#movimento del Sessantotto
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gregor-samsung · 7 months ago
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La Liberation School dal punto di vista di una madre.
Mercoledì 25 giugno 1969 iniziò la prima Liberation School delle Pantere Nere ad East Bay, presso la chiesa del Buon Pastore, a Berkeley. Avendo udito í camion con gli altoparlanti che il giorno prima avevano annunciato in tutto il quartiere l'inizio della scuola, decisi di andarci con il mio maschietto di due anni per osservare la scena e vedere come potevo aiutare. Ciò che trovai fu una scuola ben organizzata e progressista, nel vero spirito del socialismo. Il primo giorno comparvero circa 10-15 bambini, di età dai quattro ai dieci anni. Ora, dopo più di una settimana, la frequenza varia da 25 a 30 ragazzi, A tutti viene dato un caloroso benvenuto nella « Grande Famiglia », come è chiamato il gruppo. Di fatto fui molto sorpresa quando parlando con una delle sorelle delle Pantere il primo giorno la sentii dire: « Potrebbe portare suo figlio tutti i giorni? ». Non molto sicura di ciò che un bambino vivace di due anni potesse imparare e/o offrire, decisi di dargli una possibilità e continuo a farlo con pochi rimpianti.
La giornata incomincia alle 9:00 con circa tre o quattro bambini. È servita loro una prima colazione di latte, frutta e cereali dallo staff delle Pantere e da volontari della comunità, molti dei quali sono anche attivi in altre organizzazioni. Appena quei pochi sono serviti, comincia il da fare per gli altri bambini che arrivano. […] L'insegnamento segue il programma delle Pantere e la conoscenza dei leader-chiave delle Pantere — Huey P. Newton, Eldridge Cleaver, Bobby Hutton, Bobby Seale soprattutto — costituisce quotidianamente una parte delle lezioni. Ai bambini si insegna anche a conoscere la società in termini di lotta di classe in modo chiaro, facilmente comprensibile per dei bambini. Ogni giorno della settimana è destinato ad uno studio particolare: un giorno si dovrà studiare la lotta di classe, un altro ci sarà un film su lotte come quella della Convenzione Democratica Nazionale di Chicago e venerdì è il giorno delle esperienze sul campo. I giorni delle esperienze sui campo sono organizzati attorno ad attività delle Pantere e sono programmati per dimostrare visivamente la natura razzista, di classe della società in cui i bambini vivono. Così i bambini un giorno visitarono la scena del massacro di polizia del 6 aprile 1968, che portò all'assassinio di Bobby Hutton. La classe vide anche il posto dove Huey P. Newton fu avvicinato dai maiali di Oakland e incastrato in una accusa di assassinio. Durante la settimana i bambini studiano gli avvenimenti di attualità, cultura rivoluzionaria e teoria della lotta di classe. L'educazione è ricevuta bene. I bambini imparano perché concetti chiave e complicati sono presentati in termini semplici. Definizioni come « liberazione significa libertà », « rivoluzione significa cambiamento », sono capite facilmente dai bambini ed ogni definizione è spiegata in maggior dettaglio durante il corso degli studi. Tutte le personalità chiave del partito delle Pantere Nere e nella politica sono identificate con grandi manifesti o fotografie, ognuno dei quali si contraddistingue per un particolare, cosi che i bambini non possano confondersi facilmente.
Chiara Saraceno, Dall'educazione antiautoritaria all'educazione socialista, De Donato editore (collana Temi e problemi), 1972¹, pp. 322-323.
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missviolet1847 · 9 days ago
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Il comunismo cosmico di Franco Piperno - Jacobin Italia
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Il comunismo cosmico di Franco Piperno
Giuliano Santoro
15 Gennaio 2025
Dalla terribile bellezza del lungo Sessantotto al municipalismo, sempre osservando e raccontando le stelle: addio a Franco Piperno
Nella mia infanzia, al nome di Franco Piperno associavo una specie di brigante- licantropo. Mio padre mi portava ad Arcavacata, nel campus dell’Università della Calabria, a vedere «i lupi di Piperno». Cominciavamo a girare attorno alla rete al di là della quale vivevano i lupi. Mio padre certe volte prendeva un bastone e lo batteva sulla recinzione, perché venissero fuori e li potessimo vedere. Una volta uscirono fuori dagli arbusti all’improvviso, come accade nei film di paura quando la colonna sonora accompagna la tensione fino a farla esplodere. Grosso spavento e poi grosse risate. Chissà se quel Piperno, che Andrea Pazienza disegnava coi peli lunghi che uscivano dalle orecchie (appunto, un licantropo), ci guardava dal suo nascondiglio, con cappello a falde larghe, mantello e stivali.
Ma perché, poi, se ne stava rintanato? Quale sceriffo gli dava la caccia e quale reato gli veniva imputato? Mio padre non me lo spiegava e io non glielo chiedevo. Uno si immaginava questo signore che si era dato alla macchia, ma che allevava a distanza addirittura dei lupi. Venne fuori un altro indizio sulla licantropia del Pip. Proprio lui, «quello dei lupi» era anche solito uscire di notte e guardare le stelle.
Siccome la vita è fatta di cerchi che si chiudono e di anni che ritornano, a vent’anni dal mio primo incontro coi lupi finalmente chiesi a Pip quale fosse la loro storia. «Me li regalò un mio amico del dipartimento di ecologia dell’Università della Calabria che si occupava di lupi e di falchi – ha raccontato Pip – Li allevai amorevolmente, li allattai, li seguii, li filmai. Quei cuccioli mostravano un rapporto con la vita e con la violenza senza nessuna sbavatura e ridondanza. Era una dimostrazione di essenzialità. Sembravano chirurghi, quando azzannavano i conigli vivi». Ma perché li tenevi rinchiusi, Pip? «Volevo loro molto bene. Ne ero affascinato, ma ero costretto a tenerli in quel recinto. Altrimenti avrebbero azzannato le pecore dei contadini e quindi sarebbero stati uccisi. La natura aveva fornito loro un’autonomia totale, ma erano finiti per benevolenza umana in un recinto». In tutto ciò, Pip riconosceva la metafora della sua generazione: «Mi parlavano di quanto accadeva a molti dei miei compagni ed amici e un po’ anche a me stesso. Penso in particolare a mia moglie Fiora, che era stata condannata a dieci anni di galera per associazione sovversiva». Come finì? «Per otto mesi non mi staccai da quei lupi. Poi ricevetti anche io un mandato di cattura e non mi parve il caso di scappare con due lupi, era troppo complicato. Allora il rettore dell’università li accolse in quel grande recinto del campus di Arcavacata��.
La storia dei lupi, della loro autonomia e della loro selvaggia potenza costrette dentro una prigione dimostra che Franco Piperno, scomparso a Cosenza il 13 gennaio 2025 a 82 anni, conosceva bene l’arte della retorica e della seduzione linguistica, usava gli aggettivi e gli avverbi da consumato spadaccino della discussione. Come un lupo coltivava l’agguato. Come quando ci spiegava che nel Sessantotto si era smesso di investire sul futuro e si era scelto di giocare tutto sul presente. Era stato il movimento statunitense, diceva Piperno, che «aveva indicato la possibilità di sostituire alla lotta per la presa del potere la sperimentazione collettiva di una diversa vita civile, basata sulla produzione autonoma di relazioni comunitarie, capaci di far posto al corpo, cioè alla sensualità e al piacere». Precisava: «Questo è un punto decisivo perché è come praticare l’esodo, dove esodo non significa più, come gli antichi ebrei, andare via dall’Egitto per raggiungere la terra promessa; piuttosto lasciare emergere un diverso Egitto dal suo stato di latenza».
Piperno dalla Calabria si era spostato, da studente, a Pisa e poi a Roma. Cacciato dal Pci per «frazionismo», era stato tra i fondatori di Potere operaio, con Toni Negri, Oreste Scalzone, Sergio Bologna, Mario Dalmaviva e tanti altri. Era una delle organizzazioni che si formarono nel contesto del lungo Sessantotto italiano ma anche la prima ad autosciogliersi, nel 1973. «Toni dice che eravamo una specie di strana massoneria – mi raccontò una volta, col consueto sarcasmo – Era difficile entrare ma una volta che eri dentro tolleravamo qualsiasi follia». Si differenziava da alcuni suoi compagni di strada che si sono formati alla formidabile scuola della «nefasta utopia» dell’operaismo politico, come la chiamava sarcasticamente Franco Berardi Bifo in un saggio di qualche anno fa. Non cercava nessuna centralità lì dove è più alto lo sviluppo capitalistico. Ma manteneva una caratteristica dello stile operaista, che lo preserva da qualsiasi forma di teorizzazione prescrittiva e lagnosa. La si riconosceva quando affermava che il comunismo, inteso come abolizione della riduzione della forza-lavoro a merce, non bisogna costruirlo magari armati di buone intenzioni e libretti rossi. Esso è già in atto. La potenza della cooperazione sociale è già, qui ed ora, più forte della solitudine del capitalismo. Bisognerebbe prenderne atto, dunque, e per questo vivere meglio. «La festa sessantottina è ritrovare l’interezza dell’essere – scriveva ancora Pip – dove nulla eccede o esclude, per essere completamente sé stessi, occorre fondarsi con gli altri nel tutto; come quando nel carnevale si è donne uomini animali, tutti insieme ebbri fino al punto che l’orgia appare sulla soglia, come assolutamente possibile».
Negli anni del ritorno in Calabria, dopo l’esilio in Canada e Francia a seguito della persecuzione giudiziaria che dal 7 aprile del 1979 in poi colpì lui e tanti suoi compagni e compagne, si occupò di Sud, del rapporto tra sviluppo e ricchezza sociale, della critica del tempo lineare del capitale. Prese la cattedra di fisica della materia e promosse, a Cosenza, la nascita dell’emittente comunitaria Radio Ciroma e lanciò in tempi non sospetti, ben prima dell’epoca di Porto Alegre e della democrazia partecipativa su base locale, la suggestione del municipalismo: «Potere alle città, potenza ai cittadini». Un piccolo aneddoto per dire della capacità di stare nelle cose del mondo. Erano i primi anni Novanta quando, ospite di una tribuna elettorale per esporre il programma della lista civica comunale che aveva messo insieme ai suoi, impiegò il tempo che gli era concesso per tessere l’elogio del locale collettivo di studenti medi che si dedicava alla crescita comune e al mutuo appoggio invece che per chiedere esplicitamente voti. Il dettaglio sta nel fatto che quegli adolescenti (mea culpa: quando si è così giovani si ha il diritto di essere estremisti) impegnavano parte del loro tempo anche a criticarlo duramente, imputandogli una qualche deviazione da chissà quale ortodossia rivoluzionaria. Chapeau, Franco.
Divenne, sempre a Cosenza, per due volte assessore «al planetario» e al traffico. Ruolo che interpretò invogliando gli agenti della polizia locale ad applicare con rigore il codice della strada per dissuadere i suoi concittadini dall’uso dell’automobile anche per i piccoli tratti. E uno dei suoi vecchi compagni infilò una battuta fulminante: «Finalmente Franco è davvero a capo di una banda armata». La sua nomina ad amministratore la si deve a Giacomo Mancini, segretario socialista prima di Craxi e ministro che concluse nella sua Cosenza la sua carriera politica. E che in nome del garantismo aveva difeso Piperno e tutti gli autonomi imputati. C’è una scena che rivela cosa rappresentasse Mancini all’epoca della grande repressione. Il 9 marzo del 1985 la polizia aveva ucciso a Trieste il militante dell’autonomia Pietro Pedro Greco, sparandogli addosso con la scusa che aveva scambiato un ombrello per un fucile. I funerali di Pedro si tennero nel suo paese d’origine, un villaggetto della provincia di Reggio Calabria. Bisogna immaginare che clima ci fosse: pochissimi compagni, affranti e braccati, con le bandiere rosse nel paesaggio lugubre della temperie degli anni Ottanta. A un certo punto davanti alla chiesa si fermò un’automobile e ne scese il leader socialista. Era l’unico personaggio politico a partecipare alle esequie e chiedere giustizia per quella morte.
Le analisi di Piperno di questa fase mettevano insieme l’osservazione filosofica e antropologica delle forme di vita meridiane con la strabiliante capacità affabulatoria di quando raccontava il cielo. Chiunque abbia avuto la fortuna di fare un’uscita notturna nei boschi con lui per assistere allo Spettacolo cosmico che metteva in scena spiegando le stelle, non può dimenticare il modo in cui teneva insieme nozioni astronomiche, narrazioni mitologiche, considerazioni esistenziali, divagazioni politiche. Era un modo di mettere in pratica la convinzione che le diverse materie erano fatte per essere mescolate, messe a confronto, intrecciate e che non esisteva la neutralità del metodo scientifico. Questo doveva essere il senso dell’università, sosteneva Piperno: un luogo in cui tutti i saperi si incontrano, oltre la gabbia delle discipline.
Quando, nel 1978, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, Piperno era già tornato in Calabria, a insegnare Fisica della materia all’università. Capì che la morte del presidente della Democrazia cristiana sarebbe stata un disastro per tutti i soggetti in campo e si adoperò per salvargli la vita, approfittando anche del fatto che nel frattempo alcune sue vecchie conoscenze del Potere operaio romano avevano scelto di entrare nelle Brigate rosse. Gli rimase appiccicata una formula, quella che invitava a coniugare la «geometrica potenza» di via Fani con la «terribile bellezza» degli scontri di piazza del 12 marzo del 1977 a Roma. Era un modo per dire che ogni forma di scontro, anche la più radicale, non avrebbe dovuto prescindere dalla dimensione di massa. Ma la formula, che lui stesso avrebbe definito dannunziana, passò per l’esaltazione del terrorismo. Sempre alla Commissione parlamentare d’indagine sul terrorismo, Piperno disse senza mezzi termini ciò che pensava di quella vicenda e dei motivi che lo spinsero a immischiarsi nell’affaire: «Le Br erano davvero convinte che si potesse interrogare Moro e scoprire i legami con gli Stati uniti – affermò – C’era un livello di analfabetismo politico nel gruppo dirigente delle Br che faceva paura e che peraltro secondo me traduceva la situazione ingarbugliata del paese».
Accanto a saggi pensosi e a scritti densi (molti dei quali raccolti negli ultimi tempi dalla rivista online Machina), Piperno era abilissimo nel motto di spirito, nella risposta ironica lapidaria e dalla logica stringente, maneggiava paradossi che ti mettevano con le spalle al muro. A un interlocutore che in un programma televisivo gli rinfacciava di aver esaltato l’uso della violenza, replicò trasecolato ricordando con una metafora iperbolica il contesto della «piccola guerra civile italiana» degli anni Settanta: «Mi chiede se la violenza è giusta? È come se mi chiedesse se cacare è bello. Cacare non è giusto, è inevitabile». In un’altra occasione, venne accusato di aver favorito coi suoi amici sessantottardi la pratica del libero amore, contro la famiglia tradizionale: «Noi non costringevamo nessuno – replicò Pip, sinceramente sgomento – Se uno voleva essere libero poteva farlo, ma non era obbligato. Con noi a volte c’erano anche preti e suore, nessuno li costringeva al libero amore».
Una vita talmente piena, colma di tentativi, errori, sconfitte avventurose ed esperienze irripetibili, viene riassunta dalle cronache con formule giudiziarie e immaginette pigre e precostituite. Delle quali Piperno era consapevole. Anzi, ci giocava. Una decina di anni fa mi trovai con Franco a Torino, per un dibattito al quale avremmo dovuto partecipare. A un certo punto entrammo in una piccola rosticceria di fronte a Palazzo Nuovo per mangiare un boccone. Venne fuori che anche la signora che ci serviva al bancone era di origini calabresi. Allora attaccammo discorso. Lei era evidentemente sedotta dal suo eloquio elegante. (C’era un vezzo, non solo di Franco devo dire, che portava a mescolare il linguaggio di tutti i giorni a parole d’altri tempi: gendarme per dire poliziotto, malfattore per dire bandito, querulo per dire piagnone e così via). «Ma sa che non si sente molto che lei è di giù? Che mestiere fa?», gli disse la locandiera. Lui rispose con gli occhi di ghiaccio che ridevano, l’inconfondibile erre arrotata e i peli che gli uscivano dalle orecchie ben pettinati: «Dev’esserhe che sono stato in prhigione».
* Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto.
# Franco Piperno
# fondatore e dirigente di Potere operaio 1968
#università della Calabria / professore di fisica
# esilio in Francia e Canada
Brillante e raffinato intellettuale, rivoluzionario alla luce del sole ( citazione da "Il Manifesto), mai contraddittorio. Uomo profondamente legato alla sua terra di origine : la Calabria.
13 /1/2025 C' è luna piena e Venere e le stelle.. Buon viaggio. 🌹💫💫💫
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curiositasmundi · 9 months ago
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[...]
«Penso sia molto bello che una parte della gioventù prenda a cuore i problemi gravi del mondo. Fanno bene a sperare per il futuro», commenta Carlo Rovelli, fisico e saggista, che dopo aver insegnato in Italia e negli Stati Uniti oggi è professore ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille in Francia. Spiega di non avere basi per sapere se il movimento di contestazione che sta prendendo forma sarà unitario e duraturo, né per sostenere o contraddire chi dice che potremmo essere di fronte ai semi di un “nuovo Sessantotto”: «La storia non si ripete. Penso che nessuno possa già sapere come evolveranno le cose». Ma crede che il movimento a supporto del popolo palestinese si stia allargando velocemente in tutti i paesi occidentali «a causa della flagrante contraddizione fra le notizie che arrivano a tutti su quanto accade in Palestina e il racconto dei principali media. In Palestina c'è un massacro in corso, e questo è ovviamente intollerabile per la generosità di molti giovani, che sono immuni, per fortuna, alla pelosità e all'ipocrisia di chi pensa che in fondo vada bene così». 
Secondo il professore nel mondo contemporaneo c’è tanta violenza: «una minoranza, a cui apparteniamo, non esita a massacrare per difendere il proprio dominio e i propri privilegi. Il colmo dell'ironia è che usiamo la parola "democrazia" per giustificare il dominio armato di una minoranza ricca sul resto del mondo: il 10 per cento dell'umanità controlla il 90 per cento della ricchezza del pianeta. Il mondo si sta ribellando e andiamo verso un conflitto globale, in più in piena crisi ecologica. E pensiamo solo a vincere, invece che a cercare soluzioni. Spero che i giovani sappiano spingere a cambiare rotta», aggiunge Rovelli, con la speranza che la voce dei giovani non rimanga inascoltata perché «prendere posizione è importante: il massacro in corso in Palestina è insopportabile. La gente muore di fame, a pochi chilometri da uno stato ricco che li massacra con le bombe». 
Il fisico, conosciuto per le sue posizioni a favore della pace, già durante il Concertone del Primo Maggio 2023 aveva esortato pubblicamente i giovani ad agire. A prendere in considerazione i problemi che mettono a rischio il pianeta, come la crisi climatica, le disuguaglianze crescenti e soprattutto la tensione del mondo che si prepara alla guerra: «La guerra che cresce è la cosa più importante da fermare. Invece di collaborare, i paesi si aizzano uno contro l’altro, come galletti in un pollaio. […] Il mondo non è dei signori della guerra il mondo è vostro. E voi il mondo potete cambiarlo, insieme. […] Le cose del mondo che ci piacciono sono state costruite da ragazzi, giovani che hanno saputo sognare un mondo migliore. Immaginatelo, costruitelo», aveva detto dal palco di Roma, a conclusione di un discorso in grado di scatenare non poche polemiche.  
«Le accuse di antisemitismo sono ciniche e completamente infondate. Questi stessi giovani scenderebbero egualmente in piazza per difendere la popolazione ebraica massacrata.  Anzi, lo farebbero con ancora più furore. Ma è peggio di così: perché brandire la stupida accusa di antisemitismo è soffiare sul fuoco del razzismo: razzismo è leggere tutto in termini di razza, invece che nei termini di chi muore sotto le bombe e chi dà l’ordine di sganciarle. Chi continua a parlare di antisemitismo non sa liberarsi dal suo implicito razzismo», aggiunge oggi. A difesa dei movimenti studenteschi che lottano affinché la guerra a Gaza abbia fine, a sostegno della popolazione palestinese che stanno prendendo sempre più spazio nelle università: «Penso che l'entrata della polizia negli atenei sia un grande insegnamento per i giovani - conclude- insegna loro a diffidare delle istituzioni. A capire che qualche volta il potere non è per loro. È contro di loro, contro la loro sincerità, contro chi muore sotto le bombe». 
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Mary Quant
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Ho sempre disegnato abiti fin da piccola perché non mi piaceva com’erano, paralizzanti e innaturali. Il buon gusto è morte, la volgarità è vita.
Mary Quant la rivoluzionaria stilista che, con la minigonna, ha messo su stoffa la liberazione sessuale.
Nata in un sobborgo di Londra l’11 febbraio 1930, i suoi genitori erano insegnanti scozzesi che probabilmente agognavano per lei lo stesso destino. Sin da bambina, cuciva abiti per le sue bambole e poi per le sue amiche.
Seguendo la sua passione aveva studiato illustrazione alla Goldsmiths di Londra, ribelle e anticonformista a sedici anni andò via di casa. Nel 1955 insieme al marito, il fotografo Alexander Plunket Greene, aprì il suo primo negozio, il Bazaar di Kings Road che in breve divenne un vero e proprio luogo di culto per la generazione degli Swinging Sixties, le tendenze londinesi degli anni Sessanta che puntavano a un cambiamento all’insegna dell’ottimismo e dell’edonismo, che portarono a nuove creazioni artistiche e culturali, i Beatles, la subcultura Mod, l’attivismo politico del movimento anti-nucleare e la liberazione sessuale.
La frattura con il vecchio mondo cominciò a essere rappresentata dal look, quindi da ciò che appariva all’esterno per indicare una rivoluzione molto più ampia. I maschi iniziarono a farsi crescere i capelli e le ragazze, invece, a tagliare capelli e centimetri di stoffa dalle loro gonne, mostrando per la prima volta le gambe.
Le minigonne di Mary Quant, anche se probabilmente non sono state inventate da lei, ma partirono dal suo piccolo negozio nel 1963, per conquistare, in breve tempo, l’attenzione internazionale, diventando la tangibile rottura tra le vecchie e nuove generazioni.
Col suo Ginger Group ha esportato i suoi prodotti negli Stati Uniti facendo una vera e propria fortuna.
Mary Quant è stata una fashion designer talentuosa e visionaria, che ha creato abiti assolutamente anticonformisti per tutte le tasche. Righe diritte, pochi bottoni e zip cucite in posti dove non lo erano mai state.
In un’epoca bigotta e paternalistica, in cui per legge esisteva ancora il capo famiglia e le persone omosessuali erano punite penalmente, migliaia di giovani donne iniziarono a uscire di casa con metà coscia scoperta e gli stivali alti. Una concezione del corpo femminile libero dall’oscurantismo patriarcale che ha segnato un punto di non ritorno.
In anni di conquiste dei diritti delle donne, ben prima che scoppiasse il Sessantotto, Mary Quant, stilista controcorrente, con lungimiranza e spregiudicatezza ha inflitto un colpo al cuore al maschilismo patriarcale.
La minigonna ha segnato un’epoca e creato non poche opposizioni, religiose e culturali, diventando l’emblema della perdizione e del malcostume.
In realtà, ha rappresentato una sorta di autogoverno del corpo che sgretolava l’immagine sottomessa e materna aprendo le porte alla sensualità, che reinventava il corpo femminile imperversando nelle strade di tutto il mondo, in maniera irriverente e ribelle, pregiudicando per sempre il potere maschile di decidere ancora del corpo femminile.
Mary Quant vestiva la donna in un’ottica funzionale alla vita frenetica della modernità, proponeva acconciature con tagli geometrici e asimmetrici, ha lanciato una linea di cosmetici e di calzature, creato impermeabili in Pvc dai colori elettrici, tute, pantaloni, collant sgargianti, che poggiavano sulle forme del corpo senza seguire le plasmazioni feticistiche maschili. Famose sono le sue scarpe e i suoi occhiali, le calze col fiore a cinque petali, l’intimo col suo logo.
L’emblema del suo stile e la sua testimonial per eccellenza è stata Twiggy, la prima top model fuori dagli schemi, esile e quasi androgina, aderente a un’idea liberatoria del corpo femminile che fino ad allora doveva essere morbido e pieno di curve. Certo non poteva immaginare, al tempo, i danni che l’ideale di magrezza estrema avrebbe portato nel mondo della moda e della società in generale.
Nonostante uscisse totalmente fuori dagli schemi culturali dell’epoca, la BBC le dedicò un documentario e, nel 1966, venne nominata Cavaliere della Corona Britannica dalla Regina Elisabetta, dalla quale arrivò con minigonna e caschetto, che ricordava l’acconciatura di Giovanna d’Arco, la prima grande ribelle della storia.
Ha scritto ben due autobiografie, una nel 1967 Quant by Quant e Quant by Quant: the Autobiography of Mary Quant, nel 2012.
Nel 1988 ha disegnato gli interni dell’auto Mini, che, si pensa, sia stata in qualche modo, un modello d’ispirazione in quanto un veicolo piccolo e scattante che segnava una nuova epoca.
Nel 2000 ha ceduto la sua azienda di cosmetici a un gruppo giapponese.
Nel 2014 è stata nominata Dama Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico “per i servizi alla moda britannica”
Nel 2019, il Victoria & Albert Museum di Londra le ha dedicato la prima retrospettiva internazionale che ripercorreva la sua storia dal 1955 al 1975.
Si è spenta il 13 aprile 2023 nella sua casa nel Surrey.
Potrebbe sembrare banale o superficiale, ma di fatto, Mary Quant ha contribuito alla liberazione delle donne, ha offerto un nuovo modo di presentarsi al mondo e segnato indiscutibilmente un’epoca.
Tutte le nostre mamme portavano la minigonna, cosa inammissibile per le loro madri.
Era una questione di moda, sicuramente, ma sappiamo bene che l’evoluzione del costume ha segnato la storia dell’umanità, delle libertà e delle affermazioni o negazioni dei diritti, soprattutto femminili.
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mmnt17 · 6 years ago
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Nanni Balestrini, Editoria e movimento (Gli autonomi vol. 3, DeriveApprodi Editore)
«[...] Contemporaneamente alla chiusura di "Quindici" nasce "Potere operaio". L'annuncio della costituzione del gruppo era stato dato alla fine di luglio '69 e in settembre ci fu a casa mia a Roma in via dei Banchi Vecchi la riunione di fondazione. Tra i partecipanti Toni Negri, Franco Piperno, Giairo Daghini, Oreste Scalzone, Sergio Bologna, Lapo Berti. Utilizzando la struttura di "Quindici", i rapporti e anche parte del materiale non pubblicato, ho preparato, con l’appoggio di Feltrinelli, una nuova rivista intitolata "Compagni,". L’idea era quella di continuare l’opera di "Quindici", offrendo all’azione e al dibattito del movimento uno spazio e una visibilità mediatica. Ne sono usciti solo due numeri, non solo per l’improvvisa scomparsa di Feltrinelli, ma piuttosto perché sono nati e si sono moltiplicati i giornali dei gruppi extraparlamentari: quotidiani, settimanali, mensili, e quindi la funzione di dar voce al movimento era cessata, e io ho cominciato a collaborare ai primi numeri di "Potere Operaio". La redazione della rivista era a Milano, nella casa di Giairo Daghini, la famosa comune di via Sirtori. Ricordo che con una vecchia Citroen DS andavo all’aeroporto a prendere Giairo Daghini e Oreste Scalzone che arrivavano all’ultimo momento con gli articoli del giornale. Ci precipitavamo in tipografia per far comporre i testi col piombo delle linotypes, correggere le bozze e impaginare. Ci mettevamo due giorni. Sempre per Potere operaio ho curato le pubblicazioni «Linea di massa», erano opuscoli su temi specifici, come per esempio sul lavoro tecnico-scientifico, curato da Franco Piperno, o sui Cub della Pirelli. Lasciata la Feltrinelli nel '73-74 ho fatto per la casa editrice Marsilio una collana dedicata a testi del movimento intitolata "Collettivo", dove sono usciti tra l'altro Nord e sud uniti nella lotta dello scrittore operaio Vincenzo Guerrazzi e Scrittura e movimento di Franco Berardi Bifo. Su "Linus" pubblicavo le poesie della Signorina Richmond, ironico personaggio metá  poesia e metá rivoluzione e nel '76 da Einaudi la raccolta di racconti La violenza illustrata . Mi ero intanto trasferito a Milano dove ho curato con Bifo alcuni numeri della rivista dell'autonomia "Rosso" e mi sono occupato di un nuovo progetto editoriale: l'Ar&a. C'era stato un importante convegno a Orvieto, nel '76, con accesi dibattiti sui rapporti tra cultura e movimento. Era stato organizzato dalla Cooperativa Scrittori, creata da Luigi Malerba e Elio Pagliarani con altri scrittori provenienti dal Gruppo 63. Era l'idea dell'editoria alternativa che circolava dopo il Sessantotto, con esempi realizzati in Germania, e anche in alcune zone del movimento in Italia: gruppi di scrittori o politici che si pubblicano da soli, si fanno la loro casa editrice, se la autogestiscono. Si tratta di iniziative piú che lodevoli che peró devono affrontare difficoltá  spesso insormontabili: la debolezza finanziaria, la scarsa competenza editoriale, la poca possibilitá  di diffusione. Per risolvere questi problemi si è pensato a una struttura che potesse fornire i servizi di cui dispone un normale editore medio alle piccole iniziative non in grado di sostenerli per la loro dimensione ridotta. Il lavoro redazionale, la grafica, il rapporto con la tipografia e con la distribuzione nelle librerie, l'ufficio stampa, l'amministrazione, il magazzino sono i servizi indispensabile per poter esistere sul mercato librario e superare la fase dilettantesca e artigianale dell'editoria alternativa, affascinante ma inefficace e sempre in perdita. Con l'Ar&a il lavoro degli editori si limitava alla ricerca dei titoli, al rapporto con gli autori e a mettere a punto i libri che intendevano pubblicare. Veniva definita la programmazione, le date di uscita dei titoli, e poi una volta consegnato il manoscritto alla redazione centralizzata l'Ar&a provvedeva a tutto. Il lavoro redazionale e grafico era eseguito professionalmente. Accentrando la stampa su un'unica tipografia era possibile ottenere prezzi vantaggiosi, e la stessa cosa valeva per l'acquisto della carta in grandi quantitativi. L'ufficio stampa poteva offrire ai giornali una vasta gamma di libri di cui occuparsi. Il fatto di operare per diverse sigle permetteva di presentarsi con un buon numero di uscite regolari mensili a un distributore nazionale, che non aveva interesse a lavorare per chi produceva pochi titoli saltuari. Era stata creata una societá  tra me, il giovane Luigi Durso che aveva procurato il finanziamento iniziale, e Gianni Sassi, personaggio dell'undreground milanese, proprietario della casa discografica Cramps per cui incidevano gli Area, che ne hanno suggerito il nome. Alcune sigle editoriali coinvolte preesistevano, come la Cooperativa Scrittori, le Edizioni delle donne e Multhipla di Gino Di Maggio, grande collezionista d'arte. Altre sono nate come emanazioni di riviste: L'Erba voglio di Elvio Facchinelli, le Edizioni Aut aut di Pierluigi Rovatti. Lavoro liberato di Francesco Leonetti era legata ai gruppi marxisti-leninisti, e I Libri del No di Dario Paccino ai comitati autonomi operai di Via dei Volsci, mentre Librirossi di Andrea Bonomi all'area autonoma milanese. Piú anomale le edizioni di Squilibri condotte da Dario Fiori detto Varechina che proponeva pamphlet provocatori come Un risotto vi seppellirá, materiali di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano, e di Profondo rosso dedicate al thriller e inaugurate con i Racconti sanguinari curati da Dario Argento. Si producevano 7/8 titoli al mese, quanto un buon editore medio, i libri erano presenti nelle librerie, i giornali se ne occupavano, i ricavati delle vendite arrivavano regolarmente e venivano ripartiti con i diversi editori. Nel suo anno e mezzo di vita Ar&a arrivó a pubblicare piú di cento titoli, alcuni con un buon successo immediato come Il Superuomo di massa di Umberto Eco e Fantasmi italiani di Alberto Arbasino, oppure La fabbrica della strategia, 33 lezioni su Lenin di Toni Negri, Alice è il diavolo del collettivo A/traverso, e poi molti titoli delle Edizioni delle donne, in particolare S.C.U.M., manifesto per l'eliminazione dei maschi di Valerie Solanas. Ma nell'inverno 1978 l'Ar&a è costretta a interrompere la sua attivitá. Approfittando della lotta contro il terrorismo la repressione aveva cominciato a aggredire la parte piú esposta del movimento, l'informazione, l'editoria, le librerie, con continue perquisizioni e denunce. Minacce di arresto da parte dei carabinieri avevano convinto il socio finanziatore a sospendere temporaneamente le pubblicazioni, arresto che poi è diventato definitivo [...]».
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paoloxl · 6 years ago
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(via Albania, prima o poi doveva accadere – Articolo21)
«Prima o poi doveva accadere». Sono le prime parole di Gresa Hasa, 23 anni, nata e cresciuta a Tirana, studentessa di Scienze politiche: una delle menti – anche se lei non lo ha detto – della protesta che dal 4 dicembre paralizza l’Università pubblica albanese. Un “Sessantotto altrove”, scattato cinquant’anni dopo? La tentazione al parallelo è forte, ma per capire cosa stia succedendo in Albania potrebbe essere più utile mettersi nei panni di Gresa: una giovane donna europea che non vuole lasciare il suo paese e non capisce perché, in termini di istruzione e di prospettiva, dovrebbe accettare di avere così tanto meno rispetto a una coetanea italiana, tedesca o francese. La cassa di risonanza delle sue parole – tranchant e amare, ma mai venate di vittimismo – è l’insufficienza della democrazia costruita da Berisha e Rama: ex leader dei giovani, che giovani non sono più.
Sono quasi due mesi che non si fa lezione. Come si è arrivati a questo punto?
Il Movimento Lëvizja Për Universitetin esiste dal 2012 e manifesta da più di quattro anni, ma l’Università pubblica è paralizzata dal 4 dicembre scorso, da quando hanno detto agli studenti di architettura che avrebbero dovuto pagare una tassa per ogni credito formativo degli esami arretrati. Da lì è partita una protesta che ha coinvolto diverse città del paese, portando 15.000 studenti davanti al ministero dell’Istruzione.
Quanto è spontanea e quanto organizzata la mobilitazione di massa che stiamo vedendo?
La protesta del 4 dicembre è cominciata grazie agli studenti. Studenti liberi. Lo ribadisco perché il nostro principale problema sono le infiltrazioni dei militanti inviati dai partiti, che vorrebbero strumentalizzarci per loro tornaconto. La maggior parte dei ragazzi che avete visto in strada in questi mesi non è politicizzata, viene da famiglie normali, molti da strati medio-bassi; dalla protesta non guadagnano nulla, anzi rischiano personalmente. In un paese corrotto come il nostro questa cosa fa la differenza, la gratuità della nostra mobilitazione è qualcosa di nuovo ed è la nostra forza. Gli attivisti del Movimento per l’Università si stanno impegnando per tenere costante la mobilitazione e il livello di informazione tra gli studenti; ma anche per noi, che organizziamo manifestazioni da anni, la reazione di dicembre è stata una sorpresa. Una sorpresa bellissima.
Dunque la mobilitazione è spontanea, ma tu e gli altri attivisti del Movimento per l’Università soffiate sulla brace per tenerla viva. Ho capito bene?
Noi del Movimento continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto: mobilitazione e sensibilizzazione. Non rivendichiamo alcuna leadership, cerchiamo di dare una mano e di condividere la nostra esperienza con tutti gli studenti che sentono il desiderio di partecipare alla protesta. Per comunicare all’esterno le nostre iniziative utilizziamo una pagina FB e un profilo Instagram .
Cosa avete chiesto al governo? Qual è il vostro obiettivo?
La nostra protesta è diretta conseguenza della riforma dell’istruzione superiore varata nel luglio 2015 [dal primo governo Rama, ndr.] La riforma si basa sull’idea neoliberista che la concorrenza tra le università pubbliche e private (che in Albania sono di più) innalzerà il livello dei servizi e dell’offerta didattica. Per il momento l’università pubblica ha visto crescere solamente le rette, ed è normale che sia così: se il bilancio statale per l’istruzione stanzia il 50% delle sue risorse per le università private, quelle pubbliche dovranno rifarsi sugli iscritti. In Albania buona parte degli studenti lavora, ma un anno di triennale costa circa 350 euro, che è più del salario medio mensile. L’iscrizione al master è molto più cara, si aggira attorno ai 1.700 euro.
A Tirana ci sono studenti da tutto il paese: immaginate che ogni gennaio, per pagare le rette, i fuorisede prendono un autobus che li riporta a casa, chiedono alle loro famiglie uno sforzo immane e ritornano a Tirana con i contanti appena sufficienti a pagare l’iscrizione. Dopodiché bisogna sopravvivere nella città più costosa del paese, in dormitori fatiscenti, senza riscaldamento, senza le strutture basilari per lo studio, senza biblioteche. La nostra situazione è insostenibile, per quale formazione e quale prospettiva stiamo facendo questi sforzi? Quello che chiediamo è l’abolizione della riforma del 2015 ed un serio investimento pubblico per la costruzione di un sistema universitario di qualità e accessibile a tutti.
Potremmo dire che il vostro è un movimento di sinistra…
Se vogliamo utilizzare delle categorie, sì: stiamo lottando per un’istruzione pubblica e garantita; per i diritti delle giovani donne, contro la corruzione e lo schema di potere che rende povero il nostro paese. Ma nel movimento ci sono diverse posizioni ideologiche… Quello che conta e ci rende diversi è che nessuno di noi è iscritto a un partito. In questo momento il Partito Democratico, ma anche il Partito Socialista per l’Integrazione (LSI), gli attuali partiti di opposizione al governo Rama, sono molto aggressivi. Vedono una mobilitazione reale, non controllata da loro, e vogliono impossessarsene. Loro vogliono sostituirsi a Rama, noi vogliamo accesso all’istruzione. Sono due motivazioni molto diverse. Il nostro movimento si occupa di università, nient’altro. Non abbiamo nulla a che spartire con l’opposizione, che è responsabile di questa situazione al pari del governo in carica.
Cosa dicono i docenti? Da che parte stanno?
La maggior parte dei professori ci sostiene: conoscono le condizioni della nostra università perché ci lavorano. Venerdì scorso per la prima volta docenti di tutte le facoltà dell’Università di Tirana si sono riuniti e hanno deciso di sostenere gli studenti. Abbiamo anche casi di “appoggio indesiderato”: docenti che hanno provato a unirsi alla protesta ma hanno dovuto abbandonarla perché accusati pubblicamente dagli studenti, chi di corruzione in sede di esame e chi addirittura di molestie sessuali. La situazione è mista, in linea di massima vige solidarietà.
Il femminismo? È un fattore del movimento studentesco?
Direi che il femminismo è al centro. Questa è la prima protesta di massa in cui le donne e i diritti delle donne albanesi sono un argomento. La maggioranza del movimento è composta da ragazze, e non stupisce, perché questa riforma universitaria penalizza soprattutto loro. Parliamoci chiaro: cosa fa una donna albanese senza accesso all’istruzione? Passa da un padre a un marito. Nel movimento i ragazzi sono al nostro fianco, ma le ragazze sono le più coraggiose. Perché noi abbiamo molto più da perdere. Questo è un altro aspetto che sta mandano in paranoia il potere.
I genitori cosa vi dicono? Come affrontate il gap generazionale?
In verità tanti genitori ci sostengono. In corteo abbiamo avuto dei nonni, ci credi? Ma è ovvio che veniamo da una società patriarcale, si tratta di cambiare la mentalità. Un giorno c’è stato un dibattito interessante, interno al movimento, sull’opportunità di andare in strada a manifestare in gonna. E allora sai cosa abbiamo fatto? Ci siamo andate tutte quante con la minigonna e senza reggiseno. È stata una protesta dentro la protesta. Mi è piaciuta molto.
Che ruolo ha l’Europa nella vostra mobilitazione? Parlo di Europa come modello sociale, come prospettiva futura e riferimento culturale.
Il nostro movimento nasce dalle condizioni in cui versa il nostro paese, ma noi non ne rivendichiamo l’albanesità, sarebbe assurdo: cerchiamo di prendere spunto da quei paesi dove le cose vanno meglio, anche se sappiamo che ogni paese ha i suoi problemi, la mia generazione non idealizza più. Al momento tutte le facoltà pubbliche sono occupate: stiamo organizzando letture, proiezioni, dibattiti sui movimenti sociali in Europa e nel mondo. Facciamo paragoni, perché è utile comprendere che certe richieste in altre parti del mondo sono già state fatte; e abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà dagli studenti di mezza Europa, inclusa l’Italia. Il governo ci dice che le casse dello stato albanese rendono impossibile un’istruzione pubblica gratuita, noi diciamo che è proprio questo stato di cose a renderla necessaria, e che questa cosa già esiste, in Europa e nel mondo. Insieme con i professori abbiamo analizzato i sistemi educativi di diciassette paesi europei, comparando quanto questi stati investano nell’educazione pubblica in proporzione al loro PIL e al loro salario medio. Non stiamo parlando di utopie, ma di politiche possibili.
Considerato lo stato in cui versa il welfare albanese si capisce perché le vostre richieste vengano considerate ambiziose. In questo senso, anche se girate alla larga dai partiti, il vostro è un movimento politico, perché per ottenere quello che chiedete occorrono tutta una serie di riforme in materia di fiscalità pubblica che non si cambiano dall’oggi al domani, si tratta di imporre un nuovo paradigma culturale. È normale che si veda in voi un’alternativa per il paese. Siete sicuri di non incarnare una nuova élite culturale?
Vedi, farsi queste domande è esattamente quello che dobbiamo evitare in questo momento. Questo paese ha moltissimi problemi, la cosa buona del Movimento per l’Università è che non è colluso con il potere. Durante il regime di Berisha non avremmo potuto avere piazze così, ma il potere politico in Albania resta malato, su questo non c’è stato nessun cambiamento, e noi non ci stiamo. Durante le proteste davanti al ministero dell’Istruzione alcuni militanti dei partiti hanno cercato di dividerci utilizzando la tentazione della politica: “Basta stare qui davanti, andiamo alla sede del primo ministro, buttiamo giù Rama”. Anche i militanti del partito socialista ci hanno provato, arrivavano in facoltà e dicevano: “Siamo studenti come voi, ma vogliamo fare lezione”. Al che abbiamo votato: la maggioranza voleva continuare la protesta. Il Movimento per l’Università deve stare lontano da queste dinamiche. Noi non chiediamo le dimissioni del governo Rama, perché questo comporterebbe la sua sostituzione con un altro governo che è altrettanto responsabile dello stato della nostra università. Al contempo non ascoltiamo Rama, che ha detto che vuole parlare a un leader. Il giorno in cui ci porremo il problema di individuare un leader il nostro movimento sarà finito.
Quindi cosa farete? Qual è il piano?
Continueremo a occupare. Il 75% degli studenti è d’accordo sul blocco delle lezioni, nessuna facoltà riprenderà a funzionare. Inizialmente ci aveva dato dei ripetenti, poi Rama cambiato i toni, ha accettato di rispondere alle domande degli studenti e ha dichiarato che ascolterà le nostre richieste. Propaganda: fino a quando non sarà cancellata la legge del 2015 per noi tutto questo è irrilevante. È possibile che torneremo in strada, ma non lo sappiamo nemmeno noi, perché siamo spontanei, bisogna che i politici si rassegnino a questa novità.
Non temete che tutta questa spontaneità vi sfugga di mano?
Stiamo parlando della più grande mobilitazione in 28 anni di “democrazia”, il sistema è ancora sotto shock. Sinora le manifestazioni sono state pacifiche, nessuno si è mai azzardato a tirare qualcosa, e così deve rimanere, gli studenti sono contro la violenza. Gli unici momenti di tensione, come ti dicevo, sono stati causati dai rappresentanti dei partiti che hanno provato a manipolare il movimento, e che con noi sono molto aggressivi: ci odiano proprio. Nelle ultime settimane, poi, abbiamo avuto la polizia all’interno delle facoltà. Secondo la legge, la polizia non può entrare in università, se non per disastri ambientali. Alcune delle loro azioni sono state fisiche, e questo non va bene, non va bene che il governo lo abbia consentito.
Il Presidente della Repubblica, in una sua dichiarazione, ha invitato la politica a considerare le istanze degli studenti. Vi sentite tutelati dalla massima carica dello Stato?
Oh Dio, Ilir Meta rappresenta tutto quello che non funziona. Belle parole, ma sfortunatamente conosciamo chi le ha pronunciate.
E i giornalisti? I media raccontano la protesta?
Ci sono media molto attenti, soprattutto quelli dell’opposizione, per le ragioni di cui sopra; ma le nostre dichiarazioni sono spesso tagliate o manipolate. Cerchiamo di rendere semplice e chiaro il nostro messaggio, e per questo accettiamo di partecipare ai talk show in cui veniamo invitati. La maggior parte di noi non è preparata sul piano della comunicazione, ma da quando sono iniziate le proteste ho visto cose incredibili, ragazze tener testa al primo ministro e metterlo in difficoltà. Ho visto il coraggio.
Esiste un collegamento tra la vostra protesta e altre rivendicazioni della società albanese? Penso alle manifestazioni ambientaliste di qualche anno fa, o alla recente polemica sulla demolizione del teatro Nazionale.
Ripeto: non cerchiamo di creare collegamenti con altre altre questioni politiche, ma siamo aperti a chiunque desideri manifestare per l’università; in strada al nostro fianco sono scesi rappresentanti delle istanze che ricordavi, ambientalisti e attivisti che hanno difeso il teatro Nazionale, ma c’erano anche anziani, genitori, famiglie, semplici cittadini… Gli unici che non vogliamo al nostro fianco, lo ribadirò fino allo sfinimento, sono i membri e i rappresentanti dei partiti politici, sia di governo che di opposizione.
No partiti. Ti giuro che l’ho segnato. Ma fammi capire come riconoscete questi “infiltrati”.
Si capisce da come parlano. E poi grazie a Dio c’è internet: vediamo da FB se hanno fatto foto con politici, se sono attivi; in quel caso non vengono con noi semplicemente in quanto studenti.
Mettiamo che la mia famiglia sia del PD, e che mio padre ha pubblicato un selfie di lui con Basha, perché quando era sindaco è venuto a inaugurare il cantiere in cui lavorava… Provo a unirmi alla protesta ma sulla base del FB di mio padre mi emarginate. Non mi sembra un criterio molto democratico…
Tutti sono i benvenuti, non fraintendiamoci. Non è un problema di credo politico, non è una discriminazione; si tratta di isolare persone che cercano di mischiarsi a noi per ordine del loro partito. Forse fuori di qui si fatica a comprenderlo, ma in Albania la politica non è fatta di idee, è fatta di fazioni, per questo non la vogliamo con noi. Anche questo parallelo che fanno con gli anni Novanta è una manipolazione storica utile alla loro lotta per il potere, che a noi non interessa.
A proposito di paralleli storici stiracchiati… Qui in Italia la tentazione di dipingere un ’68 albanese è molto forte. Posso chiederti cosa ne pensi di questo modo di guardare all’Albania? Non è sminuente descrivervi come pezzo d’Europa in ritardo sulla cronologia?
Non so come risponderti. Senza dubbio sentiamo che è tempo anche per noi. Veniamo da quarantacinque anni di dittatura e da ventotto anni di “democrazia” con le virgolette, anni in cui le generazioni di giovani che si sono susseguite non hanno mai alzato la voce come stiamo facendo oggi. Secondo me noi siamo molto diversi dai ragazzi degli anni Novanta: gli studenti della transizione, i miei genitori, venivano dalla dittatura e non avevano prospettive reali dal punto di vista della società. Democrazia e benessere erano il sogno, molti l’hanno realizzato andando via, ma al posto del ’68 in Albania abbiamo fatto il ’97 (ero piccola però la guerra me la ricordo…). Ora ci siamo noi: ancora una volta senza prospettive né dentro né fuori l’Università, ma consapevoli e non depressi. Noi non vogliamo chiedere asilo in Europa, non vogliamo finire per strada cercando di nutrirci e di sopravvivere. Noi vogliamo trasformare questa merda. Senza questa speranza tutto in Albania sarebbe troppo buio: in un certo senso siamo obbligati a crederci. Se vogliamo una società migliore, una società senza corruzione, omicidi e violenza sulle donne, dobbiamo chiedere più istruzione. Una società diversa passa dall’università.
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goodbearblind · 6 years ago
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"Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto." Mauro Rostagno, cresciuto in una famiglia di umili origini a Torino, fu uno degli esponenti più importanti del movimento del Sessantotto. Fondatore di Lotta Continua, marxista libertario, nonviolento e pacifista, rifiutò sempre la lotta armata come mezzo di scontro politico. Dopo lo scioglimento di Lotta Continua fonderà il Macondo a Milano e una comunità per il recupero di tossicodipendenti in Sicilia. Proprio nell'isola passerà gli ultimi anni della sua vita lavorando intensamente come giornalista investigativo. Attraverso stampa e reti locali denunciò più volte il malaffare e le attività mafiose. Denunce che alla fine gli costarono la vita. Fu ucciso il 26 settembre 1988. Nel maggio 2014, dopo anni di depistaggi e false piste, la corte d'Assise di Trapani ha condannato in primo grado all'ergastolo per il suo omicidio i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Cannibali e Re https://www.instagram.com/p/BqdCgYIF4AT/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=utqns52x1efj
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erik595 · 3 years ago
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Una storia del pensiero e dei movimenti anarchici dalle origini ai nostri giorni. Il lavoro, pur dando conto del movimento anarchico mondiale, si sofferma sulla storia degli anarchici italiani e sulle caratteristiche peculiari dell'anarchismo italiano: dall'anarco-sindacalismo che ha segnato tutta l'esperienza del movimento operaio e sindacale degli ultimi cento anni allo spontaneismo e al pacifismo che hanno caratterizzato la storia dei grandi movimenti sociali dal Sessantotto al movimento no global dei nostri giorni. Per ogni periodo vengono analizzate le figure di spicco, da Bakunin a Cafiero, a Malatesta, a Borghi, a Berneri. Un libro unico per comprendere le radici di un pensiero che ha influenzato largamente l'intero movimento operaio italiano, pur essendo stato tenuto ai suoi margini e talvolta misconosciuto e combattuto aspramente. . . . . . #alessandroaruffo #aruffo #libro #libri #libros #libreria #buch #livre #book #books #bookstagramitalia #bookstagram #consiglidilettura #librodaleggere #libroconsigliato #librodelgiorno #storiadellanarchismo #anarchia #anarchismo #anarchici #bakunin #malatesta #cafiero #berneri (presso Benevento, Italy) https://www.instagram.com/p/CbekhpAAxth/?utm_medium=tumblr
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maddalenafragnito · 7 years ago
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1968. ASSALTO DELLE GOLE AL CIELO
Numero speciale di roots§routes
Una moltitudine di sguardi che non ricomponessero un insieme. Così abbiamo immaginato questa prima uscita della rivista, per rimettere in moto il Sessantotto non come un già accaduto, ma come motore che ha agito e agisce su immaginari in corso. Provare a sentire come sta ancora modificando il presente, se ancora lo sta modificando. Domanda aperta. 
E poi. Desideravamo che artiste e artisti fossero presenti come soggetti anch’essi parlanti di un Sessantotto che li convoca, non solo come un oggetto di cui si parla, di cui si analizzano i lavori in testi altrui. Abbiamo pensato a raccogliere un blocchetto di cartoline, uno Schedario impossibile d’immagini. Abbiamo chiesto ad artiste e artiste della scena, ma anche della parola, dell’immagine o del suono purché implicati con la performance, di scegliere un’immagine per dire: una figura o opera o lavoro o gesto o accadimento dal lungo Sessantotto che ha costituito un punto di svolta per il loro lavoro artistico, accompagnata da un testo che la racconta. Abbiamo chiesto di compilare un semplice Modulo.
Sessantotto tempo lungo si è detto, non cronologico, che apre ai Settanta fino al ’77 e oltre, a partire da voce, vocalità, presa di parola e corpi performativi tra arte e politica. Una temperatura / di sperimentazione poetica, politica, utopica. Per aprire la materia con un taglio non celebrativo, ma esploso, grattato dai margini, a partire da qui, dal contemporaneo.
Raccolti i materiali, ci siamo chieste: che tipo di insieme costituiscono questi artisti qui radunati? Non sono una scena, non sono solo una generazione, non condividono necessariamente estetiche e poetiche, anche se a tratti o a sottoinsiemi sì. È un insieme esaustivo di qualcosa? No. Il criterio è stato puramente affettivo, di prossimità fisica e amorosa. Qui radunati ci sono alcuni e alcune con cui abbiamo sudato insieme, o condiviso la scena, o cospirato di notte, o distrutto un campo di lavande, o occupato illegalmente spazi, o discusso fino a perderla la voce, alcune e alcuni di cui abbiamo amato i corpi gli allestimenti i movimenti le invenzioni le sconvenienze i fallimenti. Una parzialità dunque, anche la nostra chiamata.
Le consegne sono state talvolta tradite. I titoli qua e là sono ingannevoli. Il tempo storico indicato è stato dilatato in avanti o indietro, o messo in discussione. Queste cartoline sono dunque da considerarsi delle piccole scritture, dei mondi ricreati. L’arte non è ubbidiente, si sa, è continua creazione di un comune che ci sposta.
Silvia Calderoni/Ilenia Caleo
Contributo:
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Immagine tratta dalla rivista Lotta Continua
La parola scritta. E poi anche decorata, scartata, rischiata, spezzata, tirata, fatta materia. Le parole appiccicate sui libri, sulle piastrelle dei bagni, sulle smagliature dei corpi. Penso a Barbara Kruger, a Jenny Holzer e a tutte quelle volte che una frase intravista sui muri si è fatta brillante, unione imprevista di intimità e politica. Poi questa: "Più polvere in casa e meno polvere nel cervello". Scritta a più mani, stampata in ciclostile, pubblicata su una rivista dove alcune frasi sembrano ripetersi all'infinito. Invece questa brilla sulla carta, cerca una scomoda collocazione tra le colonne dell'impaginato e racconta di un gruppo di donne che ha preteso l'accesso alle "150 ore" di cui, per certo, aveva sentito dire da figli e mariti tra le mura di casa. Loro sono le casalinghe di Affori e quello che vogliono è partecipare al “luogo più bizzarro e più interessante che la sinistra abbia mai creato”, scriveva Lea Melandri nel '77 su Lotta Continua. Alcuni anni prima, Lea e altre donne – del Movimento non Autoritario della Scuola e del Movimento Femminista,  avevano accolto questa richiesta dando inizio nel '74 all'esperienza della Scuola di via Gabbro, definita come "la scuola senza fine" (Adriana Monti, 1979), forse proprio perché sarà la vita stessa ad essere la materia dei corsi, quella che difficilmente trova spazio di parola fra i denti, figurarsi sulle riviste dei compagni. Pina, Ada, Amalia, Teresa, Wanda, Antonia, e tutte le altre allieve, cominciano un percorso da cui è impossibile tornare indietro: un incontro fatto di parole che mancano, di parole ri-trovate, condivise e poi scritte; un intenso viaggio, che si chiuderà nel '82, su ciò di cui un gruppo di donne, esausto dal lavoro di cura forzato e sfruttato, può prendere coscienza. Tra il 1974 e il 1982, emergono e irrompono nella scena politica concetti che normalmente sono repressi: la corporalità, l'emotività, l'affettività, le relazioni con gli uomini, quelle con le altre donne, la maternità, la violenza visibile e la violenza invisibile sfondano i confini di ciò che fino a quel momento è definito privato. Sono parole che eccedono, sono parole fatte di felicità, libere e aderenti alle cose come tutto ciò che scappa per disegnare forme nuove; le parole scritte in quegli anni ad Affori brillano, accarezzano e pungono insieme, aprono squarciando, possono essere lette e rilette senza noia. Attraverso questa storia, ho scritto di ciò su cui il mio occhio si appassiona credo da sempre. Purtroppo ora non mi viene in mente qualcosa di più personale, sarà che ricordando le “150 ore” mi è balenata in testa l'Alternanza Scuola-Lavoro, troncandomi come quando lo streaming di un film si blocca poco prima dalla fine.
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chez-mimich · 6 years ago
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SEGNI E DISEGNI DEL MAGGIO
 Tutto cominciò con un assalto ad un’agenzia dell’American Express in Rue Scribe vista come simbolo dell’imperialismo americano. Dopo l’assalto, i muri dell’agenzia sono riempiti di scritte inneggianti al FNL vietnamita. A seguito di quell’assalto viene arrestato uno studente universitario, Xavier Langlade, aderente allla JCR, ovvero la “Jeunesse Communiste Révolutionaire”. Subito dopo incominciano le proteste del movimento che occupa gli uffici amministrativi dell’università a Nanterre, banlieu parigina. A capo dell’occupazione c’è Daniel Cohn-Bendit, Daniel il Rosso. Così nasce il Maggio francese e, di conseguenza, il Sessantotto. “La Veille du Grand Soir” è una bellissima “bande dessinée” di Patrick Rotman e Sébastien Vassant che racconta le vicende di quel mese di maggio che sconvolse letteralmente Parigi e idealmente tutto il mondo. Le tavole restituiscono anche meglio della fotografia o dei filmati, la drammaticità, ma anche la poesia di quei giorni di scontri violentissimi e di proteste che il governo francese non riuscì mai a controllare pienamente. Il Boulevard Saint-Michel devastato, ma anche palpitante dei sogni degli studenti, le barricate della Rue Gay Lussac, la Sorbonne occupata e trasformata in ospedale, le scritte, come quella famosa comparsa sulla fontana di Saint-Michel, “Sous les pavé, la plage”, rivivono attraverso l’inchiostro di Sébastien Vessant e sembrano fatte, più che della materia dei sogni, di quella del ricordo. Gran bel fumetto, zeppo di informazioni inedite, almeno per me e di richiami iconografici importanti, soprattutto per quanto riguarda la grafica e gli “affiches” di quegli anni. Bello ritrovare nomi di registi, scrittori, intellettuali , artisti, impegnati tra quelle barricate, tra gli altri Jean-Luc Godard, Sartre, Gerard Fromager e dall’altra parte, per esempio Louis Barrault, direttore dell’Odéon, altro luogo al centro delle lotte parigine. In parallelo al dipanarsi delle vicende degli studenti, ecco le reazioni politiche dell’Elysée con il generale De Gaulle, i ministri a cominciare da quello dell’educazione Alain Peyrefitte, il ministro dell’interno Christian Fouchet, ma anche il Prefetto di polizia di Parigi Maurice Grimaud, i rappresentanti dei maggiori sindacati, il leader del Partito Socialista, un certo François Mitterand, insomma una grande capacità di raccontare la cronaca politica e le vicende storiche col tratto veloce del pennino, ma anche con una grande capacità di introspezione psicologica. Grande merito allo sceneggiatore Patrick Rotman, scrittore e autore di numerosi documentari su De Gaulle, sul muro di Berlino a altri scottanti temi della nostra storia recente. In coda alla storia, l’appendice “Le murs d’après”, con una breve ma preziosa antologia delle “affiches” e delle grafiche prodotte dal Movimento. Aver acquistato questo volume nel book shop della mostra fotografica di Gilles Caron all’ Hotel de Ville, intitolata “Paris, 1968” costituisce sicuramente un valore aggiunto, almeno da un punto di vista sentimentale...
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Echi del Sessantotto alla Biblioteca Sormani
17 novembre 1967 - Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore: dopo una lunga assemblea notturna, 1200 studenti votano l’inizio dell’occupazione dell’ateneo. A spingerli, un aumento improvviso e spropositato delle tasse universitarie, letto come espediente per trasformare l’ateneo in un’università per soli ricchi. La repressione arriva poche ore dopo, ma non riesce a disinnescare una miccia ormai accesa. Nei cortili dell’Università Statale intanto si organizza il Movimento studentesco, negli altri atenei milanesi e nelle scuole si dà il via a occupazioni e manifestazioni, lungo le strade della città si snodano cortei che spesso sfociano in drammatiche guerriglie urbane. A ruota molte altre città italiane seguono l’esempio di Milano, fino ad arrivare all’occupazione della Facoltà di Architettura a Roma (Valle Giulia) il 1 marzo 1968.
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1- Mondo Beat, 30 aprile 1967; 2- Domenica del Corriere, 26 marzo 1968; Lo Specchio, 15 dicembre 1968 
Partito nella metà degli anni Sessanta nei campus americani con le proteste contro la sanguinosa guerra in Vietnam, con le contestazioni sulla questione dei diritti civili, a sua volta legata a quella razziale, e la nascita del movimento hippy, il Sessantotto ha investito rapidamente l'Europa, da Parigi a Praga, e ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, ci si interroga sui suoi effetti.
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4-Domenica del Corriere, 27 febbraio 1968; 5-The New York Times Magazines, 22 September 1968; 6-Lo Specchio, 1 settembre 1968
Di certo, uno degli elementi più interessanti di questo complesso e fortemente sfaccettato fenomeno di massa è che ad animarlo siano stati i “giovani”, intesi come categoria sociale, non leader politici o mentori religiosi. Quei giovani nati nel Dopoguerra, in un momento di estrema vitalità economica e di istruzione scolastica sempre più radicata, che si sono trovati a vivere un sentire comune, a condividere una sorta di “coscienza globale” e una nuova esigenza di cambiamento. La televisione, con le trasmissioni in mondovisione, contribuisce ad abbattere le distanze e offre una nuova dimensione del mondo: “vedere per la prima volta la terra dallo spazio, osservarla da lontano, costringeva a rendersi conto, in modo diretto e concreto, che ciò che abitiamo è una minuscola porzione dell’universo” (M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Milano, 1998).
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7- Time, July 25, 1969 
Si aprono nuovi orizzonti, dunque, e si sviluppano nuovi linguaggi. L’editoria propone spunti di riflessione attraverso le opere di autori come Ginzberg, Marquez o Pablo Neruda, oltre, naturalmente, alle biografie e ai saggi sui grandi protagonisti politici del tempo, da Bob Kennedy a Martin Luther King, da Che Guevara a Mao Ze Dong o Ho Chi Minh. Ma, ancor più immediate, sono le riviste il veicolo privilegiato per diffondere le idee e sviluppare il dibattito: i giovani danno vita a giornali autogestiti (anche dall’interno delle scuole, come la “Zanzara” del Liceo Parini di Milano), gridano i loro slogan su ciclostili e manifesti, utilizzano strumenti di informazione “tradizionali” stravolgendoli nella forma.
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8-Domenica del Corriere, 3 aprile 1966 
A corollario dei media tradizionali, c’è inoltre una nascente “cultura pop”, fatta di cinema, fumetti e musica “leggera”, a costituire l’humus in cui la generazione del 68 può riconoscersi, dentro e fuori i confini nazionali. Accanto a un’iniziativa editoriale d’avanguardia come “Linus”, che porta in Italia le strisce americane di Schultz, artisti come Guido Crepax e Hugo Pratt realizzano delle “prove d’autore” più sperimentali e provocatorie e persino i piccoli albi di Diabolik o di Tex diventano icone generazionali (dalla presentazione alla mostra di Fausto Colombo).
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9-Guido Crepax, L’astronave pirata, Milano, Rizzoli, 1968; 10-Linus, giugno 1968; 11-Re nudo, aprile-maggio 1968
Il panorama musicale internazionale viene stravolto dall’onda di Woodstock, irrompono i grandi beat e rock inglese e americano e la canzone di protesta di Bob Dylan e di Joan Baez. In un’Italia ancora sconvolta dal suicidio di Luigi Tenco, intanto, si apre definitivamente la grande stagione dei cantautori, con figure come De André, Guccini e Gaber che esplorano un nuovo impiego della parola e della musica.
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12-Time, July 7, 1967
Infine il cinema. Fanno notizia i film, dai toni spesso provocatori, di giovani autori come Bertolucci, Bellocchio e Pasolini, le pellicole di Godard e della nuova Hollywood, anch’essa segnata dalla riflessione sul cambiamento e la crisi del modello americano. Da qualche settimana in Sormani è stata scoperchiata una capsula del tempo nella quale sono conservati tutti i segni lasciati da questo vento di cambiamento nell'industria culturale: manifesti, libri e riviste, fumetti, copertine di dischi, edizioni di protagonisti della contestazione a Milano rievocano il clima di fermento sociale e culturale di quegli anni. La mostra, a cura di Fausto Colombo, rientra nel palinsesto Novecento Italiano ed è realizzata in collaborazione con lo Studio Origoni-Steiner, la Kasa dei Libri, l’Archivio Franco e con la consulenza scientifica, per la sezione moda, di Elisabetta Invernici. Cosa aspettate? Avete ancora tempo fino al 14 luglio. Per tutte le informazioni potete cliccare qui.
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gregor-samsung · 5 months ago
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Non so bene che cosa ha imparato il mio figlio di due anni sulle Pantere o sulle lotte rivoluzionarie, benché abbia tratto giovamento dalla disciplina e dall'interazione quotidiana con gli altri bambini. Ma una cosa è sicura: il partito delle Pantere Nere ha centrato un concetto molto rivoluzionario a proposito dell'educazione. Viene l'autunno, i « piccoli cambiatori-del-mondo » marceranno a scuola ben nutriti in cibo e pensiero per insegnare agli altri quanto hanno imparato. Cresceranno pienamente capaci di porsi di fronte alla « struttura di potere », alla classe dominante, in modo significativo, pienamente preparati a condurre qualsiasi lotta sia necessaria a ricreare l'America secondo linee piú umane, giuste, socialiste. Forse mio figlio con il tempo capirà la cosa piú importante — che « Fascismo è il grosso (avaro) affarista ».
TUTTO IL POTERE AL POPOLO TUTTO IL POTERE AI GIOVANI
Chiara Saraceno, Dall'educazione antiautoritaria all'educazione socialista, De Donato editore (collana Temi e problemi), 1972¹, p. 325.
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paoloferrario · 4 years ago
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Il mio sessantotto, testimonianze, interviste, ricordi, a cura di Sergio Bernardi, Vincenzo Calì, Giancarlo Salmini, edizioni U.C.T., Trento, 2021
Il mio sessantotto, testimonianze, interviste, ricordi, a cura di Sergio Bernardi, Vincenzo Calì, Giancarlo Salmini, edizioni U.C.T., Trento, 2021
PRESENTAZIONE del libro “il mio sessantotto” di Giuseppe Ferrandi Direttore del Museo Storico del Trentino   Questa pubblicazione mette a disposizione del lettore un consistente e qualificato numero di memorie che si concentrano sul biennio ‘68-’69. Testimonianze dirette di coloro che hanno partecipato al Movimento Studentesco e alle lotte operaie dell’autunno caldo, con una naturale centralità…
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Marcela Lagarde
https://www.unadonnalgiorno.it/marcela-lagarde/
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Marcela Lagarde, antropologa messicana, importante studiosa femminista, è considerata la teorica del femminicidio, termine coniato dalla criminologa Diana Russell, nel 1992.
Autrice di un gran numero di articoli e libri su studi di genere, detiene una cattedra all’Universidad Nacional Autónoma de México.
Il suo nome completo è María Marcela Lagarde y de los Ríos ed è nata a Città del Messico nel 1948.
Ha partecipato al movimento del Sessantotto ed è stata militante del Partito Comunista.
Come docente universitaria di sociologia e antropologia, non si è fermata alla mera divulgazione del termine, ma ha sviluppato un concetto nuovo e di più ampio respiro di femminicidio dopo i fatti di Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti dove, dal 1992, più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 stuprate, torturate, poi uccise e abbandonate ai margini del deserto, nel totale disinteresse delle istituzioni, con la complicità di politica, forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata. Indagini insabbiate dalla cultura machista dominante, riflessa anche in un sistema legislativo esplicitamente discriminatorio nei confronti delle donne, attraverso disposizioni contenute nel codice penale dello Stato di Chihuahua che attenuavano o escludevano la responsabilità per determinate forme di violenza commesse in danno delle donne (come, ad esempio, la non punibilità dello stupro commesso in danno della coniuge o compagna).
Con una grande presa di coscienza e unione femminile, Marcela Lagarde è stata eletta al Parlamento, nel 2003.
Come candidata indipendente nella lista del Partito della Rivoluzione Democratica, è stata deputata nel Congresso Federale messicano fino al 2006.
Si è impegnata personalmente per la creazione di appositi organismi istituzionali di indagine dislocati in tutti gli Stati e coordinati a livello federale.
Ha promosso la Commissione speciale per le indagini sui casi di uccisioni di donne a Ciudad Juarez, al Senato e la Commissione speciale sul femminicidio alla Camera,  stabilendo accordi di collaborazione con i Governi degli Stati federati, i tribunali, le commissioni indipendenti per i diritti umani, le università, le organizzazioni della società civile, per effettuare indagini in maniera trasparente sulla violenza femminicida e fornire informazioni attendibili alla cittadinanza.
Il sistema creato da Marcela Lagarde è divenuto emblema di un modello responsabile di approccio da parte del Parlamento al problema della violenza maschile sulle donne, che parte dalla volontà di conoscere l’entità e le caratteristiche della vittimizzazione e rilevare i motivi di fallimento del modello legislativo esistente, per una sua efficace e strutturale modificazione.
La Commissione ha rielaborato le informazioni reperite presso varie istituzioni, organizzazioni non governative, istituzioni di statistica, Corte Suprema, organizzazioni civili e media, verificando che l’85 per cento dei femminicidi messicani avveniva in casa per mano di parenti e riguardava donne di ogni sfera sociale.
Ogni Stato del Messico è stato mappato e la comparazione dei dati ha consentito di verificare che il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento.
Gli esiti delle indagini condotte sull’esempio del Messico in numerosi altri stati latinoamericani, hanno reso possibile ricostruire nelle sue reali dimensioni la natura strutturale della discriminazione e della violenza di genere e la conseguente responsabilità istituzionale per la mancata rimozione dei fattori culturali, sociali ed economici che la rendono possibile.
Questo ha consentito anche un approccio più consapevole dei legislatori alle riforme normative.
Marcela Lagarde è riuscita a far promuovere l’istituzione del crimine di femminicidio nel Codice Penale Federale e la Legge Generale di Accesso delle Donne a una Vita Libera dalla Violenza, entrata in vigore il 2 febbraio del 2007.
Dirigendo la Commissione Speciale sul Femminicidio nel Congresso ha ampliato il termine alla violenza istituzionale.
Ha dimostrato la negligenza e collusione delle autorità che negavano alle donne e alle loro famiglie l’accesso alla giustizia.
Il fenomeno si insinua nella disuguaglianza strutturale fra donne e uomini che, nella violenza di genere, riproducono un meccanismo di oppressione.
Contribuiscono al femminicidio il silenzio sociale, la disattenzione, l’idea che ci siano problemi più importanti, la vergogna, lo sminuire e tendere a derubricare i fatti come ordinari crimini.
Femminicidio è il termine specifico che definisce gli omicidi contro le donne per motivi legati al genere. Questi tipi di uccisione che colpiscono la donna perché donna non sono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma costituiscono l’ultimo atto di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale.
Le discriminazioni di genere, gli stereotipi radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza che culmina, spesso in femminicidio.
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giancarlonicoli · 4 years ago
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24 gen 2021 19:47
FELTRI FA A PEZZI IL CENTENARIO DELLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA – ‘’LA STORIA DEL PCI È RICCA DI PAGINE VERGOGNOSE CHE MERITEREBBERO DI ESSERE NASCOSTE SOTTO UNA COLTRE DI POLVERE. ESALTANO ADDIRITTURA TOGLIATTI, FAMOSO BRACCIO SINISTRO DI STALIN, IL QUALE NON ERA ESATTAMENTE UN AGNELLINO, AVENDO UCCISO PERFINO UNA FOLLA DI COMPAGNI IN ODORE DI DEVIAZIONISMO - ONORE AL COMUNISMO? MACCHÉ, SOLTANTO ESEQUIE E OBLIO”
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Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”
In questi giorni sono esplose le celebrazioni del centenario della nascita del Partito comunista italiano, che ha dominato la scena per oltre mezzo secolo. I giornali e le tv dedicano all'evento (funebre, dato che il comunismo per fortuna è morto) molto spazio, troppo, ricorrendo a toni elegiaci, prosa retorica come si usa in ogni festeggiamento.
Praticamente i compagni di un tempo, anche recente, vengono descritti quali irresistibili innovatori, uomini visionari, impegnati a risolvere i problemi della società, pronti al sacrificio, capaci di migliorare l'umanità.
I dirigenti di risulta del cosiddetto movimento operaio si presentano impettiti alla stampa quasi fossero eroi reduci di battaglie storiche combattute in favore dell'uguaglianza e della democrazia.
Tutto ciò dimostra che falce e martello, a differenza dei fasci littori, hanno ancora il diritto di albergare nei cuori di un certo popolo nostalgico. Niente di grave, molto di assurdo. Perché il socialismo reale ha prodotto solo tragedie e ingiustizie macroscopiche, come ben sanno quelli della mia generazione, i quali ne hanno viste di ogni colore, trovandosi anche a dovere lottare fisicamente contro i rossi invasati e violenti.
Chiunque avesse messo piede oltre la cosiddetta "cortina di ferro" comprendeva al volo la natura bieca del regime sovietico. Il grigiore plumbeo dei Paesi sotto il tallone di Mosca rivelava immediatamente lo stile comunista: era palpabile la miseria nonché l'appiattimento avvilente a cui era condannata la gente. Visitai l'Ungheria e la Jugoslavia, che passavano per evolute, e ne ricavai una sensazione di sgomento e di profonda tristezza.
Sorvoliamo sulla Russia, che Piero Ostellino, mitico corrispondente del Corriere della Sera, raccontò magistralmente in articoli di una crudezza fotografica. La vita dei sovietici si svolgeva in una atmosfera da incubo. Nonostante ciò fosse arcinoto, bandiera rossa sventolava in Italia, patria del più forte partito marxista del mondo occidentale. Alle nostre elezioni nazionali, il Pci si avvicinava spesso al 30 per cento dei consensi, a pochi punti percentuali dalla dominante Democrazia Cristiana.
Quelli di Botteghe oscure si davano arie, si consideravano intellettualmente più provveduti degli avversari, come tutti quelli che hanno torto pensavano di avere sempre ragione. Dettavano legge su qualsiasi argomento, forti dei crescenti suffragi che ottenevano per effetto di un dilagante conformismo, in grado di infettare milioni di cervelli bacati. Quando morì Breznev, una delegazione di politici nostri compatrioti, capeggiati da Sandro Pertini, si recò a Mosca per assistere ai funerali del dittatore spietato.
Questo per illustrare a che punto eravamo arrivati anche noi italiani, succubi della moda purpurea. La storia del Pci è ricca di pagine vergognose che meriterebbero di essere nascoste sotto una coltre di polvere, e invece assistiamo a manifestazioni agiografiche che esaltano addirittura Togliatti, famoso braccio sinistro di Stalin, il quale non era esattamente un agnellino, avendo ucciso perfino una folla di compagni in odore di deviazionismo.
Stendo un velo sul Sessantotto, durante il quale un cospicuo gruppo di giovani intendeva realizzare la rivoluzione a cui il Pci aveva rinunciato essendosi imborghesito. Seguì il terrorismo delle Brigate Rosse e similari, un disastro. Onore al comunismo? Macché, soltanto esequie e oblio.
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lanimadellamosca · 5 years ago
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I manovali del rock
Mi è venuta in mente oggi pomeriggio, mentre tagliavo legna con la piena consapevolezza del privilegio di poterlo fare.
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Il tempo torna a dare ragione a Ricky Gianco. Dico torna, perché gli aveva dato ragione già quando l’aveva cantata. Cosa era… metà anni settanta? ‘77-78? Vado tutto a memoria, stasera niente google né wikipedia, per sfida; e se c’è di mezzo qualche inesattezza non importa, non sono uno storico della canzonetta, né un critico… niente. Sono solo uno che ricorda.
La merda che la canzone evocava all’epoca era la perdita delle illusioni del sessantotto. Perché nei miei ricordi le parole della canzone sono di Gianfranco Manfredi, che mi pare addirittura che possa essere il chitarrista coi baffetti del video.
Gianfranco Manfredi era stato nel 1968-69 un effimero primo segretario della neonata FGEI, Federazione giovanile evangelica italiana; tempo fa avevo trovato una sua lettera, a casa dei miei: io gli avevo scritto chissà cosa, e lui mi aveva risposto non ricordo cosa. Temerarietà e buona volontà d’un diciottenne, mista all’atmosfera di urgenza del sessantotto...
Scoprii tramite quello che sarebbe poi diventato mio cognato, arrivato nel profondo sud che era Pachino direttamente da Torino, che Manfredi componeva canzoni che si diffondevano nell’ambiente del “movimento” e della “gioventù evangelica” per via orale. Ricordo fumose sbronze di vino di Pachino (fumose per via dei toscani che fumavamo entrambi e degli interminabili discorsi di politica) che si concludevano talvolta con una canzone di Manfredi che faceva così:
Quando le scimmie conquisteranno il mondo si stupiranno di trovarlo tondo ma sarà sempre un mondo un po’ migliore con le scimmiette tutte d’un colore.
          Rosso! Rosso a più non posso!           La scimmia socialista il mondo cambierà.
Nacque a Neanderthal e fu subito represso l’uomo scimmia si coprì il sesso la donna scimmia non fece più l’amore ed altre scimmie fecero le suore.
          Sesso! Sesso non fosti più lo stesso.           La scimmia socialista il sesso scoprirà.
Il resto non lo ricordo.
Come vedete ho buoni motivi per pensare, se le parole della canzone di Gianco sono effettivamente di Manfredi, che la merda fosse la disillusione post-sessantotto.
Manfredi mi riapparve anni dopo (fine anni ottanta?) come creatore del personaggio a fumetti Magico Vento; era un genere che non mi piaceva, il fumetto “nazional-popolare” a cadenza mensile “formato Bonelli”; personalmente stavo già trasmigrando ai manga, abbandonando poco dopo il 500° numero Tex Willer, l’unico che mi si facesse comprare in edicola. Da qualche parte conservo ancora un paio di valigioni con la raccolta pressoché completa dei 500 numeri. Non la prima edizione, no..: edizioni successive, uno, due e tre stelle. Poco pregio, per intenderci.
Tornando a Gianco, posso dire che appartiene a pieno titolo alla colonna sonora della mia prima adolescenza, e che quando abbandonò tra le polemiche il Clan Celentano fui totalmente dalla sua parte. Ho persino un suo LP, credo rarissimo, che uscì credo negli anni ottanta, dedicato a Bracciodiferro, con quella bellissima canzoncina che fa “Po-Po-Po-Po, Po-Po-Po-Po, Po-Po-Popeye…” Peccato che le canzoni di quel disco siano cantate in maniera inascoltabile, che vuole emulare l’atmosfera di un cartone animato. Scelta discutibilissima…
Comunque, Ricky Gianco è di quelli che chiamerei manovali del rock italiano, gente che si è fatta il culo, si è fatta fregare, si è sbattuta, che con umiltà ha dato il suo contributo a quella cosa indistinta che è il rock italiano, tra fine anni cinquanta e fine anni settanta. Dico indistinta perché si muoveva tra plagi veri e propri (Celentano da un certo punto in poi ne faceva di niente male), misere scopiazzature di ciò che veniva dall’America e dalla Gran Bretagna (Sanremo ne offriva ogni anno un ampio catalogo), patacche e pataccari… E in mezzo a loro gente che lavorava, che ruscava come dicono i piemontesi, vale a dire che faticava, sempre in salita per sbarcare il lunario.
Tutta la mia stima, Ricky!  
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