#poesie sulla perdita
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"Ti ho amato tanto" di Laura Neri: Un Canto di Dolore e Desiderio. Laura Neri esplora il vuoto lasciato dall’amore perduto e il tormento di un’anima prigioniera dei ricordi. Recensione di Alessandria today
Laura Neri si distingue ancora una volta con una poesia intima e struggente che scava nell’animo umano, esponendo le ferite lasciate dall'amore. "Ti ho amato tanto" è un grido di dolore e malinconia, in cui l’autrice rivela le sue emozioni più profonde, l
Laura Neri si distingue ancora una volta con una poesia intima e struggente che scava nell’animo umano, esponendo le ferite lasciate dall’amore. “Ti ho amato tanto” è un grido di dolore e malinconia, in cui l’autrice rivela le sue emozioni più profonde, legate all’amore e alla perdita. “Ti ho amato tanto fino allo spasimo l’uomo che sapeva di sole”: con queste parole, la Neri ci introduce…
#amore e disperazione#attesa e dolore#dolore d’amore#il tormento della solitudine#Introspezione poetica#l&039;anima femminile in poesia#lirica dell’abbandono#poesia contemporanea sull’amore#Poesia di Laura Neri#poesia dialettale#poesia emozionante#poesia Laura Neri#poesia struggente d’amore#poesia sul ricordo#poesia sul sogno#poesia sulla malinconia#poesia sulla solitudine#poesia sull’amore impossibile#poesia sull’amore perduto#poesia sull’attesa vana#poesia sull’introspezione amorosa#poesie d&039;amore struggente#poesie italiane contemporanee#poesie sulla perdita#poesie sull’anima#poesie sull’attesa#poetesse italiane moderne#sensibilità e forza in poesia#sentimento e poesia#sofferenza e amore in poesia.
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Amori, lettura e scrittura in estate al lago
Estate al lago Amori, lettura e scrittura in estate al lago, un articolo che analizza il romanzo Estate al lago di Alberto Vigevani, con un estratto di alcune pagine del testo. Attorno agli anni '90 avevo trovato allegato ad una rivista, in omaggio, il libro Estate al lago di Alberto Vigevani e benché non fossi un grande amante dei romanzi, visto che non potevo andare in vacanza e poiché in gioventù avevo trascorso spesso delle giornate estive sul lago di Garda, benché in questo caso si trattasse del lago di Como, memore di qualche rifermento ai Promessi Sposi del Manzoni, decisi di leggerlo. Il lago in ogni caso ha comunque un fascino particolare, e come dicevo anch'io ho trascorso in questi ambienti un bel po' di giornate, prima con mia mamma che mi accompagnava per andare a pescare attorno ai 12-13 anni, nelle acque di Salò, Maderno, Desenzano, poi con i miei amici negli anni turbolenti della mia adolescenza, principalmente a Toscolano Maderno, Manerba, Padenghe, e poi ancora sul Lago d'Idro, e infine ancora con mia mamma alle terme di Sirmione. Ora a distanza di più di trent'anni da quel periodo e a ben 66 anni dalla pubblicazione del libro avvenuta nel 1958, ho deciso di dedicargli questo articolo, anche perché, visto che siamo in estate e la gente in genere legge sempre meno, mi sento di affermare che leggere "Un'estate al lago" di Alberto Vigevani è come concedersi una vacanza letteraria, ricca di emozioni, riflessioni e bellezza. Direi per prima cosa che consigliare questo romanzo, snello ma succulento, significa suggerire un viaggio emozionante nella nostalgia e nella bellezza del passato. Ed ora vi elencherò diversi punti per cercare di convincere qualcuno a non perdere questa occasione letteraria. 1) Vigevani è un maestro nel creare atmosfere che trasportano il lettore direttamente nelle calde estati italiane, tra paesaggi lacustri incantevoli e la quiete della natura. 2) I protagonisti del romanzo sono descritti con una profondità psicologica che permette al lettore di immedesimarsi nelle loro vite e nei loro sentimenti. Le loro storie e interazioni sono il cuore pulsante del libro. 3) La prosa di Vigevani è elegante e poetica, rendendo la lettura un'esperienza estetica oltre che narrativa. La sua capacità di descrivere i dettagli con delicatezza e precisione arricchisce ogni pagina. 4) Il romanzo esplora temi come l'amore, la memoria, la perdita e la ricerca di sé, offrendo spunti di riflessione che risuonano profondamente con i lettori di ogni età. 5) Ambientato negli anni '30, "Un'estate al lago" offre un affascinante spaccato di un'epoca passata. Vigevani riesce a catturare l'essenza del tempo e del luogo, permettendo al lettore di vivere un pezzo di storia italiana attraverso gli occhi dei suoi personaggi. 6) Il libro è pervaso da una dolce nostalgia, che invita il lettore a riflettere sulla propria infanzia e sui ricordi estivi. Questa introspezione rende la lettura profondamente personale e toccante. 7) "Un'estate al lago" è stato accolto favorevolmente dalla critica, che ne ha lodato la qualità narrativa e la profondità emotiva. È un'opera apprezzata sia dai lettori che dagli esperti letterari. 8) La descrizione dei paesaggi, delle giornate estive, e delle piccole gioie quotidiane crea un'esperienza immersiva che consente al lettore di "vivere" l'estate al lago insieme ai personaggi.
Alberto Vigevani Alberto Vigevani (1918-1999) è stato uno scrittore, poeta ed editore italiano. Nato a Milano, si distinse per la sua produzione letteraria caratterizzata da una prosa elegante e malinconica. Oltre a numerosi romanzi e racconti, Vigevani pubblicò poesie e si dedicò all'editoria, fondando la casa editrice Il Polifilo, specializzata in libri d'arte e di alta qualità tipografica. Le sue opere riflettono spesso la nostalgia per un mondo perduto e la complessità delle relazioni umane. Vigevani è ricordato come una figura importante nel panorama culturale italiano del XX secolo. Oltre a Estate al lago ha pubblicato Un’educazione borghese; La casa perduta; L'abbandono; La breve passeggiata. Ha ottenuto, tra altri, il Premio Bagutta. Estate al lago. L'estate era stata diversa da quelle passate: le ultime vacanze dell'infanzia. Era maturata per Giacomo una nuova età: dalla suggestione dei sensi alle delicate immagini del suo amore puerile. Tutto si poteva dire in silenzio e tutto si scioglieva in contemplazione. Come ha scritto Geno Pampaloni nell'introduzione al testo, la verità del libro è in questo attimo di sospensione vitale, in questo (doloroso e insieme corroborante) diritto al segreto di fronte alla violenza della realtà. E, la sua, una sospensione magica, illusa e labile com'è proprio dell’adolescenza. Ma non è solo sua: è anche l’illusione ansiosa del silenzio e della contemplazione, quella lieve vertigine fatta di insicurezza, di angoscia e di nostalgia che caratterizzò la cultura europea tra le due guerre al cospetto delle dittature e nell’imminenza della tragedia. Pampaloni spiega molto bene la natura del romanzo e tutti i suoi risvolti, come si evince da queste sue riflessioni. " Intendiamoci. La qualità poetica del racconto del Vigevani attinge a una cultura riflessa. Tutto è già alle sue spalle. «Tutto è accaduto», come dice un titolo di Corrado Alvaro, che sentì come pochi altri scrittori, con intelligenza amara, la transizione esistenziale propria del nostro tempo. Non per nulla Alberto Vigevani è libraio antiquario, ed è editore di testi preziosi e dimenticati della più raffinata tradizione, quasi che la sua vocazione di uomo sia dedicata al recupero, all’assaporamento di valori non mercificabili, alla fedeltà della memoria. Dietro di lui scrittore si staglia la grande ombra di Proust, il fascino della grande borghesia colta, intenta a cogliere l’ultima essenza di un mondo stremato dai suoi stessi valori... Perciò, contrariamente allo schema usuale, per cui l'adolescente passa dalla innocenza alla torbida scoperta del sesso, egli supera abbastanza rapidamente l’accensione sensuale, e sublima la sua ricchezza affettiva in un amore impossibile per la bionda e gentile madre del suo compagno di giuochi. Ma ecco che qui racconto d’amore e storia di un’educazione sentimentale si saldano.
Lago di Como in estate Che cosa rivela a Giacomo l’incontro con la giovane donna e il suo figliolo malato e ardente? 1. La forza della passione, così profonda e coinvolgente da risultare rasserenante anche se dolorosa; 2. L’« armonia e tenerezza» che unisce madre e figlio in un legame meraviglioso, compatto, inscindibile; 3. L'ambiguità della figura materna, ove si mescolano la dolcezza sensuale e il tepore protettivo, oscuro modello e | presagio di un’ambiguità esistenziale che accompagna l’intera vita; 4. La gioia pura e malinconica della bellezza, che invita al silenzio e alla contemplazione; 5. Gli rivela infine la possibilità stessa della rivelazione dell’io profondo, vertiginosa «come se si trovasse sull’orlo della propria vita ». Tutto questo lo prepara all’intuizione finale: «com'era complesso l’amore; non solo desiderio d’armonia, di bellezza, ma anche aspirazione a non esistere più, ad annientarsi. E ancora: vi era qualcosa di crudele, d’irrimediabile, qualcosa che non si sarebbe nemmeno potuto confessare, anche se lo avesse veramente compreso ». Questo è, mi pare, il tratto originale del personaggio (e del libro): la perdita dell’innocenza, momento fatale di ogni adolescenza, si trasforma, come in dissolvenza, nella consapevolezza della complessità dell'amore, con tutto ciò che di ambiguo, di doloroso, ma anche di certo e, in qualche senso, di supremo, tale consapevolezza porta con sé. Mentre si chiudono, tra le prime piogge e i colori spenti dell'autunno, le «ultime vacanze dell’infanzia », l'educazione sentimentale di Giacomo può dirsi compiuta, ma nel senso che il velo d’ombra di un’incompiutezza infinita si proietta a occupare ogni possibile futuro. Il crepuscolo di adolescenza, la lacerazione tra innocenza e maturità, che egli ha vissuto nell’estate al lago, è destinata a durare per sempre. Ma si capisce che, avviandosi ignaro verso i tempi della violenza e della devastazione che si affacceranno alla storia, egli entrerà nella vita non sotto il segno della conquista ma sotto il segno della poesia." Ma ora lasciamo lo spazio ad alcune pagine del libro. I primi giorni di vacanza seguirono rapidi, come una febbre che accalori le guance e svanisca lasciando una stanchezza, un senso di sonnolenza, e ancora fame di nuova stanchezza e di sonno. I cugini erano arrivati: l’Elisa, gentile e non bella, dal corpo pesante, la fronte a bauletto sporgente sopra gli occhi; Aldo, che aveva l’età di Stefano e dipingeva all’acquarello; Mario, un ragazzo calmo, maggiore di Giacomo di due anni. Stavano sempre insieme: nuotavano, andavano in barca, a volte salivano sulla strada di Porlezza, dov'era una valle segnata da un fiumiciattolo incassato, il Senagra. Altre partivano per Cadenabbia o, dalla parte opposta, per Acquaseria e Gravedona, in bicicletta, con la merenda al sacco, e dopo aver fatto il bagno si riposavano sui prati. Formavano una compagnia allegra, con altri giovani che s'erano aggiunti: la bruna che Stefano aveva conosciuto al Lido, Elsa, figlia del padrone dell’albergo Victoria, e il fratello, un giovane basso, il tuffatore migliore della spiaggia, che anche fuori portava una calottina rossa sui capelli impomatati. Poi le due ragazze Lanfranchi, già da Milano amiche dei cugini: la maggiore slanciata, con occhi verdi luminosi; la minore, grassottella e addormentata, con gli stessi occhi, ma sbiaditi e gonfi, che le davano l’espressione attonita di un pesce... Giacomo aveva scoperto per conto suo che l’Elsa non era tutta muscoli, ma d’una bellezza così piena e persuasiva che se ne sentiva attirato. Tuttavia la sua inclinazione non andava oltre il piacere degli occhi e quel senso di vergogna che lo istupidiva se gli capitava di rimanere solo con lei. La presenza di Clara, d’altra parte, riusciva a rendere leggera l’aria che li avvolgeva, nulla in essa s’incideva con troppa asprezza, appena vi si accennavano le amicizie ancora incerte. L’Elisa e la minore delle Lanfranchi divennero inseparabili, Mario stava insieme con Giacomo che era il più giovane ma non stonava in mezzo agli altri, in quei primi giorni in cui tutto scaturiva con spontaneità, come se per le vacanze fossero tornati ragazzi anche i grandi. Forse non badavano alla differenza di età, o lo ammettevano perché li faceva ridere con uscite in cui, incitato dal desiderio di farsi notare, caricava il suo senso dell'umorismo di una capacità d’invenzione che si smentiva di rado. Le zitelle che aveva spaventato in bicicletta erano divenute dei personaggi, così Antonio, il custode, di cui rifaceva la voce e imitava i discorsi farciti d’interiezioni, di proverbi detti a sproposito. Ma forse erano gli altri, a completare o ad accrescere il ridicolo dei suoi accostamenti, delle trovate che gli nascevano spontanee dal troppo parlare, quando si eccitava: la verità era che avevano voglia di ridere, di sentirsi disinvolti e spensierati prima d’addentrarsi nel terreno sfuggente e sconosciuto delle nuove amicizie.
Cartina del lago di Como Finirono anche quei giorni d’attesa: Stefano ora lo respingeva, se gli andava vicino mentre aveva al braccio l’Elsa; rispondeva a monosillabi. Durante le gite Giacomo e Mario restavano indietro. Prima, avevano tutti riso delle sue immagini, si era sentito ammirato dalle ragazze, invidiato da Mario, in brevi momenti di esaltazione che lasciavano adesso il posto a un risentimento. Supponeva d’essere condannato a portare i calzoni corti in eterno, come un segno d'’inferiorità. Tra loro due e i grandi duravano lunghi silenzi, le parole di Giacomo cadevano senza che nessuno le raccogliesse, e a un tratto s'’accorgevano che i giovani camminavano avanti, sulla mulattiera lungo il monte, o rimanevano solo loro sulla spiaggia, mentre gli altri se n'erano andati in barca senza chiamarli. Li ritrovavano poi che ballavano nella sala a pianterreno della villa o all’albergo Victoria... Presto arrivò luglio. Negli alberghi si davano i primi balli: la stagione vera sarebbe venuta a settembre. Clara si metteva in abito lungo e veniva a farsi ammirare prima di uscire. Stefano vestiva lo smoking e Giacomo gli faceva compagnia mentre si preparava in bagno e annodava la cravatta davanti allo specchio. Forte e giovane, le sopracciglia folte, gli occhi vellutati e scuri uguali a quelli del padre, pareva lontano come mai, e proprio nel momento in cui gli offriva maggiore confidenza. Delle feste parlavano a tavola, il giorno dopo. Gli rimanevano nella mente episodi e nomi di persone, uditi nei discorsi dei fratelli, con il prestigio delle cose inaccessibili. Se la festa era a Menaggio, andava con le domestiche a vedere l’entrata dai cancelli. L’Emilia gli metteva una mano sulla spalla; diceva: «Ti piacerebbe vestirti da sera, ballare anche tu? »... A metà d’agosto il padre tornò per fermarsi una settimana. Giacomo quasi non s’accorgeva di lui. Gli era toccato ancora deluderlo: non aveva mai adoperato gli attrezzi e aveva fatto pochi progressi nello studio. Si sentiva in colpa, guardandolo: come provasse il sentimento che il padre fosse, senza sospettarlo, esposto a subire le conseguenze di ciò che a un tratto poteva insorgere nel suo animo. Gli appariva incapace di difendersi, nell’abito di tela un po’ ottocentesco, con la camicia di seta cruda aperta sul collo e il leggero copricapo di panama che sbiancavano ancor più la sua carnagione cittadina. Del resto non stavano mai insieme: usciva con la madre a visitare parenti o conoscenti che poi venivano a prendere il tè in giardino. A Giacomo sembrava che tra loro due qualcosa fosse già cambiato. Forse temeva per il suo segreto, quando gli occhi del padre si posavano sopra di lui, schiariti da un’ironia dolce e penetrante che avrebbe voluto sfuggire. Eppure, durante il giorno, tra Giacomo e l’Emilia tutto si svolgeva come prima, di nuovo non c'era che la carezza più ardita, le poche sere, ormai, che andavano a passeggio insieme. Spesso lei voleva uscire con l’Elvira, dicendo che si recavano al cinema, dove lui non poteva seguirla. Incontrandolo, sorrideva sempre, lo sfiorava col fianco come per scherzo, forse per vedergli in faccia il turbamento che non riusciva a nascondere. Era come fosse per abbandonarsi a piangere, e non potesse trovare comprensione se non in lei che già mostrava di evitarlo. Ma la notte, prima di addormentarsi, era diverso: come un appuntamento, ogni volta si ripeteva il lungo istante in cui, col respiro disordinato, il capo fitto nel guanciale, brancolava sopra un’immagine di lei oscura e avvincente. Se la raffigurava nuda, nella sua ricchezza segreta, lambita dal buio, le spalle e il petto candidi in luce, il ventre affondato in una macchia. Confusa e incerta ossessione, come confuse e incerte le reminiscenze, il negativo del nudo tra le rocce finte, i corpi femminili alla spiaggia, ogni nutrimento anonimo e frammentario della sua fantasia. A sfiorare quella immagine con una carezza, qualcosa entro di lui si rompeva in una breve liberazione che lo lasciava intontito e vergognoso. Infine una sera, appena partito il padre, che tutti erano usciti - l’Elvira aveva voluto andare al cinema da sola -, udì il passo dell'Emilia nella stanza che occupava all’ultimo piano, sopra la sua. Giacomo aveva già un poco dormito e quei passi gl’illuminarono d’improvviso la figura di lei, i suoi gesti mentre andava spogliandosi. Gli pulsavano le tempie; senz’accorgersene si trovò fuori della porta. Salì le scale nell’oscurità, cercando di non far rumore. Si sentiva un ladro, temeva che qualcuno potesse sorprenderlo. Una striscia di luce bagnava il pianerottolo, da sotto la porta. Non udiva nemmeno più il passo della donna. S’appoggiò alla maniglia, la porta cedette. Dalla finestra ovale entrava la luna e illuminava il letto. Il suo volto era quasi al buio: pareva ancora più pallido. Vide che i suoi occhi lo fissavano. « Giacomo », disse a bassa voce, « sei tu? ». Siccome non si muoveva, rigido contro la porta, il cuore che gli batteva di furia, lei riprese, con una voce alterata che sembrò una carezza: «Vieni qua». Andò verso il letto in punta di piedi. Si muoveva in quella luce quasi irreale come in una delle apparizioni che venivano a sorprenderlo la notte, quando non riusciva a dormire. Lei gli prese i polsi, l’attirò a sé. Piegando le ginocchia contro la sponda del letto, premette la guancia sulla spalla nuda. Il suo profumo lo confondeva. Dietro la testa di lei, sopra il candore del guanciale colpito dalla luce, i capelli sciolti addensavano un bosco oscuro e segreto da cui si staccava il suo volto smorto, senza più quel sorriso che sempre lo pungeva, sulle labbra adesso aride e schiuse. Gli occhi, scintillanti, sembravano vetri in cui la luce acquistasse profondità.
Grand Hotel Victoria Liberò le mani per cercarle il seno: annaspavano contro la tela un po’ ruvida della camicia. Fu lei a offrirglielo, scostando la spalla, e gli sembrò che bruciasse; poi quel fuoco gli entrò nella pelle. Lo palpava intero senza sapere dove indugiare. Si riempiva le mani della ricchezza che lei gli aveva ‘nascosto, e non cedeva alla carezza ripetuta ma la chiamava ancora, rinnovandogli come uno spasimo. Era entro un sentiero buio che lo faceva trasalire, e morbido, in cui ritrovava pungente l’odore dei capelli che gli coprivano le guance, la fronte. Un alito resinoso di terra e di donna che pareva quello del suo sangue. «Giacomo », aveva detto, due, tre volte, irosamente, gli era sembrato, muovendo il petto per svincolarsi. Ma s’avvinghiava a lei come se dovesse spremere, succhiare tutto il profumo e il calore che emanava. Poi gli si abbandonò, ansimante. Gli aveva cercato la bocca, la mano, ma appena raggiunte si era scossa, l’aveva allontanato con violenza, accendendo la piccola lampada sul tavolino. Era rimasto in fondo al letto. La fissava, nella debole luce elettrica, i capelli e la camicia in disordine, il volto quasi cattivo, mutato, con le labbra tremanti e tumide. La sua bellezza pareva a un tratto non più lontana, ossessiva, ma come rozza e affranta. Il torpore lo avvolgeva, allontanando ogni cosa nel tempo: si sentiva quasi spettatore di quel suo risveglio. Vide il seno scomparire nello scollo e gli parve una macchia, un fiore raggrinzito, la punta violacea che esitò un istante sull’orlo della camicia. Contrastando con la pelle chiara del petto somigliava a un oggetto immaginato nel sogno, che alla luce reale stupisca. Anche i suoi occhi erano diversi: lo sfuggivano come fosse lei, ora, a provare vergogna e a temere il suo riso. Gli pareva anche un'illusione il sussurro, quasi un gemito, che aveva colto sulle sue labbra. Si era seduta e aveva preso il pettine. Mentre ravviava i capelli si tolse la forcina dalle labbra e disse, a bassa voce: «Ti voglio bene, però sei un bambino ». Parole così fragili gli avevano fatto l’effetto che le avesse pensate, più che dette. Non capiva perché tornava ora un bambino, quando per un lungo momento era stata lei a soffrire sotto il suo abbraccio, e le sue labbra avevano perduto ogni voglia di sorriso. Read the full article
#AlbertoVigevani#amorielettura#estateallago#lagodiComo#Lombardia#MarcelProust#romanzo#turismo#vacanzeallago
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Charlotte Perkins Gilman
Essere circondati da cose belle ha molta influenza sulle creature umane; fare cose belle ne ha di più. Mentre ci illudiamo che le cose rimangano uguali, queste cambiano proprio sotto i nostri occhi di anno in anno, di giorno in giorno.
Charlotte Perkins Gilman, scrittrice e poeta femminista, esponente di spicco del movimento di liberazione delle donne statunitensi, si è interessata approfonditamente alla relazione tra indipendenza economica, rispetto ambientale ed evoluzionismo.
Intellettuale a tutto tondo, ha militato all’interno di diverse organizzazioni impegnate nell’analisi della società umana, proponendo una prospettiva nuova sul ruolo della donna nella società e auspicando una liberazione sociale, sessuale ed economica.
La sua opera maggiormente conosciuta è La carta da parati gialla (The Yellow Wallpaper), del 1892, un racconto semi-autobiografico sulla depressione post-partum e l’isolamento delle donne.
Il lavoro di tutta la sua vita è stato quello di propugnare l’autoaffermazione delle donne, al di fuori dei ruoli stereotipati di madre e moglie.
Nata a Hartford, nel Connecticut, il 3 luglio 1860, era figlia di Mary Ann Fitch Westcott e Frederick Beecher Perkins. Sua zia è stata Harriet Beecher Stowe, l’autrice deLa capanna dello zio Tom.
La sua vita venne segnata, fin dalla più tenera età, da una serie di eventi drammatici: la perdita di un fratello, la salute cagionevole della madre, l’abbandono della famiglia da parte del padre. A causa della situazione economica precaria, si trasferirono spesso, cosa che le impediva di costruire legami stabili.
Vivendo un’infanzia di isolamento e solitudine, si rifugiava nella lettura, passione ereditata dal padre che, sebbene distante, non smetteva di consigliarle libri da leggere. Le difficoltà che segnarono la sua infanzia contribuirono al desiderio di indipendenza che l’ha accompagnata per tutta la vita.
Sin dall’adolescenza, si cimentò in diversi lavori, dava lezioni private, era stata cassiera e stata addetta alle vendite, dipingeva e vendeva carte intestate, cuciva tende e rammendava vestiti, realizzava volantini pubblicitari e vendeva i suoi acquerelli. Tuttavia, nonostante avesse talento, non si è mai considerata un’artista.
Nel 1882, dopo una relazione di quattro anni con l’amica di vecchia data Martha Luther, incontrò Charles Walter Stetson, giovane artista di Rhode Island che sposò due anni dopo. Dalla loro unione nacque una figlia, Katharine. Il parto le causò una terribile depressione curata anche in una casa di cura.
La nevrosi e l’insofferenza verso il convenzionale ruolo di moglie e madre la portarono a separarsi dal marito, nel 1888, e a trasferirsi a Pasadena, dove cominciò a dedicarsi totalmente alla sua carriera.
Ha fatto parte attiva del movimento nazionalista, che operava per porre fine all’avidità del capitalismo e alle distinzioni di classe, proponendo l’avvento di un genere umano migliore, pacifico, etico, democratico e realmente progressista. La sua poesia, Similar Cases, del 1890, che l’ha proclamata la poeta del Nazionalismo, era una critica satirica di coloro che resistevano al cambiamento sociale. Nel corso dello stesso anno, scrisse, in soli due giorni il suo racconto più famoso, The Yellow Wallpaper in cui esprimeva il suo pensiero riguardo l’oppressione sociale ed economica della figura femminile.
Si guadagnò l’attenzione del pubblico anche grazie al suo primo volume di poesie, In This Our World, del 1893, contenente settantacinque poesie divise in tre sezioni riguardanti i suoi principali interessi principali: Il Mondo, La Donna e Il Nostro Genere Umano.
In California iniziò anche a tenere conferenze e discorsi pubblici presso alcuni club femminili e fu attiva in varie organizzazioni femministe e riformiste, tra cui la Pacific Coast Women’s Press Association (PCWPA) di cui divenne presidente.
Complici la continua lotta alla povertà e le pretese della sua promettente ma poco remunerativa carriera, nel 1894, l’anno del definitivo divorzio da Stetson, mandò la figlia a vivere con il suo ex marito e la sua seconda moglie. Nonostante riconoscessi i diritti paterni, la lontananza da lei le provocò un’enorme sofferenza.
Nel 1896 ha rappresentato la California alla Suffrage Convention di Washington e all’International Socialist and Labor Congress in Inghilterra.
Il suo saggio Women and Economics: a Study of the Economic Relationship Between Men and Women as a Factor in Social Evolution (1898), tradotto una sola volta in italiano nel 1902 da Carolina Pironti col titolo La donna e l’economia sociale: studio sulle relazioni economiche tra uomini e donne come fattore di evoluzione sociale, è considerato uno dei testi fondamentali sull’origine della questione femminile e sulle relazioni economiche e sociali tra i sessi.
Nel 1900 ha sposato Houghton Gilman, un suo cugino avvocato a Wall Street.
Mentre scriveva compulsivamente e teneva conferenze in tutto il paese, attraverso The Forerunner, giornale che ha fondato e diretto, diffondeva le sue idee sui diritti delle donne e sul ruolo nella società, proponendo la riforma della casa, del matrimonio e del lavoro..
Nel 1932, le fu diagnosticato un carcinoma mammario incurabile che la portò a suicidarsi con un’overdose di cloroformio, il 17 agosto 1935, la decisione fu il risultato finale del processo di rivendicazione del diritto di poter scegliere in autonomia la propria sorte.
Sia nella sua autobiografia che nel provocatorio biglietto lasciato al momento della dipartita, scrisse che preferiva il cloroformio al cancro. Ha fatto della sua morte, come della sua vita, una “scelta di servizio sociale”.
Straordinariamente prolifica e popolare ai suoi tempi, dopo la morte era stata dimenticata, successivamente, è stata riscoperta dal movimento femminista alla fine degli anni Sessanta, grazie alla ristampa di Women and economics, che ha dato inizio all’approfondimento di buona parte della sua opera.
La critica femminista ha messo in evidenza la qualità anticipatoria delle sue analisi e delle sue proposte. A partire dalla fine degli anni ottanta, sono stati portati alla luce non solo gli aspetti positivi del suo pensiero, ma anche le problematicità di un’ideologia basata sul presupposto che la civiltà americana bianca fosse superiore.
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NARRAMI18 FEBBRAIO 2019
Bukowski, ultimo atto
di ILARIA CALÒ
Capita molte volte che nell’ultima parte di esistenza un essere umano intraprenda un colloquio con se stesso per formulare una sorta di calcolo finale, stilare un resoconto definitivo catalogando il proprio passato al fine di rendersi cosciente di averlo vissuto e infine di accettarlo. Così si suddividono i ricordi, per comprendere ciò che di buono c’è stato, facendo riaffiorare immagini piacevoli alla mente, ma anche riflettendo sulla parte negativa. Tutti abbiamo un fardello, chi più pesante, chi meno, di ricordi spiacevoli: eventi definiti da scelte personali che si sarebbero potuti evitare oppure da ciò che siamo stati costretti a vivere per volontà altrui.
Gli ultimi dieci anni trascorsi da Charles Bukowski prima di spegnersi a San Pedro nel 1994 sono differenti da tutta la sua vita precedente: l’incontro con Linda Lee Beighle sembra essere la sua redenzione, lui stesso disse: “Linda era stata mandata dagli dei per salvarmi la vita”. Nel 1976 infatti la quotidianità di Charles viene stravolta da questa persona esteticamente semplice, salutista e affascinata dal misticismo, capace di attrarre lo scrittore a sé più di tutte le altre donne frequentate prima.
Charles Bukowski con Linda King
Bukowski grazie a lei riduce il consumo di alcool, migliora la sua dieta e grazie a Linda guadagna dieci anni di vita. Nel 1985 viene celebrato il matrimonio di Charles e Linda dal filosofo e autore canadese Manly Palmer Hall e solo tre anni dopo Bukowski si ammala di tubercolosi, evento che segna l’inizio di una lenta discesa fino alla leucemia, causa della sua morte. Nel frattempo si avvicina alla dottrina buddhista, rito con cui verrà svolto il suo funerale.
Questo intenso decennio trascorso con Linda fa scoprire a Charles il lato felice dell’esistenza umana, un argomento da sempre al centro delle sue riflessioni, di cui discorre in ogni sua opera con uno stile tremendamente schietto e cinico. Ma il motivo di questo crudo realismo è semplice: l’uomo dietro quelle parole è sempre stato oppresso dal susseguirsi di situazioni spiacevoli sin dall’infanzia, di cui racconta amaramente in “Panino al prosciutto”, per poi proseguire durante l’esperienza lavorativa alle Poste e la totale perdizione tra sesso, alcool e scommesse. La scrittura, si può dire, è stata l’ancora di salvezza insieme a Linda. Gli unici due approdi sicuri in un mare in tempesta. Prima che arrivasse lei, il solo battere a macchina per imprimere i pensieri riusciva a mantenerlo in vita, concedendogli di superare l’ennesimo evento travagliato nello scorrere degli anni.
Si dice che la raccolta di poesie di Bukowski più rilevante è quella che nasce dopo la morte di Jane Baker, il suo primo grande amore con cui trascorre un decennio burrascoso, ma la cui perdita provoca in lui un forte dolore, tanto da spingerlo più volte a tentare il suicidio. Ma anche in questo caso la possibilità di scrivere e di poter pubblicare lo trattengono. Le poesie per l’appunto vengono pubblicate nel 1962 con il titolo “ It Catches my Heart from my Hands”, tradotte in italiano solo in parte e pubblicate nel 1986 dalla Mondadori in “Poesie” di Charles Bukowski . Poco dopo Charles diventa padre di una bambina avuta con una giovane poetessa e la sua vita riprende a scorrere altalenante come sempre.
Il suo pubblico di lettori si amplia, ma lui rimane fedele a se stesso, rifiutando di comportarsi come qualsiasi altro scrittore.
L’incontro con Linda addolcisce però il suo animo, dopo moltissimi rifiuti accetta nel 1987, poco prima di ammalarsi, di scrivere soggetto e sceneggiatura per il film “Balfly – Moscone da Bar” un film diretto da Barbet Schroeder e prodotto da Francis Ford Coppola. La storia narra una delle tante vicende di Henry Chinaski, alterego di Bukowski. Lo stesso scrittore parla della rocambolesca e travagliata creazione del film nell’opera “Hollywood Hollywood”, dove inoltre Sara è il personaggio che rappresenta Linda.
Il suo puzzle composto da centinaia di tessere malinconiche ha potuto completarsi con un ultima tessera fondamentale, fatta di amore e serenità. Bukowski ha trovato comunque un lieto fine che di certo né a lui né tantomeno a quel che scriveva poteva attribuirsi.
Se paragonassimo la sua vita ad un suo romanzo potremmo scrivere come explicit quel che leggiamo sulla sua lapide, ovvero Don’t try: il consiglio che era solito a dare ai giovani scrittori, perché secondo lui l’arte dello scrivere non doveva svolgersi a tentativi, ma seguendo precise linee di ispirazione. Charles mostra infatti grandi doti creative e di scrittura fin dagli anni di scuola, dove il suo stile già si presenta realista e sincero: quando viene assegnato alla classe lo svolgimento di un tema che doveva essere il resoconto di una gita il suo risulta essere il migliore, nonostante lo abbia scritto confessando di non aver partecipato alla gita.
Tenta negli anni di gioventù di pubblicare racconti su alcune riviste e romanzi presso case editrici, eppure alle persone la verità non piace, le sue frasi buttate addosso ad una società molto spesso ipocrita non lo portano al successo fino ai cinquant’anni, dopo anni vissuti come impiegato postale. Lui stesso in quel lasso di tempo non aveva più considerato l’idea di pubblicare quel che scriveva. La sua creatività persisteva, in un mondo troppo semplice per accoglierla, così da condurlo a mostrarsi silenzioso e cinico, coltivando nell’intimo le migliaia di parole che oggi compongono le sue opere.
Secondo Charles è importante non fingere per piacere, per essere accettati dagli individui con cui si ha a che fare ogni giorno. Proprio nel documentario “You Never Had It”, afferma di odiare chi fa lo scrittore di mestiere, non potendo essere sufficientemente realista nel descrivere l’esistenza umana e tutti i fatti ad essa correlati. Bukowski non si è mai definito scrittore professionista, per l’appunto, aggiungendo inoltre che l’artista di successo è colui che viene apprezzato dopo la sua morte, perché esprime concetti estremamente complessi da comprendere dalla generazione presente, così evoluti e geniali da potersi adattare solo ad una società futura.
Charles Bukowski con Linda Lee Beighle
Charles Buk🖤wski
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Jack Bellezza - Il singolo “La leggenda del marinaio”
Il brano del cantautore dal 6 dicembre nelle radio
“La leggenda del marinaio” è il singolo dell’eclettico cantautore Jack Bellezza, nei principali stores digitali e dal 6 dicembre nelle radio in promozione nazionale. Produzione artistica lineare e ben costruita su cui scivola dolcemente la voce dell’artista. Interpretazione incentrata sulla storia cantata, come la tradizione del grande cantautorato italiano esige, e il risultato ne risulta vincente e nello stesso tempo originale, dimostrando carattere e personalità. “La leggenda del marinaio” racconta di come l’amore possa arrivare all’improvviso e sconvolgere la vita. Il protagonista è un giovane marinaio, nato e vissuto in mare, che abbandona tutto il suo mondo per una donna. Per lei sceglie di vivere sulla terraferma ma un signorotto, invaghitosi della ragazza, nel tentativo di violentarla la uccide, ponendo fine all’idillio. Distrutto dalla perdita, il marinaio si vendica uccidendolo, ma nemmeno la vendetta riesce a lenire il dolore, per questo decide di lasciarsi tutto alle spalle e sparire nel mare.
Storia dell’artista
Sono Jacopo Bellezza, nato a Orvieto il 4 luglio del 1995. Ho frequentato il liceo classico nella mia città per poi trasferirmi a Firenze, dove mi sono laureato al corso di laurea triennale in Storia. Ho poi proseguito il mio percorso universitario a Bologna, laureandomi in Archeologia e Culture del mondo antico. La mia passione per la scrittura nasce già dai tempi delle superiori, principalmente poesie e non veri e propri testi. Nei primi anni di università, la passione per la scrittura unita a quella per la chitarra ha portato alla composizione dei primi brani musicali.
Facebook: https://www.facebook.com/jacopo.bellezza.1
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Spotify: https://open.spotify.com/intl-it/artist/4EtDEgbSHErGg9BIpQRrME
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Come devi immaginarmi. Lingua e pedagogia da don Milani a Pasolini e ritorno
Come devi immaginarmi. Lingua e pedagogia da don Milani a Pasolini e ritorno. In occasione di festivalfilosofiaparola.2023 dedicato al linguaggio e alla presa di parola in epoca contemporanea, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale cura la serata Come devi immaginarmi. Lingua e pedagogia da don Milani a Pasolini e ritorno, in programma al Teatro Storchi di Modena venerdì 15 settembre alle ore 20.30. Il direttore di ERT, regista e attore Valter Malosti sarà in dialogo con lo psicanalista, saggista e scrittore Massimo Recalcati per affrontare la pedagogia secondo Pier Paolo Pasolini, sulle note di Bach suonate dal vivo dal violoncellista Lamberto Curtoni. Nel corso della serata, Malosti e Recalcati squaderneranno il profondo interesse di Pasolini per la questione pedagogica, un tema molto caro all’autore, un’ossessione che informa la sua intera attività: dalla scuoletta di Versuta – creato all’indomani della guerra – fino alle lettere a Gennariello poco prima della morte, in cui emerge l’assillo per la perdita e la necessità di tenere in vita la memoria e la tradizione. Le idee e la parola poetica dell’intellettuale, fra i più grandi e versatili del Novecento, prenderanno vita sul palco attraverso la lettura di alcuni suoi scritti: troveranno spazio la sua reazione al libro di Don Milani La cultura contadina della scuola di Barbiana; le Lettere Luterane e alcune poesie, a partire dalla famosissima Il Pci ai giovani! L’appuntamento segna l’ultima tappa di Come devi immaginarmi, il progetto ideato da Valter Malosti insieme al critico d’arte, scrittore e accademico Giovanni Agosti dedicato a Pasolini, nato in occasione del centenario dalla nascita (Bologna, 1922) e che lo scorso anno ha portato in scena l’intero corpus dei testi teatrali dell’autore e la sceneggiatura del film mai realizzato Il Padre Selvaggio, con il coinvolgimento di artiste e artisti per la maggior parte giovani. È lo sguardo di una nuova gioventù dunque, a fornire una risposta all’attualità inesausta di una lezione etica e politica, che ha segnato più di una generazione. Valter Malosti: regista, attore e artista visivo, dirige Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale dal 2021. Ha vinto il premio UBU per la regia di Quattro Atti Profani di Tarantino, il premio Flaiano per la regia di Venere in Pelliccia di Ives, il premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro per Shakespeare/Venere e Adone e Quattro Atti Profani, il premio Hystrio per la regia di Giulietta di Fellini. Malosti ha diretto opere di Nyman, Tutino, Glass, Corghi e Cage, spesso in prima esecuzione, e per il Teatro Regio di Torino Le nozze di Figaro di Mozart. Come attore Malosti ha lavorato in teatro per quasi un decennio con Luca Ronconi, e al cinema con Calopresti, Battiato e Martone. È stato Manfred (Schumann/Byron) per la direzione d’orchestra di Noseda. Ha diretto la Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino dal 2010 al 2018 e la Fondazione TPE - Teatro Piemonte Europa dal 2018 al 2021. Per la collana di Poesia di Einaudi Editore è uscita a fine novembre 2022 la sua traduzione de I Poemetti di William Shakespeare. Per la direzione di ERT / Teatro Nazionale Malosti nel 2023 ha ricevuto il Premio Enriquez e la Targa Volponi. Massimo Recalcati: psicoanalista, saggista e scrittore. Membro della Società Milanese di Psicoanalisi - SMP. Fondatore di “Jonas – Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi” e Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia IRPA di Milano. Insegna all’Università di Verona e presso lo IULM di Milano. Dal 2003 è direttore e docente del “Corso di specializzazione sulla clinica dei nuovi sintomi” alla Jonas Onlus di Milano. Attualmente, è supervisore clinico presso il Centro Gruber di Bologna per casi gravi di DCA. Collabora con “La Repubblica” e “La Stampa”. Dirige per Feltrinelli la Collana Eredi e cura con Maurizio Balsamo la rivista “Frontiere della psicoanalisi”. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Lamberto Curtoni: violoncellista e compositore, dopo il Conservatorio «G. Verdi» di Torino sotto la guida di Dario De Stefano si perfeziona con Giovanni Sollima. Come solista si esibisce in prestigiosi festival e stagioni musicali, riscuotendo ovunque unanimi consensi di pubblico e di critica. Ha collaborato e collabora con artisti come Gidon Kremer e la Kremerata Baltica, Yuri Bashmet e I Solisti di Mosca, Franco Battiato, Gavin Bryars, Enrico Rava, Julius Berger, Diego Fasolis, il coro femminile Islandese Graduale Nobili e prestigiosi ensemble, tra i quali Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, Orchestra Filarmonica Toscanini di Parma e Ensemble cameristico dell’Orchestra Rai. Molto attento al pubblico giovane, collabora costantemente con Piergiorgio Odifreddi, Concita De Gregorio, Peppe Servillo e vari registi, attori e coreografi. È dedicatario di numerose composizioni di autori, tra i quali Carlo Boccadoro, Enzo Pietropaoli, Giorgio Mirto, Giovanni Catelli e Roberto Bocca. Informazioni: Teatro Storchi – Largo Garibaldi, 15, 41124, Modena Biglietteria: dal martedì al sabato ore 10.00 – 14.00; martedì e sabato anche ore 16.30-19.00 059-2136021 | [email protected] | vivaticket.com modena.emiliaromagnateatro.com | [email protected] festivalfilosofia.it | [email protected]... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Good Omens Ficlet /// IV
°°°
Il punto di rottura era arrivato con una tazza di tè.
O piuttosto, con la sua assenza.
Non era possibile registrare il passaggio del tempo nel biancore glaciale del Paradiso, nelle lustre prospettive vuote che si spandevano a perdita d'occhio e che pungevano Aziraphale con un disagio sottile come un ago.
Dunque non aveva precisa contezza di quanto tempo fosse trascorso, dall'ultima volta che aveva potuto bere una tazza di tè in pace.
La maggior parte del tempo lo aveva passato trincerato negli archivi.
Data la sua prolungata missione sulla Terra, aveva molto da recuperare. Millenni di rapporti arretrati, di progetti da consultare, piani da rivedere.
Pazienza se in realtà, al contrario del mondo materiale, quello etereo non era effettivamente cambiato in nulla negli ultimi seimila anni.
Gli era sembrata una buona scusa per prendere tempo e restare da solo, mentre cercava di riprendere dominio di sé. C'era anche una sorta di ironica, amara simmetria, nell'approfittare della scrivania vacante di Muriel mentre lei si trovava nel suo negozio. Ma questo era un dettaglio su cui Aziraphale non si soffermava.
Il pensiero della libreria riapriva uno squarcio su ciò che era accaduto negli ultimi istanti prima di lasciare Londra.
Appena era arrivato, Aziraphale aveva cercato di tenersi nei pressi della grande riproduzione del globo terrestre fatta per monitorare gli avvenimenti sulla Terra. Poter alzare gli occhi e vederla lì, a ruotare pigramente sul proprio asse, gli dava l'illusione di mantenere un punto di contatto; di non aver ancora reciso tutti i legami.
Ma vedere i giorni passare una inesorabile rotazione dopo l'altra, solo per avere un tuffo al cuore ogni volta che il sole toccava le Isole Britanniche, gli era diventato presto insopportabile.
Aziraphale aveva cercato l'unico rifugio che le sale sconfinate del Paradiso potessero offrirgli: i libri. E i libri non l'avevano tradito.
Aziraphale vi si era buttato a capofitto, divorando con la medesima avidità interminabili verbali e rapporti di cancelleria, inventari, copie di dispacci e resoconti di riunioni avvenute migliaia di anni prima.
...Sapeva che negli archivi dovevano essere contenuti in bell'ordine, opportunamente editati e confezionati ad usum Paradisi, anche tutti i suoi rapporti ufficiali. Aziraphale non li aveva cercati.
Aveva letto ininterrottamente finché tutte le parole avevano cominciato ad appiattirsi in un unico rumore bianco; e anche dopo, aveva continuato a leggere.
A un certo momento, tuttavia, aveva cominciato a desiderare una tazza di tè.
Non che Aziraphale avesse sete; nè che sentisse freddo. Non esattamente. In Paradiso non esisteva nessuna delle due cose.
Ma a un certo punto, mentre era immerso nella lettura di un rapporto relativo alle operazioni di ripristino post - diluvio, la sua concentrazione aveva iniziato a mostrare delle crepe. La prima cosa abbastanza piccola da insinuarsi in quelle crepe era stata la voglia di bere una tazza di tè.
Naturalmente, in Paradiso era impossibile trovare qualcosa del genere.
Non c'era nulla di materiale, niente che fosse cresciuto dalla terra, avesse assorbito la pioggia o fosse maturato al sole; niente che potesse consumarsi, alterarsi, o corrompersi. Crescere.
Il suo piccolo desiderio di un tè caldo, però, rifiutava di farsi ignorare. Aziraphale aveva provato a dirottare il pensiero con altre distrazioni.
Si era allontanato dalla scrivania per camminare un po'; ma la deprimente teoria di luci bianche tutte uguali glie ne aveva tolto presto la voglia.
Aziraphale conosceva a memoria migliaia di poesie. Un tempo, ripetersele a mente gli teneva compagnia. Adesso, però, ciascuna gli ricordava le pagine delle sue edizioni preferite; quelle riprodotte a stampa; quelle manoscritte; i frammenti conservati su pergamena o arrotolati in antichi fogli di papiro. Ora, ogni verso lo riportava alla libreria. E osì Aziraphale aveva lasciato da parte anche le poesie.
Aveva provato con la musica. Si era messo a canticchiare a mezza voce uno dei suoi brani preferiti di Clara Schumann. "Più sono costretto ad ascoltarti, angelo, e più mi chiedo a chi diamine sia venuto in mente che cantare come un angelo potesse essere un complimento."
Il ricordo trapassò Aziraphale come una scarica elettrica.
Per qualche istante rimase immobile, il tempo di imporre al cuore di smettere di tremare.
Una volta, davanti alla granitica sicurezza di Gabriel, aveva confessato a se stesso di essere troppo tenero. Troppo esitante; troppo molle e insicuro. Era stata un'ammissione di sconfitta, all'epoca. Non era mai potuto essere come gli altri angeli; Aziraphale non avrebbe mai avuto quella risolutezza.
Aziraphale richiuse il volume aperto davanti a sé, e con un gesto lo ripose al suo posto negli archivi. Inspirò profondamente. Il suo cuore ancora non taceva.
"Michael!" chiamò.
La sua voce non aveva il timbro chiaro di un Arcangelo. Non l'avrebbe avuto mai, pensò Aziraphale con un misto indefinibile di frustrazione e indocile orgoglio.
Quando Michael gli si presentò davanti con malcelata insofferenza, Aziraphale lo accolse rivolgendogli il proprio sorriso più soave e impenetrabile.
"A proposito dell'avanzamento delle operazioni," esordì in tono amabile. "Desidero comunicarti che considero conclusa la prima fase istruttoria, qui... nelle retrovie." Fece un cenno col capo simulando soddisfazione. "Per il momento, temo proprio non ci sia nient'altro che mi sia possibile apprendere negli archivi."
Michael rimase in ascolto, ma sentir definire il Paradiso le retrovie non mancò di disegnare una piccola smorfia sul suo volto, e di dare ad Aziraphale un piccolo vendicativo piacere. Raddrizzò la schiena, studiandosi di imitare l'atteggiamento tronfio di Gabriel.
"Perciò, per completare le indagini preliminari," annunciò, "stabilirò la mia sede operativa più vicino alla prima linea."
"Che cosa vorrebbe dire la prima linea?" chiese Michael con voce acuta.
"Sarò al piano di sotto," chiarì Aziraphale, mentre già oltrepassava Michael con un cenno della mano. "Vi manderò conferma appena avrò individuato la sede adeguata!"
Michael boccheggiò, strabuzzando gli occhi. "Il Metatron ne è stato informato?!"
"Hai ragione, Michael, quasi dimenticavo!" gridò Aziraphale già da dentro l'ascensore. "Vorresti essere un tesoro e provvedere a comunicarglielo tu?"
Mentre le porte si richiudevano come un sipario sulla faccia indignata di Michael, Aziraphale aggiunse un giulivo "Grazie mille!" Per la prima volta dopo molti mesi, sentì qualcosa di simile a un genuino sollievo alleggerirgli le spalle.
Non aveva la minima idea di cosa si sarebbe inventato, una volta tornato sulla Terra; o di cosa avrebbe fatto, se avesse incontrato...
Scrollò la testa e si costrinse a non pensarci.
Inspirò profondamente mentre si sistemava la giacca, davanti alle porte dell'ascensore che si riaprivano.
"Prima di tutto: un tè," si disse; e uscì sul marciapiede affollato. °°°
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"Tutte le volte che avrei voluto odiarti"...
Una storia ambientata a Milano, che racconta di anaffettività, omosessualità e perdita, ma volge lo sguardo fiducioso verso le seconde possibilità nella vita, perché non è mai tardi… per l'amore.
“Tutte le volte che avrei voluto odiarti” racconta, con la consueta ironia della scrittrice, la storia del primo amore e delle sue difficoltà, ma è anche un romanzo sulle seconde possibilità nella vita, perché non è mai tardi per l'amore.
Al centro della storia i due protagonisti: Miriam e Thomas, con le loro difficoltà di ex ragazzi diventati adulti troppo presto. Miriam è un avvocato affermato felicemente fidanzata con il rampollo di una ricca famiglia; Thomas è un cardiochirurgo di ritorno dagli Stati Uniti in procinto di sposarsi con una collega. Il destino li ha allontanati, il destino li farà rincontrare tra colpi di scena e decisioni dolorose. Intorno a loro ruotano e si intrecciano le storie di amici e familiari, portando il lettore ad affrontare, con delicatezza e deferenza, temi come l’anaffettività, l’omosessualità, la perdita di un genitore, con l’unico intento di riflettere su quanto sia facile e sbagliato giudicare l’apparenza nelle persone. Una storia leggera e profonda insieme, da leggere tutta d’un fiato fino all’ultima pagina e con una sorpresa “nascosta” per chi già ha avuto modo di apprezzare i romanzi di Maria Orlandi. Sinossi Il primo amore non si scorda mai” recita un vecchio adagio. Ma non ditelo a Miriam A 33 anni Miriam ha una vita perfetta: è associata di uno studio legale a Milano, ha un fidanzato da favola e una famiglia unita che la sostiene. Tutto bene, fino a quando tra le carte di un processo non rispunta il nome di Thomas, il suo primo amore che, se potesse, “farebbe condannare all’ergastolo per l’omicidio premeditato di ogni slancio romantico del suo cuore a soli 18 anni”. Un pezzo alla volta il castello di Miriam inizia a sgretolarsi e le sue certezze vanno in frantumi: la sua storia d’amore perfetta vacilla, ricordi dolorosi si riaffacciano con forza, la scoperta del segreto più grande di suo fratello Carlo la costringe ad aprire gli occhi sulla complessità dell’animo umano. E quel sentimento provato un tempo per Thomas, chiuso a chiave in un cassetto per 15 lunghi anni, sembra fremere per tornare a pulsare prepotente nel suo cuore. Possono le macerie di un sogno diventare le fondamenta di una nuova realtà? Biografia dell’autrice Maria Orlandi, nata a Pescara nel 1978, è laureata in Scienze della comunicazione e iscritta all'Ordine dei giornalisti d'Abruzzo. Dal 2006 lavora come giornalista e ufficio stampa libero professionista, collaborando con diverse testate giornalistiche regionali e nazionali. Ama la musica, i romanzi di Jane Austen (e non solo), le commedie romantiche e il lieto fine. Ha già pubblicato il libro di poesie dal titolo Un cuore tra gli altri (Ed. Youcanprint) e i romanzi Non è mai tardi per un sogno (Edizioni Masciulli) e L’amore è una danza. https://www.instagram.com/mariaorlandiautrice --> Vai alla sezione Libri Consigliati di Vortici Magazine.... --> Acquista il romanzo su Amazon.... Read the full article
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“Il tempo non disperde” di Alfonsina Caterino: una cosmologia del dolore
Il giorno 23 maggio c.m. sarà presentato il volume Il tempo non disperde di Alfonsina Caterino (Edizioni Frequenze Poetiche, 2021, pp. 80), al “Movimento Aperto” di Ilia Tufano, via Duomo 290, Napoli. Sarò presente anch’io in qualità di moderatore e responsabile di Frequenze Poetiche. Con me ci saranno i relatori Marisa Papa Ruggiero e Stefano Taccone, nonché l’autrice che leggerà alcuni passi dal suo volume. È stato un enorme piacere quando mi sono occupato nel 2021, in piena pandemia, di questo volume di Alfonsina Caterino, Il tempo non disperde, in accordo con l’autrice, dall’impaginazione alla correzione delle bozze, all’editing insomma, fino alla pubblicazione sotto la sigla di “Frequenze Poetiche”, la rivista di poesia internazionale che dirigo e che di tanto in tanto pubblica qualche volume con l’aiuto della piattaforma Youcanprint, la quale ci fornisce l’ISBN e la distribuzione negli store on line e nelle librerie. Nel mentre lo impaginavo, pagina dopo pagina mi resi conto di avere davanti una poeta che è un fiume in piena, con una scrittura per accumulo di significanti che prosegue ininterrottamente, quasi senza pause, dalla prima all’ultima pagina, con una parola – ci dice l’autrice nella Nota - «che nominando crea, muove, infiamma i silenzi, detona il costituito, con boati e schianti insorge energie insospettabili» (p. 9). Non ci troviamo di fronte a poesie singole (come ci si potrebbe attendere) ma di fronte a un poema di circa ottanta pagine, scritto con fervore e lucidità, nonostante l’argomento primario del volume si alterni tra sofferenze e ricordi, alla fine è l’amore per la vita e per la poesia ad essere sublimata fino a diventare fede per qualcosa di misterioso, quella poesia alta che dovremmo trovare in tutte le nostre azioni: Il dolore non dorme mai ustionato irrompe memoria la realtà dei papiri e allega ai distanziamenti che investiti da sassaiole ingorde spezzano gli affari raggruppano capacità e prospettive sulle pieghe alte degli alloggi … … Nell’impronta si raccoglie chiaro gelido abbacinato di specchi un principio verticale i cui punti rantolano pulsione un seme mai giunto a fioritura che urla arsura l’ebbrezza del risveglio fuori dall’esilio (p. 14) Possiamo affermare che la poesia di Alfonsina Caterino è solo la sua, nel senso che appare scevra da ogni condizionamento, movimenti, correnti che ormai appartengono al passato. E potrebbe incanalarsi nel solco del nichilismo alla Mario Luzi o alla Pier Paolo Pasolini, ma qui non ci troviamo di fronte alla nullità di una realtà nei suoi aspetti essenziali (valori etici, religiosi, morali), anche se traspare una metafisica del dolore che si eleva a nobile sentimento, giustapposto alla ricerca del divino, non in senso ideologico o tradizionale, ma in senso pratico, nella realtà che ci circonda, corredata da una inquietudine che dovrebbe essere il sale per un poeta, quella inquietudine che porta fuori il meglio di sé. Anche se spesso ci si imbatte in parole dal valore simbolico, quasi una polisemia, cioè una varietà di significati, è questo un libro sull’amore, l’amore universale o semplicemente sulla perdita, non già dell’amore stesso, ma di un qualcosa di caro e prezioso, per es. di un genitore, di un amico o di un figlio andato via un giorno e mai più fatto ritorno tra le braccia di una madre dal cuore lacerato e sanguinante: un dolore cosmico che in Alfonsina Caterino diventa “cosmologia del dolore”, una ricerca del meraviglioso attraverso la scoperta quotidiana della poesia, della propria scrittura: il tempo viaggia scolpisce trappole irride fili sbalza trapezi; furtivo strappa brughiere assottiglia gocce e pulsazioni al peso di essere – Scorci come suoni, ho sbrinato alla carne messeinscena sui dirupi il cuore ho affamato nella gabbia dei leoni riversato la smania raccolta nei rigagnoli scrollando le croste in corpo cieche che resistano la navigazione senza resa e finale (p. 30) «Sgrovigliando il vissuto Il tempo non disperde è, dunque, un testo che nasce dentro come la gestazione di un figlio» (ibid.). Ma è anche un libro di gioie e dolori (più dolori che gioie come, d’altronde, lo è la vita di ognuno di noi), di quei sentimenti di cui si nutre poi l’amore, ovvero di una poesia che diviene terapia contro il dolore, i mali del vivere, fino a divenire allegoria del dolore, di stratificazioni psico-drammatiche (ma anche gioiose, abbiamo detto, se non altro per la devozione alla poesia, alla propria scrittura, un po’ come avveniva nell’animo di Giacomo Leopardi, ma per nulla pessimistiche), per un approccio non convenzionale ma rispettoso della realtà e dei suoi valori, attraverso il ricorso a un linguaggio dell’inconscio, onirico, contraddittorio con l’esistente, per toccare le corde dell’anima, una centrifuga di parole che, proprio attraverso la scrittura, ribalta il dolore e la sofferenza in un atto d’amore verso la grandiosità della vita. Read the full article
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Sfortunatamente la vita è piena di dolori crescenti e lezioni dure, ma coloro che non hanno mai provato dolore o perdita potrebbero rimanere superficiali, ignoranti o immaturi. A volte ci vogliono dolore e difficoltà per farci vivere al massimo delle nostre potenzialità.
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Bloccato in una caricatura a colori,
Non so più cosa voglia dire esistere,
Mi chiedo se ciò che ho perso,
Valga più di ciò che ho ricavato
E se aver reso felici gli altri,
Renda felice anche me .
~H.J.I
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“Heritage by Фросина Тасевска ”: una poesia sull’eredità delle parole e sul silenzio che lascia il segno. Recensione di Alessandria today
L’intimo dialogo tra assenza e memoria
L’intimo dialogo tra assenza e memoria “Heritage” è una poesia che riflette sull’eredità delle parole, sulla loro capacità di perdurare anche quando chi le ha pronunciate non è più presente. L’autore esplora l’idea di lasciare un “patrimonio frammentato” a coloro che restano, come semi piantati in un terreno fertile in attesa di essere compresi e riscoperti. Attraverso metafore delicate e…
#analisi poesia Heritage#assenza e presenza#connessione emotiva#eredità familiare#eredità frammentata#Heritage poesia#interpretazione poetica#introspezione e ricordo.#Introspezione poetica#linguaggio del silenzio#linguaggio dell’anima#linguaggio non espresso#linguaggio poetico#memoria e assenza#metafore del silenzio#metafore poetiche#parole non dette#patrimonio poetico#perdita e memoria#poesia contemporanea#poesia e linguaggio#poesia simbolica#poesia sull’eredità#poesie sulla memoria#relazione tra parole e silenzio#riflessione filosofica#riflessione sul silenzio#riflessione sulla memoria#riscoperta delle parole#significato delle parole
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scegli un dio e pregalo, striscia a quattro zampe mentre le tue ginocchia perdono sangue e forza.
piangi la perdita: non si possono contare le stelle, ma potete contare sulla mia resurrezione.
la verità, cari lettori, è che lei non è speciale, o unica e non può guarirvi.
scriverà poesie, vedrà sempre 11.11 guardando l’orologio, ma il tempo non esiste e neanche lei.
conterà le stelle, una ad una, per divertimento.
vi bacerà quando è ubriaca, per divertimento.
si lascerà segnare i polsi dalla morsa stretta di una corda, per divertimento.
camminerà per una strada immaginaria fatta di cocci rotti e bugie che non avete saputo cogliere perché eravate troppo occupati a guardarla, mentre lei tracciava con il dito la forma del vostro volto per memorizzarla.
non si diverte, corre verso qualcosa, scappa da qualcosa. (da cosa sta scappando?)
si farà chiamare dio, ma vi chiederà di tagliarle le ali.
però le ali ricresceranno. e così anche le corna.
non conoscerò mai il Paradiso, perché Satana è l’unico dio che mi risponde.
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Sylvia Plath
https://www.unadonnalgiorno.it/sylvia-plath/
Sylvia Plath, autrice statunitense, la più importante rappresentante della ‘poesia confessionale’.
Una donna geniale e tormentata che ha sofferto per tutta la vita di una grave forma di depressione ricorrente tra periodi di intensa vitalità.
Nota soprattutto per le sue poesie, scrisse anche un romanzo autobiografico, La campana di vetro (The Bell Jar), vari racconti e un dramma teatrale. Tenne anche un diario nel corso della sua vita che venne pubblicato postumo, anche se alcune parti furono distrutte da suo marito, Ted Hughes.
La fama, arrivata dopo il suo suicidio, portò a un riconoscimento del valore letterario delle sue opere al punto che, nel 1982, venne insignita del Premio Pulitzer postumo per la sua intera produzione poetica.
Sylvia Plath nacque a Boston il 27 ottobre 1932. Sua madre, Aurelia Schober, era di origine austriaca, suo padre, Otto Emil Plath, entomologo di origine tedesca, morì poco prima che lei compisse 8 anni, nello stesso periodo ha pubblicato la sua prima poesia. La perdita del genitore lasciò il primo segno indelebile nella sua esistenza.
Nel 1950 iniziò a frequentare lo Smith College, rinomata università femminile del Massachusetts, nel 1953 passò un mese a New York per fare uno stage nella rivista Mademoiselle. In quel periodo ebbe la sua prima crisi depressiva, ricoverata e sottoposta alla terapia dell’elettroshock, fece il suo primo tentativo di suicidio.
La storia raccontata in La campana di vetro è ispirata a quel periodo, la protagonista Esther Greenwood, suo alter ego, vive un’esperienza molto simile alla sua.
Dopo un periodo di cura, la giovane e brillante studentessa tornò all’università e si laureò nel 1955. Nel 1956 vinse una borsa di studio per Cambridge dove incontrò il poeta britannico Ted Hughes, che sposò dopo pochi mesi e con cui ebbe una relazione malata, difficile e straziante. La coppia, inizialmente visse negli Stati Uniti, dove lei, per un periodo, insegnò nella sua vecchia università.
A Boston, partecipò a un seminario di scrittura creativa con Robert Lowell che ebbe una grande influenza sulla sua scrittura. Sua collega, amica e rivale era Anne Sexton, altra importante esponente della poesia confessionale, con cui condivise anche il tragico epilogo.
Alla fine del 1959, la coppia soggiornò a Yaddo, famosa colonia per artisti, periodo che segnò con grande intensità la sua produzione e la portò a scrivere molte delle poesie che verranno poi contenute nella sua prima raccolta, The Colossus.
Si trasferirono poi in Inghilterra dove nacque la loro primogenita, Frieda. Nel febbraio 1961 Sylvia Plath subì un aborto spontaneo a seguito di un episodio di violenza fisica da parte di suo marito. Questo drammatico evento compare in varie poesie e in lettere scritte alla sua terapista.
Nell’estate dello stesso anno terminò il suo primo e unico romanzo, La campana di vetro che incontrò vari rifiuti di pubblicazione negli Stati Uniti.
Successivamente, subaffittarono il loro appartamento di Londra a una coppia con cui diventarono amici, David e Assia Wevill, e si stabilirono nelle campagne del Devon. Lì Sylvia Plath provò a portare avanti l’illusione di poter avere una vita perfetta come aveva sempre sognato.
Nel 1962 nacque il loro secondo figlio Nicholas ma, subito dopo, il matrimonio si incrinò definitivamente. Suo marito la tradiva continuamente, aveva una relazione con la loro inquilina che era rimasta incinta di lui. Umiliata e delusa, lo cacciò di casa. Si separarono alla fine di quell’estate.
Seguì un trasferimento a Londra con i figli, periodo fecondo di sue poesie, in cui ebbe grandi difficoltà economiche. Fu un inverno particolarmente rigido, in cui dovette prendersi cura da sola di due bambini piccoli e spesso malati.
Nel gennaio del 1963 La campana di vetro, editato in Gran Bretagna, con lo pseudonimo Victoria Lucas, venne praticamente ignorato dalla critica. Negli Stati Uniti fu pubblicato soltanto nel 1971.
In mezzo a questi problemi, Sylvia Plath ebbe nuovi episodi di forte depressione, l’11 febbraio 1963, dopo soltanto un mese dalla pubblicazione del suo libro, si tolse la vita.
Verso le 4.30 di mattina, sigillò porta e finestre della cucina e mise la testa nel forno a gas, non prima di aver preparato pane, burro e due tazze di latte e aver spalancato la finestra della camera dei suoi bambini. Aveva l’ossessione di essere perfetta, in ogni cosa che faceva, dalla casalinga alla scrittrice, non si sentiva mai abbastanza somigliante all’idea che aveva di se stessa. E progettò anche il suicidio perfetto. Forse non intendeva davvero morire, altre volte aveva tentato di ammazzarsi, ma quella tragica volta, a soli 31 anni, fu quella definitiva.
Aveva iniziato a lavorare a un nuovo romanzo, con il titolo provvisorio di Double Exposure, ritrovato dopo la sua morte, e di cui si ritiene che il marito ne abbia distrutto alcune parti. Ancora una volta un testo autobiografico, con tante similitudini tra i comportamenti libertini e egoisti di suo marito con quello della protagonista del libro.
La sua seconda raccolta di poesie, Ariel, venne pubblicata postuma e alterata da Hughes, nel 1965. Nel 2004 la figlia Frieda diede alle stampe una versione restaurata, Ariel: The Restored Edition, col manoscritto originale.
Cinquanta anni dopo la tragica morte di Sylvia Plath, sono emerse alcune lettere inedite indirizzate alla sua psicanalista che narrano di aggressioni, abusi e minacce di morte da parte del marito.
Sylvia Plath è stata la poeta più importante della sua generazione, e per ironia del fato, lei, che aveva l’ossessione della precisione, questa gloria non l’ha mai vissuta. Tante le sue biografie che si sono succedute nel corso degli anni, osannata dalla critica che l’aveva snobbata in vita, non è sopravvissuta alla consacrazione della sua arte.
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Arturo Schwarz, viene voglia di cominciare il racconto della sua vita con l'incipit di Cent' anni di solitudine di Gabriel García Márquez: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato...». Cosa pensava lei, in quella primavera del 1949, prima di salire sul patibolo in Egitto?
«Patibolo, esatto. Non mi aspettava un plotone, ma il nodo scorsoio: mi avevano condannato all' impiccagione lasciandomi tutto il tempo per riflettere sugli anni vissuti fino ad allora, 25, pochi ma intensi. Da tempo sapevo in cosa credevo e cosa volevo dalla vita. Come disse lo scultore Constantin Brancusi: "Tutte le mie opere sono databili dall'età di quindici anni". Per me, forse, da prima ancora».
Riavvolgiamo il nastro: com'era finito un italiano, quasi settant' anni fa, in una galera egiziana con la pena capitale pendente sulla testa? E com' è che oggi, a 94 anni, è qui, di fronte a noi, nella sua casa di Milano, zeppa di capolavori e libri, con una moglie giovane e bella, Linda, a raccontarcelo?
«Sono nato ad Alessandria d'Egitto da padre tedesco di Düsseldorf e da madre milanese, Margherita Vitta, figlia di un colonnello dell' esercito italiano. Entrambi ebrei. Si conobbero lì e si sposarono. Avevo la doppia cittadinanza ma nel 1933, con l'ascesa di Hitler al potere, rinunciammo a quella tedesca e mio padre, separatosi da mia madre e trasferitosi al Cairo, mi vietò di rivolgermi a lui nella sua lingua madre.
Non feci fatica: mi sentivo italiano, studiavo in scuole prima inglesi e poi francesi, e avevo una naturale repulsione per la Germania. Mio padre era influente in Egitto: aveva inventato la formula per disidratare le uova e le cipolle, dando un grande impulso alle esportazioni di un Paese esclusivamente agricolo.
Nel '38, a 14 anni, ero già trotskista. Con un paio di amici copti e uno musulmano, io, ateo, fondai la sezione egiziana della Quarta internazionale, voluta da Lev Trotskij da poco riparato in Messico. Aspetti, le mostro una reliquia che ha segnato tutta la mia lunga esistenza...».
(Si alza, stacca dalla parete un quadretto e me lo mostra) Ma questo è il biglietto da visita di Trotskij. Lo ha incontrato?
«Me lo fece avere dal poeta Benjamin Péret. Doveva essere il lasciapassare per il mio viaggio in Messico. Due mesi prima della partenza, però, i sicari di Stalin lo assassinarono e io decisi di dedicare la mia esistenza ad affermare le sue idee. Nel frattempo era scoppiata la Seconda guerra mondiale ed entrai, come volontario, nella Croce Rossa. Ero ad El Alamein a caricare i feriti sulle ambulanze, italiani o inglesi che fossero, e mi presi qualche scheggia nel polpaccio.
Di notte scrivevo poesie, come ho fatto per tutta la vita. Mandai le prime ad André Breton. Avevo letto il Manifesto del surrealismo ed avevo chiesto all' ambasciata di Francia al Cairo chi fosse questo Breton. Dissero che faceva lo speaker di Radio France Libre a New York. La risposta mi giunse sei mesi dopo, sfidando l'Atlantico infestato dagli U-Boot nazisti. Cominciò allora a trattarmi come fosse un padre. Mi incoraggiava, mi coccolava quasi. Finita la guerra mi iscrissi a medicina ma non dimenticai Trotskij».
Fu per causa sua che venne arrestato?
«Sì, aprii una libreria e cominciai a pubblicare i suoi libri in Egitto. All'alba di una mattina del gennaio 1947, la polizia irruppe in casa mia. Ero accusato di sovversione. Regnava Re Farouk. Da giovane sembrava potesse diventare un governante illuminato ma si rivelò un despota crudele.
Aveva abbandonato persino le buone maniere, a tavola mangiava come un animale, per dimostrare che a lui tutto era concesso. Mi trascinarono nella prigione di Hadra e mi rinchiusero nei sotterranei, in una cella piccola, senz' aria, solo con topi e scarafaggi. Dopo qualche settimana cominciarono le torture, mi strapparono le unghie dei piedi, causandomi la cancrena e la perdita di un dito, ma non parlai. Non era comunque necessario, perché l' amico musulmano spifferò tutto, raccontò della cellula trotskista, della nostra visione del mondo, dei contatti internazionali.
Mi trasferirono al campo di internamento di Abukir, dove venni a sapere della condanna a morte. Non la eseguirono subito perché servivo loro come ostaggio. Era scoppiata la guerra arabo-israeliana, e io ero ebreo. Dopo due anni di prigionia, l' impiccagione venne fissata per il 15 maggio, ma poche settimane prima Egitto e Israele firmarono l'armistizio. Negli accordi era prevista la liberazione dei prigionieri ebrei detenuti in Egitto.
Una mattina mi rasarono, lasciandomi credere che di lì a poco sarei salito sul patibolo. Invece mi accompagnarono al porto e mi imbarcarono su una nave diretta a Genova con il foglio di via e stampato, su tutte le pagine del passaporto, "Pericoloso sovversivo - espulso dall' Egitto". Così com' ero, senza poter rivedere i miei genitori, né procurarmi un ricambio d' abito».
Come le apparve l'Italia, quando sbarcò a Genova?
«Il paradiso terrestre. Raggiunsi Milano e trovai lavoro da un ebreo, Marcus, che aveva un ufficio d' import-export dietro al Duomo. Allora nessuno conosceva bene l'inglese e il francese. Appena possibile, una notte presi il treno per Parigi. Alle sei del mattino salii su un taxi, lasciai la valigia in un albergo di quart' ordine, e bussai alla porta di 42 rue Fontaine, a Montmartre. Aprì Breton, lo vedevo per la prima volta, ma mi abbracciò come fossi un vecchio amico.
L'appartamento era piccolo, il letto in un angolo e ogni spazio occupato da oggetti e opere d' arte. Sul muro, in fondo, occhieggiava una raccolta di bambole Hopi. Nello studio, straordinarie sculture africane e, sotto la finestra, La boule suspendue di Alberto Giacometti. Alle pareti, Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Max Ernst, Man Ray, Dalí... Salvador Dalí non mi è mai piaciuto, non era dei nostri, era Dalí e basta. Come, da trotskista, non ho mai accettato l' approccio commerciale di Pablo Picasso».
Quando decise di tornare a fare il libraio, l'editore e poi il gallerista?
«Un fratello di mia mamma, direttore di una filiale della Comit, mi fece avere un piccolo fido. Pubblicavo libri difficilmente commerciabili, giovani poeti e saggistica: Breton, Einstein e, soprattutto, Trotskij. Mandai in stampa La Rivoluzione tradita con una fascetta gialla: "Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia". Sa cosa accadde? Me lo confidò, tempo dopo, Raffaele Mattioli, amministratore della Comit e uomo di grande cultura.
Lo chiamò personalmente Palmiro Togliatti, chiedendogli di togliere il fido "alla iena trotsko-fascista di Schwarz". Così finì la mia prima esperienza di editore: per rientrare dovetti vendere tutto il magazzino a meno del 10% del prezzo di copertina e anche la libreria rischiò di chiudere. Per sopravvivere, cominciai a organizzare mostre di incisioni, acqueforti e libri illustrati dagli artisti.
Mi aiutarono molto Carlo Bo, Raffaele Carrieri, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e molti altri amici. Non potendomi permettere l' arte contemporanea che andava per la maggiore (e nemmeno m' interessava), decisi di sfidare la legge capitalistica della domanda e dell' offerta: recuperai il Dadaismo e il Surrealismo che nessuno voleva. Feci uscire dalle soffitte le opere di Marcel Duchamp, che da tempo si era ritirato e non era più interessato ad esprimersi artisticamente. Con lui il rapporto fu meraviglioso: presi lezioni di scacchi dal maestro Guido Capello per un anno intero per poter giocare contro di lui. Rimase imbattibile, ma qualche soddisfazione riuscii a togliermela».
Poi, una mattina del 1974, senza avvisare nessuno, chiuse la sua galleria, ormai divenuta mitica, per dedicarsi agli studi di arte, di alchimia, di kabbalah. Cominciò a collocare (spesso donandole), in giro per il mondo, le sue collezioni. Sentiva il bisogno di prendere le distanze dal passato?
«No. E poi non le chiami collezioni, è una parola che non mi piace. Sentivo il bisogno di trasmettere un patrimonio senza smembrarlo. Resto trotskista e surrealista, ho venduto opere d' arte, ma ne ho anche donate moltissime, chiedendo in cambio che fossero trattate in maniera scientifica: catalogate, documentate, fatte sopravvivere, insomma. Del denaro non ho mai fatto una necessità, ho sempre cercato di sfuggire alla logica del suo dominio. Tutto questo ha a che fare anche con gli studi alchemici e cabalistici. Mica andavo cercando l' oro materiale, cercavo quello spirituale».
L' Italia, come ha detto lei, è stata il suo «paradiso terrestre», però molte delle sue opere sono finite in musei all' estero. Come mai?
«Un migliaio sono in quattro grandi musei internazionali, però un consistente nucleo di opere surrealiste e dada sono alla Galleria d' Arte Moderna di Roma. Non ha idea di quanto sia stato difficile. La burocrazia italiana è un nemico spietato: devi giustificarti per il tuo atto di liberalità, vissuto quasi con sospetto, mentre lo Stato non fornisce garanzie di corretta gestione. Mi sono anche visto rifiutare la donazione dei testi dada e surrealisti. Qualcuno pare li abbia definiti "robaccia pornografica". Li ho così regalati a Israele»
Per cosa combatte ora il trotskista Arturo Schwarz?
«Per l' amore di Linda. Così come ho amato la mia prima moglie, Vera, strappatami vent' anni fa da un tumore. E per un soffio d' aria fresca e pulita, un bisogno lasciatomi da quei mesi passati nei sotterranei di una prigione egiziana»
[Pier Luigi Vercesi]
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Helle - Il nuovo singolo è “Visto e passa”
Una liberazione, una perdita, la consapevolezza di se
“Visto e passa” è il terzo singolo estratto da “La Liberazione”, il secondo disco della cantautrice e producer bolognese Helle. In questo concept album Helle si fa narratrice, attraverso un folk essenziale ed un linguaggio diretto, del ritorno all’istinto e alla libertà primordiale; una storia in cui amore, natura e debolezze umane si incontrano e si separano. Una decisa virata sonora e stilistica rispetto al pluripremiato disco d’esordio “Disonore”, ma capace di coniugare nuovamente in maniera moderna e urban il songwriting, senza tralasciare del tutto la vena poetica di “Carovane”, la raccolta di poesie appena pubblicata dalla stessa cantautrice. «Questa è la prima delle canzoni riflessive. Combattuta col dolore della perdita, la protagonista diventa pronta a fare i conti con la propria natura romantica». Helle
PRESS - DICONO DE LA LIBERAZIONE Lisa Brunetti, in arte Helle, nasce a Bologna nel giugno 1994. Comincia a scrivere poesie ad 11 anni, a suonare la chitarra dall’adolescenza. Ha lavorato per quattro anni in Fonoprint, dove ha avuto l’opportunità di conoscere e collaborare con Bruno Mariani. Negli stessi anni ha suonato con Ricky Portera. Nel 2016 partecipa ad Area Sanremo arrivando fra i 70 finalisti del concorso. Dopo la pubblicazione di vari singoli in inglese e in italiano, arriva per Helle il momento di intraprendere una nuova fase della sua carriera artistica. Nel 2020 escono in radio i singoli “Tra le strade della mia città” e “Al Pacino”. Seguono questa uscita i brani “Carovane” e “Rispetto”. Il 25 giugno 2021 pubblica l’album “Disonore”, prodotto, suonato e arrangiato dalla stessa Helle. Un disco electro pop che caratterizza il nuovo corso artistico e professionale della cantautrice e producers, che ha vinto il Premio speciale assegnato dal MEI «Per aver affrontato con sonorità spiccatamente elettro-indie e liriche dal forte peso sociale, il tema della Libertà attraverso l’analisi delle sfumature dell’animo umano, soprattutto quello femminile». Successivamente pubblica “2, 107”, brano con il quale vince il Premio Lunezia New Mood «Per aver offerto nel brano 2, 107 una visione delicata e cruda con tappeti sonori moderni e sperimentali sulla morale delle donne». Ha vinto, al Salone Internazionale del Libro di Torino il Premio della critica all’interno della rassegna del Premio InediTo 2022 per la sezione “Testo canzone” ed è stata finalista del Premio Bindi 2022. “Tu mi volevi bene”, “Chimere” e "Tom" sono gli ultimi singoli estratti dal disco d'esordio. Il 13 gennaio 2023, da alle stampe in versione cartacea ed ebook, il libro di poesie "Carovane" (ZONA Contemporanea), in contemporanea con l'uscita del singolo “Oggi è già ieri, il domani è eterno” realizzato e prodotto dalla stessa autrice. Le poesie di Helle - fuori dal disincanto, ma mai con distacco - poggiano sulla forza della parola e su immagini che si prestano alla metafora e all'allegoria, rivelando una scrittura consapevole, complessa come la realtà che descrive. A febbraio è partito da Bologna il Carovane Tour che l'ha vista impegnata in oltre 30 date tra prestigiosi club e festival. Il 5 maggio esce "La liberazione", il suo nuovo concept-album presentato nella sede del Club Tenco e ispirato alla storia di un amore perduto. Viene estratto il primo singolo "Simone", e intanto si fa strada fino alle finali di "Musicultura", "Premio Artista che non c'era", "Premio Lauzi" dove vince il Premio miglior testo, "Premio Botteghe d'autore" e si appresta ad affrontare le finali di "Onda Rosa indipendente" e "Premio De Andrè".
L’autunno 2023 si apre con il secondo singolo estratto dal titolo “Baby!” e si chiude il 24 novembre con l’uscita in radio del terzo estratto dal titolo “Visto e passa”.
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