì a imprigionare il vento di quella stagione, nessun altro riuscì a intuire che quelle botteghe editoriali (ne spuntava una a settimana) avrebbero potuto salvare il movimento, sottrarlo all’egemonia da cui sarebbe stato schiacciato.
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Repetti-Cesari, la scuola romana
Fondata da Beniamino Vignola che ne affidò da direzione editoriale a Paolo Repetti e al compianto Severino Cesari (poi fondatori di Einaudi Stile Libero), la collana Letterature di Theoria fu inaugurata da Diario di un millennio che fugge (1986, Marco Lodoli). Solito laboratorio romano e piccolo borghese, si pensò quando nacque. Costituita senza molti soldi ma con idee abbastanza chiare, Theoria era animata da una determinazione e da una lucidità che i grandi gruppi editoriali sottovalutarono pentendosene quasi subito. Soprattutto Feltrinelli, che dopo gli anni d’oro di Stefano Benni stava cercando giovani narratori. Theoria, tra gli altri, ospitò nel suo catalogo Navigazione di Circe e Poche storie (1987 e 1993, Sandra Petrignani), l’esordio assoluto Per dove parte questo treno allegro (1987, Sandro Veronesi), Acqualadrone (1988, Eugenio Vitarelli), L’apparizione di Elsie (1989, Aldo Rosselli), Voi grandi (1990, Lidia Ravera), Zero maggio a Palermo e Oggi è un secolo (1990 e 1992, Fulvio Abbate), Il banchetto nel bosco e Il suono del mondo (1990 e 1991, Giampiero Comolli), quindi il grande Sandro Onofri (con Luce del Nord del 1991 e Colpa di nessuno del 1995), il folgorante romanzo Questo è il giardino (1993, Giulio Mozzi) e l’impietoso ma perfetto esordio di Sebastiana Nata (1995, Il dipendente). Repetti e Cesari ebbero anche il merito di pubblicare Il branco (1994: il titolo con cui fu anticipato integralmente da Nuovi argomenti era La baracca, eguagliando un onore appartenuto solo a Sciascia) di Andrea Carraro: un lungo piano sequenza narrativo, con la camera sempre fuori dal capanno, durante cui una ventina di balordi della periferia romana violentano due turiste tedesche. Il romanzo (da cui sarà tratto il film di Marco Risi) diventa un caso: vero, non quelli di oggi. Il magazine Anna raccoglie 500mila firme per sollecitare il cambio dell’imputazione nel codice penale, la violenza sessuale da reato contro la morale diventa reato contro la persona anche grazie a Theoria e Carraro. Sempre in Letterature trovarono spazio Emmanuel Carrère, William Faulkner, William Styron, Acheng, Andrej Platonov, William Goyen, Mohamed Mrabet, Edwin Muir, Can Xue, Irina Liebmann, Melissa Pritchartd, Su Tong, Alexander Stuart, Franz Fühmann e Xu Xing. Difficile raccontare Theoria senza franare nell’enfasi dell’entusiasmo, ma Repetti e Cesari – come dichiararono a Giulio Ferroni su La Stampa – ignoravano «di aver contribuito a un elettroshock del sistema, abbiamo svegliato elefanti che dormivano». Erano i tempi di un’editoria pensata con più saggezza, meno soggetta agli entusiasmi e alle depressioni del mercato, più vicina agli interessi politici (Theoria non faceva eccezione, considerata molto vicina alla sinistra) ma paradossalmente più libera di sperimentare, più adatta alla ribellione proprio perché ne conosceva le vie di fuga. Casa editrice d’identità si diceva, in cui gli scrittori che passavano o esordivano sapevano che avrebbero avuto carriere importanti, vivevano quel battesimo sapendo che padrini migliori al momento non ce n’erano. La fine fu traumatica, in una vecchia intervista – rilasciata dopo aver dato vita a Stile Libero, quindi dopo il passaggio in Einaudi-Mondadori – Cesari ne raccontò il requiem: «Eravamo sommersi dai debiti, morti per troppa crescita. Avevamo continuo bisogno di stampare e non avevamo i soldi per la tipografia. Incassavamo tardi da distributori e librerie, macinavamo premi su premi, consensi e recensioni ma nessuno sapeva che stavamo morendo. Dovevamo andare avanti ma la strada era finita». Da qualche anno il marchio ha ripreso le pubblicazioni sotto altra direzione editoriale.
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Canalini-Tondelli, la provincia laboratorio
Non fu vera scuola, non geograficamente, nel senso che gli autori che hanno pubblicato per la prima Transeuropa provengono da quasi tutte le regioni italiane. Quello che però Massimo Canalini (il più grande talent scout italiano, secondo il Corriere della Sera) riuscì a realizzare, fu una master class a testi aperti. Ad Ancona ne arrivavano 5/10 al giorno, il postino li raccoglieva e consegnava al citofono Transeuropa/Il Lavoro Editoriale: la casa editrice nata dal fiuto di Canalini e dall’amicizia con Pier Vittorio Tondelli, al quale il ruolo di scrittore stava stretto e cominciava a cercare nuove strade per raccontare il suo tempo. Erano gli anni in cui un manoscritto arrivato da Bologna aveva bruciato le prime 300 copie in due giorni, si chiamava (e chiama, perché è un classico) Jack frusciante è uscito dal gruppo, il suo autore stava finendo il liceo e si chiamava (e chiama) Enrico Brizzi. Al Salone di Torino gli aspiranti esordienti facevano ore di fila per parlare con Canalini, oggi agli aspiranti esordienti gli editor sorridono come agli orizzonti in cartolina. Transeuropa aveva già pubblicato Alba rossa (1990, Joyce ed Emilio Lussu), Cani sciolti (1988, Renzo Paris), Charles (1986, Claudio Piersanti), Clapton (1990, Lorenzo Marzaduri), il bellissimo Compleanno dell’iguana (1991, Silvia Ballestra) a cui aveva fatto seguito La guerra degli Antò (1992), Feste perdute e Fuoco magico (1997 e 1989, Gilberto Severini), Giochi crudeli (1990, Claudio Lolli), Il collezionista di Vigevano (1998, Piersandro Pallavicini), Il ferroviere e il golden gol (1998, Carlo D’Amicis), Indianapolis (1993, Romolo Bugaro), Infernuccio itagliano (1988, Gianni D’Elia), Norvegia (1993, Angelo Ferracuti), Outland rock (1988, Pino Cacucci), Profezia di Palazzo (1997, Riccardo Angiolani), Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant (1996, Andrea Demarchi) solo per citarne alcuni. Senza contare le antologie Giovani blues (1986) e Belli&Perversi (1988) entrambe a cura di Pier Vittorio Tondelli, e gli altri progetti di ricerca narrativa Coda (a cura di Silvia Ballestra e Giulio Mozzi, 1996), Fifth Coda 1 e 2 (1997 e 1998) entrambi curati da Andrea De Marchi. Anche la storia di quella Transeuropa, oggi sarebbe impraticabile: per i tempi (i testi che arrivavano in redazione venivano letti ad alta voce, discussi ed editati live… spesso alla presenza dell’autore) ma anche per la lingua, che tra fine anni Novanta e inizi Duemila stava assorbendo distorsioni che avrebbero reso qualsiasi audacia un territorio già esplorato (Brizzi scrisse Jack Frusciante senza maiuscole e con pochissimi a capo, oggi gli editing consistono nell’eseguire il minor editing possibile). Il viaggio di quella Transeuropa finì meno traumaticamente di Theoria, attualmente prosegue sotto altra direzione editoriale (Giulio Milani). Ma forse perché avvenne tutto in una piccola provincia, il laboratorio Canalini-Tondelli è riportato nei saggi sull’editoria come un’esperienza straordinaria, unica nel suo genere. Su quella Transeuropa sono state scritte più di 30 tesi di laurea in Editoria e Storia dell’impresa culturale.
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Divieto di resurrezione
La storia delle resurrezioni editoriali è piena di slanci e naufragi, autentici miracoli e operazioni ambigue che ancora attendono una ragione imprenditoriale e letteraria. Un record lo stabilisce Baldini&Castoldi: nata nel 1897, risorta nel 1991 e assunta nuovamente ai cieli d’inchiostro nel 2013 (da pochi anni sotto il controllo de La Nave di Teseo). Rizzoli (2016) sarebbe fallita se non fosse stata acquisita da Mondadori. Così come la sopravvivenza di Einaudi (1994) sarebbe stata tutt’altro che garantita da banche, fondazioni e creditori che ne inseguivano tutto il pignorabile, se non fosse stata salvata sempre da Mondadori. Qualche caso all’inverso? Non è mai riuscita la resurrezione della Camunia di Raffaele Crovi (fondata nel 1984, passata a Giunti nel 1994 e poi scomparsa), falliti tutti i tentativi di riportarla in vita e recuperarne il catalogo in cui spicca il Campiello de I fuochi del Basento (1987, Raffaele Nigro).
Al momento sarebbero almeno 20 i marchi editoriali italiani a cui imprenditori, scrittori, funzionari pubblici in pensione o semplici avventori sarebbero interessati. Una ventina di fantasmi a piede libero, personaggi reali e spettri dell’ultra vita letteraria in cerca di editore. A tutti gli interessati a questo recupero – col rispetto che si deve a chi rischia e suda in proprio – vorrei poter dire «no, grazie». Le case editrici non sono tabacchi o cancellerie, né case assegnate alle aste giudiziarie (col seguito di maledizioni dei proprietari a cui sono state sottratte), così come non sono auto sequestrate e mai ritirate. Le case editrici sono piante irriproducibili, ecosistemi dalla scomoda ma necessaria solitudine, alfabeti universali in cui nessuno sa come esprimersi, habitat a misura di chi – spesso partendo dal nulla – si imbarca in un’avventura più massacrante che suggestiva. Andrebbe vietata per legge la possibilità di riacquisirne il marchio, perché nessuno come chi l’ha creata può ereditarne il seme. Assistere ai fantasmi di queste esperienze in giro per le stanze delle nostre letture, a tutti questi defunti trattenuti in vita (da sentenze di tribunali) pur di esercitare il fascino di un nome, non solo è ingiusto ma in qualche modo anche indegno. Le case editrici, quelle vere, assolvono una missione, specie in momenti come questo diventano presidi di democrazia, culle del pensiero di cui troppo poco si interessa il nostro Paese. Di contro, assistere a tentativi di recupero di quella missione, di ripristino di quel pensiero rappresenta un obbligo che sa di dileggio, una violenza che sa di profanazione. Non accorgersene va contro l’anarchia di cui i libri sono bandiera. Vuol dire manomettere le sentenze della storia, e questo nemmeno ai libri è consentito. Figurarsi agli Editori.
Davide Grittani
*In copertina: Pier Vittorio Tondelli in una fotografia di Celestino Pantaleoni. La fotografia è tratta da qui, materiali tondelliani sono al Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli
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pangeanews · 4 years ago
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La Grande Omertà. Sul coma farmaceutico dell’editoria italiana. Breve viaggio nella Gomorra che a nessuno conviene raccontare. Quella dei libri.
Se fosse un film si chiamerebbe La Grande Omertà. E come il fratello maggiore, da cui trae titolo e solitudine, sarebbe ambientato sulle terrazze arredate a noia, sugli attici mozzafiato e tra le ville lastricate di buone intenzioni in cui si è barricata l’industria editoriale italiana (la più confusa di tutte, con ogni probabilità anche la più mediocre). A pensarci bene, proprio La Grande Bellezza contiene una scena che riassume – certamente per difetto – il coma farmaceutico in cui versa da oltre vent’anni. Quando Romano (Carlo Verdone) tenta di convincere Jep Gambardella (Toni Servillo) a raccontare la sua vita in una biografia, non perché attraente progetto editoriale ma perché ne ha già venduto l’idea a un editore incassando l’anticipo. Se questo fosse un Paese davvero interessato al cambiamento, ammetterebbe che trequarti dell’editoria costruisce le sue strade allo stesso modo, scaricando catrame e stendendo bitume senza sapere bene perché. Se questo fosse un Paese ancora interessato al cambiamento, ammetterebbe che trequarti di quella che dovrebbe essere l’industria più etica e nobile – almeno a parole – funziona con le stesse logiche, gli stessi impulsi e grazie alla stessa borghesia inumata che alimentano la prostituzione.
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Vicini all’autocombustione
Se fosse un film – dicevamo – sarebbe ambientato nelle stanze in cui l’uscita de Il Colibrì (24 ottobre 2019) è stata salutata come l’effettiva assegnazione del premio Strega, nove mesi prima (3 luglio 2020) che la cerimonia allo zafferano consumasse l’abituale campionario di predicozzi, foto di gruppo con l’umiltà in chroma key, desideri inespressi o inesprimibili, endorsement reali o presunti, selfie letterari (tra gente che si odia) e abbracci allo spritz, come sempre relegando i libri – già, ci sarebbero pure loro – sullo sfondo del festival della tenzone all’italiana. Nulla di nuovo, tutto sommato. Allora perché è così importante parlarne, ancora? Perché dovrebbe avere un senso? Infatti, non ne ha. O meglio, ce l’avrebbe se si decidesse di squarciare il velo su un sistema autoassolutorio, autoreferenziale, autoerotico e purtroppo immune ai propri flagelli. Ce l’avrebbe solo se si considerasse l’industria editoriale italiana per quello che è, lo specchio della confusione e dell’approssimazione del Paese. Un potere politico concentrato, come tutti i sistemi di potere, nelle mani di una trentina di persone e dislocato in una trentina d’appartamenti. Come disse Niccolò Ammaniti all’indomani della fuga da questi ambienti, sbattendo la porta degli Amici della Domenica e dimettendosi dopo aver stravinto lo Strega, «non fanno per me queste stanze in cui i libri non contano niente, così come non conta come sono scritti e chi li leggerà, semmai conta quanto potere riescono ad alzare, con quanta polvere copriranno le vergogne di un sistema simile alle logiche di quelli criminali» (la Repubblica, giugno 2008). I reati sono molto diversi. Da una parte si spara dall’altra si scrive, da una parte si ruba e dall’altra si tira a campare. Ma val la pena sovrapporli perché questo ecosistema, che ormai produce molta più anidride di quanto ossigeno serva per respirare, in una democrazia degna di questo nome dovrebbe rappresentare un modello di merito, dovrebbe contribuire alla contaminazione del pensiero e delle coscienze, invece sembra diventato una piccola Gomorra che a nessuno conviene raccontare.
Per alimentare il suo circo, per portare il motore a un accettabile numero di giri, per garantire stipendi a redattori, collaboratori fantasma ed editor, per assicurare alla giostra un altro giro di fasullo stupore, l’industria editoriale è costretta a ingravidare continuamente sé stessa, a convincersi che la strada della moltiplicazione illogica, isterica e indiscriminata sia l’unica possibile. Insomma, il settore anarchico per definizione si è messo sotto padrone, consegnato al più vecchio e discutibile capitalismo. Come le mignotte, appunto. Chi compra fotte, chi vende comanda. A cominciare da quelli che dal capitalismo sono scappati, di notte e a gambe levate, per dar vita a La Nave di Teseo quando Bompiani era stata comprata da Mondadori (poi ceduta a Giunti per 16,5 milioni, in seguito all’intervento del Garante). Gli stessi che lo Strega l’hanno vinto ribaltando il proprio status in una notte, da piccoli editori (edizione 2019) a colosso egemone (quella successiva): un cannibalismo sonnambulo passato inosservato, poiché l’ipocrisia non viene bene nelle foto e perché di fronte alle imprese (solo Paolo Volponi era riuscito a vincerne due) qualsiasi parere è destinato a restare minoranza. Un po’ come le marce per la legalità, in cui nelle prime file trovi quelli che l’hanno ammazzata ma hanno avuto il buon gusto di disertarne i funerali.
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Schiavi di sé stessi
Si eccepirà che l’unico strumento possibile, per ristorare una professione in cui le risorse scarseggiano ogni giorno di più, è quello dell’anticipo. Un’unità di misura fallocrate in cui spesso vince chi ce l’ha più lungo (l’anticipo), mostrando ai colleghi di cos’è capace il proprio nome e il proprio agente (categoria su cui ci sarebbe da dire, da fare soprattutto). Ragionamento anche in questo caso saturo di contraddizioni, perché ad anticipo consistente non è mica detto che corrispondano aspettative altrettanto solide da parte della casa editrice. Sono piene le biblioteche di libri comprati (dagli editori) a un accidente e morti già nella culla, traditi dagli stessi genitori che avevano fatto carte false per poterli adottare. Così va il mondo, intanto il 27% dei titoli di narrativa italiana va al macero già alla prima edizione. Un mercato delle vacche in cui la dignità umana – quella letteraria nemmeno a parlarne – è soffocata dall’arroganza degli approcci, dalla rapidità dei bonifici, dalla miseria delle interlocuzioni. Irrita la miopia con cui si continua a inseguire la fenomenologia senza identificare il fenomeno, con cui si continua a puntare il dito sulla scarsità di risorse ma non sul fatto che è generata da uno dei mercati editoriali più poveri, perversi (nel 90% dei casi in cui decidiamo di farlo, è una sola holding a farci scegliere cosa leggere: Mondadori) e incomprensibili al mondo. In un Paese di lettori improvvisati, che costruisce la propria industria su un pubblico occasionale (autogrill, edicole, bancarelle) e non sistematico (librerie, fiere, rassegne), l’inganno ideologico degli anticipi a fondo perduto ha generato un passivo che ormai può essere sostenuto solo da altro passivo, un debito che si sopporta solo generando altro debito. Se da un lato vuol dire che il mercato editoriale è simile al resto del Paese più di quanto non sembri (l’Italia governa il proprio debito producendone altro, se si spezzasse la catena non ci sarebbe fallimento ma l’abisso), dall’altro è mancata la volontà di pensare a un circuito nuovo, essenziale e sostenibile, che rimetta al centro il libro in quanto patrimonio immateriale (non ho detto gratuito, ma immateriale).
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La prudenza nuoce gravemente ai Lettori
Al quadro tratteggiato si aggiunga l’aspetto più umiliante, almeno per chi scrive. La persistente, metodica e conveniente adozione dell’omertà come filosofia, la traslazione dell’italico «tengo famiglia» all’industria dei libri. «Non la chiamerei omertà – commentava il grande Gianpaolo Rugarli, all’indomani dell’uscita del suo romanzo capolavoro Andromeda e la notte – più prudenza, cautela tattica. So a cosa si riferisce, a quel sistema di non detti e non di mancati pronunciamenti che poi fanno di questo mondo lo schifo che è diventato. Lo so, fa schifo pure a me. Ci ho scritto un romanzo, pensi un po’. Ma non si aspetti conati di sincerità, perché non ce ne saranno. L’editoria è il sistema più chiuso che conosca, l’ambiente più autoreferenziale che la società moderna abbia mai generato. Generalmente questi ambienti finiscono in un modo solo…». Era il 1990. Due anni prima di Mani Pulite. Vent’anni prima dello scandalo che avrebbe travolto il Grinzane Cavour. Trenta prima che il sistema solare della nostra editoria si allineasse su tre pianeti (Mondadori, GeMS e Feltrinelli) e trentamila meteore. E altri trenta prima del misero fallimento ideologico delle più importanti imprese culturali italiane, ritenute «le principali colpevoli della massificazione, della stratificazione dell’orrore e dell’analfabetismo post industriale» come disse Umberto Eco (tra i fondatori de La Nave di Teseo, proprio lei). Qui non sono in discussione né saperi né abilità, di cui anche la nostra editoria è piena. Quanto l’incapacità di misurarsi con strumenti nuovi, l’incapacità di rinunciare a equazioni economiche che hanno la stessa efficacia del napalm: si vince la guerra desertificando la terra per cui si è combattuto. Carofiglio dalla Gruber. Corona dalla Berlinguer. De Giovanni da Mannoni. Volo da Fazio, per carità. E mille altri ancora. Si potrebbero rimettere gli orologi, prenderli come scadenze utili per assumere delle compresse. Non si sbaglierebbe mai, a conferma del fatto che l’editoria ha scelto di farsi proteggere da un pappone (la televisione) che non sa leggere: sapesse farlo, si renderebbe conto di cosa contengono i libri che indica come orizzonti dell’umanità. Ma senza andare così in alto – o in basso, a giudicare dagli esiti letterari – basta spostare il peso del chiacchiericcio a piani inferiori per ritrovare la verità delle considerazioni di Rugarli. Come finiscono questi ambienti, maestro? «Con l’estinzione – rispose –. Sono cicli economici, quindi vitali. Ere, e in quanto tali finiranno». In attesa che ciò accada, abbiamo permesso che a esordire per editori storici (gli stessi che hanno fatto la storia d’Italia) fossero semianalfabeti privi di qualsiasi linguaggio, dinamica narrativa e curiosità; abbiamo consentito ad agenti letterari con più cinismo che capelli di piazzare escrementi spacciandoli per diamanti, facendosi pagare a peso d’oro masturbazioni che spesso trovano la loro ragion d’essere già nei titoli (molte volte nemmeno in quelli); abbiamo lasciato che gli scaffali delle librerie venissero sepolti da cose inutili, come le offerte delle compagnie telefoniche che si sovrappongono fino ad annullarsi; abbiamo tollerato che soubrette, presentatrici, anchormen e women pubblicassero di tutto sulle loro vite – già abbastanza “sculate”, a dispetto della totale assenza di talento – in ragione di una democrazia editoriale che ben presto è degenerata in raccolta indifferenziata. «Capito come funziona? Ridiamo di Mary Stracqua, e dei tanti piccoli o medi parassiti come lei che intasano le redazioni dei giornali, le segreterie politiche, i ministeri, le televisioni, le università; ma la verità è che siamo responsabili della loro sopravvivenza. Lasciamo che diano l’esempio, invece di sopprimerlo. Viviamo questa codineria intellettuale collettiva, questa ipocrisia culturale che, come i professionisti del trash, ci fa additare gli ignoranti e sfotterli quando non ci sentono. Siamo tolleranti e accomodanti. E quando restiamo a guardarli, partecipiamo a uno spettacolo interattivo. Approviamo uno scandalo. Guardiamo come, nel nostro piccolo, abbiamo ridotto il mondo» (tratto da Mia suocera beve, Diego De Silva; Einaudi, 2010). Una citazione che contiene tutta la consapevolezza, e la conseguente necessità di seppellirla in fretta, dei principali artefici di questo disastro. Gli scrittori, soprattutto di quelli presunti.
Questo ha fatto la nostra omertà, la mia e la vostra. E gli unici a rimetterci sono stati i Lettori, confinati in una riserva in cui il resto degli italiani li guarda e compatisce la loro solitudine.
Davide Grittani
*Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage C’era un Paese che invidiavano tutti (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi Rondò (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), E invece io (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), La rampicante (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da la Lettura del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mozzogiorno, inserto del Corriere della Sera.
L'articolo La Grande Omertà. Sul coma farmaceutico dell’editoria italiana. Breve viaggio nella Gomorra che a nessuno conviene raccontare. Quella dei libri. proviene da Pangea.
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pangeanews · 4 years ago
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Quella vita di me**a di cui andare orgogliosi. Beccatevi questo capolavoro: si intitola “La vita schifa”, lo ha scritto Rosario Palazzolo. Per fortuna, si tiene alla larga dai romanzi italiani degli ultimi trent’anni
Questo è solo il parere di un autore, di uno scrittore che decide di occuparsi di un altro scrittore. E per quanto emendabile, questa puntualizzazione diventa necessaria quando uno come me (che ha fatto dell’integralismo estetico la propria religione) incontra un romanzo come La vita schifa (un’opera che diversi critici avranno chiuso a pagina tre, ma che proprio per questo merita un coraggioso approfondimento di cui spero di essere degno). Rosario Palazzolo non è uno scrittore puro. È un attore, tra le altre cose nel cast de Il Traditore di Marco Bellocchio. Ma ha sempre scritto monologhi e testi teatrali, racconti e romanzi. Ed ha sempre letto, essendo costretto a farlo per mestiere (gli scrittori possono bluffare sulla loro formazione, gli attori no perché i copioni non si possono improvvisare). E la prima sensazione che mi è venuta addosso, immergendomi ne La vita schifa, è che le letture di anni di palcoscenico si siano stratificate con una magnifica casualità, si siano sovrapposte come placche tettoniche in una specie di patchwork, raccogliendosi intorno a una trama di per sé non molto originale – sebbene frutto di una lodevole intuizione – fino a collocarsi in precise cavità coniche come la kriptonite di Superman. Ognuna al suo posto, con pochissime eccezioni. Questa perfezione involontaria, quasi inconsapevole, fa de La vita schifa (Arkadia Edizioni, collana SideKar diretta da Ivana e Mariela Peritore e Patrizio Zurru) uno dei libri più belli letti negli ultimi anni.
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Che Dio ci liberi dalla trama
Liberiamoci subito della presenza/assenza di Ernesto Scossa, killer di mafia che – una volta morto, anzi proprio in qualità di morto ammazzato – guarda la sua vita dal di fuori e la radiografa con lo scanner delle parole. Ne scaturisce una confessione amarognola, un atto d’accusa verso il mondo che respinge le persone in un angolo e verso sé stesso in quanto angolo del mondo. Ma non è questo che m’interessa evidenziare del romanzo, quanto la sua estetica e la sua lingua. Elementi che combinati diventano musica, giri di frasi che finiscono sempre nel modo giusto, senza mai una sbavatura, grovigli di pensieri misurati persino nell’abbuffata di aggettivi, schiocco di note che nascondono l’invadenza del racconto e fanno sembrare tutto così adeguato, necessario, puntuale come la morte (appunto). Scritto nel siciliano vero – non la lingua di Camilleri, ma un siciliano così vero da azzannare mentre lo leggi e lo sbagli – di chi a Palermo deve tutto, La vita schifa attraversa le stagioni di questo Ernesto con la presunta anarchia e la rinnegata lucidità dei veri artisti. Di chi sa dove condurre il Lettore, perché padrone della storia e libero da ogni compromesso commerciale. «(…) mi ricordo di lei distesa, piccola come le cose minute, mi ricordo che allungo una mano per toccarla e nel mio pensiero, nel mentre che la tocco, di colpo spariscono tutte cose, come se il padreterno ha deciso di voltarci pagina, era l’ottantacinque e io avevo quasi nove anni, nove anni, e cosa potevo saperne a nove anni, delle cose che cambiano, come potevo figurarmi le rivoluzioni del tempo che fanno scoppia lo spazio, tipo certe telenovele che si guardava mia madre, dove a un certo punto sparivano tutti, pure le città: sabrina morì nell’ottantacinque, il vecchio coi baffi se ne andò in pensione e il bar cominciò a vendere pure patatine, mia nonna la portarono al ricovero e io cominciai a odiare il fuxia, e i capelli annodati». Sorvolando sull’interpunzione, nel senso che sono davvero poche le virgole non necessarie al testo, il romanzo è quasi tutto avvolto in queste nuvole narrative straordinariamente brevi, veloci ed eroiche. Ecosistemi che non hanno bisogno di nulla e che nulla chiedono al Lettore, se non di fidarsi della scelta che ha fatto. Ecco, Rosario Palazzolo ha il merito di onorare quel patto non scritto – invece andrebbe stipulato ogni santo giorno, ad ogni scontrino emesso da una libreria – tra Lettore e autore. Non promette nulla, libera subito dall’orgasmo della trama – pronti partenza svelata, morto che parla – eppure accompagna per mano lungo strade strette e incantevoli, ai cui lati non ci sono stese le calze degli operai ad asciugare ma passati prossimi, trapassati, indicativi strabici e futuri anteriori che disorientano senza smarrire, incalzano senza spaventare. La vita schifa quasi non ha trama, ed è un bene che Editore e Curatori abbiano favorito questa condizione senza imporre – come forse avrebbe fatto qualsiasi altra casa editrice di medio/grande entità – una soluzione storica e filologica, una continuità narrativa prossima al severo sviluppo degli eventi. Palazzolo si fa dirigere dal testosterone, peculiarità che impone anche al suo personaggio, e utilizza la virilità come indicatore di una bussola: punta là dove c’è da fottere, oltre che da uccidere, e in questa rincorsa semiseria e drammatica allo sticchio si snoda una personalità rara, un personaggio senza carne, quasi spirituale, un uomo del quale – grazie al cielo – nessuno si ferma a dire com’è fatto e cos’ha detto, perché al Lettore interessa solo farsi attraversare da Scossa.
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Lui è Rosario Palazzolo
Nemmeno letto al premio Strega
La vita schifa è stato segnalato, più che opportunamente da una brava filologa come Giulia Ciarapica, all’ultimo premio Strega. Nemmeno preso in considerazione, anzi conoscendo i meccanismi forse nemmeno sfogliato dai giurati, il romanzo non è entrato in dozzina. Non lo faccio notare per stupore, ma perché i limiti di questi meccanismi sono così evidenti che, se avessero letto La vita schifa, i componenti del comitato direttivo si sarebbero accorti che questo libro si tiene alla larga da tutti i romanzi italiani degli ultimi trent’anni. Non è un romanzo banale, non è un romanzo borghese né noioso, non è romanzo sulla storia del Paese – che qualcuno ci liberi da queste sofferenze – e non è nemmeno il romanzo di un autore mandato dal Picone di turno: PD, Forza Italia o Sinistra radical chic che cita Hegel con disprezzo e legge Fabio Volo. Se lo avessero letto, quelli dello Strega avrebbero notato che La vita schifa è un capolavoro perché non ambisce a sopprimere nessuno dei difetti su cui si lavora per mesi nelle scuole di scrittura, non asseconda le pulsioni degli editor di far chiarezza dentro pagine in cui non ci sarebbe nulla da chiarire, non strizza l’occhio alle versioni più becere dei gialli verso cui da una dozzina d’anni proviamo una pulsione erotica tanto potente quanto ingiustificata, non apparecchia frasi memorabili con l’ambizione con finiscano in Smemoranda o nelle fascette editoriali che dicono cose tutte uguali e inutili allo stesso modo. La vita schifa è un capolavoro perché non ha alcuna ambizione di esserlo, perché non soffre della febbre sottocutanea dell’eternità. «Grazie molte, e sono io che ti devo ringraziare, gli avrei detto, a questo, perché soldi ce n’erano rimasti pochi visto che avevo chiesto a katia di non prenderne alla banca ché se uno deva andare a morire mica gli servono, e poi erano soldi dell’altra vita, c’avevo detto, e l’altra vita era finita, e per primo dovevamo crederci noi alla nostra morte o qualcosa del genere, mi pare, e così, il giorno dell’epifania, dopo l’applauso, tutto il paese è venuto a presentarsi con noi, tutti in fila con io sono tizio e io sono caio, e porco il precipizio erano dieci giorni che la gente sapeva che eravamo a apecchio e manco un saluto e adesso eccoli tutti apparati come se eravamo apparsi dal nulla in quel momento là». La vita schifa è straordinario per tante ragioni: soprattutto perché ignora la bigotta scuola italiana, quel retrogusto cattocomunista che ne immobilizza ogni (vera) evoluzione dai tempi di Ennio Flaiano. Senza storia, senza protagonisti, senza artefici, senza vincitori e vinti, ma con la forza della vita (sebbene schifa) che da sola basta a spingere un romanzo che avrebbe meritato molto di più quello che finora ha avuto.
Davide Grittani
*Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da la Lettura del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mozzogiorno, inserto del Corriere della Sera.
L'articolo Quella vita di me**a di cui andare orgogliosi. Beccatevi questo capolavoro: si intitola “La vita schifa”, lo ha scritto Rosario Palazzolo. Per fortuna, si tiene alla larga dai romanzi italiani degli ultimi trent’anni proviene da Pangea.
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