#poesia sull’eredità
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“Heritage by Фросина Тасевска ”: una poesia sull’eredità delle parole e sul silenzio che lascia il segno. Recensione di Alessandria today
L’intimo dialogo tra assenza e memoria
L’intimo dialogo tra assenza e memoria “Heritage” è una poesia che riflette sull’eredità delle parole, sulla loro capacità di perdurare anche quando chi le ha pronunciate non è più presente. L’autore esplora l’idea di lasciare un “patrimonio frammentato” a coloro che restano, come semi piantati in un terreno fertile in attesa di essere compresi e riscoperti. Attraverso metafore delicate e…
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L’eredità del nostro tempo
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino – così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico – l’eredità – che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto – Yan Thomas – mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
31 luglio 2023
Giorgio Agamben
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È morto Stephen, il nipote di Joyce, l’ultimo erede: a lui il divo James dedicò una poesia meravigliosa e diverse favole. Per gli studiosi era una specie di Darth Vader…
Non era un tipo semplice, per alcuni era semplicemente un rompicoglioni – per questo, avrei voluto intervistarlo. Era nato 50 anni dopo il nonno, quasi lo stesso giorno – JJ il 2 febbraio, lui il 15 – per questo Giorgio, il papà, lo aveva confortato con quel nome, raddoppiato, Stephen James Joyce. Chiamava nonno il nonno, in italiano: una delle più belle fotografie di JJ lo ritrae con la faccia seria, i capelli pettinati all’indietro, un poco sporchi, giacca&cravatta, che fissa il nipote, Stephen; lo sorregge con mani che sembrano ali, mentre il piccolo, è il 1934, allunga le dita, cerca di toccargli le lenti tonde degli occhiali. La scena pare un simbolo: il nipote vuole estrarre gli occhi, animati da cecità, del nonno.
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James Joyce e Stephen, figlio di Giorgio
Nel 1932 Joyce pendola tra Parigi e Zurigo, la figlia Lucia, schizoide, è in cura da Jung, e lui sta lavorando, con incessante dedizione, a Finnegans Wake. Sono passati dieci anni dalla pubblicazione dell’Ulisse. La nascita di Stephen emoziona Joyce: sembra sconfiggere il lutto, patito qualche mese prima, la morte del padre, John Stanislaus Joyce, alla fine dell’anno. Per onorare l’evento, Joyce, che nasce poeta, torna alla poesia, scrivendo una specie di salmo laico, Ecce Puer:
Dall’oscurità del passato Un figlio è nato. Con gioia e dolore È straziato il mio cuore.
Quiete nella sua culla Le menzogne incarnate. Possa l’amore e la pietà Schiuderti gli occhi!
La giovane vita si respira Sul vetro; Il mondo che non era Ora viene alla luce.
Un bambino dorme: Un vecchio muore. O, padre abbandonato, Perdona tuo figlio!
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Rivolgersi al nipote per parlare con il padre: la morte di Stephen Joyce, l’ultimo erede diretto di JJ – sposato con Solange, non ha avuto (o non ha voluto avere) figli – ci costringe al ragionamento sul resto, sull’eredità, sulla genealogia. Cosa si trapianta, biologicamente, di JJ in Stephen? Che compito configge una generazione di padri&nonni&figli? D.T. Max, che ha realizzato una sinuosa intervista a Stephen Joyce, per il “New Yorker”, era il 2006, s’intitola The Injustice Collector – D.T. Max è l’autore della biografia di David Foster Wallace, tradotta in Italia da Einaudi – lo descrive così. “Bell’uomo, barba grigia, fronte volitiva, occhi di un blu intenso: ha l’aspetto di Joyce, se Joyce non si fosse fumato e bevuto la vita, se non fosse morto, nel 1941, a 58 anni. Cammina come il nonno, Stephen. Alle rare conferenze accademiche cui accetta di partecipare è pugnace, cinico. ‘Sono un Joyce, non uno dei troppi joyceiani, e c’è più che una sfumatura in questo’, dice. E vuole essere chiamato per esteso. Non Stephen Joyce, ma Stephen James Joyce”.
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Dell’eredità, Stephen Joyce ha fatto il proprio decalogo, come se JJ, il nonno, fosse una specie di arca dell’alleanza, di testo sacro. Per dirla diversamente, era un rompicoglioni. Studi eccellenti – ad Harvard, compagno di stanza di Paul Matisse, nipote di Henri –, lavoro poco impegnativo presso l’OECD (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo in Africa), Stephen s’impegna a proteggere la privacy della famiglia Joyce e blinda i documenti del nonno. Le sue lotte sono epiche: fa ritirare o emendare testi accademici sul nonno, impedisce la pubblicazione di diversi documenti autografi, nel 1988 ha annunciato di aver distrutto alcune lettere di Lucia Joyce, la zia pazza. Nel 2004 minaccia il governo irlandese che aveva proposto una lettura pubblica dell’Ulisse durante il ‘Bloomsday’; nel 2013, quando la Central Bank of Ireland conia una moneta commemorativa per onorare Joyce, esplode: “è uno dei più grandi insulti perpetrati dal quel paese contro la mia famiglia, hanno sempre trattato mio nonno come un pezzente”. Dal primo gennaio 2012, quando le opere di JJ sono uscite dai diritti, cioè dalla gogna di Stephen, gli studiosi esultano, “Joyce è finalmente libero dal suo Darth Vader”. Stephen intese l’eredità come una minaccia. Voleva restaurare l’identità marmorea del nonno, la sua vita spesa e vilipesa in esilio. “Gli accademici non servono a nulla, sono dei parassiti, vogliono solo fare affari sui fatti privati di mio nonno”, diceva. Era convinto che “ciascuno può leggere Joyce così com’è, senza apparati”.
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D’altronde, il suo nome, Stephen, ha in sé il mostro e il labirinto, è estratto da Stephen Dedalus, la creatura speculare di Joyce. Forse Stephen, per tutta la vita, si è sentito un personaggio evocato da Joyce, sorto dalla sua labirintica immaginazione.
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I genitori di Stephen si separarono che lui aveva sei anni – fino alla morte di JJ visse a Zurigo in stretta intimità con il nonno. Joyce gli raccontava delle favole, inventate lì per lì, gli comprava i giochi, lo portava a passeggiare. Come sempre, eredità è difendere la propria infanzia, tutelare il mito da chi lo indaga a colpi di bisturi, sfregiandone lo sguardo. Viveva a Isola di Ré, nell’Atlantico, in Francia, di fronte a La Rochelle, Stephen. “Se pensa a qualcuno in grado di lottare all’infinito per quello in cui crede, beh, eccomi”, diceva. È morto in gennaio, come il nonno. (d.b.)
*In copertina: James Joyce e il nipote, Stephen, nel 1934
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Eco due anni dopo, ovvero: l’eco inconsistente del nulla. Quando ‘Umbertone’ si scagliava contro il sistema scolastico e paragonava Fellini a Proust
Come una specie di venerabile taumaturgo della cultura. Tra San Tommaso l’Aquinate e Topolino, quello di Disney. Le memorie intorno a Umberto Eco sono tante, una specie di ecolalia intellettuale. Io ne porto in dote due. La prima è di Mario Guaraldi, l’editore. Siamo nel 1983, Guaraldi ha creato l’evento per la presentazione ‘mondiale’ di E la nave va… di Federico Fellini. “Rivivo la serata al Grand Hotel, nel settembre 1983, quando seduto al tavolo assieme a Umberto Eco, dopo qualche secondo di finto black-out, apparve il Rex in tutta la sua gigantesca magnificenza, sulle note di Nino Rota. Avevamo lavorato ininterrottamente tre giorni per l’‘effetto speciale’ Rex , oscurando le finestre del Grand Hotel e montando il gran pavese fra due pennoni, sulla terrazza dell’albergo…”. Intorno a quella giornata uscì un libro davvero mitico, edito da La Casa Usher, Fellini della memoria, dove Umberto Eco si lancia in un pezzo di astrologica mirabilia – l’arte mirabile dello svaccar qua e là – dal titolo Theut, Fellini e il Faraone, dove mette insieme, poligamia bibliografica, il mito di Theut narrato da Platone, Marcel Proust e Federico Fellini. Guaraldi, in effetti, è uno degli editori più misconosciuti di Eco: nel 1972, con l’intro di Umbertone, pubblicò come I pampini bugiardi una interessantissima – non è un presa per il culo – “indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari”, che meriterebbe degno recupero. Eco, che all’epoca non era ancora ‘ah, certo, Eco’, cioè lo scrittore del Nome della rosa, opera una critica salutare – e attuale – del sistema scolastico vigente, analizzando i libri propinati ai nostri baby. Esito: “Si deve ritenere che, per accontentare la maggioranza media, per non suscitare dissensi, per non urtare suscettibilità, per piacere a tutti, si cerchi di mantenere il testo al livello dell’ovvietà, del qualunquismo, della acriticità, della idiozia rispettabile”. E parla, Eco, espressamente, di “squallida, nequizia giorno per giorno perpetrata alle spalle dei nostri bambini”. Il secondo aneddoto lo ricorda, tra i tanti, l’esimio semiologo Paolo Fabbri, collega di Eco e ‘comparsa’ nel Nome della rosa (“sotto lo mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus”). Nel 1983, a Rimini, con Fellini, Umberto Eco è già ‘ah, già, Eco, lo scrittore del Nome della rosa”. Dopo i convenevoli intellettualistici, Eco s’involava sui colli riminesi, al ‘Paradiso’, storico locale notturno gestito da Gianni Fabbri, fratello dell’esimio semiologo Fabbri. Dai balconi del ‘Paradiso’, ammirando la Rimini tumefatta di luci, di notte, Eco sussurra, ‘pare Los Angeles…’. Infine, sappiamo che alla fine Eco ha piazzato dimora a Monte Cerignone, borgo medioevale nella provincia di Pesaro-Urbino, dove coltivò parte della sua biblioteca – all’incirca 20mila volumi; l’altra stava a Milano – inseguendo, forse, nella noia marchigiana, l’ombra di Guglielmo da Baskerville. Il succo della storia ve la dico così. Oggi, 19 febbraio, sono dieci anni dacché Fidel Castro annuncia il ritiro dalla vita politica attiva e due anni da quando è morto Eco. Di Castro restano le T-shirt del ‘Che’. E di Eco? L’eco inconsistente del nulla. Esempio. Classe quarta di un liceo classico riminese. Ragazzi maggiorenni o quasi. La prof vuole leggere Il nome della rosa. Domanda fatale. ‘Sapete chi è Eco, vero?’. L’eco del nulla e delle nullità. Uno alza timidamente la manina. Prego. ‘Uno che è vissuto negli anni Trenta, un regista…’. Più o meno. Un altro ha sentito nominare Il nome della rosa. ‘Non è un film in bianco e nero?’. Ovvio. La giovinezza furibonda fa sembrare un fatto dell’altro ieri geologicamente millenario. Ma ci sono due fatti pazzeschi. Liceo classico. Ragazzi maggiorenni. Mentre l’intelligenza nostrana riempie le pagine dei quotidiani ragionando masturbatoriamente sull’eredità di Eco, i ragazzi di un liceo classico di Rimini – mica Corleone – non sanno chi sia Eco. Presumo che anche degli altri Umberto nazionali (da Saba a Tozzi passando per Bossi) sappiano nulla. Ora. Umberto Eco è stato il guru della cultura nazionale degli ultimi quarant’anni almeno. Uno degli autori italiani più letti nel resto del mondo. Un liceale di diciotto anni non sa chi è. Morto da due anni, pare scomparso da due secoli. Annientato. Tesi: i liceali – figuriamoci gli altri – non leggono. Non leggono gli autori viventi. Tra dieci anni i liceali di oggi, magari, sapranno tutto di Eschilo o di un ignoto chiosatore del Quattrocento – così vanno i ghiribizzi dell’accademia – ignorando del tutto le sorti della letteratura italiana di ieri e di oggi, quella vivente, che balza sulla scrivania come un pesce appena pescato. Eco è l’eco dell’inconsistenza culturale di oggi. Colpa di chi? Editori che pubblicano stronzate, scrittori incapaci a scrivere il capolavoro, insegnati mediocri, scuole preistoriche, politica miope, italiani che se vedono un libro girano gli occhi altrove, manco fosse un assassinio? Colpa di tutti. Bisognerebbe creare una università dedicata alle leccornie letterarie italiane, alla poesia e al buon senso bibliografico. Onore e gloria a Eco. I posteri hanno già espresso l’ardua sentenza. (d.b.)
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Per gentile concessione pubblichiamo il testo di Umberto Eco, “Theut, Fellini e il Faraone”, pubblicato in origine in “Fellini della memoria”, a cura di Ester de Miro e Mario Guaraldi, La Casa Usher, 1983.
Immaginiamo che le celebrazioni siano a Parigi, e si festeggi Proust (quando si prendono degli esempi, debbono essere o di infimo o di altissimo livello, altrimenti non vale la pena). Mi chiedo se farei il seguente ragionamento, per celebrare un autore che della memoria sapeva e diceva molte cose. Mi chiedo dunque se non tornerei, a costo di non apparir originale, a quel dibattito antico di cui dà notizia (leggendaria) Platone nel Fedro, quando il Faraone discute col dio Theut (che poi era Mercurio), il quale aveva inventato la scrittura, e gliela proponeva come un utile artificio per conservare la memoria delle cose. E il Faraone a dirgli che aveva inventato qualcosa di terribile, perché da quel momento in avanti, dispensati dal bisogno di ricordare (affidato agli scritti), gli uomini avrebbero perduto l’arte preziosa del ricordo, e l’esercizio, e il culto, del loro universo di privati regesti ed affetti…
L’obiezione al Faraone, parlando di Proust, è facile: ecco un bell’esempio, o figlio di Iside ed Osiride, di come l’arte della scrittura non solo non deprima, ma anzi potenzi ed esalti il nostro gusto del ricordo. Ma, parlando di Proust, rivolgeremmo ancora questa obiezione al Faraone? Credo di no, perché si tratta di questione superata, e già vi si poteva rispondere allegando Saffo o Catullo. Mi chiedo se argomenti analoghi non dovrebbero essere ripresi oggi, che so, per altre invenzioni di altri Ermeti, come per esempio il computer: per dire che, lui calcolando, non ci esimerà affatto dall’apprendere l’arte del calcolare, ma anzi ci renderà più attenti e sensibili ai calcoli più sublimi, e se dimenticheremo le tabelline diverremo però esperti in integrali. Cosa c’entra tutto questo con una celebrazione di Federico Fellini presentato (a giusto titolo) come Fellini della memoria (dove il titolo è giusto ma ambiguo, perché non si sa se celebri il Fellini che ricorda o il Fellini che viene ricordato) ? È che Fellini è uomo di cinema: e riguardo al cinema, ancora giovane quasi quanto la scrittura ai tempi del Faraone, ancora si dice, talora, che – pur essendo indubitabilmente Arte – è tra le arti la più legata ai vincoli della realtà esterna perché, bene lo si sa, per quanto l’autore inventi, deve pur sempre riprendere dalla realtà quello che la realtà offre, persone, paesaggi, colori e suoni. E se la realtà non è lì, il cinema, prima di raccontarla, deve pur sempre ricrearla ovvero ‘metterla in scena’. E se anche i paesaggi sono di cartapesta e i personaggi di alluminio (come accade ai robot di Guerre stellari), si tratta sempre di produrre qualcosa di pre-filmico, appartenente all’ordine del materiale, del fisico, del tridimensionale, prima di registrarlo (e sia pure, di deformarlo) nella ripresa e nel montaggio.
Non sto suggerendo che questi siano dubbi da laico ingenuo, perché del cinema come ‘semiologia della realtà’ hanno parlato, e con gran convinzione, anche chierici tra i più illustri, e si pensi alla fede con cui Pasolini ha sostenuto sino alla fine queste tesi… Ecco, direi che Fellini è qui, con tutti i suoi film, dal primo all’ultimo, coi suoi migliori e con quelli che meno ci son piaciuti, quando si inventa e quando si ripete, a dirci che il film (ambiguamente ancorato alla realtà esterna) è un’arte della memoria, con la quale si può raccontare solo e sempre i propri ricordi, le proprie fantasie, le proprie ossessioni. Possiamo dire questo di molti altri registi, certo, ma Fellini è qui per dirci quasi esclusivamente questo. E come se egli fosse vissuto per redimere il cinema da ciò che gli è esterno, dal pre-filmico, o a dimostrarci che il pre-filmico, con tutto ciò che prende a prestito dalla realtà fisica, vive e viene inventato per praticare un’arte che è ricostruzione di mondi interiori, per privati che siano. Per cui è naturale, amarcord non può essere il titolo di uno dei suoi film, bensì il titolo del suo Opus Magnum. Trismegisto, dunque: tre volte grandissimo come Ermete-Theut, con la sua nave Fellini va sempre al di là di quello che il mondo esterno vorrebbe imporre al suo mondo interiore, e alla voracità della sua nostalgia.
Umberto Eco
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