#ora non è certo una situazione nuova mai sentita prima ed è per questo che fa incazzare
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i hate men 2 electric boogaloo
[potenziale molestia/atteggiamento molesto nei tag siete avvisatə]
#allora recap: ieri incrocio collega sconosciuto e per educazione mi presento#NON L’AVESSI MAI FATTO (poi no. è anche questo un meccanismo che ci porta ad auto incolparci per nessun motivo)#cinque minuti dopo passa in stanza da me e mi fa ‘domani avresti voglia di venire in stanza da me alle 13 per discutere il tuo lavoro?’#e io tipo ‘guarda a quell’ora io mangio ma se tanto siamo sempre tutti qui si fa presto a beccarci in giro e fare due parole o prendere#un caffè. e lui un po’ scocciato per il mio rilancio comunque fa ok ok#A QUANTO PARE OKAY UN CAZZO perche oggi visto che alle 12:59 non ero da lui è stato lui a materializzarsi davanti alla mia stanza#senza bussare si è messo lì tipo ologramma solo che abbiamo le porte trasparenti quindi vedi se c’è uno che fissa dentro e che cazzo#va beh vado ad aprire e lo faccio entrare così che ci fosse anche la mia compagna di stanza#e questo praticamente era venuto a chiedere conto del mancato ritrovo delle 13 quando comunque non c’era stata alcuna conferma#fermo restando che comunque potrebbero essere sopraggiunti anche i cazzi miei e in assenza di accordi non vengo certo a comunicartelo#beh insomma farfuglia qualcosa di poco comprensibile (ci parliamo in inglese ma il problema non è linguistico ma è che lui è molto ambiguo#e non si capisce cosa intenda veramente) e io la butto sempre sul conviviale. che comunque possiamo parlare anche qui e ora (visto che ero#nella mia stanza e non ero sola) e che alla peggio ci si becca in giro senza doversi dare un orario fisso#continuano le incomprensioni e quindi gli faccio ‘what did you have in mind scusa’ e lui ‘you’#MA PRONTO POLIZIA MA QUANTO DEVI AVERE LE SINAPSI BRUCIATE#la cosa che mi fa incazzare è che io non mi aspettavo affatto questa situazione e quindi non è che avessi la risposta pronta. ero solo#estremamente a disagio#va beh alla fine se ne è andato ma non prima di essere ripassato tre volte mentre eravamo in corridoio ad aspettare di uscire per pranzo#ora non è certo una situazione nuova mai sentita prima ed è per questo che fa incazzare#perché poi si attivano tutti quei meccanismi del cazzo#per cui tendi a sminuire perché dai non è possibile che sia successo#poi questo tizio ha un fare abbastanza ambiguo tale per cui se poi ti lamenti pari tu la pazza perche lui mica intendeva quello che hai#capito tu. ma poi veramente cosa ti fa sentire legittimato a comportarti così#hai buone intenzioni ma sei disagiato? non è un problema mio#io mi sento molestissima a invitare una ragazza per un caffè anche se ci sto gradualmente facendo conoscenza e peraltro in senso generico#che potrebbe portare anche ‘solo’ all’amicizia#e questo perché io sono stata abbastanza educata da presentarmi con un collega pensa di avere delle pretese MA QUANDO MAI#io basita veramente mi fa incazzare non solo lui ma anche la sensazione di impotenza e disarmo che si ha in questi casi#per fortuna poi c’erano le colleghe che si sono prese a cuore la situazione🥲
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L’importanza delle cose.
Poi spararono a Tentacolo Joe. Io e Vanni eravamo al bar e guardavamo in tv il comizio, bevendo boccali di birra scadente che ci ripromettevamo di cambiare ogni volta, ma alla quale tornavamo sempre per pigrizia. Sullo schermo, Tentacolo Joe aveva l’estremità alta completamente disintegrata, la forma austera e panata del suo capo appariva caotica e la voce fuoricampo era divenuta incomprensibile, mentre attorno a noi il susseguirsi di “Oh” e “Alza il volume” e “Cristo” ricordava l’inizio disordinato di un musical. La parte superiore di Tentacolo Joe ora somigliava a un mazzo di fiori che era stato stritolato da una mano rabbiosa. Il bianco del pesce, i pezzetti di pangrattato sul vestito. Qualcuno gli aveva sparato e la telecamera aveva tremato. Poi il cameraman aveva ristabilito un contatto cinico con la propria professionalità e noi potevamo dunque guardare meglio ciò che stava succedendo. Si dipanava la vicenda del bastoncino impanato, pensai. Sullo schermo erano apparse nell’ordine: gente e prodotti che urlavano, forze dell’ordine che intervenivano, una signora che diceva “Forse è arrivato il momento” (poi subito scomparsa), un piccolo bastoncino che, impaurito, cercava qualcuno. Poi tornarono in studio, mentre nel nostro pub le espressioni erano ora ordinate in un solo, enorme “Che cazzo!”. Guardai lungo il bancone e tutti i boccali erano appoggiati, e alcune mani li stringevano quasi per non lasciarsi andare, come se una forza sconosciuta dietro di loro fosse pronta a risucchiarli via. Poco più sopra, alcune bocche erano aperte. La maggior parte degli occhi spalancati. Stavamo assistendo a un qualche tipo di svolta storica? La forza che li stava assalendo era nuda e invisibile allo stesso tempo: agiva in maniera spudorata anche sugli avventori abituali che reputavamo più duri (e in quel bar qualche duro c’era) ma, appunto, senza farsi vedere. Era inconoscibile eppure la sentivamo. I nostri padri, in un altro tempo, l’avevano sentita. Di solito, a quei tempi, c’erano state di mezzo le armi, proprio come ora. O al massimo due aerei su due grattacieli.
Tentacolo Joe era detto così non perché fosse un grande bastoncino di pesce confezionato deforme (cosa che era, senza deformità), ma perché era riuscito in pochi anni, grazie a doti di PR fuori dal comune, a creare una rete di persone, circoli e volontari da un lato, e sostenitori del mondo politico dall’altra, che sostenevano la sua causa o che comunque non vi si opponevano. Il tutto era sembrato ai più acuti osservatori qualcosa di incredibile proprio per il carattere archetipico della cosa: Tentacolo Joe era il primo (o forse il più bravo) tra i prodotti a riuscire a tessere rapporti umani. Non solo: nell’immaginario culturale Tentacolo Joe aveva chiuso il cerchio che molta musica elettronica aveva aperto anni prima, con la de-umanizzazione del corpo, a partire dai Kraftwerk. Con Tentacolo Joe il corpo era diventato qualcosa di standardizzato - ora davvero - ma mantenendo l’umanità. Anzi no: l’anima. Per alcuni – come le redazioni di alcuni magazine online – questo carattere accentuava ancora di più l’umano di quel bastoncino di pesce, per contrasto. Ecco perché Tentacolo Joe era apparso su diverse copertine ed era per alcuni il personaggio dell’anno. Non solo: in lui, e nel suo essere una figura politica, risiedeva una terza dimensione di analisi, che era quella sociologica. Tentacolo Joe, prodotto dalla Frostfon nel 2017, confezionato nello stesso anno e ora sul palco a snocciolare un discorso, proprio per il suo essere rappresentante singolo di una collettività che però era anche tutta uguale in quanto frutto di processi produttivi ripetuti, rappresentava un leader nuovo. Un leader che coagulava in sé – pur essendo privo di sangue – una forte serie di paradossi: individuo politico che lottava affinché i prodotti avessero una loro dignità ma allo stesso tempo rappresentante di quella che negli incubi della sinistra era la perfetta società massificata: tutti uguali, tutti identici, stessi bisogni. Almeno in apparenza, perché se poi ti fossi addentrato nei mille rivoli del marketing avresti visto come i vari prodotti e sottomarche si distinguessero al loro interno, ma tant’è. A questo si univa il fatto che tutti i prodotti (non solo i bastoncini, e senza elencare: qualsiasi oggetto avesse una seppur minima concretezza oggettuale, in questo mandando in malora l’importanza del fattore astratto una volta e per sempre, forse) lottassero per una sorta di uguaglianza, che poi era una specie di chiusura del cerchio. Si parlava infatti di roba legislativa, che però faceva uscire sangue dal naso per la complessità enorme dei ragionamenti in gioco a tutte quelle frange bioetiche, politiche e filosofiche che nella nostra storia occidentale si erano alternate, combattute o erano entrate in contatto, visto che l’uguaglianza di fronte alla legge mai come ora rappresentava una standardizzazione dell’esistenza, voglio dire: volevano uguaglianza di fronte alla legge rispetto agli umani, e nel loro gruppo erano totalmente identici, uguali appunto, ma le leggi che fino a quel punto erano state scritte riguardavano sempre, in qualche modo, gli uomini. Tentacolo Joe era quello che aveva messo meglio in dubbio l’antropocentrismo legislativo della nostra società. Per lui la legge non doveva essere uguale per tutti ma per qualsiasi cosa. Si trattava, per il legislatore, di essere anche delicato e politicamente corretto a livello terminologico, per non offendere nessuno e non esacerbare tensioni che a quel punto erano alle stelle (vedi sopra: sparatoria).
Io e Vanni nel frattempo pensavamo di andare in giro a cercare qualche corso che ci avrebbe permesso di sviluppare maggiormente la manualità e inserirci nel mercato del lusso. Il massimo sarebbe stato diventare falegnami, ricevere telefonate da ricconi e strappare loro prezzi altissimi per limare o raffinare mobili dei loro parenti morti in Abissinia. Il problema è che quello era un mercato piuttosto chiuso e non disposto a farsi coinvolgere dalla pubblicità online, e io e Vanni, essendo cresciuti in un’epoca di forte digitalizzazione, ci trovavamo in difficoltà con la comunicazione faccia a faccia con gli sconosciuti che quel mercato richiedeva, e la penetrazione in quella nicchia risultava sempre un’idea senza scia di concretezza al seguito.
L’idea era quella di sfuggire alle grinfie del capitalismo diventando meglio delle macchine e dei prodotti, anche se in realtà speravamo ci fosse una qualche forma di reddito data ai cittadini nullafacenti prodotta dalla tassazione sui robot. Il problema è che la coperta era troppo corta a livello fiscale, pertanto la nostra voglia di non fare nulla e continuare a bere birra scadente a spese dello Stato era da escludere, perché ora i prodotti entravano in campo. Elettrodomestici che volevano avere il diritto di voto, poltrone che, ferma restando la possibilità per gli esseri umani di godersele, volevano certezze normative sull’oltre-vita. E poi c’era la questione culturale, con robe come dischi e libri che a un certo punto si erano messi a farsi i cazzi propri, roba che stava facendo impazzire società di diritti (che a questo punto risultavano più simili a latifondisti e attori del caporalato che per anni avevano esercitato il proprio potere su quegli oggetti), critici, semiologi. Questi ultimi, ora, si vedevano presi per il culo dai prodotti culturali: “No, mio caro, i tuoi scritti e i tuoi quadrati semiotici hanno completamente travisato la mia intentio, che tra l’altro dovresti sapere essere diversa da quella dell’autore”. Un bel casino, e meno male che l’accademia non aveva il peso sulla società che poteva avere avuto un tempo.
Quando Vanni pensò che, visto il trend del momento, forse era meglio diventare oggetti, io non seppi come reagire. Voglio dire, da un lato l’idea non era male, visto che in quel modo saremmo finiti dalla parte della società che, per numeri e moda, a breve sarebbe stata dominante, ma dall’altro mi domandavo se davvero volessi diventare una cosa. Ero finito in una sorta di limbo speculativo che aveva già coinvolto sociologi, filosofi, psicologi, antropologi, responsabili delle risorse umane. Ma diventare cose non era semplice. Prima di tutto c’era la burocrazia, e la trafila non era semplice né rapida. Era una roba simile all’adozione, ma questa volta eri tu che adottavi una nuova forma per la tua esistenza. Poi c’era che dovevi pagare per la transproduzione (così avevano cominciato a chiamarla gli esperti di bio-produzione umana, figure che nascevano dal perfetto incrocio tra l’industria, la biochimica, la genetica e le nanotecnologie: loro sì che da un momento all’altro si erano trovati a dire “Bingo!” in riferimento alle scelte universitarie e lavorative che avevano fatto), e lì come facevi? C’era nel nostro caso da chiedere prestiti o adeguarsi alle piccole somme che avevamo. Era un casino. E poi i rapporti umani. Anche se meno importanti, era difficile abbandonarli. Cioè, voglio dire, cazzo, mia madre non mi avrebbe permesso di farmi mangiare fossi divenuto un prodotto del comparto food.
Sta di fatto che ora avevano sparato a Tentacolo Joe, e la sala in cui eravamo e gli oggetti che la riempivano e anche le persone erano super tese e molto in difficoltà. E se fosse stato un essere umano a sparargli? Un casino, amici. Tentacolo Joe, nonostante tutto, nonostante le spinte indipendentiste, aveva una posizione che, nel suo far convergere su di sé tutte le istanze dei prodotti volte allo scontro, era risultata dialogante. Una sorta di tappo a una situazione difficile. Di sicuro ora nessuno sapeva cosa sarebbe successo, ed era quella una parte del tremore invisibile che si muoveva lungo i boccali di birra su quel bancone. I prodotti si sarebbero arresi, privati del loro leader principale, e avrebbero lasciato perdere con disillusione il grande sogno leggermente accarezzato di un riconoscimento giuridico? Oppure si sarebbero rovesciati per le strade, distruggendo tutto, dopo aver visto esacerbarsi le posizioni più radicali di devastazione della vita sulla terra così com’era stata finora, arrivando ad affermare una sorta di lotta all’umanesimo? Di certo non avrebbero potuto rompere vetrate di negozi e rubare altri prodotti. I prodotti sarebbero usciti da soli in strada, e magari si sarebbero messi a travolgere gli esseri umani, e tutto questo si sarebbe coagulato in rivendicazioni e differenti prospettive e proposte d’azione, e sarebbero emerse diverse fazioni, e questa sommossa avrebbe semplicemente cristallizzato e bloccato per anni le istanze dei prodotti all’interno di una perenne guerra interna su cosa fare, come la roba che era successa con Occupy Wall Street. Ora mi rendevo conto che bastava che i vestiti che indossavamo venissero presi dalla foga e saremmo potuti morire nella presa asfissiante dei nostri maglioni o giubbotti o pantaloni o scarpe.
Ad ogni modo, ci pensate? Vostra nonna che prova a prendere le pillole per la pressione e quelle le scappano dalle mani e vanno via in strada. Oppure i cibi in aereo che cominciano a sbroccare e riempire il velivolo e finire nella cabina di comando e poi c’è un velivolo che perde controllo e quota e si schianta e questo è solo un esempio di apocalisse. Non puoi controllare gli oggetti, ma solo subirli. E l’uomo è costretto a tornare in campagna, e ciao ciao civilizzazione, anche nel senso che forse saremmo stati senza la possibilità di difenderci, e magari avremmo dovuto – ma su questo la questione era ancora aperta – usare le ossa di una carcassa animale come arma come nell’inizio di quel film di Kubrick. Come avremmo potuto difenderci? Il monopolio della forza era da un’altra parte.
Le cose veramente inanimate – o forse potremmo dire inoffensive – erano quelle naturali, tipo alberi, fiori, piante e loro derivati. Tutto ciò che invece proveniva da lavorazione industriale aveva sviluppato coscienza, e la sviluppavano anche gli animali morti e lavorati, vedi i bastoncini di pesce. Bastava la forza della produzione.
Ma questo era solo un problema secondario. In tutta questa tensione, infatti, io e Anna eravamo in crisi, perché io non facevo un cazzo tutto il giorno, mentre lei andava avanti come contabile in una piccola azienda di imballaggio, e a un certo punto tutte le sue critiche sulla mia capacità di organizzare e di avere una prospettiva sul futuro, basate sulla sua superiorità lavorativa, venivano messe in dubbio. Anche perché io conoscevo un sacco di discipline orientali legate allo spirito, quindi sicuramente in un mondo fatto di oggetti che si ribellavano la parte trascendente e intangibile sarebbe risultata un vantaggio competitivo (questa era una mia speranza, più che altro). Anna, le cui labbra non ricordavano alcun oggetto ma solo due nuvole tondeggianti e perfette di un cielo roseo di tramonto, i cui modi, quando dolci, ricordavano la gentilezza tanto narrata di certe figure della storia che molti considerano superiori spiritualmente al resto degli esseri umani perché riescono a esercitare quella gentilezza anche dopo indicibili sofferenze, o quel che è. Anna, conosciuta all’università, mentre provavo a laurearmi in psicologia quando in realtà a me interessavano solo le occupazioni e le feste e nemmeno per motivi politici, ma perché puntavo solo a non fare un cazzo. Mi sarebbe piaciuto moltissimo vedere che sarebbe successo se un giorno tutti avessero smesso di lavorare. Del tipo Stop!, ferma tutto, posa la penna e lascia perdere il computer o il piccone o le manopole o i trapani o le chiavi inglesi o il bisturi e andiamocene in strada a non fare nulla e vedere quanto tempo ci mette tutto a collassare o, in alternativa, a fiorire come dovrebbe. Evviva! Gioia! Alleluja! Vi sembra un manifesto politico? Non lo è: è solo la speranza massima di espressione del mio egoismo, per cui non avendo voglia di lavorare sarei stato meglio se a lavorare non fosse stato nessuno. Sarei stato giustificato.
Davanti a tutta questa situazione andavo alle feste e facevo la pallina da flipper, passando da gruppetto a gruppetto. Se avessi potuto inquadrarli dall’alto avrei visto tutti questi cerchi e tutt’attorno, a popolare gli interstizi, i disagiati, piccole sfere plumbee che si spostavano e fluivano senza mai riuscire a integrarsi e farsi assorbire. Alla fine, era meglio così: nelle cerchie l’allegria data dall’alcool mascherava tutti i dolori, e a me andava invece di parlare di cose profonde. Le feste erano piccoli meeting anti-morte? Erano riunioni per evitare di lasciare spazio al nulla attraverso un caos pianificato (“Ora, luogo, citofono? Le robe da bere le portate voi?”)? A me sembravano riti – dio mio, come sembro un etnologo banale del cazzo in questo momento – che non riuscivano a manifestare il cuore delle proprie faccende. L’evocazione che cercavano di scatenare era quella della festa memorabile, e invece io finivo sempre a casa di amici ad ascoltare altri amici che facevano musica psichedelica e droni e declamazioni noiose che provavano a fornire una visione strana o poetica e invece risultavano solo ridicole. Vanni, ad esempio, a quel tempo indossava una T-Shirt con la scritta: Disposto a combattere il capitalismo per un compenso di dieci euro l’ora. A me la realtà, per quanto disgustosa e difficile e dolorosa e isolante potesse essere, interessava. Non avevo intenzione di guardare dei visual caleidoscopici su un soffitto, fingendo di essere in un club londinese mentre Syd Barrett delira e fa magie. Cazzo, a me i Pink Floyd manco piacciono. Davanti a tutta questa situazione io avevo paura che, se un giorno gli oggetti avessero preferito dichiararci guerra e lasciarci soli, noi non saremmo stati filosoficamente preparati. Ma pare fossi uno dei pochi impauriti. La festa era in realtà un rimandare: rimandare una crisi, un dolore, il momento in cui saresti dovuto rientrare e, da solo, avresti pianto, magari in maniera esplicito-esplosiva o semplicemente in una parte lontanissima del tuo didentro. Non importava: su su, sfogati pure.
Io e Vanni vivevamo queste giornate al bar o in casa mia, sul divano, a guardare film e serie tv mentre fuori il mondo pulsava come un bernoccolo fresco fresco. La politica veniva piano piano modificata dall’economia, e noi compravamo casse di birra. Eravamo vittime? Eravamo illuminati? Eravamo dei cretini? Chi lo sa. In tutto questo la paranoia era che le cose attorno a noi si ribellassero, e ci strappassero letteralmente la carne dalle ossa mentre discutevamo su qualche scelta registica. Era una morte da intellettuali e da stupidi, allo stesso tempo.
Poi un giorno il cielo si trasformò in un enorme codice a barre, e le nuvole divennero QR Code. Alcune persone provarono a tirar fuori il comunismo per tutta risposta a quel che accadeva, ma anche lì c’erano i mezzi di produzione, e da quella vecchia equazione politica dovevi eliminare ora il prodotto, che era vivo, pronto ad affermarsi come nuovo attore sociale. Neanche le variabili erano più quelle di una volta! Porca troia, qualcuno addirittura temeva che Marx, in quanto morto, potesse ora tornare in vita. O – peggio ancora – che tutti i volumi de Il Capitale mai pubblicati potessero ora dire direttamente la loro. La gente non capiva più se fosse giorno o notte. Oh, com’era difficile. Come avrei voluto non reagire passivamente, non sentirmi solo in questa situazione, come avrei voluto che le mille istanze e i mille bisogni differenti delle persone di tutto il mondo potessero finalmente unirsi come un solo flusso nella distruzione di questa situazione, ma poi mi veniva in mente che noi non eravamo nessuno per impedire alle cose, agli oggetti, di vivere una propria vita. E un attimo dopo mi veniva in mente che forse la libertà, l’affermazione di certi diritti stavano totalmente spazzando via la razza umana. E quindi come ne saremmo usciti? Come avremmo potuto superare quello stallo? E Anna? E l’amore, la riproduzione? E quel cielo a codice a barre, come lo avremmo affrontato? Cosa avremmo raccontato ai nostri figli? Come avrebbero reagito i pargoli quando avrebbero capito che anche loro, alla fine, erano nostri prodotti? Che noi, i loro genitori, eravamo la fabbrica che li aveva tirati fuori? Ah, la riproduzione.
In tutto questo, Vanni cominciò a delineare un piano per sfangarla. Consisteva nell’andare in campagna, setacciare tutto in cerca di manufatti artificiali, bonificare l’area. Cominciare da una piccola porzione, verificare la fattibilità del progetto e poi mostrarlo agli altri esseri umani. Da qui, secondo lui, le persone avrebbero cominciato ad aprire gli occhi sulla cosa, ad avere certezza di un’alternativa. Era vero, tutto ciò? Era possibile? Io non me la sentivo di assecondarlo, perché continuavo a pensare che gli oggetti avrebbero trovato un modo per arrivare fino a lì, e che forse si sarebbe dovuto discutere con gli stessi oggetti del fatto che la loro più viva essenza, la loro natura era intrisa dell’uso umano, che senza di noi non era possibile per loro avere un senso. Ma questo era colonialismo economico o spirituale? La testa mi esplodeva dietro a questi quesiti. E dunque bevevamo. Bevevamo birra, molto spesso. Immettevamo in noi litri e litri di aziende, litri e litri di macchinari che stantuffavano, litri e litri di acqua lavorata, litri e litri di cultura del prodotto che ora era in noi, nel sangue, nelle urine, nei reni, nelle vie urinarie, nella vescica. Chi entrava in contatto con una roba come questa, diventava quella roba? E l’acqua? Questo mi chiedevo: l’acqua era natura o prodotto. Di sicuro quando ci trovavamo in campagna o in qualche bosco e capitavamo davanti a un ruscello, essa era silente. Stessa cosa non poteva dirsi delle varie bottiglie dei supermercati. Quella era agguerrita, e io non riuscivo a non pensare a Bauman.
Io sapevo queste cose perché, dopo aver sentito l’acqua alla gola della laurea soffocarmi, avevo terminato il mio percorso di studi umanistici e per un periodo abbastanza lungo della mia vita avevo pensato di intraprendere una carriera accademica. Ma la società nella forma di una mia tutor universitaria mi aveva fatto capire che quella era una vita di stenti, di precariato, di sfruttamento. A quel tempo non mi andava affatto di faticare. Preferivo la birra, cosa che mi succede anche ora.
Ad ogni modo, la sparatoria contro Tentacolo Joe era un fatto che vari politici in tv si erano affrettati a definire come grave. Anche per noi era grave, e avevamo paura delle ripercussioni di quella maggioranza produttiva contro di noi. Da un certo momento in poi le cose, tutta la questione politica si assottigliò nella vecchia, razzista conflittualità “Noi contro di loro”. Solo che la minoranza in questo caso era quella umana. Da un lato, alcune forze di centrodestra puntarono sul fattore sicurezza, come nella loro tradizione, e paradossalmente gli attori politici che avevano difeso l’innovazione tecnologica come strumento di creazione di profitto di coloro che gli finanziavano le campagne adesso si trovavano nella strana posizione di spingere sulla decrescita, sull’abbandono della tecnologia e di ciò che produceva. Parlavano di difendersi a mani nude contro i supermercati. Coloro che possedevano le industrie invece cercavano di placare il tutto: le associazioni di industriali cercavano di tessere buoni rapporti coi prodotti che loro tiravano fuori dalle loro fabbriche. Una cosa divertente è che cominciarono a non parlare più di quei prodotti come “nostri” o “miei”: quel senso di possesso veniva eliminato per non offendere gli stessi prodotti e la loro interiore volontà di indipendenza. Alcuni notarono che questa cosa non veniva fatta con gli operai. La cosa divertente era che una volta avresti sentito dire “I nostri compagni”, mentre se sentivi dire “I nostri prodotti” la mente andava subito a un qualche product manager o dirigente aziendale che, a un convegno o a una fiera, parlava del catalogo del suo brand.
Io e Anna, ad ogni modo, ci eravamo conosciuti all’università, a un’occupazione della Facoltà di Sociologia. Anna aveva: uno dei culi più belli avessi mai visto, un parlare calmo e morbido che ti faceva sentire di avere a che fare con un avvocato che difendeva la giusta causa in un processo legato a diritti civili inviolabili, curiosità e grinta ma anche la capacità di mantenersi sana, stabile, e soprattutto il coraggio, cosa che per un individuo squallido come me era una grande attrazione. Era risoluta ma non ottusa, sapeva cedere su un’idea sbagliata e sapeva trovare un accordo tra le varie parti. Era matura, sana. Era permalosa a volte, ma poi lo riconosceva quando riacquistava calma. Ancora mi chiedo come abbia potuto stare con me. Me lo domandavo anche ora.
Ogni tanto pensavo a mio cugino Delron, che poi in realtà non era mio cugino ma cugino di mio padre, e che per comodità chiamavo cugino perché comunque era più vicino alla mia età che a quella del mio vecchio. Delron, che era stato un eroe anni fa, ora nella Casa degli Ex-Eroi Andati, su a Cavane. Una volta ero andato a trovarlo. Delron era sempre stato un eroe per me, e questo ben prima che diventasse un supereroe. Cazzo, Delron! Fin da bambino era stato una macchina: era quello che faceva divertire noi cugini alle feste, era stato il primo essere umano che avessi visto fare surf, un concentrato che non avevo mai pensato possibile di forza, tenacia, tensione nervosa e allo stesso tempo grazia. Il corpo sulla tavola una cosa perfettamente integrata nel contesto delle onde che si alzavano, i capelli lunghi che, anche senza elastico, non gli finivano mai in viso quando era lì sopra, sulla tavola. Una creatura fatta di natura che eseguiva un gesto di dominazione umana sulla natura stessa. Delron Deltrin, che aveva poi terminato gli studi all’Accademia di Belle Arti ed era poi finito a lavorare per un’agenzia pubblicitaria di fama mondiale. Delron, creatività messa al servizio della vendita di prodotti, quegli stessi prodotti che ora erano l’argomento principale di discussione nei talk televisivi, con gente che parlava e parlava di sentimenti e diritti proprio sotto l’occhio di migliaia di cose messe lì, nello studio, accanto a loro. Come riuscivano quegli opinionisti ad essere tranquilli, con gli oggetti di scena che potevano fargliela pagare da un momento all’altro? Pensavo a loro in relazione a Delron perché le loro parole nell’etere e sullo schermo e nel contesto mediatico di quei giorni mi ricordavano la stessa forma di adattamento perfetto nello spazio che Delron aveva quando surfava? Forse il loro problema e allo stesso tempo la loro grande ricchezza era che non avevano assolutamente coscienza del peso di ciò che facevano dentro a quel mondo? Come quella vecchia idea per cui per uscire da te stesso devi semplicemente fare le cose, non pensarci troppo, finché non ci pensavi davvero più e tutto il tuo essere diventava pura azione in un determinato spazio. Ma la differenza nel caso di Delron era la solitudine del gesto. Delron spiccava, quantomeno nel mio ricordo. Quelli lì in tv, invece, erano soli solo quando inquadrati e prendevano parola e la telecamera stringeva su di loro, ma non essendo davvero soli nello studio (tra addetti ai lavori e prodotti per la messa in onda) la mente di chi guardava non li isolava mai veramente. Delron, invece, brillava sulle onde, le gambe leggermente piegate e i polpacci in tensione, le braccia aperte in una posa che faceva pensare che dovesse prima o poi staccarsi dalla tavola e spiccare il volo, lo sguardo concentrato ma allo stesso tempo quasi privo di un punto nello spazio su cui far atterrare quella concentrazione, l’onda che veniva seguita o forse seguiva il suo avanzare, la scia della tavola sull’acqua una sorta di segno spumoso sui miei ricordi, ecco, quella roba lì era inserita nel contesto ma anche perfettamente isolata. Era forse questa la differenza tra arte e comunicazione? Stavo delirando? Il fatto è che avevo questi pensieri mentre guardavo la tv e Vanni era uscito a comprare altra birra, e guardavo allo stesso tempo lo smartphone in maniera paranoica controllando l’ultima volta in cui Anna era stata online su Whatsapp, e io stavo lì e speravo lei mi scrivesse, la testa piegata sul cellulare e nessun gesto, neppure uno scroll, a far capire all’esterno che ero vivo. Delron era stato un supereroe, era stato capace di controllare gli oggetti, era finito in tv, e poi era impazzito per amore, tanto da non riuscire a controllare più neanche sé stesso. Non volevo finire così. Non volevo impazzire per amore anche io.
Poi Anna tornò, e le cose trovarono un punto di incontro con la mia percezione e tornarono a essere semplicemente oggetti inanimati, inutili anche. Le rimostranze cessarono, Tentacolo Joe venne dimenticato. Caddero a terra senza anima. Tutto questo avvenne grazie all’amore che io e quella donna provavamo. Quell’amore che, vista la sua lontananza, si era trasformato in qualcosa di orribile, malsano, per cui nulla aveva importanza per me. E quel nulla che non aveva importanza aveva riempito invece tutte le cose del racconto di cui ero protagonista (questo racconto che stai leggendo) di un carattere combattivo e cattivo, e il mondo era entrato in un enorme casino. Come scoprimmo con Vanni qualche giorno dopo che Anna era tornata e avevamo fatto pace e lei aveva deciso di lasciarsi andare e credere in me – me la sarei giocata bene, non avrei deluso lei né me -, quegli oggetti avevano cominciato a cercare un senso alla propria vita perché per me nulla senza di te, Anna, ha senso. A volte questa vita sa essere davvero grossolana nelle cose che vuole. E quello che vuole è dire, ora: resta ancora qui con me. Resta, non andare via, Anna. Ok, resto. Stringimi la mano, guidami nel buio. Ci sono. Bene. Non credo di avere paura.
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In questo silenzio così assordante, sono di nuovo qui a fare i conti con me stessa. Seduta su un divano di una sala d'aspetto qualunque, mi ritrovo ad interrogarmi su chi sono e come sono arrivata fino a qui. Dovrei essere soddisfatta di ciò che sono? Sì lo sono. Dovrei essere felice di dove sono? Più o meno. Dovrei essere felice di ciò che mi circonda? Più o meno.
A volte mi chiedo perché io sia così emotiva e sensibile, mi chiedo perché io debba sentire ogni cosa dentro me in modo amplificato. Mi chiedo perché proprio io? Perché qualcuno ha scelto me per essere così e non un'altra persona. Mi chiedo se sia una punizione o forse un premio. Non lo so, a volte lo considero un premio, perché non c'è niente di più bello nell'essere una persona in grado di sentire con il cuore e con l'anima, perché ti fa sentire in connessione con qualcosa di grande che risiede dentro di te. A volte però questo è quasi un peso, un macigno che difficilmente uno riesce a portare sulle spalle senza perdersi qualcosa. A volte è difficile rimanere sereni senza farsi sopraffare da quella sensazione che nasce dentro di te e che tende a soffocare ogni cosa. Non so ancora se ritenermi fortunata o meno nell'avere questo "potere", perché sì, questo è un potere che non tutti hanno il privilegio di avere. So quanto sia importante non sentirsi soli, sentirsi che qualsiasi cosa succeda, tu sei comunque con te stesso. E quello che ho capito in quest'ultimo anno della mia vita è proprio che non importa mai quello che hai intorno, quello che succede nel mondo esterno, se cominci a perdere te stesso, se qualcosa dentro di te comincia a vacillare. Ora so che significa perdersi, per poi ritrovarsi e capire che da quel momento in poi niente sarà più come prima, niente potrà più mettere in dubbio chi sei. Hai superato l'ostacolo più grande, ovvero quello di capire chi sei e quanto vali. Perché quando non riesci ad amarti, non riesci a percepire neanche tutto l'amore del mondo che ti circonda. Quando non ti ami, non ti basta mai nulla, tutto è annebbiato, sei perso e fai continuamente i conti con l'ansia: di giorno, di notte, non importa, colpisce improvvisamente il tuo corpo e ne esci ammaccato ogni volta. Cominci a scendere nel baratro piú profondo e sembra che niente possa farti ritornare a galla. Quando ho cominciato a rendermi conto di ció che mi stava succedendo ero terrorizzata, avevo capito che c’era qualcosa in me che non andava piú, era come se qualcosa dentro di me cercava di uscire, come se la mia voce interiore stava cercando di dirmi qualcosa. Non stavo piú bene con me stessa, non mi volevo bene perché non mi sentivo abbastanza. Non mi sono mai sentita abbastanza. Pretendevo di piú, ho sempre preteso di piú da me stessa. Ormai non riuscivo piú a godermi la spensieratezza dei miei vent’anni. Mi hanno sempre pesato gli anni che avevo, perché non rappresentavano mai come mi sentivo in quel momento.
In quel preciso momento mi sono resa conto che niente avrebbe potuto farmi stare meglio, se prima non riuscivo a riordinare i pezzi di me che stavano andando in frantumi. Ho fatto scelte che facevano paura anche a me stessa, ho preso decisioni di cui sapevo mi sarei pentita per sempre. Sapevo che, in ogni caso, da quel momento in poi qualcosa dentro di me sarebbe cambiato, ma era ora di agire e fare qualcosa per cambiare quella situazione che ormai mi stava soffocando. Improvvisamente, ad un certo punto della tua vita ti rendi conto che tutto quello che hai costruito fino a quel momento, ora ti sta stretto, c’é qualcosa con cui devi fare i conti.. e non importa in quale momento della tua vita ti trovi, perché in quel caso non puoi fare altro che fermarti e ripartire da capo, ripartire da te stessa. La mia fortuna é stata quella di essere costretta a dover partire, perché ormai non era piú possibile tornare indietro, l’unica cosa che potevo e dovevo fare era andarmene lontano e stare da sola con me stessa.. solo a quel punto avrei potuto analizzarmi dentro e capire cos’era che non andava piú in me.
Ci sono dei momenti in cui ancora ripercorro ció che ho passato, rivivo gli istanti di terrore che caratterizzavano quelle notti in solitaria dentro una stanza che era sempre stata mia ma che peró in quel momento non mi faceva sentire al sicuro.
Quando mi sono persa, ho dovuto ripercorrere tutti gli errori che avevo accumulato negli anni e tutte le cose che mi portavo dentro da tempo, tutto quello che non avevo ancora superato. Ho iniziato a guardarmi dentro, ad analizzare chi ero diventata. Ho pianto tanto, tantissimo, ho lasciato far fuori uscire tutto ció che mi aveva fatto male, tutto ció che mi aveva fatto vacillare negli anni, tutto ció che non mi aveva fatto sentire abbastanza, tutto ció che mi aveva fatto sentire sempre in difetto, sempre quella sbagliata, quella fuori posto. Ho maledetto ogni singolo giorno in cui mi sono sentita cosí, in cui non riuscivo a vedere uno spiraglio di luce in quel tunnel buio da cui non riuscivo ad uscire. Ci ho messo un po’ per capire chi ero diventata, ci ho messo un po’ a far pace con il mio passato, a perdonare chi mi aveva fatto male e soprattutto a perdonare me stessa. Ho chiesto scusa a me stessa per non essermi sentita mai abbastanza, per aver sottovalutato chi fossi, per aver permesso agli altri di avere il potere di decidere cosa era giusto o sbagliato in me, per aver dato troppo peso al giudizio di persone che non avevano la minima idea di chi fossi realmente, per aver messo da parte i miei sogni, per non aver creduto nella potenzialitá del mio carattere e nella grandezza del mio cuore. Ci ho messo un po’, ma alla fine ho capito che a volte bisogna perdersi per ritrovarsi tutti interi, che nella vita i momenti in cui ci sentiamo sbagliati vanno vissuti a pieno per capire che invece non siamo sempre sbagliati, dobbiamo solo riadattarci ai cambiamenti della nostra vita. Ho capito che é peggio perdere se stessi che le persone che ti circondano, perché nel momento in cui cominci a perdere te stesso, inevitabilmente perderai anche chi ti sta intorno. Dopo tanto tempo mi sono perdonata.
A distanza di un anno, ho imparato ad amarmi. Dopo tutto questo tempo, posso dire con esattezza di non aver mai avuto un’idea cosí certa su chi fossi e quanto valessi. Ho capito che essere delle persone sensibili e profonde, anche se nella maggior parte dei casi fa male, alla fine é la cosa migliore che puó capitarti perché ti permette di essere una persona dai valori semplici ma saldi. Mentre prima vedevo la bontá d’animo solo negli altri, ora finalmente posso dire di aver iniziare a costruire quella purezza d’animo che non avrei mai pensato di poter avere. Ed invece ora ecco che mi sento una persona nuova.
Mi dispiace se gli altri non riescano a percepire chi sono, se non capiscono le mie potenzialitá, se non sono in grado di sentire la mia anima, perché non sanno che privilegio sia quello di poter sentire l’essenza delle persone. Mi piacerebbe che nel mondo ci fossero piú persone in grado di guardarsi dentro e di diffondere la bontá attraverso dei semplici gesti, ma non pretendo che gli altri facciano quello che mi aspetto. Ció che pretendo invece da me stessa, é fare sempre quello che mi sento di fare, di dare tutto indipendentemente da quello che riceveró, di dare solo per il semplice fatto di donare chi sono. Lo faró senza paura, senza riservare niente perché da quando ho scoperto la grandezza della mia anima, ho capito che il mio compito é quello di guardare il mio mondo interiore per donarlo a quello che é il mondo esterno. Ho capito che tutta la luce che ho dentro, non puó essere rinchiusa in me, deve poter uscire e diventare sempre piú forte, sempre piú brillante. E non importa per quanto tempo verrá offuscata, per quanto tempo non avrá quella brillantezza solita, perché so che dentro di me ci sará sempre. E non importa se nessun altro a parte me riuscirá a vederla, perché in quel caso vorrá dire che saró scesa cosí in profonditá nel conoscermi che tutto il resto del mondo non sará adatto alla mia essenza. Non permetteró mai alla mia anima di adattarsi ad un mondo che non le appartiene. La solitudine ancora mi spaventa un po’ é vero, ma ho capito che nonostante tutto quello che ci succede, se abbiamo ben salda l’idea di chi siamo, non saremo mai soli, non ci sentiremo mai persi, perché saremo con colui che piú di tutti ci fará forza: il nostro io. E mi dispiace se gli altri non capiscano cosa io voglia dire con questo, se non percepiscano l’importanza di questa cosa, se nessuno capirá mai i miei discorsi. Saremo soli, saremo insieme, che importa, l’importante sta nel trovare armonia con l’universo dentro e fuori di noi.
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The one with the B plan
"Fabri, onestamente non capisco quale sia il problema!"
Fabrizio sbuffò sentendo Ermal ripetere quella frase ormai per l'ennesima volta quella sera.
"Sì, me ne sono accorto che non capisci. Guarda, lasciamo perdere che è meglio" disse Fabrizio prendendo una sigaretta dal pacchetto ormai quasi vuoto e uscendo sull'ampio terrazzo.
Ermal lo seguì. "No, ora parliamo. È evidente che c'è un problema, quindi mi spieghi cosa c'è che non va e lo risolviamo."
Fabrizio si lasciò scappare uno sbuffo vagamente simile a una risata, mentre accendeva la sigaretta e poi abbandonava l'accendino sul tavolo di plastica.
Parlare.
Ermal voleva parlare, mentre Fabrizio in realtà era stanco di farlo. Era stufo di dire sempre le stesse cose e non essere ascoltato, era stanco di ripetere per l'ennesima volta a Ermal quale fosse il problema in tutta quella situazione.
Lo aveva già fatto ed Ermal non aveva capito, quindi gli sembrava inutile provarci ancora.
"Bizio..." disse Ermal, cercando di attirare la sua attenzione.
"Cosa?"
"Parlami. Dimmi che c'è che non va."
"Vuoi sapere che c'è che non va?" disse Fabrizio, voltandosi verso di lui. Poi spense la sigaretta nel posacenere e aggiunse: "Quante volte abbiamo parlato di convivenza, di poter passare più tempo insieme sotto lo stesso tetto? Tante, così tante che nemmeno le ricordo tutte. E quante volte ti ho detto che potevi trasferirti qua? Che non c'era bisogno di comprare un'altra casa, che tanto questa è nuova e poteva diventare non solo casa mia ma casa nostra? L'ho detto tante volte e da te ho sempre ricevuto risposte vaghe, quasi come se non ti importasse più di vivere con me. E ora mi dici che domani vai a vedere un appartamento fuori Roma e che saresti intenzionato a comprarlo. Perdonami, ma io mi sento vagamente preso per il culo e non in senso buono!"
"Mi sembrava un posto carino! Sarei più vicino a te, potremmo vederci tutti i giorni, ogni tanto potresti venire da me…" replicò Ermal.
"E perché non possiamo stare qui? Che senso ha comprare una casa nuova se abbiamo questa?"
Ermal rimase in silenzio, cercando di trovare una risposta sensata a quella domanda. Ma lui non aveva risposte.
O meglio, le aveva ma aveva anche paura di dire la verità a Fabrizio e, per quanto facesse male, preferiva ometterla.
"Va beh, Ermal. Lasciamo stare. Ne riparliamo in un altro momento, ora dobbiamo lavorare" disse Fabrizio, rientrando in casa senza nemmeno dargli il tempo di rispondere.
Ermal lo seguì sbuffando, consapevole che non sarebbero riusciti comunque a rimettersi a lavorare.
Quella nuova canzone che stavano scrivendo insieme parlava di loro, della loro storia, delle difficoltà che avevano affrontato e poi superato.
Ma in quel momento c'erano delle nuove difficoltà da affrontare ed Ermal sapeva che non sarebbero riusciti a finire quella canzone se prima non avessero chiarito i loro problemi.
Come Ermal aveva sospettato, erano passate due ore e non erano riusciti a fare praticamente nulla, entrambi ancora bloccati sulla discussione di poco prima.
Ermal nemmeno riusciva a capire come ci fossero arrivati a quella discussione. Aveva semplicemente detto a Fabrizio che il giorno seguente sarebbe andato a vedere un appartamento, e lui era esploso.
Fabrizio, d'altra parte, non riusciva a capire per quale motivo Ermal avesse bisogno di andare in giro a vedere case.
Avevano parlato per mesi dell'eventualità di vivere insieme - o almeno Fabrizio ne aveva parlato, mentre Ermal si era sempre tenuto sul vago dicendo che ovviamente gli sarebbe piaciuto vivere insieme ma senza mai dire nulla di più - e Fabrizio aveva sempre detto che Ermal poteva trasferirsi da lui in qualsiasi momento, che quella casa in effetti era troppo grande per viverci da solo e che gli sarebbe piaciuto condividerla con lui.
Insomma, una casa c'era già e Fabrizio proprio non capiva per quale motivo Ermal sentisse il bisogno di cercarne un'altra.
Appoggiò la chitarra a terra e si alzò dal divano sbuffando, sotto lo sguardo curioso di Ermal.
"Vado a fumare" disse senza nemmeno guardarlo in faccia, e uscì dalla stanza.
Ermal rimase fermo per un attimo, cercando di capire come comportarsi. Poi, consapevole che altrimenti non avrebbero mai superato quel problema, si alzò e raggiunse Fabrizio.
Il più grande se ne stava in balcone, con gli avambracci appoggiati alla ringhiera e una sigaretta già fumata a metà tra le dita.
Ermal si appoggiò alla ringhiera accanto a lui e si voltò a fissarlo, ma Fabrizio teneva lo sguardo basso, come se non volesse essere guardato.
"Bizio" disse Ermal avvicinandosi e prendendogli la mano, mentre Fabrizio gettava il mozzicone nel posacenere.
"Che c'è?"
Solo in quel momento, sentendo la sua voce spezzata, Ermal si accorse di quanto Fabrizio stesse male per quella situazione.
Lo attirò a sé avvolgendogli le braccia intorno al corpo, anche se Fabrizio non sembrava voler ricambiare l'abbraccio.
"Non prenderla sul personale, Bizio. Non è che non voglio venire a stare qui, è solo che..." iniziò a dire Ermal.
"Che...?" chiese Fabrizio, continuando a tenere lo sguardo basso per non fargli notare gli occhi lucidi.
Ermal sospirò. "Ho bisogno di avere un piano B, nel caso in cui le cose tra noi andassero male."
Fabrizio si irrigidì tra le sue braccia. "Che vuol dire che hai bisogno di un piano B?"
"Dico solo che le cose tra noi potrebbero non andare, magari potremmo lasciarci... Ho bisogno di sapere che se le cose andranno storte, non dovrò fare i bagagli in fretta e tornarmene a Milano."
Fabrizio scivolò via dalle braccia di Ermal e si allontanò, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra loro.
Sollevò lo sguardo, fregandosene del fatto che così Ermal avrebbe visto che stava per piangere, e lo fissò per qualche secondo. Poi disse: " È rassicurante sapere che pensi che le cose potrebbero andare male."
"Io non penso che le cose potrebbero andare male" sbuffò Ermal.
"Come no? L'hai appena detto!"
Ermal rimase in silenzio cercando di leggere lo sguardo di Fabrizio.
In quegli occhi che tanto amava, in quel momento non vedeva altro che tristezza e rabbia e, rendendosi conto che era solo colpa sua, sentì anche i suoi occhi farsi lucidi.
"Forse è meglio se chiudiamo il discorso" disse Fabrizio, sperando che se avessero smesso di parlarne avrebbe smesso di soffrire.
"Fabri, cerca di capirmi. Ci sono già passato. Ho già avuto una relazione lunga, una convivenza, progetti per il futuro, e poi guarda com'è andata a finire. Non ti sto dicendo che non voglio vivere qui, che non voglio vivere con te. Ti sto dicendo che, anche se verrò a stare qui, voglio avere comunque un posto mio. Voglio solo avere la certezza di avere le spalle coperte se qualcosa andrà storto. Riesci a capirmi?" spiegò Ermal.
Fabrizio annuì. "Lo capisco. Tu però cerca di capire me. Da quando ti conosco, io un piano B non l'ho mai voluto. Non l'ho mai nemmeno preso in considerazione. Mi sono buttato in questa storia a capofitto, con la paura di bruciarmi ma senza cercare di mettermi al sicuro. E sai perché? Perché evidentemente in questa storia e in noi, ci credo più di te. Quindi io ti capisco, ma tu cerca di capire il fatto che in questo momento sei l'ultima persona con cui ho voglia di parlare."
Poi, senza aggiungere altro, rientrò in casa chiudendosi in camera da letto. Un chiaro segno che voleva rimanere solo.
Ermal sospirò mentre si avviava verso la porta di ingresso per andarsene.
Per un attimo ebbe la sensazione che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto quella casa, che avrebbe visto Fabrizio. Per un attimo pensò di aver buttato via una delle poche cose belle che la vita gli aveva dato.
E non poteva fare altro che incolpare sé stesso.
"Avanti, parla."
Fabrizio si voltò di scatto verso Giada. "Eh?"
L'aveva sentita parlare ma, perso com'era nei suoi pensieri, non aveva capito una sola parola.
"Dimmi che c'è che non va" disse lei.
Fabrizio sbuffò mentre tornava a fissare i suoi figli che giocavano nel parco giochi vicino a casa sua.
Quel giorno si sentiva particolarmente giù di morale, così aveva chiesto a Giada se poteva passare un po' di tempo con i bambini. Lei aveva subito capito che c'era qualcosa che lo preoccupava, quindi aveva accettato a patto che Fabrizio le raccontasse cosa stava succedendo.
Teneva molto a lui, anche se non stavano più insieme da tempo, e non sopportava l'idea di vederlo soffrire per qualcosa.
"Niente, Giada. Davvero, è tutto ok" rispose Fabrizio.
"Ci conosciamo da più di dieci anni. Capisco quando menti" disse lei.
Fabrizio dovette ammettere che Giada aveva ragione. Probabilmente era la persona che lo conosceva meglio ed era forse l'unica persona che non si sarebbe fatta alcun tipo di problema a dirgli sinceramente cosa pensava, quindi forse era l'unica con cui valeva la pena parlare.
"Oggi Ermal va a vedere una casa" disse Fabrizio.
"Una casa? Dove?"
Fabrizio si strinse nelle spalle. "Non so, fuori Roma. Non ho chiesto, in realtà. Mi da fastidio già solo il fatto che abbia preso in considerazione l'idea di comprare una casa, non voglio sapere altri dettagli."
"Non dovrebbe essere una cosa positiva? Insomma, sta cercando casa qui per starti più vicino" azzardò Giada.
"Non capisco il senso di cercare una casa se può stare da me."
Giada annuì capendo finalmente quale fosse il problema.
"Gliel'hai detto?" chiese.
"Certo che gliel'ho detto. M'ha risposto che ha bisogno di avere un piano B nel caso in cui le cose andassero male" disse Fabrizio. Poi si voltò verso Giada, con gli occhi lucidi mentre ripensava a ciò che Ermal aveva detto il giorno precedente, e aggiunse: "Che ci faccio ancora con lui? Come faccio a fare progetti per il futuro con una persona che ha bisogno di un piano B perché teme che le cose possano andare male?"
Giada sospirò. "Fabrizio, cerca di capirlo. Ha già avuto una storia che pensava durasse per sempre e guarda com'è finita. Forse ha solo bisogno di tempo."
"Anch'io ho avuto una storia che pensavo durasse per sempre e poi è finita. Lo sai meglio di me, Giadì. Eppure con Ermal mi sono buttato, non ho mai pensato a un piano B. Perché da quando sto con lui non esistono piani alternativi. C'è lui e basta" rispose Fabrizio.
Giada abbassò lo sguardo, consapevole di essere quella storia che Fabrizio credeva sarebbe durata per sempre e poi invece era finita.
Anche lei aveva creduto che sarebbe durata per sempre, anche lei aveva fatto progetti per quella relazione, per il loro futuro insieme. E poi le cose non erano andate bene, erano finite ed entrambi per un po' erano stati male. Un po' forse Giada ci stava ancora male.
Ma poi Fabrizio aveva conosciuto Ermal e il cambiamento era stato sotto gli occhi di tutti. Giada avrebbe mentito se avesse detto che ciò che Fabrizio provava per Ermal era anche solo vagamente simile a ciò che aveva provato per lei.
Quindi riusciva a capire per quale motivo Fabrizio non avesse bisogno di un piano B, per quale motivo fosse pronto a buttarsi in quella storia a capofitto. E dall'altra parte, guardando la situazione da un punto di vista razionale, riusciva a capire anche Ermal, che dopo nove anni passati a costruire un futuro con una persona si era ritrovato solo e che quindi probabilmente aveva solo paura di buttarsi di nuovo e di ritrovarsi in quella stessa situazione.
"Quando vi rivedrete?"
Fabrizio scosse la testa. "Non lo so. Eravamo d'accordo che sarebbe tornato a Roma la prossima settimana, ma dopo la discussione di ieri non ci siamo più sentiti. Non so nemmeno se lui abbia voglia di vedermi. Francamente non so nemmeno se io lo voglio vedere. Non so se riesco a passare oltre questa faccenda e fare finta che vada tutto bene."
Si sentiva come se un peso lo stesse schiacciando, e quel peso altro non era che la consapevolezza che Ermal non era disposto a rischiare, a buttarsi come invece stava facendo lui.
E se da una parte continuava a ripetersi che lo amava troppo per lasciarlo, che sarebbe stato disposto ad accettare che lui avesse il suo piano B pur di stare con lui, dall'altra parte non era poi così sicuro di riuscire a sopportarlo.
Fabrizio aveva passato i giorni seguenti oscillando tra la voglia di chiamare Ermal e il bisogno che fosse Ermal a cercarlo per primo.
Sentiva la sua mancanza e non voleva che tra loro restassero questioni in sospeso, ma allo stesso tempo continuava a pensare di essere lui quello dalla parte della ragione e quindi si era convinto che il primo passo spettasse a Ermal.
Così era passata una settimana. Una lunga, noiosissima settimana in cui nessuno dei due aveva fatto un passo verso l'altro.
Una settimana in cui Fabrizio non aveva fatto altro che chiedersi se le cose sarebbero mai tornate come prima.
Fabrizio sbuffò sentendo il rumore del campanello.
Quella settimana era praticamente sparito, dicendo a tutti di volere rimanere solo e l'unica a sapere il motivo del suo pessimo umore era Giada, che però gli aveva promesso di non disturbarlo. Quindi proprio non aveva idea di chi potesse esserci dall'altro lato della porta.
Quando andò ad aprire - con l'espressione di uno che stava andando al patibolo - e si ritrovò davanti Ermal, dovette stropicciarsi gli occhi un paio di volte prima di capire che fosse effettivamente davanti a lui e non stesse sognando.
"Ciao" sussurrò Ermal, quasi spaventato di trovarsi davanti all'uomo che amava ma che aveva ferito appena una settimana prima.
Fabrizio lo fissò per un attimo, accorgendosi solo in quel momento dell'enorme trolley che si portava dietro.
"Stai andando in vacanza?" chiese indicando la valigia, con un tono di voce più acido di quanto avrebbe voluto.
Ermal abbassò lo sguardo incassando il colpo. In fondo, un po' se lo meritava.
"In realtà, pensavo di lasciare qualcosa qui. Se per te va bene" disse risollevando lo sguardo.
Fabrizio si spostò di lato per farlo entrare in casa e poi richiuse la porta.
"Vado a liberarti un paio di cassetti" rispose camminando velocemente verso la camera da letto.
Ermal lo seguì trascinandosi dietro il trolley e disse: "Non devi farlo adesso. Solo... ecco, pensavo che potrebbe essere un inizio."
Fabrizio si voltò verso di lui e lo guardò. "Un inizio per cosa? Una convivenza di prova, in attesa che qualcosa vada male e che tu possa ripiegare sul tuo piano B?"
Ermal sospirò, ma prima che potesse rispondere Fabrizio aggiunse: "Scusa, non volevo tornare su quel discorso. In realtà, sono contento che tu sia qui. Anche se abbiamo opinioni diverse sul nostro futuro."
"Non voglio avere opinioni diverse dalle tue, non su di noi almeno" disse Ermal abbandonando la valigia in mezzo alla stanza e avvicinandosi a Fabrizio.
Gli prese la mano, disegnando distrattamente con le dita il contorno della parola Pace.
Quella pace che Ermal aveva trovato con Fabrizio e che non era disposto a farsi sfuggire.
"Lo so, Ermal. Ma non possiamo farci niente."
"Non voglio avere un piano B" disse Ermal all'improvviso.
"Cosa?"
"Ho pensato un po' in questi giorni e ho capito che non mi serve e che non lo voglio. Voglio stare con te e mi piace casa tua, quindi non ho intenzione di comprarne un'altra."
Fabrizio lo guardò incredulo.
Appena una settimana prima stavano litigando, e ora improvvisamente Ermal sembrava vedere le cose da un'altra prospettiva.
"Tu vuoi ancora che io venga a stare qui?" chiese Ermal, timoroso che dopo la discussione della settimana precedente Fabrizio avesse cambiato idea.
"Certo. Ma solo se tu sei sicuro. Non voglio che tu ti senta obbligato" rispose Fabrizio.
Ermal sorrise. "Sei mai riuscito a obbligarmi a fare qualcosa?"
"In effetti, no" constatò Fabrizio sorridendo.
"Appunto. Quindi non mi sento obbligato. Vengo a vivere qui perché è qui che voglio stare. E non voglio un piano B perché sono sicuro che andrà tutto bene" disse Ermal.
Poi attirò Fabrizio a sé e lo baciò.
Non era stato facile per lui superare tutte le paure che si portava dietro dalla sua rottura con Silvia, ma l'aveva fatto.
L'aveva fatto semplicemente perché Fabrizio ne valeva la pena. Ne sarebbe sempre valsa la pena ed Ermal non poteva permettere che le sue paure lo allontanassero.
E poi Fabrizio era sempre stato in grado di allontanarle le sue paure. Ermal era certo che lo avrebbe fatto anche in quel caso.
Sorrise sulle sue labbra, mentre continuava a baciarlo.
Era sempre stato convinto che avere un piano B fosse una sicurezza, un giubbotto di salvataggio in mezzo a un naufragio.
E allora per quale motivo in quel momento, anche se non aveva un piano B, si sentiva al sicuro come mai prima?
Forse, ed Ermal finalmente se n'era reso conto, per sentirsi al sicuro basta non essere soli.
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A Roma sgombero dell’ex fabbrica Penicillina. Un’occupazione spontanea,sulla Tiburtina, dove si trovavano fino a 500 persone. Stamattina, però, all’arrivo della polizia, che ha chiuso tutte le strade fino al GRA, c’era solo 40 persone, portate in Questura da un vero e proprio esercito di poliziotti.
Contestato da un gruppo di migranti, residenti del vicino quartiere di San Basilio e attivisti di Potere al Popolo e Usb, dietro lo striscione “Riconvertire l’ex Penicillina: 1000 case popolari”, Andrea Casu, il segretario romano del Pd, accolto da cori come “vergogna”, “avete governato per anni”, “siete responsabili di questa situazione” e “devi andare via”. Ne è nato un parapiglia e Casu è stato fatto allontanare in tutta fretta dalla Digos, presente in massa, anche per l’arrivo, a metà mattinata, del ministro della Paura Salvini, per l’ormai classica passerella mediatico-elettorale sulla pelle degli ultimi. Anche qui urla e contestazioni, al grido, soprattutto, di “sciacallo”.
Da Roma Margherita, dei Blocchi Precari Metropolitani. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
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Acta est fabula: plaudite! Sullo sgombero dell’ex Penicillina a Roma
Come già annunciato da mesi, nella mattinata di oggi è stata sgomberata l’ex fabbrica di Penicillina LEO a Roma, sulla via Tiburtina. L’edificio era occupato da centinaia di persone, dalla provenienza geografica più disparata e in condizione di totale esclusione sociale, che erano uscite dal circuito dell’accoglienza o che semplicemente non potevano permettersi un alloggio dignitoso.
Situata fra i quartieri di Ponte Mammolo, Tor Cervara e San Basilio, la fabbrica della LEO, fiore all’occhiello dell’industria farmaceutica italiana, fu inaugurata nel 1950 alla presenza di Sir Alexander Fleming, l’inventore della penicillina. Nel 1971, a seguito di numerose mobilitazioni ed occupazioni degli operai per scongiurare un blocco di licenziamenti nell’epoca d’oro delle lotte proletarie sulla Tiburtina, la fabbrica fu ceduta alla ISF s.p.a. La produzione continuò fino al definitivo abbandono nel 1990, che lasciò la struttura al suo destino. Nei primi anni 2000 una catena di hotel sembrava intenzionata a rilevare lo stabile e iniziò i primi lavori di rifacimento strutturale; tuttavia gli elevati costi di bonifica, legati alle notevoli quantità di amianto e residui chimici presenti sul posto, indussero la nuova proprietà a bloccare il progetto. La catena alberghiera rinunciò all’impresa e iniziò un contenzioso con la ditta costruttrice che si concluse col pignoramento del fabbricato e dell’area circostante. Il Comune di Roma negli anni seguenti cercò di rilevare e valorizzare l’area, ma la mancanza di fondi e il necessario esborso per la bonifica fecero desistere qualunque iniziativa in proposito. L’immobile, nonostante la sua pericolosità sia a livello strutturale che in termini di salute pubblica, è tuttora di proprietà privata.
Nel corso degli anni numerose sono state le proteste e le segnalazioni da parte delle realtà del territorio che denunciavano l’assurdità della presenza di un ecomostro simile, peraltro su una consolare così importante come la Tiburtina. In un quadrante già pesantemente condizionato dall’emergenza abitativa, dal consumo di suolo e dall’invasione di casinò e sale slot, l’esigenza espressa realtà del territorio era quella di una bonifica, di una riconversione e riqualificazione dell’area dell’ex LEO per destinarla a scopi sociali, culturali, sportivi o abitativi. Un’operazione che avrebbe dovuto prevedere anche particolare attenzione agli occupanti dello stabile, molti dei quali provenienti da altri sgomberi effettuati nella zona come la baraccopoli di Ponte Mammolo nel 2015, via Vannina nel 2016 e nel marzo di quest’anno.
Tutte le richieste sono, ovviamente, rimaste inascoltate. L’ex Penicillina è stata già più volte sgomberata senza prospettive e rioccupata dopo pochi giorni, l’ultima volta all’incirca un anno fa. La modalità era sempre la stessa, già vista parecchie volte sia sulla Tiburtina che altrove: sgombero a fini propagandistici, gente in mezzo alla strada senza alternative, emergenzialità creata ad hoc. Un inutile teatrino di cui abbiamo visto più volte la replica nel corso degli anni, a prescindere dal colore dell’amministrazione, che, tra le altre cose, ha fornito perfetti assist alle formazioni neofasciste per la loro infame campagna di fomento della guerra tra poveri, fortunatamente poco attrattiva a causa della comprovata incapacità dei fascistelli nostrani di intestarsi qualsiasi spazio politico. Un modo, in ogni caso, per distogliere l’attenzione dai veri problemi dei quartieri tiburtini: disoccupazione, precarietà, spaccio, sfratti, carenza di spazi di cultura e socialità. Anche stavolta, come in passato, lo sgombero si è attuato senza soluzioni per gli sgomberati e senza prospettive per il futuro dello stabile. Alcuni edifici delle zone limitrofe sono già stati occupati, le non-soluzioni del Comune hanno, giustamente, spinto buona parte degli occupanti a trovare autonomamente soluzioni alternative. Le persone si spostano, il problema rimane. Si parla di generiche messe in sicurezza e progetti di riqualificazione, ma all’atto pratico sono solo chiacchiere. Staremo a vedere nei prossimi mesi quali saranno le reali intenzioni dell’amministrazione comunale e municipale sulla destinazione dello stabile.
Ci sono, però, in quest’occasione, due dati politici che emergono chiari. Il primo riguarda il governo, l’amministrazione comunale, la questura: insomma la controparte in senso ampio. Al di là delle contingenze territoriali, lo sgombero si inserisce all’interno di una strategia di più ampio respiro. Nella sua dichiarazione di guerra alle occupazioni abitative, l’esecutivo giallo-verde sta iniziando a fare “pulizia” dalle situazioni più estreme, non organizzate, poco propense alla resistenza attiva e con forte presenza migrante. In due parole, facilmente spendibili sul piano pubblico: dichiarazioni ai giornalisti, applausi sui social, passerella di selfie per politicanti di serie C come di serie A, da Salvini alla presidente del Municipio Della Casa. Non c’è volontà, almeno per il momento, di scontrarsi frontalmente con realtà che potrebbero scatenare casi mediatici e problemi di un certo peso, come accaduto a Piazza Indipendenza. Il governo, prima di procedere all’attacco delle situazioni più strutturate, lavora su tre livelli. Il primo è indebolire chi lotta per il diritto all’abitare attraverso la criminalizzazione dell’atto stesso di occupare un immobile, già iniziata con il Piano Casa di Lupi, che arriva a definire, all’interno della circolare Salvini, l’occupazione come un atto eversivo. Il secondo è mostrare una finta apertura alle istanze degli occupanti attraverso l’infame meccanismo delle cosiddette “fragilità”, il cui unico scopo è quello di normalizzare gli sgomberi e dividere gli sgomberati a fronte di soluzioni mai definitive, come i Sassat (i sostitutivi dei residence) o le case famiglia. Il terzo, ma non ultimo, livello è “lavorare ai fianchi” l’opinione pubblica, già fortemente sensibile alle tematiche iper-legalitarie e anti-migranti. In questo senso, l’opera di screditamento avviene assimilando tutte le occupazioni abitative ad esempi estremi come quello dell’ex Penicillina, dove le condizioni di vita disumane e l’eterogeneità della composizione sociale avevano determinato un contesto esplosivo, finito più volte sui giornali per episodi di cronaca. Una dinamica molto simile, senza andare tanto lontano, a quella vista a San Lorenzo con l’episodio di Desireè, oppure al processo in atto già da tempo sulle case popolari, dove si giustificano gli sfratti indiscriminati mettendo nello stesso calderone i furbetti col porsche e chi realmente non ha la possibilità di pagare un affitto. Il dito, come al solito, è ben più grande della luna. D’altronde, almeno su Roma, la giunta Raggi e l’assessore alle Politiche Abitative Castiglione lo hanno detto più volte: si ragiona sul piano tecnico, non politico. Chi è fuori dalle regole, quindi, è in torto a prescindere, senza eccezioni. Lo sgombero di stamattina dimostra che la controparte si sente forte, anche più di quanto realmente sia, e lo fa vedere mostrando i muscoli sia militari che mediatici: da giorni circola l’ordinanza della questura, tutti sapevano giorno e ora dell’operazione, lo spiegamento di forze dell’ordine è stato di un’imponenza raramente vista da queste parti.
E veniamo qui al secondo dato politico della giornata. A fronte di un problema così grande e presente da anni sul quadrante tiburtino, si è dimostrata un’assoluta incapacità di cogliere la sfida. Il risalto mediatico e l’assoluta ipocrisia con cui si continua a trattare il caso dell’ex fabbrica LEO poteva essere un’ottima occasione per far saltare il lauto banchetto a cui tutti si stanno sedendo in queste ore. E’ mancata, ancora una volta, quella spinta in più a far esplodere le numerose contraddizioni del caso, dall’inutilità degli sgomberi alla devastazione ambientale, dal circuito dell’accoglienza alla gestione dell’ordine pubblico, dalla continuità dell’amministrazione M5S con quella del PD alle forti problematiche dei quartieri tiburtini. E’ mancata, ancor di più, la capacità di far uscire la vertenza dal circo mediatico e dalle stanze dei bottoni, di organizzare una resistenza, di portare la contraddizione dai social alla strada, di creare un processo realmente partecipativo sul destino dell’ex Penicillina. La controparte si è sentita talmente sicura da annunciare con largo anticipo lo sgombero, bloccando un’arteria fondamentale come la Tiburtina per un’intera mattinata. Al di là di come si articolerà il futuro dello stabile sgomberato, si parte già da una sconfitta: la totale assenza di mobilitazione, la mancata soggettivazione e attivazione attorno ad un tema così caldo, sia dal lato degli occupanti che degli abitanti del territorio, segnano il tempo della fase politica in corso, a Roma in primis.
Eppure, nonostante tutto, sul piano complessivo siamo ancora agli inizi di una partita a scacchi che si annuncia lunga e complessa. La battaglia, sulle occupazioni come su tanto altro, è appena iniziata; non è la prima volta che capita negli ultimi anni, non sarà neanche l’ultima. La resistenza è possibile, forse anche il contrattacco? Il primo passo potrebbe essere la comprensione dei punti deboli della controparte. La manifestazione leghista dell’8 dicembre è stata un evento di massa, ma ha dimostrato ancora una volta la fallacità e le divisioni della compagine di governo. Preso per assunto il medio consenso di cui gode l’esecutivo giallo-verde, siamo sicuri che tale consenso sia così totalizzante? Siamo sicuri non ci sia una fetta, più o meno ampia, di composizione sociale che si riesca ad aggregare sulle false promesse del governo Lega-M5S senza compromissione con i relitti della sinistra istituzionale? Siamo sicuri che la gran parte dell’adesione all’esecutivo non sia semplicemente l’ultimo, estremo tentativo elettorale di seppellire i partiti tradizionali, senza una vera condivisione a 360°? Siamo sicuri che quella percentuale tutta gialla nelle cartine del voto alle politiche non sia trasformabile in qualcos’altro?
Le risposte sono tutte da scoprire e le troveremo solo nella messa a verifica. Una cosa è certa: la dimensione odierna dei cartel parties, dell’economia finanziarizzata, dell’industria 4.0 determina processi molto più rapidi del passato. Quelle che fino a poco tempo fa erano le architravi del sistema politico sono già diventate pezzi di storia, nello Stivale come nel resto del mondo. Si possono scegliere due strade: continuare a perpetrare dinamiche di auto-rappresentazione e riproduzione di sé stessi, magari anche con qualche piccolo successo capace di garantire la sopravvivenza, ma con assoluta inefficacia nei processi reali; oppure tentare strade mai battute, uscire dal seminato per calarsi a pieno, non senza contraddizioni, nella confusione che regna sovrana, senza prospettive certe ma con la volontà di oltrepassare lo steccato dell’autoreferenzialità. A condizione, però, di non partire sconfitti né intimoriti: il pericolo non si vince mai senza pericolo.
L’ex Penicillina è stata sgomberata, il circo mediatico si è attivato, la strada è ancora lunga. Acta est fabula, lo spettacolo è finito, anche se qui c’è poco da applaudire, e molto da fare.
da InfoAut
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. 👑 — 𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐞𝐥𝐞𝐚𝐧𝐨𝐫 𝐝𝐚𝐡𝐥𝐢𝐚 & 𝐛𝐲𝐫𝐨𝐧 ❪ ↷↷ mini role ❫ r a v e n f i r e 22.03.2021 — #ravenfirerpg
Passi decisi erano quelli che si udivano nel corridoio che la stessa newyorchese stava percorrendo in quel momento, con uno spirito che appariva quasi come una marcia. Aveva sempre ostentato sicurezza, dai vestito che indossava, alla posa che assumeva, tutto nella Janssen sprizzava sicurezza, quasi arroganza, eppure non vi era nulla di più sbagliato. Aveva deciso semplicemente di prendere in mano la situazione e andare nell'unico luogo dove chiunque andava per trovare le proprie risposte, lo studio psichiatrico del dottor Byron Smithson. Sapeva che impegnarsi in un progetto del genere non era facile, ma sapeva anche che ultimamente il suo bisogno di tranquillità era giunto a massimi storici. Appena un mese prima s'era ritrovata nel bel mezzo del bosco senza che nemmeno che se ne accorgesse, e ora quella rabbia, non più troppo latente, era pronta a farla esplodere. Bussò una sola volta alla porta dello studio dell'uomo. In piedi e con la schiena talmente dritta da essere quasi innaturale, Eleanor attese chiedendosi se avesse preso la decisione migliore.
Byron Smithson
Come in ogni pomeriggio dal lunedì al sabato, Byron se ne stava rintanato nel suo ufficio, in attesa che il passare delle ore lo trasportasse dall’appuntamento con un paziente a quello con un altro, seguendo quel ritmo naturale che contraddistingueva le sue giornate. Seduto dietro la scrivania, ben comodo sulla sua poltrona, era intento ad annotare alcuni appunti tra le carte del fascicolo appartenente all’ultimo paziente con cui aveva avuto un appuntamento. A interrompere il suo lavoro c’era stato un rumore deciso e inaspettato: qualcuno stava bussando alla porta del suo ufficio. Stupito, per prima cosa scelse di dare un’occhiata rapida all’orologio ch’era solito tenere al polso; l’orario segnato sembrò non convincerlo, pensò infatti che fosse troppo presto perché il paziente da lui atteso si presentasse, con ben un’ora di anticipo. Questo dettaglio fu sufficiente a far si che lo stupore fosse sostituito da una certa curiosità; era forse qualcuno che si era perso da quelle parti? Dato che il suo ufficio era situato fuori dal centro abitato della cittadina, non era poi impossibile. Mettendo le buone maniere al primo posto, decise di alzarsi e andare ad aprire nonostante fosse certo di ritrovarsi dinanzi qualcuno che non avesse mai visto prima di quel momento. In quanto fantasma, non aveva alcun rischio da correre, ma tendeva ugualmente ad essere prudente. Una volta aperta la porta, ricevette una conferma ai sospetti avuti fin dal principio, e subito rivolse una domanda alla donna che si trovava di fronte, per poi invitarla con un gesto della mano ad accomodarsi. « Posso aiutarla? »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Tantissime erano le recensioni che aveva avuto modo di leggere nel corso delle ultime settimane riguardo allo specialista che aveva deciso di visitare. Alcuni sembravano essere così convinti del lavoro dello Smithson che ne elogiava le doti e le abilità in modo quasi irreale, eppure la newyorchese aveva deciso di dargli così una chance. Avrebbe potuto aiutarla, forse? Ferma in piedi ad attendere che la porta si aprisse, Eleanor si chiese se non avesse perso completamente la testa. Sapeva di dover trovare rimedio a quella irrequietezza e a quei pensieri, ma sapeva anche che sarebbe stato un viaggio lungo e tortuoso. Inspirando sonoramente, sentì il clic della porta che si aprì, mostrando un uomo adulto, che poteva incutere timore con la sua sola presenza. L'espressione apparentemente arcigna sembrava essere parte di lui, ma incurante dello sguardo attendo, ella lo superò addentrandosi così nel di lui ufficio. « Lei è il dottor Smithson, non è vero? » Domandò la giovane, voltandosi nella di lui direzione prima di vedere che la porta fosse effettivamente chiusa. Avrebbe dovuto parlare anche attraverso metafore, ma lo avrebbe fatto, o comunque ci avrebbe provato. « Mi chiamo Eleanor Janssen, ho bisogno del suo aiuto. »
Byron Smithson
« Dottor Smithson in persona. Lieto di fare la sua conoscenza e anche, si spera, di poterla aiutare. » L’ufficio di Byron, riflettendo quella ch’era la personalità del proprietario, si mostrava sin dal principio come un posto accogliente, in grado di trasmettere sicurezza a chiunque vi mettesse piede. Era ben illuminato, spazioso e arredato con gusto in ogni suo angolo, impossibile non sentirsi a proprio agio tra quelle mura tinteggiate di cremisi. In seguito a una breve e decisa stretta di mano, fece ritorno alla propria postazione, liberando la scrivania di quei pochi oggetti superflui che l’avevano occupata sino a quel momento. Tenne soltanto il suo fidato taccuino, su cui era solito annotare ogni particolare rilevante rinvenuto durante le sedute psichiatriche che portava avanti coi pazienti. Raggiunse una pagina nuova, pulita, vi segnò nome e cognome della donna e poi, rimanendo con la penna tra le dita, prese a osservarla per qualche istante: aveva l’aria di qualcuno che stesse accettando con una certa riluttanza e paura di doversi affidare alle mani di un professionista, il che gli fece pensare che non sarebbe stato facile entrare in sintonia con la signorina in breve tempo, incoraggiandolo dunque ulteriormente a volerla aiutare. « Da dove vuole partire? C’è qualcosa in particolare di cui vorrebbe parlarmi da sé, oppure la farebbe sentire più a suo agio ricevere delle domande? »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Una volta all'interno dello studio, tutti i pensieri vennero sbattuti fuori, al di là di quella porta che velocemente s'era chiusa alle di lei spalle. Sentiva la tranquillità pervadere ogni centimetro della propria pelle mentre avanzava in direzione di quella sedia che sembrava essere destinata a lei. Prese posto con la stessa eleganza che l'aveva contraddistinta, prendendosi il tempo per metabolizzare la decisione di presentarsi senza nemmeno un appuntamento, ma agendo con l'istinto che l'aveva sempre guidata.
« Le chiedo scusa per la mia avventatezza. »
Disse la newyorchese con una leggera smorfia sul volto. Era raro che Eleanor chiedesse scusa, e ancor di più che si sentisse in difetto quando lo faceva, ma quella situazione era nuovamente anche per lei. Si guardò attorno, uno studio che trasmetteva tranquillità con quella luminosità che quasi cozzava con l'idea che si aveva, eppure, chissà come, ella non si aspettava nulla di diverso.
« So che avrei dovuto fissare perlomeno un appuntamento, ma quando prendo una decisione mi piace mettermi immediatamente all'opera... Studio psicologia, quindi non deve trattarmi come una dei suoi pazienti, almeno non come quelli che non sanno dove si voglia andare a parare. »
Byron Smithson
« Deduco che abbia pensato “ora o mai più”, e sovrapporre qualcosa da fare tra lei e questo suo obiettivo, come per esempio la telefonata per richiedere un appuntamento, l’avrebbe potuta distogliere dal suo buon proposito. Dunque, non si preoccupi, e per le volte successive ne potremo senz’altro parlare in seguito. » Il dottor Smithson, per merito dei tanti anni di fortunata carriera lavorativa, aveva avuto l’occasione di incontrare ogni sorta di pazienti; per la maggior parte, al loro primo incontro, essere a proprio agio si dimostrava una vera e propria impresa, e gli ci volle poco per constatare che la signorina Janssen sembrasse invece affrontare un precoce processo di adattamento a quel nuovo ambiente. Era di conforto sapere che, almeno in parte, lei avesse una vaga idea di quel che le loro sedute includessero, e di come si sarebbero evolute nel corso del tempo. Dal modo in cui si era posta, inoltre, aveva compreso che preferisse un approccio diretto; non poteva dare per scontato che quel metodo fosse adeguato a ogni paziente, e per tale ragione preferiva partire con entrare in contatto coi suoi pazienti a piccoli passi, lasciando a loro la possibilità di scegliere quale opzione facesse al caso loro. Pensò che, per l’occasione, una domanda breve. « Cosa l’ha portata a voler chiedere la mia consulenza? »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Sapeva che qualsiasi decisione avrebbe preso sarebbe stata sotto la lente d'ingrandimento della sua razionalità, per cui non ci aveva pensato due volte e s'era presentata senza alcun preavviso. Doveva compiere quel gesto in modo così repentino per poter avere una possibile reazione dentro di sé, e doveva ammettere che ora qualcosa stava cominciando a scattare. Inspirò sonoramente Eleanor prima di distogliere lo sguardo e portarlo fuori dalla finestra. Le piaceva osservare il mondo circostante, credeva che anche quello fosse un nuovo punto di vista, ma non poteva più perdere tempo. « Vorrei essere ipnotizzata. So che magari questa non è la sua tecnica, ma ho letto a lungo che si potrebbe utilizzare per sbloccare determinati ricordi... » Non proseguì dicendo che i suoi flash erano dettati da qualcosa di molto più profondo, ma qualcosa sarebbe pur servito, no? Portò lo sguardo sul professionista di fronte a lei ed attese, un'unica risposta era quella che desiderava, tuttavia come l'avrebbe interpretata il dottor Smithson?
Byron Smithson
« Io non sono contrario a questa pratica, e ammetto di averne fatto uso in passato, benché sia richiesta soltanto di rado, soprattutto da parte di un paziente. » Dotato com’era di un volto particolarmente espressivo, il dottor Smithson non sarebbe stato in grado di celare lo stupore provato nel sentire parlare d’ipnosi, essendo abituato a usare metodi molto meno invasivi nella cura dei suoi pazienti. Lei, senza ombra di dubbio, doveva essersi informata a lungo su quel genere di terapia, prima di decidere che potesse essere adeguata alle sue necessità. Di scontentare un paziente non se la sarebbe sentita, essendo anche curioso di scoprire per quale ragione la scelta della donna fosse ricaduta proprio su tale procedimento, ma se fosse dipeso da lui avrebbe preferito partire con un approccio differente. Fece in fretta ad annotare un paio di frasi sul taccuino, e nel frattempo gli venne spontaneo prendere la parola ancora una volta. « Come mai proprio l’ipnosi? Fermo restando che io possa darle quel che sta cercando, sarei curioso di scoprire per quale ragione, prima di accettare. »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Un'espressione appena più contrita cominciò ad aleggiare sul volto della newyorchese che non poteva permettersi il lusso di dire la verità. Chiunque avrebbe potuto prenderla di mira, chiunque avrebbe potuto cominciare a fare due più due, e il fatto che mantenesse, perlomeno il più delle volte. un basso profilo era ciò che le aveva consentito di proseguire una vita pressoché normale. Si strinse nelle spalle mentre visualizzava con esattezza che cosa avrebbe potuto pensare il professionista di fronte a lei. « Immagino che se dovessi essere cosciente, non riuscirei nel mio intento... Inoltre è una pratica non invasiva, non più di tante altre, e so che non tutti sono abilitati a farlo. » Vi era sicurezza nella di lei voce, ma anche ammirazione per un lavoro per cui lei stava studiando e non poco. Ormai era inoltre agli sgoccioli, e presto o tardi avrebbe dovuto perfino scegliere un argomento per la tesi di laurea, e perché no, avrebbe potuto prendere perfino spunto. « Mi aiuterà, so che sarà così. E non prenda la mia sicurezza per arroganza, ma pura e semplice determinazione. La ringrazio, comunque, per avermi dedicato qualche minuto, non voglio impegnarla oltre. » Si congedò con quelle parole, un semplice cenno del capo, prima di alzarsi e dirigersi verso la porta. Era un rischio, ma sapeva di doverlo correre.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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🌻💫 — 𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐠𝐞𝐫𝐭𝐞 𝐡𝐞𝐢𝐤𝐞 & 𝐚𝐥𝐢𝐜𝐞 𝐧𝐨𝐫𝐚 ❪ ↷↷ mini role ❫ beyond the lake 31.10.2020 — #ravenfirerpg #ravenfireevent #spookyravenfire
La notte di Halloween veniva il più delle volte associata alla notte delle streghe, la notte in cui ogni persona sembrava essere autorizzata a fare paura e vestirsi in modo spaventoso, ma con l'andare del tempo spesso era diventata una notte per i bambini. Halloween era una notte che permetteva loro di immaginare storie raccapriccianti nonostante il giudizio dei genitori, e nessuno poteva immaginare quanti di questi fossero più impauriti ora in età adulta di quanto non lo fossero alla loro età. Era anche questo uno dei motivi per la Ivanova aveva scelto la sezione dei più piccoli quando aveva cominciato a scrivere. Quella sera, tuttavia, Gerte era presente al resort appena dietro al lago per osservare e per godersi anche una serata "normale". S'aggirava elegantemente tra la folla, un passo alla volta, mentre molti dei suoi amici erano intenti a ballare e flirtare. Osservava, ispezionava ma fu quando intravide un volto che conosceva solamente di vista che Gerte sentì il bisogno di avvicinarsi.
« Tu devi essere Alice, non è vero? »
Alice Nora Johnson
Alice stava cercando di godersi quella festa e di far filare tutto liscio, non c'erano stati molti problemi legati all'organizzazione, anzi stava andando tutto bene per questo decise di allontanarsi dalla pista e dai suoi fratelli per andare a prendere un po' di coca cola. Non voleva andarci giù con l'alcool quella sera, non che solitamente esagerava ma voleva evitare di dar spettacolo o perdere il controllo, doveva dare l'esempio quella sera. Si versò della coca cola su un bicchiere e si guardò intorno, era bello come tutti si stessero divertendo, rendeva la piccola Alice fiera di ciò,che insieme ai fratelli ed ai Maffei, grazie al resort, avevano organizzato. «Uhm? Si sono io.» Rispose alla giovane che le aveva appena rivolto la parola, non la conosceva o almeno pensava di non conoscerla, però lei sicuro conosceva la Johnson. «Ci conosciamo?»
Gerte Heike A. Ivanova
Non avevano mai avuto occasione di scambiare qualche parola Gerte ed Alice, eppure la fata non sempre rifletteva prima di compiere qualche azione. Aveva visto la ragazza da sola, e in fondo non vi sarebbe stato nulla di male a congratularsi con lei per l'organizzazione, tutto era perfetto ai suoi occhi. La Ivanova si limitò così ad abbozzare un mezzo sorriso quando Alice le rivolse la parola. Non era di certo il tipo che si sarebbe sentita in imbarazzo a rivolgere la parola ad una sconosciuta, e in fondo per una volta era bello che la gente non la riconoscesse. « Mi chiamo Gerte Ivanova, non credo che abbiamo mai avuto l'occasione di presentarci. Ma chi non conosce i Jonhson? » Commentò con quel suo tono ilare che era impossibile da non notare. Tutti gli abitanti di Ravenfire, in particolare gli appartenenti alla comunità sovrannaturale conoscevano i Johnson, ma non per questo la fata pensava di puntare il dito contro. « Volevo congratularmi con te, avete fatto un lavoro ottimo qui... Certo il sindaco ci ha messo il suo zampino, eh? Ma gli effetti speciali, le decorazioni... Cavolo, sembra tutto vero. »
Alice Nora Johnson
«Oh beh diciamo che non passo inosservata.» Mormorò la giovane abbozzando un sorriso, non aveva detto quelle parole con tono nervoso o altro ma era un dato di fatto, i Johnson erano conosciuti sia nella comunità umana di Ravenfire che in quella più speciale, non aveva se la Ivanova fosse umana o meno, ma sinceramente Alice non dava peso a ciò. Umani o meno, per Alice le persone erano tutte uguali. Quando ascoltò Gerte congratularsi circa l'organizzazione della festa, Alice sorrise felice, era bello ricevere tali riconoscimenti, certo aveva collaborato molto con i fratelli ed i Maffei, ma quella festa era venuta su proprio bene. «Ti ringrazio davvero molto, sono contenta che ti piaccia. Ci abbiamo lavorato su da inizio ottobre no stop. Il sindaco e la sua famiglia sono stati molto felici di offrire il resort come location per la festa, anche loro hanno contribuito molto. E' stato un lavoro di squadra.»
Gerte Heike A. Ivanova
La lunga battaglia elettorale, che s'era vissuta nei mesi estivi, aveva dato i suoi frutti, e la fata sapeva che Maffei sarebbe stata la scelta migliore per quella carica politica. Nonostante il resort fosse stato restaurato in un luogo decisamente molto caro alle fate, Gerte sapeva quanto fosse stato arduo lo scontro tra le due fazioni, mettendo in luce sia i punti da migliorare sia quelli che non avevano necessità alcuna. Molte sue sorelle s'erano opposte, ma con l'aiuto della loro caporazza avevano compreso che sarebbe stato semplicemente perfetto e sfruttabile anche a loro favore, ma soprattutto s'erano assicurate che nulla della flora e della fauna fosse messo a rischio. « Posso solamente immaginare. So che crearlo non è stato facile, soprattutto per via anche delle proteste che ci sono state, ma sono contenta che si sia trovato un punto di incontro. » Era impossibile non conoscere gli scontri che v'erano stati, eppure la Ivanova aveva sempre osservato la situazione con occhio neutrale senza mai schierarsi apertamente. Ma in quell'occasione voleva semplicemente godersi la serata. « C'è stato un momento che ho pensato davvero pensato di bere del cervello vero... E poi gli effetti speciali! Non voglio però trattenerti oltre, immagino che le pubbliche relazioni sia all'ordine del giorno quando si organizzano queste feste... »
Alice Nora Johnson
«No, i Maffei se la sono vista brutta riguardo al resort, ma sono comunque contenta che siano riusciti a vincere lo scontro.» Alice sorrise alla bionda con fare educato, i mesi estivi erano stati un susseguirsi di eventi, tra il resort dei Maffei, la campagna elettorale della madre e le votazioni, erano state giornate lunghe e pesanti, fortunatamente tutto si era sistemato ed era andato per il meglio. Quella festa era stata organizzata anche per permettere ai cittadini di passare una serata tranquilla, piena di gioia e divertimento. «Non mi dispiace fare nuove conoscenze, spesso quando si è conosciuti si pensa che uno sia circondato da amicizie, che abbia sempre un qualcosa da fare, ma il più delle volte non è così. E' stato un piacere conoscerti Gerte, spero di rivederti presto in giro. Magari con l'arrivo del natale potremmo bere una cioccolata calda.» La Johnson, aveva poche amicizie, ma buone su questo non vi erano dubbi, ma conoscere nuova gente non le dispiaceva. Sorrise alla ragazza al suo fianco e con un cenno di mano la salutò, per poi raggiungere i suoi fratelli così da vedere se tutto fosse apposto.
Gerte Heike A. Ivanova
Sapeva che il resort era come un terreno minato per le fate, ma la Ivanova era contenta che lo avessero messo a posto mantenendo però salda la promessa che nulla sarebbe stato distrutto dal punto di vista faunistico e floristico. Avevano fatto un lavoro ottimo e si ritrovò così ad annuire con un lieve cenno del capo. « Il piacere è stato mio, e chissà magari avremo anche modo di conoscerci in modo anche più approfondito. » Era un sorriso sincero quello che aleggiava sulle labbra carnose della fata. Possedeva le sue amicizie, le veniva straordinariamente bene legale con il suo buon carattere, eppure perché limitarsi a quelle che già possedeva? « Buona serata Alice. » La salutò cordialmente prima di voltarsi e dedicarsi così alla sua serata. Era il modo perfetto per staccare la mente, divertirsi e potersi godere i suoi ventisei anni con quella frivolezza che in qualche modo la contraddistingueva.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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🍀🌹 — 𝐍𝐄𝐖 𝐏𝐎𝐒𝐓 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐯𝐢𝐞𝐯𝐞 𝐚𝐦𝐞́𝐥𝐢𝐞 & 𝐬𝐚𝐫𝐚𝐡 𝐣𝐢𝐥𝐥𝐢𝐚𝐧 ❪ ↷↷ mini role ❫ mason d'amelie 18.04.2020 — #ravenfirerpg #ravenfireevent #ravenfireilconfine
Forse era la prima volta che la giovane fata si ritrovava a pensare seriamente che cosa sarebbe successo da quel momento in poi. I tumulti in città erano impossibile da ignorare e il fatto che avessero perfino arrestato quei poveri ragazzi senza davvero avere le prove, la diceva lunga su come il Consiglio stesse gestendo la faccenda. Mai prima d'ora Genevieve aveva dato peso alla situazione in città, s'era sempre affidata ciecamente a Leah e alla sua guida, e sapeva che sarebbe stata un capo razza eccellente in futuro. Eppure un velo di preoccupazione cominciò ad affacciarsi nell'animo della fata. Giunta quella mattina, la fata non aveva alcun dubbio su quale fosse la sua destinazione, soprattutto per trovare un poco di pace dopo giorni in cui l'ansia e i pensieri avevano fatto da padroni. Arrivò decisa Genevieve, quando entrò in quell'atelier di moda in cui sapeva perdersi per ore. Appassionata di moda, sapeva che il buon shopping poteva darle la giusta spensieratezza per affrontare la giornata.
Sarah Jillian Marshall
Quella mattina Sarah si trovava alla Mason d'Amelie, questo perché era aveva deciso la proprietaria della boitique a farle indossare qualche abito così da sponsorizzarlo su instagram. Da mesi, Sarah non aggiornava il suo profilo dedicato alla moda, troppo presa da ciò che stava accadendo in città, per questo a tempo perso di tanto in tanto ripubblicava vecchie foto, non tutti se ne accorgevano ma avevano iniziato, alcuni, a lamentarso. Aveva bisogno di nuovi ingaggi, nuovi vestiti e un nuovo feed. Certo, non le sembrava il periodo migliore quello per dedicarsi nuovamente al blog ma era pur vero che prima iniziava prima avrebbe ritrovato quella voglia che per diverse ragioni aveva iniziato pian piano a scemare. Era intenta infatti a provare vari abbinamenti quella mattina, una gonna, un abito lungo, un crop top, insomma tutto ciò che poteva aiutarla ad aggiornare al meglio il suo profilo instagram. Stava scattando una foto che avrebbe inserito nelle storie di instagram quando attraverso lo specchio, vide riflessa l'immagine di Genevieve, amica e fata come lei. «Gen, ciao.» Le sorrise mentre le si avvicinava per salutarla in modo affettuoso. Ultimamente un po' tutto le fate avevano trascorso diverso tempo insieme alla corte, così da poter apprendere le ultime notizie. «Stavo provando degli outfits per ritornare ad aggiornare il profilo instagram. Ti va di aiutarmi? Potremmo scattare qualche foto insieme.»
Genevieve Amélie S. Hale
Trascorrere il tempo tutte assieme aveva fatto sì che le fate si integrassero maggiormente le une con le altre, facendole interagire di più, ma soprattutto spronandole a lavorare in modo sempre più coeso. Tuttavia quel periodo così simbiotico doveva sfociare necessariamente in qualche passione e prima fra tutte, in Genevieve, era lo shopping. Osservò gli abiti sui manichini, impressionata da come quelle semplici cuciture fossero a regola d'arte creando vere e proprie magie. Solo quando vide l'amica nonché sorella, il sorriso della fata divenne ancora più ampio e s'avvicinò alla di lei figura. « Sarah! » La salutò con un rapido abbraccio affettuoso prima di scostarsi ed osservare come quell'abito fosse perfetto su di lei. Seguiva spesso il blog della Marshall, soprattutto perché, esattamente come Genevieve, era appassionata di moda, di stile e soprattutto credeva realmente in quello che faceva. « Stai benissimo, e questo colore ti dona tantissimo! Ehi, perché no? Sono uscita perché avevo bisogno di distrarmi dagli ultimi avvenimenti, e po' di spensieratezza è quello che ci vuole. Avevi già in mente qualche vestito particolare? »
Sarah Jillian Marshall
A Sarah fece naturalmente piacere essere salutata in modo così affettuoso dall'altra fata nonché sorella, era bello come ultimamente si sentissero tutte così unite, gli avvenimenti recenti avevano rafforzato quel legame già abbastanza forte che avevano tra loro. Per Sarah era molto bello essere parte integrante di una famiglia così allargata, le fate tra loro poi si volevano un gran bene e sempre sarebbe stato così, nonostante i dissapori, qualche litigata di tanto in tanto per vedute diverse erano una grande famiglia. «Beh anche io. Ho passato giorni sui libri ed avevo bisogno di un po' di svago.» Erano mesi che non passava qualche giorno spensierato, tralasciando le serate con Gabriel, ma ella aveva realmente bisogno di staccare un po' la spina e quando le si era presentata quell'occasione di poter fare un po' di propaganda alla nuova collezione ella non ci aveva pensato due volte. Voleva riprendere in mano il blog e voleva farlo in grande. «Ci sono due abiti uno rosso ed uno nero favolosi, potremmo indossarli e fare delle foto. Tu come stai comunque?» Si ritrovò a chiedere alla Hale mentre andava a prendere gli abiti del quale aveva parlato poco prima, erano due abiti di un'eleganza stratosferica, di quelli che una volta indossati fanno sentire le persone delle vere principesse. «Direi di provarli anche se non vorrò più togliermeli.»
Genevieve Amélie S. Hale
Impossibile era mentire per le fate, ma nelle parole della Hale non vi era solamente verità, ma anche ammirazione. Aveva sempre osservato l'operato della sorella con grande attenzione ed era fiera di quella determinazione così ben riposta: non tutti avrebbero potuto fare un tale percorso, ma la Marshall sapeva di certo il fatto suo. Un sorriso sincero comparve sulle di lei labbra dopo aver sciolto l'abbraccio e non poté non mostrare la contentezza nel poter fare qualcosa di così estremamente femminile. « Ultimamente mi sono concentrata così tanto sugli allenamenti di nuoto e i turni in piscina che non ho avuto nemmeno il tempo di pensare, sai? » Replicò la fata prima di veder sparire Sarah e rientrare nel suo campo visivo con due abiti che avrebbero lasciato senza fiato chiunque. Non era solita mettere abiti elegante, il più delle volte si sentiva a proprio agio con una semplice tuta e un paio di sneakers ma quegli abiti erano davvero un sogno. « Sono davvero meravigliosi... A parte qualche occasione importante, sarebbe impossibile indossarli in situazioni normali. Ultimamente vivo con le scarpe da ginnastica ai piedi per correre a destra e sinistra. Proviamoli, dai! Quali preferisci? Rosso passione o nero come la notte? »
Sarah Jillian Marshall
«Ti capisco, io mi sto concentrando sullo studio. Ho tralasciato le materie per qualche settimana ed ora mi sento solo stressata perché non riesco più a studiare come dovrei. Allo stesso tempo voglio trovare il tempo per riprendere in mano il blog, mi dispiace trascurarlo.» Sarah era piena di cose da fare, si era ritrovata sommersa dalle faccende ed ora a fatica arrivava a fine giornata. Era sempre esausta come se la linfa vitale fosse stata risucchiata. Ascoltò le parole della sorella ed annuì mentre stringeva i due capi tra le dita esili. «Io vario molto con gli outfits ma questi due vestiti sono perfetti per qualche cerimonia e non per andare a ballare, allo stesso tempo li indosserei in casa solo per sentirmi una principessa.» Ridacchiò mentre fissava quello rosso e quello nero, erano uguali differenziavano solo nel colore ma sapendo il fatto suo anche addosso sarebbero sembrati diversi. Li avrebbe voluti provare tutti e due ma optò per quello nero. «Il nero come la notte, voglio provare quello penso sia più adatto alla mia carnagione. Quello rosso starà perfettamente sul tuo corpo. Non vedo l'ora di vedertelo addosso.» E con ciò si infilò dentro al camerino dove iniziò a spogliarsi così da indossare quello lungo, una volta fatto scostò lievemente la tendina del camerino. «Sei pronta?»
Genevieve Amélie S. Hale
Aveva ascoltato con attenzione le parole della sorella che, una volta presi i vestiti, tornò porgendole quello rosso: senz'altro sarebbe risaltata la sua carnagione scura, differente rispetto alle altre fate, ma non per questo diversa da loro. Si ritrovò così tanto in sintonia con la sorella che non poté fare a meno di annuire con un leggero cenno del capo. Entrambe condividevano una vita carica di impegni, ma non per questo dimenticavano che cosa significava essere fate. « Dovresti riprenderlo, sai? Anzi potrei perfino darti una mano se ti va! » Si offrì la Hale prima di nascondersi in camerino e cominciare così a spogliarsi per indossare quella meraviglia. Si sarebbe sentita come una principessa, aveva ragione Sarah, ma le volte che avrebbe potuto indossare un abito del genere si potevano contare sulle dita di una mano. Aggiustò il corpetto dell'abito, cercando di farlo cadere nel modo migliore possibile e solo dopo un lungo sospiro, uscì pronta a farsi vedere. Fece poi una giravolta su se stessa, con un sorriso contagioso che era impossibile nascondere. « Beh?! Che ne dici? Oh andiamo, non fare la timida, dai vieni fuori! »
Sarah Jillian Marshall
«Aiutarmi con il blog? Hai qualche idea?» Disse dopo essere uscita dal camerino con il suo meraviglioso abito nero addosso, non aveva mai pensato a collaborare con qualcuno nel blog, l'idea però non le dispiaceva, sicuramente una mano 'fresca' e nuova nel blog le sarebbe stata di aiuto e Sarah tra lo studio, la vita da fata e sorella, si aveva poco tempo per curarlo come avrebbe desiderato e ciò per ovvie ragioni le dispiaceva. Si morse le labbra quando guardò la sorella con addosso quel meraviglioso abito rosso e cercò di non scoppiare a piangere. «Ti sta di incanto, ora te lo faccio regalare, questo abito deve essere indossato e non puoi assolutamente lasciarlo qui.» Si emozionava sempre la Marshall quando vedeva le persone con addosso abiti sontuosi e meravigliosi degni di una principessa, amava la moda in ogni sua sfumatura e Genevieve sembrava una di quelle principesse meravigliose e Sarah aveva visto giusto, l'abito le accentuava la bellissima carnagione scura. «Io non sono molto sicura del mio, non è brutto anzi è molto bello ma non penso mi valorizzi abbastanza. Forse è perché non mi sta alla perfezione, vedi è largo. Sono abituata a vestitini un po' più succinti.»
Genevieve Amélie S. Hale
Genevieve non ci aveva pensato due volte a prendere l'abito e provarlo. S'era guardata allo specchio un tempo infinito prima di mostrarsi e incitare poi l'amica a fare lo stesso. Non dovette attendere molto prima di vedere la figura di Sarah con indosso quell'abito che le stava d'incanto. Un sorriso sincero aleggiò sulle di lei labbra, prima di farle perfino battere le mani in un applauso rapido. « Stai benissimo, invece. » Commentò la giovane fata prima di fare un passo ed avvicinarsi per osservare dove Sarah credeva che fosse largo. Osservò meglio prima di fare un leggero cenno del capo in segno di assenso. « Credo che tu abbia ragione, però. Dovresti farlo riprendere qui, ma ho paura che qualsiasi modifica possa stravolgere la fattezza dell'abito... Però non devi regalarmelo, dico davvero. Piuttosto, ho letto che anche Ginny Lagarce ha un blog, ogni tanto mi è capitato di leggerlo... Avete mai pensato di collaborare? » La fata aveva sempre avuto un occhio di riguardo per la moda, e la passione per la lettura aveva fatto sì che scavasse anche nei meandri del web, soprattutto quando si trattava di nuove scoperte. Inoltre, sarebbe stato carino vederle collaborare. « E poi pensavo che potrei aiutarti io... Con il college e la piscina riesco ad organizzarmi abbastanza, e una mano posso dartela. Anche come modella o non lo so, potrebbe essere divertente! »
Sarah Jillian Marshall
«No, dobbiamo modificarlo, non sono modifiche difficili e il vestito non verrà stravolto tranquilla.» Sarah per anni aveva modificato alcuni vestiti da sola, creandone di nuovi, non era di certo bravissima però sapeva distinguere gli abiti che potevano essere modificati senza problemi da quelli che sicuramente perdevano un po' della bellezza iniziale. Annuì alle parole di Genevieve e le sorrise. «Ginny? Leggo anche io il suo blog è molto brava, ha idee brillanti. Però in realtà no, non ci ho pensato. Il mio profilo instagram ha pochi seguaci ancora, ma proverò magari a chiederle.» La Hale le aveva dato una bellissima idea, non ci aveva mai pensato la Marshall a chiedere collaborazioni ad altri blogger come lei, certo Ginny era decisamente più brava di lei ma magari le avrebbe detto di si. «Un aiuto in più è gradito, io con gli esami e tutto avrò difficoltà a dedicarmi a dovere al profilo, poi sto cercando un lavoretto part-time. Si ci divertiremo un mondo insieme mia cara sorella.» Sorrise la fata mentre andava a stringere Gen in un abbraccio, felice lo era, eccome. Con l'aiuto di Genevieve sicuramente ella avrebbe iniziato ad avere più tempo ed idee su ciò da postare. «Su cambiamoci ed andiamo a prendere un bel frullato, ho bisogno di prendere aria.»
Genevieve Amélie S. Hale
L'idea di poter aiutare la sorella con il blog era entusiasmante agli occhi della fata che sperava con tutto il cuore potesse andare in porto. Certo, gli impegni con lo studio e la piscina dovevano andare di pari passo, ma sapeva che con una buona organizzazione avrebbe potuto davvero fare faville. Ricambiò così quell'abbraccio sincero prima di scioglierlo e rintanarsi nuovamente nel camerino per cambiarsi. Quell'abito era davvero splendido e sperava sinceramente di avere occasioni di indossarlo. Solo dopo qualche istante la fata uscì con l'abito appena provato piegato sull'avambraccio destro ed attese non più di qualche minuto Sarah. « Sono certa che anche lei sarà entusiasta di collaborare. E frullato sia, sto morendo di fame... Però offro io, non si discute! » Commentò con un sorriso contagioso che era impossibile da non notare. Avrebbe comprato il vestito, sarebbe andata a prendere un frullato con la sorella e avrebbe trascorso il pomeriggio davvero perfetto.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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Justin (Tape9)
Devo farti una domanda,Justin. Non quella che pensi tu,non ancora. Qual’è la cosa migliore delle superiori ? Le amicizie che stringi ? Le storie d’amore ? No. Sappiamo tutti e due qual’è la cosa migliore... Le vacanze estive! Un fantastico tasto riavvia,e dopo tutto quello che mi era successo al secondo anno,mi serviva proprio riazzerare tutto. Strappare quello che ne restava del mio diario e dimenticare. Ma non sono andata molto lontano.. Sul lavoro il mio complice abituale passava le vacanze dai nonni,e il suo sostituto era abbastanza carino,ma.. decisamente troppo normale. Ed io non riuscivo a liberarmi dal passato. Mi serviva un cambio,volevo essere una persona nuova. Vi siete mai sentiti così ? Non sarei mai più stata invisibile,avrei ricominciato da capo,rimosso il passato e mi sarei lasciata tutto alle spalle. Mi sarei data da fare,sarei stata più furba e più forte. Perché non puoi cambiare gli altri,però,puoi cambiare te stessa. Una parte di me sapeva benissimo che forse era meglio non andare alla festa di Jessica,ma l’altra parte non smetteva di chiedersi che cosa si sarebbe persa.. e chi,se non ci fosse andata. Vi ricordate del cambiamento a cui vi ho accennato ? Per chi non ci fosse stato,quel giorno avevo deciso di tagliarmi i capelli. Mi sentivo cosi libera senza quelle chiome del passato,ed ero così felice di mostrarla ai miei.. però,nulla. Non si sono accorti minimamente di me. Di nuovo non riuscivano ad accorgersi di me. Ed ecco qua. La nuova Hannah.. con la stessa vita di sempre. Pensavo che ricominciare non dovesse per forza dire che dovessi isolarmi completamente,forse avevo incontrato le persone sbagliate. Forse potevo ricominciare con la persona giusta. Però non è andata cosi,e inizio a pensare a tutte le teoria su che cosa sarebbe successo se io non avessi mai messo piede su quella festa. Se avessi saputo cosa sarebbe successo,che cosa aveva in servo per me quella serata,non sarei mai entrata da quella porta. Inizio a pensare,che questo nuovo effetto farfalla sia tutto partito da qui. Ma tutto ciò in un altra cassetta. Comunque. Le feste hanno una strana magia,sono come un universo parallelo,ti fanno credere che tutto sia possibile. Ti fanno credere che forse ce l’hai fatta alla fine E invece no.. vero Justin ? Non lo sapeva. E le persone non cambiano mai. Benvenuto nella tua seconda cassetta,Justin Foley. Quella sera,per la prima volta dopo tanto tempo,non mi sentivo invisibile. Ero nervosa,perché stavo bene.. e non volevo rovinare tutto. Cercavo di essere normale,ma non ero più abituata. - Allora. Ci sono 3 storie da raccontare su questa festa. - Comincerò da questa. La coppia del divano è entrata nella camera da letto. Anzi,ha fatto irruzione,sarebbe più adeguato. Ve li ricordate ? - Oh,come sono finita in quella stanza ? Fa parte di un altra storia. - Torniamo a noi,Justin. Sei stato con la stessa ragazza per tutta la serata,ma non ho intenzione di dire il suo nome. Anche se,chiunque sia stato a quella festa,sa chi è. Comunque. Pensavo che lei avesse finto di essere ubriaca e mi avesse preso a gomitate solo per farci alzare dal divano e costringerci ad andarcene. Ho capito due cose in quel momento: Primo,ero ubriaca. Secondo,lo era anche lei. Il suo compagno di divano ha evitato per un pelo che lei travolgesse il comodino,e quando poi è rotolata già dal letto... due volte... lui l’ha rialzata. Da quel bravo ragazzo che è,ha anche cercato di ridere il meno possibile. Pensavo che l’avresti lasciata in pace,richiudendosi poi la porta alle spalle prima di andarsene. E quello sarebbe stato per me il momento ideale per sgattaiolare fuori. Fine della storia. Invece non è finita qui. Se cosi fosse,questa cassetta sarebbe davvero poco interessante,no ? Ormai,sono sicura che avete già capito che non poteva finire cosi. Anziché andarsene,il ragazzo ha cominciato a baciarla. Lo so,alcuni di voi avrebbero approfittato volentieri di una cosi incredibile opportunità. Un incontro ravvicinato del quarto tipo. Però. Due fatti mi hanno impedito di alzarmi dal pavimento. Con la fronte premuta contro le ginocchia,mi sono resa conto di quanto fossi sbronza e senza forze anche sono per provarci. E con un senso dell’equilibrio di una papera,attraversare la stanza di corsa sarebbe stata una mossa troppo azzardata. La situazione sembrava destinata a sfumare rapidamente. La ragazza non era solo ubriaca e goffa,ma anche completamente apatica. Da quello che potevo sentire,non si sono spinto oltre i baci. Anzi,sembravano baci a senso unico. La ragazza brontolava e si lamentava,stranamente non era ancora collassata del tutto. Alla fine lui ha capito che lei non era affatto in vena di romanticherie,cosi,l’ha infilata sotto le coperte,dicendo che sarebbe passato più tardi per vedere come stava. E se ne andato. A quanto punto vi starete chiedendo; Chi sono queste persone ? Hannah,hai dimenticato i nomi. Ma non è cosi,se c’è una cosa che ho ancora,è la memoria. Peggio per me. Se ogni tanto fossi riuscita a dimenticare qualcosa,forse saremmo tutti più contenti ora. So cosa state pensando,se quella ragazza non avesse bevuto così tanto,forse non sarebbe mai successo niente. Ma era una festa,tutti noi avevamo bevuto troppo. Mi sono alzata,tenendomi in equilibrio con una mano sul letto,mi sono staccata e ho cominciato a barcollare verso lo spiraglio di luce,in certa su cosa ti avrei detto una volta aperto. Però.. la porta si è aperta,ma tu l’hai subito richiusa dicendo di lasciarla riposare. In quel mezzo secondo,spaventata,sono corsa dentro l’armadio e mi sono nascosta. Io ero li,con il cuore che mi batteva forte,intrappolata in mezzo alla stanza. Hai lasciato che il tuo amico entrasse. Hai lasciato che facesse a pezzi la vita di quella ragazza. Patetico. Non ci potevo credere. E non ci potevo credere neanche il tuo amico,perché quando hai riafferrato la maniglia,non si è precipitato dentro. Ha aspettato che tu reagissi. In quel breve istante -in cui sei stato zitto- io sono caduta in ginocchio in preda al voltastomaco,coprendomi la bocca con le mani. Mi sono trascinata verso l’armadio,con le lacrime che offuscavano la luce. E quando sono crollata dentro,una pila di giubbotti sul fondo ha attutito il colpo. Avevo il sangue che mi pulsava nelle orecchie. E mi dondolavo avanti e indietro,avanti e indietro,sbattendo ogni volta la fronte sui giubbotti. Ma con i bassi dello stereo,nessuno mi ha sentita. Ovviamente,con la musica alta,nessuno ha sentito pure lui. Salire sul letto,le molle del materasso che gridavano sotto il suo peso. Nessuno ha sentito. Dovevo fare qualcosa,dovevo fermarlo,ma non riuscivo più a muovermi..e non importa quale sia la mia giustificazione,avere il cervello in pappa non è una scusa. Non ho scuse. Sarei potuta intervenire,fine della storia. Ma per fermarlo davvero,era come se dovessi fermare il mondo intero,come se le cose fossero ormai fuori controllo da cosi tanto tempo che qualunque gesto io compissi non aveva più alcun senso. Era buio li dentro,la musica era assordante.. sembrava che la terra mi stesse inghiottendo. Non ce la facevo più a sopportarlo,questo peso. Volevo che il mondo si fermasse,che finisse in quel preciso instante. Basta. Questa cassetta non è su di lui,e su di me e te Justin. Per te era un amico,ma la tua ragazza aveva più bisogno di te. La ragazza nella camera aveva due possibilità. Ma l’abbiamo abbandonata. Sia io che te. Vivrò con questo peso. E tu come farai Justin ? E lei come sopravvivrà ? Ma perché questa cassetta è su Justin ? E l’altro ragazzo,allora ? Quello che ha fatto molto peggio,no ? Certo. Mille volte. Ma le cassette devono raggiungere tutti i nomi della lista. E se le spedissi a lui,la catena si spezzerebbe. Pensateci bene. Ha violentato una ragazza,lascerebbe la città in un secondo se sapesse,se sapesse che noi sappiamo. Cosa pensi di lui ora,Justin ? Lo odi ? Il tuo amico che l’ha violentata è ancora tuo amico ? Si. Ma perché ? Deve essere un tentativo di negare l’evidenza. Per forza. Certo,ha sempre avuto un carattere di merda,certo colleziona ragazze come se fossero giocattoli,ma siete sempre stati buoni amici. Uscite assieme e più ti sembra di stare con il tuo vecchio amico di sempre,non è vero ? E se lui si comporta come prima,significa che non ha fatto niente di male. Il che vuol dire che anche tu non hai fatto niente di male. Ok,perfetto! Ottima notizia! Perché se lui non ha fatto niente di male,tu non hai fatto nulla di male,allora neanche io ho fatto niente di male. E non sai quanto vorrei non aver distrutto la vita di quella ragazza. Ma è stato così. O quanto meno,sono responsabile,come te. Si hai ragione,non sei stato tu che l’hai violentata,e nemmeno io. E stato lui. Ma tu.. e io.. abbiamo permesso che accadesse. E’ colpa nostra.
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RIFLESSIONE COVID-19
09/05/2020
Quest’anno ci resterà nella memoria per molto tempo ed entrerà nella storia dell’umanità per il Covid 19 che ha mietuto e continua a mietere, tante vittime in tutto il mondo. Il “mio” anno inizia con l’attesa della chiamata per l’intervento di correzione dell’alluce valgo e del piede piatto che doveva essere fatto l’11 Marzo però arriva il Covid e tutto si paralizza per un momento per poi ripartire in modo completamente diverso: molti si ammalano mandando in tilt gli ospedali che si trasformano in brevissimo tempo in ricovero esclusivo di malati Covid ��dimenticando” tutto il resto. La vita di tutti viene stravolta: le industrie si fermano, i negozi chiudono, serpeggia la paura del contagio perché le persone muoiono come mosche e gli ospedali arrancano. Anche la mia famiglia subisce i cambiamenti di vita e le nuove regole imposte dal governo per salvaguardare la nostra salute: una persona a famiglia per la spesa, l’uso obbligatorio delle mascherine per la protezione individuale ecc. però il cambiamento più importante avviene al lavoro: Adriano rimane a casa perché la fabbrica dove lavora chiude nel rispetto delle regole date dal governo, il mio intervento al piede viene sospeso e dall’11 di marzo mi ritrovo a lavorare in rianimazione. L’impatto è fortissimo, il primo giorno sono travolta da un turbinio di informazioni nuove, nuovo ambiente e nuovi colleghi troppo presi da questa situazione terribile per interessarsi ad una collega “nuova” ed impacciata, ma la giornata peggiore è stata il secondo giorno quando mi sono sentita profondamente inutile……non mi era mai successo in 30 di lavoro in ospedale……bella lezione di umiltà!!!!
Lavorando in rianimazione ho vissuto a stretto contatto con questo nemico invisibile che trasforma profondamente i suoi ospiti fino a renderli irriconoscibili, ho potuto vedere gli ultimi giorni di vita del nostro amato Don Adriano una delle prime vittime di questo terribile virus, ancora oggi mi sembra così incredibile che non sia più tra noi, ho visto una collega intubata e sospesa tra la vita e la morte, in questi giorni non è solo la stanchezza fisica ma sopratutto la stanchezza emotiva che segna maggiormente tutti quelli che convivono così a stretto contatto con i malati, è difficile “staccare” quando finisci il tuo turno perché ti restano in mente le immagini, i suoni (tutti i bip dei respiratori e delle pompe che tengono in vita le persone), gli sguardi attraverso le maschere dei colleghi e dei pazienti, le parole che “rubi” durante la giornata ai medici che stanno disperatamente cercando il modo migliore per combattere questo virus che cambia e si modifica in continuazione. Tutto questo lo porti dentro di te anche quando torni a casa e cerchi di vivere una vita normale cercando di far capire alle persone con le quali parli l’importanza del rispetto delle regole perché solo rispettandole possiamo pensare di uscire bene da questa storia senza però spaventare perché la vita deve continuare, perché la paura non ti fa più vivere, ma non è semplice rispondere alle domande di chi ti chiede: come va?, come siete messi in ospedale? E tu vorresti solo dimenticare per qualche ora nella protezione della tua casa.
Ma io sono fortunata perché tutti stiamo bene, nessun famigliare e nessun amico (a parte Don Adriano) ha dovuto sostenere questa terribile “lotta” mentre tante famiglie hanno perso i propri famigliari nel modo più inumano perché non hanno potuto nemmeno stare vicino ai propri cari che se ne sono andati senza poter dare l’ultimo saluto con accanto solo degli “astronauti”, che anche se li accudiscono con tantissima dolcezza, non sono i loro cari.
E allora si fanno tanti pensieri e tante valutazioni, ci si chiede perché tutto questo, che senso possiamo dare a questa situazione, che bene possiamo trarne? Sembra incredibile poter pensare che in tutto questo male ci possa essere del bene ma la fede ci insegna che dalla morte può arrivare la vita: Gesù muore in croce per consegnarci la risurrezione alla nuova vita quindi è dovere dell’uomo e sopratutto del cristiano trovare in questa sofferenza, in questo dolore, il bene nascosto tra le difficoltà del momento e su questo provo a fare una riflessione.
La nostra società è sempre più spinta verso l’egocentrismo, il tutto deve avvenire tutto e subito e bisogna fare in fretta si corre, si corre, non ci si gode il presente ma si è proiettati sempre verso il domani, cose e persone vengono usate in funzione delle proprie necessità, del potere, del denaro……certo ci sono anche tante cose belle di altruismo e rispetto per l’uomo e la natura ma tutti siamo immersi in un vortice che ci trascina dal quale è difficile uscirne; poi arriva lui: il virus Covid-19 e il mondo si paralizza! La ripresa sarà lenta e difficile, in questi momenti di strade silenziose e vuote, di negozi chiusi e gente chiusa nelle proprie case isolata da parenti ed amici, a stretto contatto 24 su 24 con il coniuge e i figli, abbiamo il tempo e il modo di fermarci a pensare alla nostra vita, all’umanità, alla Terra e al modo che abbiamo di relazionarci con essi, ci viene dato modo di riscoprire il piacere di stare in famiglia senza avere niente da fare gustando la bellezza di stare insieme semplicemente, senza fretta ma escono anche i conflitti sopiti: tanto ci si vede poco, oggi però sempre insieme chiusi in poco spazio gomito a gomito……un occasione per ascoltarsi e cercare di capirsi……non sempre facile. Ci viene data l’opportunità di guardare negli occhi le persone imparando a riconoscerci da questi perché il resto è coperto dalla mascherina e ci accorgiamo che non li avevamo mai guardati veramente, che negli occhi possiamo leggere tante cose che non avevamo mai notato prima e che gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima e non mentono.
18/05
Riapertura alla vita “normale” ma lui è sempre presente tra di noi come monito perché non ci dimentichiamo che non possiamo tornare alla vita di prima ma ci sono delle regole che dobbiamo rispettare: prima di tutto l’attenzione all’altro perché mi difendo dal contagio se difendo l’altro, questo dovrebbe aiutarci a spostare la nostra attenzione da noi stessi verso l’altra persona, spero vivamente che questo disastro ci faccia riflettere rendendoci consapevoli che non siamo onnipotenti ma siamo profondamente fragili, che non possiamo pensare solo a noi stessi ma abbiamo bisogno degli altri e che il nostro benessere deriva dal benessere di chi abbiamo intorno a noi.
Oggi riaprono anche le chiese e riprendono le funzioni con tutte le limitazioni e le precauzioni del caso, io non sono molto d’accordo perché alle funzioni partecipano sopratutto gli anziani che a volte non sanno gestire nel modo migliore la mascherina accrescendo così il pericolo del contagio e sono contenta che Don Angelo abbia suggerito alla comunità di “disertare” le funzioni ancora per un po’, è anche vero che manca tantissimo sopratutto l’Eucarestia però questa situazione ci ha dato l’opportunità di pensare a nuovi modi di fare Chiesa al di fuori delle mura fisiche della chiesa per entrare nelle case coinvolgendo anche chi in chiesa per pigrizia o altro, non ci andava da tempo. Questa potrebbe essere l’occasione per “uscire” dalla religione e “entrare” nella fede con nuovi percorsi sfruttando anche ciò che la tecnologia ci mette a disposizione: molto gradita ad esempio, è la Messa in diretta su Facebook che il nostro caro Don Angelo fa ogni domenica e il rosario ogni mercoledì sera per questo mese di maggio dei quali lo ringrazio tantissimo.
Lasciamoci illuminare dalla Luce di Cristo perché questo brutto momento sia un momento di Grazia che ricorderemo non come momento di morte ma come momento di rinascita ad una nuova consapevolezza dell’Amore di Dio, non sentendoci più dei ma figli di un Padre affettuoso che si prende cura di noi, imparando l’abbandono fiducioso alla Sua guida come quando da piccoli con la nostra mano nella mano di nostro padre ci lasciavamo condurre senza paura, senza fare domande sicuri che lui ci avrebbe protetto perché ci amava: “9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? 10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe? 11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!…” (Mt 7; 9-11). Fidiamoci di Dio!
Oltre le nubi il Sole!
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Come migliorare i rapporti tra colleghi di lavoro, ho trovato un modo
Ming Zhen
Cong Xin faceva la cameriera in un ristorante ed era sempre stata una lavoratrice coscienziosa, ma per qualche motivo il titolare di recente aveva cominciato a perdere la pazienza con lei in maniera indiscriminata. Fin da quando era piccola, Cong Xin aveva sempre voluto primeggiare e fare del suo meglio in tutte le cose, e perfino il patrigno molto raramente parlava male di lei. Ma adesso doveva affrontare il titolare del ristorante che intenzionalmente le rendeva le cose difficili. Perciò più volte Cong Xin era stata sul punto di litigare furiosamente con lui, ma poi, riflettendo sul fatto di essere una credente in Dio e di dover essere una persona dotata di umanità e di buon senso, capiva di non poter più agire secondo i propri desideri come avveniva prima che credesse in Dio. Pertanto, quando il titolare andava in collera con lei, Cong Xin in cuor suo pregava: “O Dio! Tu permetti che avvenga questa situazione, e io Ti prego di impedirmi di scaldarmi e di fare qualcosa che getti fango sul Tuo nome o che mi renda lo zimbello di Satana”. Dopo la preghiera, il suo cuore un po’ si calmava.
Una volta, dopo avere pregato, Cong Xin pensò a un brano delle parole di Dio: “Nell’indole delle persone comuni non vi sono disonestà o falsità, le persone hanno un rapporto normale fra loro, non si isolano, e la loro vita non è né mediocre né decadente. E così, pure Dio è magnificato da tutti, le Sue parole permeano l’umanità, le persone vivono in pace fra loro e sotto la cura e la protezione di Dio, la terra è colma di armonia, senza interferenze da parte di Satana, e la gloria di Dio detiene la massima importanza fra gli uomini” (da “Capitolo 16” di Interpretazione dei misteri delle “Parole di Dio all’intero universo” in La Parola appare nella carne). Inoltre pensò a un brano della condivisione del fratello, che diceva: “Ora, i rapporti tra le persone non sono normali. Esse sono state profondamente corrotte da Satana. La loro integrità è tutto fuorché perfetta: le persone cercano solo il proprio tornaconto e nel gestire le cose cercano esclusivamente il proprio vantaggio a spese degli altri in tutto ciò che fanno; in tutte le cose che contano si fanno guidare dai loro obiettivi e scopi personali. Le persone vivono concentrandosi unicamente su se stesse e sui loro desideri materiali; non si preoccupano affatto degli altri e non provano neppure i sentimenti di amorevolezza che l’essere umano dovrebbe avere. Le persone tessono intrighi l’una contro l’altra, lottano le une contro le altre e si scontrano apertamente e in segreto, poiché sono incapaci di andare d’accordo; la coscienza e la ragione, di cui gli esseri umani dovrebbero essere dotati, sono scomparse dalla faccia della terra. Non c’è spirito di collaborazione fra le persone; se non possiedono almeno un po’ di pazienza, diverranno reciprocamente nemici giurati. Con il cuore colmo di malvagità, conflitti, ostilità e differenze inconciliabili, è come se le persone non avessero alcuna somiglianza con l’essere umano. I loro cuori sono stati totalmente occupati da Satana e sono zeppi delle sue concezioni del mondo. Tutto ciò è stato messo a nudo dalle parole di Dio, senza che vi sia alcun errore. Queste situazioni pratiche sono presenti in tutti” (da “I principali problemi da risolvere nel leggere le parole di Dio” nella condivisione del Fratello).
Dalle parole di Dio e dalla condivisione del fratello sull’ingresso nella vita, Cong Xin capì che i rapporti interpersonali erano anomali, perché sono stati tutti corrotti da Satana al punto di aver perduto la normale umanità, e perché vivono secondo filosofie di vita sataniche come “Ognuno per sé e che gli altri si arrangino”, “Noi non attaccheremo se non siamo attaccati; se siamo attaccati, contrattaccheremo”. Perciò litigano fra loro per difendere i propri utili e mantenere le apparenze e la vanità, discutono per cose banali fino ad accendersi in volto e addirittura lottano fino alla morte per queste cose. Cong Xin capiva di essere in collera col titolare perché riteneva di fare un buon lavoro e perciò di dover riceverne l’approvazione; però il titolare non solo non esprimeva mai tale approvazione, ma anzi si incolleriva con lei e le faceva perdere la faccia. Per questo motivo lei riteneva che il torto fosse dalla parte del titolare e pensava di avere un buon motivo per trattarlo allo stesso modo in cui la trattava lui. Ma così non viveva forse secondo il veleno satanico dell’“occhio per occhio”? Riflettendo, Cong Xin capì che Dio stava usando tale faccenda per purificarla e trasformarla, consentendole di imparare a riconoscere la propria natura corrotta mediante i rapporti con le altre persone, nonché di imparare a mettere in pratica la verità e vivere la normale umanità, e imparare a chinare la sua presuntuosa testa ed essere paziente quando gli altri la offendevano.
Cong Xin quindi pensò a un brano della condivisione del fratello che ascoltava spesso: “Se vuoi avere pazienza con gli altri, è necessario innanzitutto comprenderli, il che significa che, se anche qualcuno ti dice una cosa che ti offende, devi prima capire questo: ‘Le sue parole mi hanno ferito. È come se ciò che ha detto avesse messo a nudo i miei punti deboli ed fosse diretto a me. Se le sue parole sono rivolte a me, che cosa vuole dirmi con questo? Sta cercando di farmi del male? Mi considera suo nemico? Mi odia? Si vuole vendicare di me? Non l’ho offeso, quindi la risposta a queste domande non può essere “sì”’. […] Quando ha detto queste parole stava semplicemente esprimendo ciò che pensa una persona normale, […] di certo, non stava prendendo di mira intenzionalmente alcun individuo specifico. Per prima cosa, sii comprensivo, poi la rabbia che provi potrà dissiparsi e così riuscirai a diventare paziente” (da “Come costruire la vita di Chiesa e il significato del costruire la vita di Chiesa” in Sermoni e comunicazioni sull’ingresso nella vita (I)).
Cong Xin allora capì che se voleva davvero essere paziente con gli altri doveva prima raggiungere la capacità di capire. Così, parlando con i colleghi, Cong Xin venne a conoscenza dei recenti sviluppi per il titolare: emerse che una nuova cameriera del ristorante di recente si era sbagliata nell’incassare i soldi delle ordinazioni dei clienti, e per questo il titolare era di cattivo umore e sfogava la sua collera su Cong Xin; non era per qualcosa che avesse fatto lei. Cong Xin pensò che, se le loro posizioni si fossero invertite e fosse stata lei la titolare, si sarebbe incollerita anche lei per una situazione del genere. Se non avesse avuto il giudizio e il castigo delle parole di Dio a proteggerla, sarebbe stata proprio come il titolare. Quando Cong Xin seguì tale ragionamento, vide ridursi in modo sorprendente la collera che provava in cuor suo nei confronti del titolare. Non voleva più discutere col titolare e riuscì da un lato a contemplare normalmente le parole di Dio e dall’altro a svolgere il suo lavoro. Una sera, mentre al termine del lavoro timbrava il cartellino all’uscita, Cong Xin per caso incrociò il titolare. Lo salutò educatamente, dicendo: “A domani, signore”. Il titolare rimase sorpreso e, contrariamente al suo comportamento abituale, rispose cordiale: “Faccia attenzione tornando a casa”. Quella sera Cong Xin, che di solito era molto cauta mentre percorreva le strade a piedi di notte, dimenticò del tutto i suoi timori, poiché per tutta la strada rammentò quegli ultimi giorni nei quali, mediante la preghiera e la contemplazione delle parole di Dio, era giunta a conoscere sé stessa e aveva messo in pratica la verità. Aveva sperimentato che vivendo secondo le parole di Dio era effettivamente in grado di vivere una normale umanità, e aveva il cuore colmo di pace e di gioia.
Nei giorni seguenti, poiché il ristorante era molto affollato, Cong Xin dovette fare gli straordinari con i colleghi. Sebbene il lavoro fosse frenetico e stancante, Cong Xin non si lamentava mai. L’unica cosa che la rendeva scontenta era che i suoi colleghi spesso battevano la fiacca. Per esempio, quando entrava un cliente, i colleghi si affrettavano a prenderne l’ordinazione e a portare le bevande, lasciando a Cong Xin tutto il lavoro sporco, come pulire i tavoli. Specialmente all’ora di punta, Cong Xin correva qua e là sudando sette camicie, e quando veniva l’ora di terminare il lavoro le restava anche da pulire il pavimento. Quasi ogni giorno era l’ultima a cambiarsi d’abito e a timbrare il cartellino. Col passare del tempo, Cong Xin cominciò a sentire di non farcela più. Pensava che percepiva lo stesso stipendio dei suoi colleghi, ma lavorava di più e il lavoro era più stancante del loro, e più ci rifletteva e più si sentiva trattata ingiustamente e provava risentimento. Cong Xin desiderava che il titolare capisse tutto questo e sapesse che lei faticava più degli altri. Se avesse ottenuto anche solo un piccolo aumento, non si sarebbe sentita così di malumore. Cong Xin talvolta provava a fare l’indolente e la furba ma, quando vedeva i tavoli che uno dopo l’altro attendevano di essere puliti, non poteva fare a meno di mettersi all’opera. Si sentiva molto depressa e addolorata e le pareva di essere vittima di prepotenze. Nel suo dolore, Cong Xin pregò Dio: “O Dio! Mi sento esausta e trattata ingiustamente nel mio rapporto con i colleghi. Percepiamo lo stesso stipendio, perciò io non sono disposta a lavorare più di loro. Quali lezioni devo apprendere in questo ambiente? Che cosa posso fare per vivere una normale umanità? Ti prego di guidarmi…”
Un giorno dopo il lavoro Cong Xin arrivò a casa e notò nella condivisione del fratello un brano che diceva: “Devi essere concreto con gli altri. Anche se hai fatto qualcosa di concreto per qualcun altro, non dirlo, poiché è meglio compiere azioni concrete. Per esempio, se qualcun altro ha un problema e tu lo aiuti a risolverlo, e poi dici: ‘Oggi sono stato in grado di aiutarti a risolvere il tuo problema. Non l’ho forse fatto perché ci vogliamo bene? Non l’ho forse fatto perché ti voglio bene?’ Dirlo è inutile, giusto? Quando aiuti qualcun altro, sai in cuor tuo che l’hai aiutato, e ti deve bastare così: che senso ha dire cose del genere? È meglio compiere un’azione concreta! Le tue parole implicano che, offrendo un piccolo aiuto a qualcuno, vuoi conquistarne l’affetto, vuoi che si ricordi di te e sia buono con te. Giusto? Non significa forse essere falsi e indossare una maschera? Non significa forse contrattare con gli altri? […] Perciò, quando parli con gli altri, parla sinceramente, e quando fai le cose, compi azioni concrete; non pronunciare parole false o velate. Anche se aiutiamo qualcuno, che poi è gentile verso di noi o si sente grato, noi non dobbiamo chiedergli queste cose, perché non chiediamo gratitudine a nessuno” (da “Come costruire la vita di Chiesa e il significato del costruire la vita di Chiesa” in Sermoni e comunicazioni sull’ingresso nella vita (I)).
Dopo aver letto il brano della condivisione del fratello, Cong Xin capì che solo una persona sincera ha vere sembianze umane, che le persone sincere sono concrete, si spendono onestamente e sinceramente quando fanno le cose e non chiedono nulla in cambio. Le sue espressioni però stavano a indicare che, se non ci avesse guadagnato niente, non si sarebbe nemmeno alzata dal letto; che, per profondere un impegno maggiore, avrebbe voluto essere pagata; e che, se non avesse ottenuto nulla in cambio, non sarebbe stata disposta a sprecare energie. In realtà, non era stanca lei perché lavorava tanto, ma era stanco il suo cuore. Rifletté: “Come posso non essere stanca se non voglio compiere il minimo sforzo senza essere pagata?” E così Cong Xin finalmente scoprì la causa profonda del suo dolore e del suo risentimento e trovò il modo di andare d’accordo pacificamente con i colleghi, ossia essere una persona davvero sincera e disposta a fare le cose senza chiedere nulla in cambio. Solo in questo modo ci si guadagna l’approvazione di Dio e il cuore diventa calmo e libero. Altrimenti, per quanto impegno si metta in ciò che si fa, è tutto privo di senso. Da quel momento in poi Cong Xin non fu più meschina nel suo rapporto con i colleghi; faceva tranquillamente tutto quello che poteva, senza cercare di cambiare gli altri. In seguito, il capoturno del ristorante all’improvviso cominciò ad aiutare attivamente Cong Xin nel lavoro, e il titolare del ristorante vide che i colleghi di Cong Xin battevano la fiacca e così li fece lavorare di più, e Cong Xin faceva il possibile per aiutarli. Da quel momento i colleghi cambiarono e cominciarono a darsi da fare. In cuor suo, Cong Xin provava un sentimento di gioia inesprimibile; sapeva che tutto questo era il risultato dell’essersi comportata secondo la volontà di Dio, e in cuor suo continuava a ringraziarLo.
In seguito, a causa di un’emergenza, Cong Xin non poté più lavorare al ristorante. Secondo la prassi del ristorante, per licenziarsi doveva dare un mese di preavviso, altrimenti non solo non avrebbe ricevuto lo stipendio di quel mese, ma non sarebbe stata più riassunta in futuro. Ma Cong Xin davvero non aveva il tempo di dare il mese di preavviso e quando consegnò la lettera al titolare si era già rassegnata all’idea di perdere lo stipendio. Inaspettatamente il titolare le parlò con tono serio dicendo: “A essere sincero, detesto davvero che se ne vada. Ormai è molto difficile trovare una persona onesta come lei. Ritengo che lei abbia una levatura davvero notevole”. Cong Xin rispose: “Signore, lei è troppo gentile. Io non ho nessuna levatura, ho studiato solo fino alle scuole medie”. Il titolare disse: “La levatura di cui parlo non si riferisce al grado di istruzione, ma alla sua qualità come persona e alla sua mentalità”. All’udire queste cose, Cong Xin si sentì profondamente confortata, eppure percepiva con molta chiarezza che questo non era dovuto ai suoi meriti, ma dipendeva interamente dal fatto di essere stata trasformata dall’opera e dalle parole di Dio.
Il massimo per Cong Xin fu che un giorno, dopo avere lasciato il lavoro al ristorante, il titolare la chiamò e le disse di andare a riscuotere lo stipendio dell’ultimo mese. Al suo arrivo al ristorante, il titolare le consegnò lo stipendio fino all’ultimo centesimo e le ripeté più volte che poteva tornare a lavorare lì quando avesse voluto. Mai Cong Xin avrebbe pensato che alla prassi del ristorante, fino ad allora sempre immutata, sarebbe stata fatta un’eccezione proprio per lei! In quel momento continuò in cuor suo a ringraziare e a lodare Dio. Sapeva che tutto questo era merito di Dio e che erano state le Sue parole a trasformarla e a consentirle di guadagnarsi il rispetto degli altri. Cong Xin pensò che, se avesse trattato gli altri e gestito le cose seguendo la propria indole corrotta, non avrebbe ricevuto nemmeno un centesimo dello stipendio dell’ultimo mese, e tanto meno il titolare le avrebbe detto di tornare a lavorare lì in qualsiasi momento.
Dopo questa esperienza Cong Xin percepì con chiarezza che, davanti alle difficoltà, se avesse agito facendo affidamento sulle parole di Dio, avrebbe vissuto una normale umanità. In apparenza può sembrare che lì per lì si debba subire una perdita di qualche tipo e si può anche arrivare a perdere la faccia, ma mettere in pratica la verità e soddisfare Dio è una testimonianza che Gli dà gloria! In quanto essere creato in grado di mettere in pratica la verità e soddisfare Dio, Cong Xin non solo poteva guadagnarsi il rispetto degli altri ma, cosa ancora più importante, il conforto che provava in cuor suo non poteva essere misurato né sostituito da alcun guadagno materiale, dalla reputazione o dalla vanità. Sono le parole di Dio ad aver consentito oggi a Cong Xin di apprendere a comportarsi realmente da persona e di imparare a relazionarsi con gli altri, e lei ritiene sinceramente che la gioia provata in cuor suo ogni volta che mette in pratica la verità sia la più grande e più vera benedizione di Dio!
Fonte: La Chiesa di Dio Onnipotente
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Fra qualche ora è finita
Come forse avevo già scritto in qualche post precedente, il 2019 doveva essere l’anno. L’anno del lavoro, dell’andare a vivere da sola, forse dell’amore, di tanti cambiamenti positivi. E invece, guarda un po’, è stato l’anno di un bel niente. Solo guai, guai e ancora guai. E l’ultimo “guaio” sicuramente mi è costato una bella fetta di tempo, disagi, danni psicologici e fatica fisica.
Quello che doveva essere un posto di lavoro sicuro, tranquillo, armonioso e che mi avrebbe permesso di risparmiare e prendermi ulteriore tempo per capire il da farsi della mia vita, è diventato un inferno quotidiano fatto di ansia, panico, voglia di fuggire, contrasto e perdita di qualsiasi sicurezza personale. Mi sono sentita in questi mesi come si sente un animale in trappola: incastrata, claustrofobica, senza vie di uscita e senza soluzioni. Con i miei carnefici a controllare e valutare il mio esistere e il mio vivere in gabbia. Carnefici che ti ricordano il suo potere dando, di tanto in tanto, un colpo ben assestato alle sbarre della gabbia.
La vita di ufficio sicuramente non è per tutti, perché lo stare ore e ore di seguito davanti ad un computer a rispondere a email assurde e a controllare liste e documenti non è qualcosa che regerebbero tutti. Però, se l’ambiente è rilassato, le persone ti creano serenità e c’è un certo rispetto fra colleghi, anche il peggiore dei lavori secondo me diventa fattibile, e può portare anche qualche piccola soddisfazione personale.
Ma come la stavo vivendo io, e per come sono le persone all’interno di quel mostruoso ufficio, sicuramente non era possibile per me ne farmi passare serenamente la giornata, ne riuscire nella possibilità di apprezzare il lavoro. Richiami, rimproveri, occhiataccie continue, cose spiegate a metà, tensione, negoziazione continua anche per le cose più stupide, meeting inutili che avevano lo scopo solo di rendere la giornata più sgradevole, cose dette alle spalle, e chi più ne ha più ne metta. Sicuramente una parte di ansia e stress è stata creata abbondantemente dal mio essere costantemente stata sul “chi vive” e sul mio discomfort personale verso l’ufficio e le persone in ufficio. Ma non posso nemmeno biasimare me stessa, perché vivevo nel ricordo dell’ufficio di Rita: un posto tranquillo e confortevole dove mai succedeva qualcosa di sgradevole o che recava turbamento. Al massimo Giovanna cantava ed Eleonora diceva cavolate in due lingue; ma da lì a dovermi preoccupare di qualcosa, quello no. Ho lavorato ad una scrivania, ad un piccolo portatile, dentro quello che era un archivio/sgabuzzino. Eppure non ero disperata, ne stanca, ne schifata, e non avevo voglia di scappare a gambe levate come un tributo in Hunger Games, ogni volta che una foglia si muoveva più del necessario.
Negli ultimi mesi si invece. Ho vissuto nell’ansia di essere presa in giro, di essere sgridata, ridicolizzata davanti ad altri, e poi non sopportavo più questa costante e pressante inquisizione. Ai tempi delle streghe si controllavano i vestiti, i fazzoletti, le gonne, le tasche, le borse. Oggi si controllavano i minuti, le email, il tempo speso a fare una cosa, che cosa è stato fatto, il numero di parole dette, le parole dette, il modo in cui una certa parola è stata scelta o detta, il tono, il contesto delle parole e del tono.
Un continuo pensare centro volte a cosa dire prima di dirla, e un dirla bene perché altrimenti poteva essere fuorviata, mal interpretata, usata contro di me, storpiandola e rimettendoma in bocca in modo da suonare diversamente. Il tutto in piena libertà perché si sa, quando sei l’ultima arrivata, e nessuno ti conosce, e hai un esperienza pregressa diversa dagli altri, è sempre “better watch out”. Ma guardarsi costantemente le spalle, pesare le parole, le azioni, contare i minuti, i passi, pianificare anche i respiri quasi, è sfiancante. Sfiancante al punto che non lo auguro a nessuno, ma soprattutto non lo auguro a me stessa. Una me stessa che negli ultimi mesi è stata così stanca e spaventata, che mi chiedo ancora come non si sia spezzata prima.
Ma va bene così. Non mi spezzerò più perché oggi vado finalmente a liberarmi di queste catene, a uscire da questa gabbia. Sono giovane, ho una laurea e un master, tanta inventiva, voglia di fare. Dovrò faticare ancora? Cercare ancora? Provare di nuovo a qualcuno che sono abbastanza? Va bene. Il mondo dopotutto va così. Raccoglierò i pezzi, ricomporrò il puzzle, aggiungendo questo pezzetto nuovo che è un esperienza di vita, e ripartirò. Questa vita è un puzzle, incastrare tutti i pezzi non è mai facile, per nessuno, e nessun percorso di vita è ovvio o scontato. Io ce la sto mettendo tutta, già crescere non è facilissimo. Però chiusa una porta se ne spalancherà un altra no?
Inoltre non voglio farmi corrompere dal modo di vivere altrui. Dalla spietatezza e furbizia degli altri. Io non ho mai pensato, e non inizierò oggi a pensare che per salire in alto nel lavoro bisogna salire sopra gli altri. Secondo me ci si dovrebbe tirare su a vicenda. Tendere una mano, allungarla a chi ha più bisogno. Non passargli sopra, schiacciare gli altri. Ma evidentemente non siamo tutti uguali, e non si vive di buoni propositi ed etica. Forse devo solo imparare a difendermi. Devo crearmi una corazza dura e pesante, difficile da scalfire. E trasformare questa ragazzina spaventata e insicura in una donna più forte e sicura di se. Ci vorrà sicuramente del tempo, ma anche questa esperienza mi ha insegnato molto. E mi servirà anche questo. Di certo ho capito che nella vita come nei posti di lavoro non tutti sono gentili e disponibili. Ostilità e cattiveria esistono e io non posso farci niente. Ma posso imparare e fortificarmi.
Sono le 8,20 di mercoledì 2 Ottobre, sono a Roma sul 64, e sto andando a fare qualcosa di nuovo, mai fatto prima: sto andando a dimettermi da quello che doveva essere il lavoro per la mia svolta personale. Una nuova fine, che prospetta perciò un nuovo inizio.
Non so quando scriverò il mio prossimo post, se sarà un post con novità positive o negative. Se sarà breve o lungo come questo. Magari domani, magari fra un anno. Intanto però voglio solo ricordare a me stessa che anche la giornata di oggi passerà. Fra qualche ora sarà tutto passato. Passa tutto, dopotutto. Anche gli incubi finiscono, e ci si sveglia. Oggi mi sveglio finalmente. E respiro.
“Per quanto una situazione sia disperata, c'è sempre una possibilità di soluzione. Quando tutto attorno è buio non c'è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all'oscurità.” Norwegian Wood, Murakami Haruki
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17 novembre
non so minimamente da dove iniziare, e già ho l’ansia. solitamente preferisco dire certe cose di persona e penso che una volta scritto tutto sarei capace di ridilo ad occhi chiusi, ma tutto ciò mi serve per fare ordine nella mia mente che è un casino perenne e penso che ce ne siamo accorti tutti. oggi sono rientrata, e la prima cosa che ho fatto è stata specchiarmi e avevo gli occhi lucidissimi. mi sono fermata un attimo e poi ho iniziato a ridere, è stata una cosa che tipo se qualcuno mi avesse vista da fuori si sarebbe messo paura. oggi sono rientrata a casa dopo un giorno che mi rimarrà impresso, un po’ come gli altri in cui siamo usciti. penso che mi rimarrà tutto impresso. il centro di tutto principalmente, è quello che mi hai chiesto oggi in macchina, cioé cosa dovevi fare di pi per far sì che io sia la tua ragazza (o comunque una cosa simile, il senso era quello) e sul momento ho riso e ti ho detto che penso che ormai io sia già la tua ragazza. non c’era e non c’è tutt’altro da fare se ci penso, perché alla fine non è che andiamo a checkpoint per arrivare poi all’obiettivo finale. mi viene da pensare che stiamo insieme forse da quel giorno a roma. non so che ha avuto di speciale, nonostante fosse dopo nemmeno un mese, ma mi ricordo che quando mi hai abbracciata e baciata su quel muretto ho avuto un brivido. quest’estate, dopo tutta la situazione con luca il mio ex, mi ero praticamente detta che non sarei mai più stata capace di provare qualcosa per qualcuno, mi sembrava così impossibile ricominciare, affezionarmi di nuovo e veramente a qualcuno. infatti, tutti quei ragazzi che sono arrivati dopo li ho scartati perché non riuscivo nemmeno a pensare di affezionarmici. mi è anche capitato di uscire con un ragazzo, uno solo, che mi ha messo un braccio sulla spalla ed io in preda a non so cosa mi sono alzata di scatto e gli ho detto di andarcene a casa. mi ero detta che mai più mi sarei mai fatta prendere da qualcuno, nonostante la bellezza della sensazione ma mi sembrava davvero impossibile. pensavo veramente che non sarei mai riuscita a provare più niente. mi ero promessa di non dare mai più così tanto a qualcuno. invece poi quando ho parlato con te per la prima volta eri solo un qualcuno che mi aveva scritto su instagram, ma la cosa strana è stata che speravo che tu ti facessi vivo ancora. non so perché e come, ma eri simpatico e avevo voglia di sentirti di nuovo. poi mi hai riscritto, e c’è stato un lato di me che ha gioito un sacco. poi siamo passati a whatsapp, e siamo usciti. io quella prima uscita me la ricorderò per tanto, ma non per quello che ci siamo detti o per dove siamo andati, ma mi capita di rivivere quel momento in cui stavo lì da sola in piedi e poi sei arrivato tu. ho impressa proprio la tua faccia in quel momento. penso di non aver avuto mai così tanta ansia in vita mia, io che di solito che l’ho raramente. ero in crisi, non sapevo come stavano i capelli, cosa avresti pensato, che avrei dovuto dirti, come avrei dovuto salutarti. m faccio un sacco di complessi ogni volta, a me che di solito non me ne frega nulla di quello che pensano gli altri, ma di te m’importa. hai tipo spezzato il mio menefreghismo verso tutto. non a caso nella mia playlist c’è la canzone dei negramaro, che riesce a raccontare benissimo come mi sono sentita quel giorno. in realtà, ecco una curiosità, la mia playlist chiamata rdm (acronimo di ricomincio da me) l’ho creata poco prima di quel giorno a roma. perché io, una notte mi sono messa a pensare e mi sono detta che sei tu la parte della mia vita in cui ricominciare, in cui tornare a dare il meglio di me; quindi alla fine è ricominciare da te, perché so che ne vale la pena. è difficile da spiegare, ma è una cosa importante. diciamo che da quando ci sei la mattina mi sveglio un po’ meglio e la sera vado a dormire più tranquilla. diciamo che mi hai invaso la mente, e tipo il 92% dei miei pensieri giornalieri sono rivolti a te. ed io penso tanto eh. sei arrivato nel periodo in cui meno me l’aspettavo. ad un certo punto avevo perso le staffe, nel senso che non m’importava più avere qualcuno accanto che si prendesse cura di me, ero arrivata a quel punto in cui mi bastavo da sola, non m’importava più di nulla. con te sono passata dal “non me ne frega un cazzo degli altri” a chiederti se sei rientrato, se è tutto apposto, se stai bene, se hai mangiato. hai scombussolato tutto, mi hai fatta ricredere su tutto. mi tieni testa, non so spiegarla ma ci provo ma sarà un casino: magari io dico una cosa che per me è giusta perché l’analizzo solo da un lato, mentre con te ho una visione a 360° su tutto; se io faccio la stronza tu fai in modo che io non lo faccia più, ma poi faccio peggio e tu anche, e sì, a volte siamo completamente opposti. non riesco a realizzare niente, con te è la prima volta che le cose mi vanno solo bene. quando mi hai detto quella domenica sera che salivi, ero felicissima ma stavo accanto al telefono aspettando il messaggio in cui mi dicevi che non saresti più salito, perché non mi è mai successo che qualcuno mantenesse la propria parola sempre. invece con te è successo, hai sempre detto qualcosa e poi lo hai fatto e penso che sia una delle cose più belle del mondo. mi fa anche paura tutto questo, mi fa strano, a volte mi impongo di stare attenta perché non sono abituata alla felicità diciamo ed è per questo che potrei essere stronza. perché dopo aver praticamente vissuto in una fase in loop del tipo che oggi ho una cosa e domani mi viene tolta, ci credi a stento quando arrivi davvero alla felicità. una notte in cui tu eri andato a dormire ero rimasta da sola a pensare, e ho pensato che stavolta era quella buona, che anche stavolta c’avrei messo tutta me stessa per quanto difficile poteva essere. è tutto così nuovo per me, una situazione nuova ma bella, bella proprio e tu certe volte mi fotti il cervello ogni volta, non lo so, ci scontriamo e ti faccio rosicare e tu fai rosicare me ma non te lo dico; mi metti le tue idee in testa che poi si fondono con le mie, si crea un casino, e mi zittisco perché ho tantissimi pensieri nella testa che non riuscirei mai a dirli tutti. oggi sono rientrata che mi veniva da piangere dalla gioia, mi basta vederti anche tipo due minuti che mi si ribalta la giornata. mi stupisce tantissimo come una persona, una sola persona, può stravolgere completamente una giornata o la vita. a me rallegra anche darti il buongiorno la mattina, mi basta anche scriverti buongiorno che già sto meglio. e non lo so sei bello, sei carinissimo, mi fai ridere e penso che una cosa che renda l’idea di tutto e che riesca a chiudere tutto sia “mi rendi felice”. io che ho sempre avuto il controllo della mia vita e dei miei sentimenti, ora mi sento tipo in balìa di tutto, io che non permetto a nessuno di entrare nella mia vita come e quando vuole e fare come vuole, io che ho sempre avuto il controllo degli altri, sempre il coltello dalla parte del manico, ora mi ritrovo così, e penso che non ci sia sensazione più bella.
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“Mi regalo il desiderio di non smettere mai di sognare”: Jess festeggia il suo compleanno sul palco di Musicultura
Artista pungente, sagace e a tratti sarcastica, Jess si definisce “dai mille volti e dalle mille maschere”. Venerdì 10 febbraio, giorno del suo compleanno, partecipare alle Audizioni Live è stato per lei il più bel regalo. Alla redazione di Sciuscià, la giovane cantautrice romana racconta le sue radici, l'adolescenza vissuta come un periodo di ribellione e le sue canzoni, che risentono di una forte impronta sociale e riguardano i valori persi e da ritrovare nella nostra società.
Le tue prime canzoni risentono di una grande conoscenza dei cantautori italiani e del panorama rock straniero. Chi sono questi artisti e in che misura è tangibile la loro influenza?
Sebbene abbia suonato hard rock per tanti anni, nelle mie canzoni c’è un mix di influenze. Nel complesso la mia musica spazia molto, fino ad arrivare al pop. Sono cresciuta ascoltando il rock cantautoriale americano, come per esempio Bruce Springsteen. Ora sto apprezzando artisti italiani, tra i quali Fabrizio De André e Pino Daniele, che hanno arricchito la mia esperienza artistica.
Il titolo del disco di cui presenti tre singoli stasera è “Dandy&Roll”. Credi che questi due aggettivi possano rappresentarti? Solo nel tuo modo di fare musica o anche nella vita?
Sono due aggettivi che mi rappresentano nella vita quotidiana. Mi piace descrivermi come una persona che ama il bello e, come i dandy, cura con squisita raffinatezza i dettagli; allo stesso tempo sono molto fredda, ma solo all’apparenza. Faccio questa prefazione per spiegare che dentro di me c'è un’anima rock’n’roll, che non ha limiti, né regole. Vorrei vivere immaginando che oggi fosse l’ultimo giorno. Carpe diem!
La tua prima esperienza musicale è stata con il gruppo Room 101 e, dopo il tuo trasferimento a Bologna, con le Brisk Eyes. Cosa ti ha spinto ad iniziare un progetto musicale da solista? C’è qualcosa che ti manca delle esperienze trascorse suonando con le tue band e che, in un certo modo, ti ha segnata?
Sono cresciuta nella Roma benestante, ma ho sempre rifiutato quel mondo. Il desiderio di ribellione giovanile mi ha portato a trasferirmi a Bologna, dai 18 ai 21 anni. Lì è cominciata l'avventura con le Brisk Eyes: l’esperienza più significativa della mia carriera musicale, di cui ho molti bei ricordi. Abbiamo vissuto suonando in strada, accumulando esperienze quasi ai limiti della legalità; ed io, che non provengo da quel mondo, l’ho però amato. I nostri tour erano infiniti, non sapevamo mai né dove avremmo dormito, né dove ci saremmo svegliate: è proprio questo che mi manca delle mie esperienze con le band. Ad un certo punto, mi sono sentita un po’ frustrata dal punto di vista musicale: l’hard rock è un genere che mi piace, ma in cui ho avvertito il peso dei miei limiti, per cui ho deciso di intraprendere un nuovo progetto da solista.
Sei figlia di un momento storico segnato da importanti cambiamenti sociali e politici: vorresti che la tua musica aiutasse la nostra generazione a prendere maggiore consapevolezza di sé e a costruire una “nuova” coscienza critica?
Io scrivo molto su temi attuali di questo tipo e mi piace poterlo fare. Cielo, un brano che presento stasera sul palco di Musicultura, è una satira sulla situazione politica della mia generazione e su come ci venga imposto il concetto dell’etica religiosa nelle scuole. Nel mio nuovo disco, intitolato “Dandy&Roll”, c’è un pezzo che si chiama 2009, in cui parlo di come la crisi abbia colpito veramente tutti, come ad esempio una ragazza che viene da una realtà benestante come me. Vorrei che le mie canzoni venissero recepite come un invito ad essere più svegli, perché se “il sonno della ragione genera mostri”, non dobbiamo assopirci; rischiamo di diventare tutti figli di Donald Trump.
Hai già partecipato a numerosi concorsi e ricevuto importanti riconoscimenti: come questi hanno influito nella tua carriera artistica e cosa ti aspetti dalla tua partecipazione a Musicultura?
In realtà non hanno influito per niente nella mia carriera musicale: non ho mai partecipato a concorsi per il successo o per arrivare ad un traguardo definitivo. Ho sempre desiderato di poter avere riscontri con l'opinione di gente esperta del settore di confrontarmi con altre realtà. Penso che chiudersi in casa e suonare per se stessi, non permetta di misurarsi con quello che si e ciò che si fa. Qui voglio mettermi alla prova: ho scelto Musicultura perché ne ho sentito parlar bene, soprattutto riguardo la qualità di selezione degli artisti in concorso. Inoltre la prima volta che ho visto lo Sferisterio me ne sono da subito innamorata. Il mio più grande desiderio è di arrivare a suonare su quel palco: so che è un pensiero ambizioso, ma credo che senza sogni non si va da nessuna parte.
Agnese Perfetti
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new role ⋰ 23.06.20 ⋰ maya x eleanor ⋰ stazione ferroviaria ⋰ #ravenfirerpg #anewmayor ⋰
Lunghi ciuffi platino che ricoprivano il suo viso, dita che veloci tamburellavano sul rovente metallo della panchina ed enormi occhioni azzurri che seguivano i passanti con lo sguardo: erano queste le prime cose che era possibile notare di lei. Adelchisia, secondo nome che usava spesso come pseudonimo, adorava la stazione di Ravenfire, perché le ricordava i viaggi che aveva programmato ed osato sognare diverso tempo prima. Non vi era più nostalgia o dolore nel suo sguardo, bensì solo accettazione di un destino che ancora nessuno era riuscito a spiegare. Ma, d’altro canto, chi mai avrebbe potuto farlo, se — fin da quando aveva appreso la sua nuova natura — ella tendeva a nasconderla con dei meravigliosi guanti dei più disparati materiali? Ne aveva d’ogni tipo: in seta per quando doveva partecipare alle serate di gala, in lana per quando doveva coprirsi dal freddo e in cotone per quando doveva andare all’università. Fingersi germofobica era diventata una cosa semplice per lei, ma — al contempo — era una costrizione di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Era nata come uno spirito libero, figlia di un’immatura ragazza di sedici anni e di un uomo che non aveva mai voluto riconoscerla, ma qualcuno le aveva ingiustamente tarpato le ali. Eppure Maya continuava a sorridere e ad osservare senza un minimo di invidia l’uomo che tornava dal weekend con la sua amata, i ragazzi che partivano per le vacanze e l’anziano signore in visita ai propri nipoti. Era una cosa che la rendeva serena e a cui, per nulla al mondo, avrebbe rinunciato. Sicché, si dedico a quell’attività per qualche ora, ma dovette interrompere quando il suo sguardo si posò su una figura conosciuta.
“Eleanor?”
Pose quella domanda con fare interrogativo, aggrottando la fronte nel medesimo istante. Non aveva mai avuto modo di approfondire il rapporto con lei, ma sembrava che ella condividesse il suo stesso tormento — anche se in misura diversa —.
“Sei in partenza?”
Ironia. L’unico modo per stemperare la lieve tensione che l’aveva colta.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Diversi erano stati i tentativi della newyorchese di riprendere quella parvenza di normalità che sembrava essere destinata prima o poi a scomparire, eppure ritrovarsi di fronte all'ultimo luogo dove avrebbe dovuto essere, era una sorta di test finale. La stazione ferroviaria di Ravenfire non aveva nulla paragonata a Grand Central, eppure poteva essere considerata comunque come il luogo dove tutto aveva inizio, o fine, a seconda dei punti di vista. Vedeva coppie lasciarsi, altre che si ritrovavano, altre persone sole che giungevano con sguardo curioso, e altre infine che lasciavano quella cittadina che ora considerava come la sua casa. Era strano. Difficilmente Eleanor lasciava che le emozioni prendessero il sopravvento su di lei, ma doveva ammettere che vedere il tutto da un'altra prospettiva stava diventando interessante. Solo quando sentì il suo nome pronunciato da una voce famigliare, ella si voltò con la fronte leggermente corrugata. Cercò con lo sguardo chi l'avesse chiamata, ma fu quando vide quei crini biondi che la newyorchese si avvicinò di qualche passo nella di lei direzione. « In realtà ero in piena fase riflessiva... Addirittura potrei dire di osservare un certo esperimento sociale. » Commentò la giovane prima di seguire le sue stesse parole con una leggera scrollata di spalle. Non era infatti una novità che Eleanor fosse così attratta da quegli esperimenti che potessero darle maggiori informazioni sui comportamenti umani, eppure doveva ammettere, almeno a se stessa, che c'era un desiderio di tornare a quella che era un tempo. « E tu, invece? Per settimane non ti ho visto... »
Maya Adelchisia Hunter
Poche erano le persone che, come quella mora che aveva difronte, condividevano la medesima sorte di Maya e quest’ultima non faceva che domandarsi che cosa avessero in comune. Dovevano avere qualche caratteristica speciale se erano stati “scelti” fra tanti abitanti o, più semplicemente, un tempismo pessimo. Forse si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, forse qualcuno di loro — lei, ad esempio, che era fra le più giovani e non aveva mai fatto torti a nessuno — era stato prelevato per errore o, forse, tutti loro facevano parte di un disegno più ampio, che ancora nessuno poteva comprendere. Nulla vi era di certo, se non i terribili incubi che ogni notte tormentavano i sonni di quei giovani o l’irrequietezza che governava i loro gesti. Nascere con un dono, infatti, poteva essere bello per qualcuno; ma riceverlo inconsapevolmente dopo una vita intera era stato terribile per tutti. Nessuno escluso. Allorché, la ragazza dai crini color platino si fermò a parlare con Eleanor come se ella fosse una sua amica, come se lei potesse capire come si sentiva sino a qualche minuto prima. Patetico? Forse. “Immagino che tu non avessi in mente quegli esperimenti sociali dove qualcuna si finge l’amante dell’altrui marito. Sarebbe divertente, lo so, ma a Ravenfire non siamo pronti per certe cose.” Esordì con un leggerissimo, ma piacevole, velo di sarcasmo. Parlare era il miglior talento di Maya, quindi era impossibile vederla impacciata o in difficoltà. “Quindi, che cosa stavi cercando di scoprire?” Domandò, passando una mano fra i capelli, ravvivandone l’acconciatura. “Io? Sono stata un po’ impegnata. E tu?”
Eleanor Dahlia H. Janssen
Il sarcasmo che velava le parole di Maya era fondato su un'assoluta verità, Ravenfire non era affatto come le altre cittadine. Eleanor aveva infatti avuto modo di visitare diverse realtà prima di approdare in quella cittadina della Virginia, ma niente era paragonabile a quello che s'era creato. Non si trattava si aspetti superficiali, ma piuttosto di quello che s'infiltrava in ogni anfratto e che non si vedeva alla luce del sole. Lei stessa era una delle protagoniste di quella realtà che ancora oggi faticava a comprendere, eppure l'aveva accettata, non si sa come ma lo aveva fatto. Il suo volto si velò di un sorriso che assomigliava sempre di più ad un ghigno ma che si tramutò inevitabilmente in una risata. « Sembra che Ravenfire sia pronta per ben altro, mia cara. » Commentò la giovane newyorchese dandole solamente una rapida occhiata prima di osservare nuovamente tutte quelle persone che sembravano andare e venire. Un tempo avrebbe deriso cotale povertà nell'abbassarsi a viaggiare in treno, ora invece il sentimento che sembrava correrle nelle vene era più simile all'invidia. « Speravo semplicemente di capire come fanno alcune persone a prendere il treno come mezzo di trasporto. Le persone vanno e vengono in continuazione, lasciano un posto, prendono i loro bagagli e semplicemente partono... Può essere così semplice? » Domandò con curiosità Eleanor, voltandosi questa volta in direzione della bionda. Era a conoscenza del fatto che Maya fosse un amante dei dibattiti, eppure si chiese che cosa nascondesse davvero nel profondo. Ella si limitò così a dare una leggera scrollata di spalle, un movimento con cui fece ondeggiare i lunghi capelli castano chiari come se con quel gesto potesse dire tutto e niente. « Qualcosa del genere... »
Maya Adelchisia Hunter
Era ironico constatare che la sfortuna non conosceva lignaggio, estrazione sociale o aspetto fisico. Maya, se paragonata alla sua interlocutrice, sembrava una bambina che aveva appena iniziato a giocare con i trucchi della madre, eppure ambedue avevano subito il medesimo inspiegabile cambiamento. Non che ciò che le rendesse uguali — la Hunter non avrebbe potuto eguagliare la Janssen in bellezza e classe nemmeno con tutti i soldi dei Fitzgerald —, bensì solo maledettamente simili. La biondina, dunque, si soffermò a riflettere su quel pensiero, prima di alzare un sopracciglio verso l’alto e assumere un’espressione alquanto confusa. Non aveva compreso la di lei allusione, ma si sarebbe sentita stupida a domandarle spiegazioni. Si limitò ad annuire, dunque, e a concentrarsi sul successivo discorso. “Perdonami, qual è la difficoltà?” Pose quella domanda con fare interrogativo, ma non giudicante. Che Eleanor fosse ricca era chiaro — dal modo in cui vestiva, in cui parlava e in cui ostentava, soprattutto —, ma Maya faticava a credere che non avesse mai preso un treno in vita sua. Non era mai stata ad una gita con i compagni di classe? Non aveva mai deciso di saltare le lezioni e trascorrere una giornata fuori? Com’era possibile? “Purché si abbia la possibilità di farlo, è molto semplice. Forse ti stupirà, ma questi treni mi hanno accompagnata nelle giornate più belle della mia vita.” Un velo di tristezza adombrò il suo sguardo. Maya non era solita vivere di rimorsi e rimpianti, ma la sua nuova natura le stava stretta, la soffocava, la incatenava ad un luogo che aveva sempre sognato di lasciare. “E oltre alle cose di questo genere? A cosa ti dedichi?” Domandò, allora, inclinando il capo da un lato. Non voleva essere invadente, ma solo fare ciò che meglio le riusciva: parlare.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Parlare con una persona come Maya non sempre era facile, soprattutto perché la sua innata indole di oratrice sembrava cozzare con quell'aspetto così preciso che quasi ostentava. I guanti indossati sempre a coprire quelle mani femminili erano ormai il tratto distintivo della bionda, Eleanor lo sapeva ma sapeva che non era altro che una semplice facciata. Le due giovani nascondevano qualcosa che le legava nel profondo, qualcosa che le aveva cambiate per il resto delle loro vite, eppure il più delle volte, come in quella situazione, sembravano essere assolutamente normali. « Non è una difficoltà, non almeno in senso lato. Tuttavia, crederesti al fatto che credo di non aver mai preso il treno in vita mia? » Domandò lanciandole uno sguardo. Non era imbarazzo quello che si intravedeva negli occhi della newyorchese, eppure si trattava di qualcos'altro. Ormai considerava Ravenfire la sua casa, con annessi e connessi, e abbandonarla sapere stato così semplice? « La verità è che ovunque andiamo lasciamo una parte di noi stessi nel luogo che lasciamo, e dubito che possa essere semplice. Il fatto che si dica che una persona non torna mai come quella che è partita, forse è vero... » Concluse l'esperimento la quale non sapeva nemmeno lei dove volesse andare a parare, e soprattutto non vedeva nemmeno il motivo di trovare un fondo a quel discorso. Spesso Eleanor s'era seduta ad osservare, a guardare come la vita potesse diversa da persona a persona, e in fondo era quello per cui stava studiando, eppure... Chiuse gli occhi, ignorando le successive parole della bionda la quale probabilmente stava guardando Eleanor come se fosse pazza. « Vado a cavallo il più delle volte, è un qualcosa che mi è rimasto dai tempi di New York... E potresti venire anche tu qualche volta, sarebbe anche un modo per farti vedere più spesso biondina. Ora è meglio che vada... » Alzandosi con un movimento fluido, Eleanor sorrise all'amica con la promessa che presto si sarebbero riviste.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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17 novembre
non so minimamente da dove iniziare, e già ho l’ansia. solitamente preferisco dire certe cose di persona e penso che una volta scritto tutto sarei capace di ridilo ad occhi chiusi, ma tutto ciò mi serve per fare ordine nella mia mente che è un casino perenne e penso che ce ne siamo accorti tutti. oggi sono rientrata, e la prima cosa che ho fatto è stata specchiarmi e avevo gli occhi lucidissimi. mi sono fermata un attimo e poi ho iniziato a ridere, è stata una cosa che tipo se qualcuno mi avesse vista da fuori si sarebbe messo paura. oggi sono rientrata a casa dopo un giorno che mi rimarrà impresso, un po’ come gli altri in cui siamo usciti. penso che mi rimarrà tutto impresso. il centro di tutto principalmente, è quello che mi hai chiesto oggi in macchina, cioé cosa dovevi fare di pi per far sì che io sia la tua ragazza (o comunque una cosa simile, il senso era quello) e sul momento ho riso e ti ho detto che penso che ormai io sia già la tua ragazza. non c’era e non c’è tutt’altro da fare se ci penso, perché alla fine non è che andiamo a checkpoint per arrivare poi all’obiettivo finale. mi viene da pensare che stiamo insieme forse da quel giorno a roma. non so che ha avuto di speciale, nonostante fosse dopo nemmeno un mese, ma mi ricordo che quando mi hai abbracciata e baciata su quel muretto ho avuto un brivido. quest’estate, dopo tutta la situazione con luca il mio ex, mi ero praticamente detta che non sarei mai più stata capace di provare qualcosa per qualcuno, mi sembrava così impossibile ricominciare, affezionarmi di nuovo e veramente a qualcuno. infatti, tutti quei ragazzi che sono arrivati dopo li ho scartati perché non riuscivo nemmeno a pensare di affezionarmici. mi è anche capitato di uscire con un ragazzo, uno solo, che mi ha messo un braccio sulla spalla ed io in preda a non so cosa mi sono alzata di scatto e gli ho detto di andarcene a casa. mi ero detta che mai più mi sarei mai fatta prendere da qualcuno, nonostante la bellezza della sensazione ma mi sembrava davvero impossibile. pensavo veramente che non sarei mai riuscita a provare più niente. mi ero promessa di non dare mai più così tanto a qualcuno. invece poi quando ho parlato con te per la prima volta eri solo un qualcuno che mi aveva scritto su instagram, ma la cosa strana è stata che speravo che tu ti facessi vivo ancora. non so perché e come, ma eri simpatico e avevo voglia di sentirti di nuovo. poi mi hai riscritto, e c’è stato un lato di me che ha gioito un sacco. poi siamo passati a whatsapp, e siamo usciti. io quella prima uscita me la ricorderò per tanto, ma non per quello che ci siamo detti o per dove siamo andati, ma mi capita di rivivere quel momento in cui stavo lì da sola in piedi e poi sei arrivato tu. ho impressa proprio la tua faccia in quel momento. penso di non aver avuto mai così tanta ansia in vita mia, io che di solito che l’ho raramente. ero in crisi, non sapevo come stavano i capelli, cosa avresti pensato, che avrei dovuto dirti, come avrei dovuto salutarti. m faccio un sacco di complessi ogni volta, a me che di solito non me ne frega nulla di quello che pensano gli altri, ma di te m’importa. hai tipo spezzato il mio menefreghismo verso tutto. non a caso nella mia playlist c’è la canzone dei negramaro, che riesce a raccontare benissimo come mi sono sentita quel giorno. in realtà, ecco una curiosità, la mia playlist chiamata rdm (acronimo di ricomincio da me) l’ho creata poco prima di quel giorno a roma. perché io, una notte mi sono messa a pensare e mi sono detta che sei tu la parte della mia vita in cui ricominciare, in cui tornare a dare il meglio di me; quindi alla fine è ricominciare da te, perché so che ne vale la pena. è difficile da spiegare, ma è una cosa importante. diciamo che da quando ci sei la mattina mi sveglio un po’ meglio e la sera vado a dormire più tranquilla. diciamo che mi hai invaso la mente, e tipo il 92% dei miei pensieri giornalieri sono rivolti a te. ed io penso tanto eh. sei arrivato nel periodo in cui meno me l’aspettavo. ad un certo punto avevo perso le staffe, nel senso che non m’importava più avere qualcuno accanto che si prendesse cura di me, ero arrivata a quel punto in cui mi bastavo da sola, non m’importava più di nulla. con te sono passata dal “non me ne frega un cazzo degli altri” a chiederti se sei rientrato, se è tutto apposto, se stai bene, se hai mangiato. hai scombussolato tutto, mi hai fatta ricredere su tutto. mi tieni testa, non so spiegarla ma ci provo ma sarà un casino: magari io dico una cosa che per me è giusta perché l’analizzo solo da un lato, mentre con te ho una visione a 360° su tutto; se io faccio la stronza tu fai in modo che io non lo faccia più, ma poi faccio peggio e tu anche, e sì, a volte siamo completamente opposti. non riesco a realizzare niente, con te è la prima volta che le cose mi vanno solo bene. quando mi hai detto quella domenica sera che salivi, ero felicissima ma stavo accanto al telefono aspettando il messaggio in cui mi dicevi che non saresti più salito, perché non mi è mai successo che qualcuno mantenesse la propria parola sempre. invece con te è successo, hai sempre detto qualcosa e poi lo hai fatto e penso che sia una delle cose più belle del mondo. mi fa anche paura tutto questo, mi fa strano, a volte mi impongo di stare attenta perché non sono abituata alla felicità diciamo ed è per questo che potrei essere stronza. perché dopo aver praticamente vissuto in una fase in loop del tipo che oggi ho una cosa e domani mi viene tolta, ci credi a stento quando arrivi davvero alla felicità. una notte in cui tu eri andato a dormire ero rimasta da sola a pensare, e ho pensato che stavolta era quella buona, che anche stavolta c’avrei messo tutta me stessa per quanto difficile poteva essere. è tutto così nuovo per me, una situazione nuova ma bella, bella proprio e tu certe volte mi fotti il cervello ogni volta, non lo so, ci scontriamo e ti faccio rosicare e tu fai rosicare me ma non te lo dico; mi metti le tue idee in testa che poi si fondono con le mie, si crea un casino, e mi zittisco perché ho tantissimi pensieri nella testa che non riuscirei mai a dirli tutti. oggi sono rientrata che mi veniva da piangere dalla gioia, mi basta vederti anche tipo due minuti che mi si ribalta la giornata. mi stupisce tantissimo come una persona, una sola persona, può stravolgere completamente una giornata o la vita. a me rallegra anche darti il buongiorno la mattina, mi basta anche scriverti buongiorno che già sto meglio. e non lo so sei bello, sei carinissimo, mi fai ridere e penso che una cosa che renda l’idea di tutto e che riesca a chiudere tutto sia “mi rendi felice”. io che ho sempre avuto il controllo della mia vita e dei miei sentimenti, ora mi sento tipo in balìa di tutto, io che non permetto a nessuno di entrare nella mia vita come e quando vuole e fare come vuole, io che ho sempre avuto il controllo degli altri, sempre il coltello dalla parte del manico, ora mi ritrovo così, e penso che non ci sia sensazione più bella.
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